Giustizia

  • In attesa di Giustizia: a proposito di esigenze cautelari

    E’ recente la notizia della cattura, insieme ad altre persone, di Lara Comi, ex europarlamentare di Forza Italia, per fatti di corruzione risalenti all’epoca in cui aveva quel ruolo politico.

    La privazione della libertà personale, anche se con la misura graduata degli arresti domiciliari e pur senza aver letto una sola riga del provvedimento del Giudice per le Indagini Preliminari di Milano, resta un   mistero senza alcuna giustificazione; chi ha la pazienza di leggere questa rubrica ben sa che per chi la cura non è abituale scendere in valutazioni di vicende di cui non abbia un’approfondita conoscenza ma questa è l’eccezione che conferma la regola. E vediamo perché.

    Per disporre l’arresto di un cittadino devono ricorrere contemporaneamente due ordini di presupposti: gravi indizi di colpevolezza (quindi non semplici sospetti) raccolti nel corso delle indagini ed esigenze cautelari, cioè a dire dei possibili (anzi, probabili) pericoli connessi al permanere in libertà della persona indagata e che possono essere scongiurati solo privandola della libertà medesima.

    I cosiddetti pericula libertatis previsti dalla legge sono tre: quello di ripetizione del reato, l’inquinamento delle prove e il pericolo che l’indagato si dia alla fuga.

    Senza conoscere, si ripete, una sola riga del fascicolo processuale e dell’ordinanza di custodia destinata a Lara Comi è agevole contestarne la fondatezza senza entrare nel merito degli indizi di colpevolezza che sarebbe, invece, assolutamente fuori luogo, ferma restando la presunzione di innocenza: ma andiamo per ordine.

    La donna, che è incensurata ed a carico della quale non vi sono altre indagini in corso, non è stata rieletta nella recente tornata europea e non consta che ricopra altri ruoli pubblici che la rendano possibile autrice di altri reati della stessa natura o indole. Il che porta ad escludere la prima delle esigenze cautelari.

    La seconda è quella legata a garantire la genuina acquisizione delle prove: ebbene, di questo procedimento si parlava da tempo, ne hanno riferito organi di stampa e – come sembra – nella stessa ordinanza di cattura si fa riferimento alla circostanza che l’indagata fosse consapevole anche di essere intercettata come in effetti era. Dunque, se si volevano inquinare gli elementi di prova lo si sarebbe già fatto molto prima evitando che venissero raccolti quei “gravi indizi di colpevolezza” posti a fondamento dell’arresto che diversamente non ci sarebbero o sarebbero parzializzati. Anche la seconda esigenza è inesistente.

    Da ultimo resta il pericolo di fuga per escludere il quale è sufficiente notare che Lara Comi non è stata mandata in carcere ma, come si è detto, agli arresti domiciliari: misura che non è possibile applicare proprio quando vi sia il rischio che l’indagato, facilmente, fugga.

    E allora, perché Lara Comi è stata arrestata? Il provvedimento di cattura pare che contenga una serie di valutazioni pseudo sociologico-antropologiche che nulla hanno a che vedere con il diritto penale e processuale penale e che, comunque sia, non competono a un magistrato. Siamo, però, in questo caso ai rumors che vanno misurati per quello che sono. L’ipotesi più probabile, sfortunatamente, è che si sia al cospetto di un’ennesima manifestazione dell’ indole manettara tipica del cosiddetto “rito ambrosiano” che dai tempi di Mani Pulite ha offerto di tutto fuorché l’immagine di un equilibrato approccio al tema delle garanzie costituzionali e processuali legate al rispetto della libertà personale.

    Un sistema che ha prodotto epigoni del “tutti dentro” del calibro di Piercamillo Davigo. Ma la Giustizia è un’altra cosa.

  • In attesa di Giustizia: libertà di opinione

    Il diritto di esprimere liberamente le proprie idee è sancito dalla Carta Costituzionale con qualche ovvio limite: per esempio, alla istigazione all’odio razziale. Viceversa non vi è alcun presidio rispetto alla possibilità di mentire ma anche di dire sciocchezze sesquipedali.

    Siamo – sì, ci risiamo – alle soglie di un’altra protesta degli avvocati contro la modifica della prescrizione di cui abbiamo trattato più volte: l’agitazione contemplerà questa volta anche una maratona oratoria dinanzi alla sede della Cassazione nel corso della quale i penalisti si alterneranno per spiegare le ragioni della agitazione. Quest’ultima, giova ricordarlo, si fonda sulla mancata approvazione di una riforma della giustizia, annunciata ma mai messa in cantiere, per bilanciare la sostanziale abrogazione della prescrizione stessa; maiora urgunt: elezioni di ogni natura, legge finanziaria, crisi endogovernative più o meno striscianti, chi ha tempo per occuparsi di una bagatella come la Giustizia?

    Si levano intanto le voci che esprimono, legittimamente, opinioni dissenzienti, una tra le tante quella della giornalista Liana Milella la quale sul suo blog parla di “partito degli avvocati” (inesistente) che ha applaudito alla riforma sulla legittima difesa promossa da Salvini (falso) che premono per la separazione delle carriere (come se fosse un crimine: è così in molti paesi civilizzati) e per tutto ciò che ostacola la giustizia e fanno gli interessi dei loro clienti (dovrebbero, forse, essere patrocinanti infedeli?), piantando il solito sciopero  (che, in sè e per sé è un diritto costituzionalmente assistito a tutti) contro la normativa voluta da Bonafede con toni da crociata.

    Prendiamo atto che Liana Milella ha esercitato un suo diritto applaudire alla disciplina del “fine processo mai” ma misurandone i contenuti tenendo conto che siamo al cospetto di una opinionista che fu persino avversaria alla riforma del c.d. giusto processo e prima ancora lamentava l’abbandono del sistema inquisitorio a favore del più moderno processo accusatorio.

    Sul suo blog, peraltro, appaiono commenti a sostegno di questo letterale tenore: il partito degli avvocati ,in Italia, è sempre stato fortissimo. Basta pensare che solo per ottenere un parere, questi professionisti si fanno pagare dei bei soldini. Ma, solo per precisare, si fanno pagare prima di dare il loro parere. Un comportamento che è lo stesso delle prostitute, che si fanno pagare prima di compiere l’atto sessuale. Mi sono sempre chiesto se questo è un paragone casuale, cioè se si somigliano solo in questo. Ma per tornare a questi professionisti (a proposito anche le prostitute si dichiarano professioniste) io proporrei ,se ne avessi la possibilità, una legge che mettesse in atto un paragrafo che dica che, quando si scopre che un delinquente colpevole è assolto grazie al suo avvocato, la pena la sconta l’avvocato. Anche perchè poi sappiamo che i colpevoli, ma in modo particolare i mandanti, raramente vengono scoperti e condannati. Vengo all’argomento proposto dalla blogmaster, che è la prescrizione. Mi piacerebbe se la prescrizione venisse prescritta. Ma capisco che non si riuscirà mai a fare questo, e allora mi accontenterei se venisse abolita, subito dopo il primo grado di giudizio.

    Chissà se la Milella ha mai avuto la possibilità di sperimentare il nostro apparato della Giustizia, se il suo epigono di cui abbiamo riportato l’illuminato commento ha mai avuto necessità di un avvocato: libertà di parola per loro, di opinione per voi che mi leggete ed a cui lascio sempre ampi margini di valutazione.

    Libertà di opinione, però, anche per me e dico: se questo è il tessuto del Paese forse è sbagliato riconoscere a chiunque il diritto di elettorato attivo e passivo. Ho esagerato? Perdonatemi, io sono da sempre in attesa di Giustizia e vedo fare e sento dire in proposito solo sciocchezze…

  • Niente dovrebbe stupire più

    Il crimine e il vizio sono le due corna del diavolo.

    Victor Hugo

    Il 9 novembre 1989 cadeva il muro di Berlino. Finiva così un periodo buio, il periodo delle dittature comuniste nei paesi dell’Europa dell’Est. Albania compresa, anche se era l’ultimo di quei paesi a liberarsi, nonostante quella albanese fosse stata la più sanguinosa. Ma 30 anni dopo la caduta del muro di Berlino e 29 anni dopo il crollo del regime comunista, purtroppo adesso in Albania si sta tornando di nuovo verso la dittatura. Anzi, una dittatura sui generis è ormai già stata restaurata in Albania. Si tratta di una dittatura “gestita” dall’alleanza occulta del potere politico con la criminalità organizzata e pochi oligarchi. Adesso in Albania, fatti alla mano, il primo ministro controlla quasi tutto. Controlla tutti i poteri di un normale sistema democratico. Perché oltre al potere esecutivo e a quello legislativo, ormai lui controlla anche il sistema della “giustizia riformata” e dei media. E, tramite lui, controllano tutto anche i suoi “alleati”: la criminalità e gli oligarchi. L’unica incertezza è che non si sa bene chi controlla realmente chi e cosa.

    Niente dovrebbe stupire più di quello che sta accadendo in Albania. Ormai dire che la criminalità organizzata abbia la protezione e collabori con i più alti livelli del potere politico è come sfondare una porta aperta. Perché, purtroppo, si tratta di una realtà vissuta e documentata. Si tratta di una connivenza che rappresenta uno dei pilastri della strategia concepita e messa in atto dall’attuale primo ministro e dai suoi collaboratori dal 2013 in poi. Una strategia che ha permesso a lui di salire e consolidare il suo personale potere. Ma che, allo stesso tempo, ha permesso alla criminalità organizzata di avere tutta la necessaria protezione e tutti gli spazi necessari garantiti per svolgere le sue attività. Come ha permesso anche ad alcuni, pochi oligarchi di arricchirsi a dismisura, approfittando dalla “generosità” governativa. Quella scelta ed attuata in Albania dal 2013 in poi è una strategia che però sta portando il paese, ogni giorno che passa, verso una nuova dittatura, ma altrettanto pericolosa. Si tratta di una dittatura che, però, è diabolicamente camuffata da una parvenza di fasullo pluralismo politico. Tutta una messinscena propagandistica per cercare di nascondere la ben radicata e capillare connivenza della criminalità organizzata con i massimi rappresentanti del potere politico e delle istituzioni statali. I fatti e le testimonianze di una simile realtà sono ormai di dominio pubblico. La massiccia coltivazione, in tutto il territorio, della cannabis e il suo illecito traffico verso i paesi confinanti è ormai una cosa evidenziata, denunciata e resa pubblicamente nota non solo in Albania. Così come lo smistamento e/o il traffico illecito della cocaina, dell’eroina e di altre droghe. E come il riciclaggio del denaro sporco e altre attività criminali. Una realtà, quella in Albania, la quale ha preoccupato e tuttora preoccupa seriamente le strutture specializzate in diversi paesi europei e che rappresenta l’essenza e il contenuto della sopracitata strategia messa in atto con successo nel Paese in questi ultimi anni. Di tutto ciò è stato messo al corrente costantemente e a tempo debito anche il nostro lettore.

    Il sistema della giustizia, uno dei tre basilari poteri che in un normale paese democratico dovrebbe essere un potere indipendente dagli altri due, in Albania, fatti e documenti alla mano, è un potere completamente, vergognosamente e pericolosamente controllato dal primo ministro e dai suoi “compari”. Quanto è accaduto il 1o novembre scorso è stata un’ulteriore e molto significativa testimonianza di una grave e paurosa realtà. La falsità della propaganda governativa, diretta personalmente dal primo ministro, che cerca affannosamente di far credere e convincere che “il nero è bianco”, proprio quella falsità è stata ulteriormente sgretolata da un attentato avvenuto il pomeriggio del 1o novembre scorso alla periferia di Durazzo. È stata assalita e colpita da decine di colpi di kalashnikov una macchina nella quale viaggiavano un procuratore della procura di Durazzo e un noto criminale della zona. Un rappresentante del sistema della giustizia e uno della criminalità organizzata. Tutti e due amici, come ha dichiarato in seguito il procuratore. Tutto accadeva poco dopo che i due avevano pranzato insieme in un ristorante. Dai proiettili sono rimasti feriti sia il procuratore che il criminale. Mentre l’autista del procuratore, pagato privatamente da lui, ferito gravemente durante l’attentato, purtroppo è deceduto una settimana dopo in ospedale. I media hanno seguito per giorni tutto quanto è accaduto. Anche perché il caso, di per sé, rappresenta realmente quanto accade in Albania; rappresenta il legame del “mondo di mezzo” con il potere politico e il sistema corrotto della giustizia. Ma rappresenta, soprattutto, la quintessenza della sopracitata strategia adottata ed attuata dal primo ministro e dai suoi. E proprio il primo ministro, alcune settimane fa, dall’aula del Parlamento, aveva tuonato e accusato quel procuratore. Lo hanno fatto in seguito anche il suo vice e altri ancora. Tutto perché il procuratore rappresentava l’organo d’accusa in un processo dove si stava giudicando il direttore dell’ipoteca di Durazzo per delle procedure abusive e corruttive, legate a passaggi illeciti di proprietà terriera. Si tratta di una area, quella di Durazzo, dove si intrecciano grandi interessi e/o scontri economici e criminali. Comprese le attività legate al traffico internazionale dei stupefacenti. Dopo l’attentato però il primo ministro non ha detto una parola. Proprio lui che non smette mai di dichiarare a voce, scrivere e commentare nei siti in rete, anche per delle cose di poca importanza. Uno dei suoi vizi. Chissà perché?!

    Tornando alle cronache dell’attentato, si è fatto sapere che nel portabagagli della macchina del procuratore sono stati trovati documentazione e fascicoli di alcuni tra i più scottanti processi giudiziari degli ultimi anni. Fascicoli che sono stati “rubati” mesi fa, una volta dagli uffici della posta e l’altra proprio dagli uffici della procura di Durazzo! Come mai? E quali interessi rappresentavano il procuratore e il suo amico che era con lui in macchina? Quest’ultimo, un noto criminale, risulta essere una persona coinvolta direttamente anche nei brogli elettorali a favore del partito del primo ministro. Insieme con altri criminali e funzionari delle istituzioni locali e con l’allora sindaco di Durazzo, persona molto vicina al primo ministro albanese. Una potente struttura quella, ben organizzata per controllare e/o manipolare i risultati elettorali. Tutto ciò lo dimostrerebbero delle intercettazioni telefoniche, pubblicate alcuni mesi fa da alcuni noti media internazionali. E tutto ciò come parte integrante della sopracitata strategia adottata e attuata dal primo ministro dal 2013 in poi. Di quella strategia che ha permesso ai criminali di diventare deputati e sindaci e ai pochi oligarchi di arricchirsi e per poi dividere la ricchezza con chi ha permesso tutto ciò.

    Chi scrive queste righe pensa che in Albania il più grande investitore sia la criminalità organizzata, insieme con i pochi oligarchi e in connivenza con il potere politico. L’unica cosa incerta sono le quote di partecipazione negli investimenti. L’autore di queste righe pensa anche che il perché di quanto è accaduto il 1o novembre scorso alla periferia di Durazzo meglio di tutti lo potrebbe e lo dovrebbe chiarire il primo ministro albanese. Proprio lui che ha pubblicamente accusato alcune settimane fa, in Parlamento, il procuratore ferito nell’attentato. Se chiamato dalla procura però. Cosa che sembrerebbe al limite del possible. O meglio, impossibile.

  • In attesa di Giustizia: come gabbare i lettori

    Ormai da qualche settimana le cronache giudiziarie hanno rivolto l’attenzione alle decisioni della CEDU e della Corte Costituzionale che hanno rilevato delle criticità nell’Ordinamento Penitenziario, laddove prevede una presunzione assoluta ed insuperabile di permanente pericolosità dei condannati per reati di grande criminalità organizzata o ad essa collegati.

    Tra le diverse voci del coro – quasi sempre di soggetti disinformati sul reale tenore di quelle decisioni e pronti a farne oggetto di polemiche fuorvianti ed a gabbare lettori e telespettatori – si è levata quella della nota giornalista Milena Gabanelli la quale ha dedicato la sua rubrica “Dataroom” sul Corriere Tv proprio alle sentenze con le quali la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e la Consulta hanno “bocciato” l’ergastolo ostativo, stabilendo che anche il mafioso che non collabora con la giustizia può, se il suo legame con la criminalità organizzata è cessato, rivolgersi al magistrato di Sorveglianza per chiedere di ottenere, ad esempio, dei permessi premio.

    La  Gabanelli ha sostenuto che migliaia di atti processuali, nel corso di quarant’anni, hanno dimostrato che i detenuti (mafiosi, ma forse non solo quelli intendeva la giornalista) mantengono ancora contatti con la cosca, attraverso gli avvocati i cui colloqui in carcere, non sono monitorabili.

    Non sappiamo a quali atti si riferisse: considerato che ha fatto riferimento a una moltitudine di casi ci sarebbe stato da aspettarsi che ne citasse almeno uno, possibilmente conclamato. Invece nulla, anche se, doverosamente, non si può escludere che qualcosa di simile sia accaduto. Ma, certamente, non è la regola e nemmeno una prassi da ritenere frequente.

    Dunque, ci risiamo per l’ennesima volta a confondere volutamente, aprioristicamente, generalizzando senza riferimenti puntuali, dati statistici, prove certe, gli avvocati con i loro assistiti: criminali gli uni e gli altri e i primi, forse, peggiori dei secondi perché insospettabili e sfuggenti ai controlli.

    Questo non è giornalismo, tantomeno giornalismo di inchiesta: è una gratuita macchina del fango che schizza indiscriminatamente su una intera categoria messa in moto, per di più, dal  volto noto appartenente a professionista preceduta da una certa fama.

    Ovviamente, queste affermazioni non potevano passare nell’indifferenza e hanno provocato la reazione dell’Avvocato Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali che ha così commentato: “Uno spettacolo miserando e miserabile di approssimazione, genericità, indifferenza e mancanza di rispetto per la dignità e la reputazione di una intera categoria di professionisti”, preannunciando una querela.

    La via giudiziaria sembra quella più opportuna da praticare: la  Gabanelli avrà, così, l’opportunità di portare in Tribunale, se li ha, i riscontri di cui disponeva per addivenire ad una gravissima accusa diffamatoria.

    E avrà bisogno di un avvocato, di un difensore,  rammentandole con ciò  che la sua stessa libertà è garantita da uno dei tanti che indistintamente ha considerato dei collusi se non dei complici dei mafiosi e che ha accettato di assistere anche chi lo abbia toccato, sia pure indirettamente, in ciò che ha di più sacro: la dignità di una Toga che al servizio di tutti i cittadini. Anche della Gabanelli quando si trova in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: vite in pericolo

    Recentemente sono stati pubblicati i dati forniti dall’INAIL  relativi agli infortuni sul lavoro che consegnano numeri allarmanti per uno dei Paesi più industrializzati del mondo che dovrebbe avere a cuore la salute dei lavoratori e disporre di strumenti e risorse per marginalizzare i rischi collegati alla igiene e sicurezza sul luogo di impiego: 1.218 incidenti mortali nel 2018 – cui si sommano quelli con lesioni di varia entità, anche molto gravi – e già 685 nei primo otto mesi del 2019 a fronte di oltre 400.000 denunce per infortuni e malattie professionali, 17.000 mila decessi negli ultimi dieci anni: un bollettino di guerra.

    Landini, nell’occasione, non ha mancato di lamentare la mancanza di presidi normativi in materia, la cui dislocazione sarebbe opportuna con finalità preventive e dissuasive rispetto ad una minore attenzione dedicata tanto alla formazione del personale, quanto alla cura degli ambienti di lavoro ed – ovviamente – alla dotazione di adeguati dispositivi di protezione individuale.

    Il ragionamento di Landini non è del tutto condivisibile fatta la doverosa premessa che è inaccettabile una media di quasi tre caduti al giorno sul lavoro: il che segnala inequivocabilmente che qualcosa, più di qualcosa, si registra in termini di carenza nel delicato settore della sicurezza frutto probabilmente di risparmi delle imprese nella formazione, nell’utilizzo di mano d’opera a basso costo ma non specializzata,  e della fornitura delle protezioni (caschi, guanti, occhiali, cinture di sicurezza, mascherine ecc.), inadeguata preparazione degli addetti alle mansioni più a rischio, scarso presidio dei responsabili.

    Il sindacalista ha ragione anche nel rilevare che il numero degli Ispettori del Lavoro è inadeguato essendosi dimezzato negli ultimi anni senza che si sia provveduto ai rimpiazzi ma una normativa che potrebbe svolgere una funzione utile esiste già ed è prevista dal decreto legislativo 231/2001 che prevede, oltre alla già prevista responsabilità penale di imprenditori e addetti alla sicurezza, quella dell’impresa in cui si siano verificati infortuni mortali o con conseguenze lesive gravi per colpa nella organizzazione ed in particolare proprio per avere conseguito vantaggi economici risparmiando nei modi descritti.

    La disciplina è molto severa, prevede che l’accertamento delle colpe dell’impresa sia affidato alla magistratura penale e che le sanzioni possano essere molto severe, principalmente di natura economica senza la possibilità di avere sconti  o di evitare di pagare una volta intervenuta la condanna.

    Il punto è che, misteriosamente, l’A.G. applica molto di rado il decreto legislativo 231/01 sebbene preveda la responsabilità delle aziende anche per altri reati di comune commissione da parte dei suoi manager/dipendenti, come la corruzione: basti dire che nel 2017 la Sede Giudiziaria che ha applicato il numero maggiore di volte questa legge (soprattutto in occasione di crimini contro la Pubblica Amministrazione) è stata quella di Milano in 27 casi e ci sono Tribunali dove in quasi vent’anni non è stata mai applicata, come a Treviso, nell’operoso Nord Est. Si dirà, come mai? Le ragioni sono diverse ma quella fondamentale risiede nel fatto che l’azione contro le imprese – che sono persone giuridiche – non è di natura penale (che sarebbe vietata dalla Costituzione) e, quindi, obbligatoria ma è a carattere amministrativo, come tale eludibile.

    Resta quasi isolata l’iniziativa giudiziaria nella tragedia torinese che colpì i lavoratori della Tyssen, ormai alcuni anni addietro.

    E siamo, dunque, alle solite: le leggi ci sono, basta applicarle senza ricorrere a nuovi strumenti o prevedendo innalzamenti di pene. Una normativa che colpisce l’azienda è sicuramente più efficace del codice penale che tocca solo singole persone fisiche, sostituibili e – a volte – sacrificabili: se ne faccia uso  e l’attesa di Giustizia non sarà vana.

     

  • Quale difesa per il contribuente?

    In mezzo ai vari provvedimenti proclamati, poi smentiti, poi nuovamente promossi che hanno caratterizzato il susseguirsi di notizie di quest’ultimo periodo, questa mattina ne ho letto uno che mi ha lasciato oltremodo basito.

    La Corte dei Conti, con un proprio comunicato stampa del 24 ottobre 2019, ha offerto, “quale Magistratura posta dalla Costituzione a salvaguardia degli interessi dell’erario, il proprio contributo al miglior esercizio della giustizia tributaria stessa”. Il passaggio sconvolgente, a parere dello scrivente, è proprio quello di candidarsi in nome della funzione costituzionale di tutela degli interessi erariali, dimenticandosi di un passaggio fondamentale che è quello della necessaria terzietà della magistratura!

    Il timore, fondato visto il presupposto citato dalla Corte stessa, è quello che venga meno questa necessaria terzietà e quindi vengano lesi i diritti, costituzionalmente previsti, di difesa e di un giusto processo che devono essere garantiti a ciascun contribuente. Timore, peraltro, avallato dall’Unione nazionale camere avvocati tributaristi che, prontamente, ha segnalato il proprio disappunto in una nota ufficiale.

    La giustizia tributaria è già al centro di un grosso dibattito da anni, di cui è consapevole la Corte stessa che nel comunicato prosegue, sottolineando la sua necessaria riforma “alla luce dei più rilevanti problemi che oggi caratterizzano la giustizia tributaria, sia in termini di maggiore imparzialità, indipendenza e terzietà dei giudici tributari, che in termini di rafforzamento della loro professionalità, da assicurare anche mediante uno statuto unitario di assunzione e di trattamento economico, così come pure in termini di recupero di una più “ragionevole durata” del processo tributario, da assicurare anche mediante “giudici monocratici” e con istituti deflattivi del contenzioso”. Concetti di imparzialità, indipendenza e terzietà dei Giudici che, quindi, sono ben chiari alla Corte e che non si capisce come possano essere coniugati in maniera efficace con la funzione di difesa degli interessi erariali cui la stessa è chiamata.

    Da troppo tempo i diritti dei contribuenti non appaiono paritetici se raffrontati con quelli dell’ente accertatore che, dal legislatore in primis, e nella gestione del processo dopo, dovrebbe essere trattato in maniera paritaria con la parte ricorrente. Invece spesso, per le annose ragioni di gettito, così non è: si pensi al fatto che il contribuente è chiamato a pagare parte della pretesa erariale ancora prima che inizi il processo, salvo che ottenga la sospensiva della riscossione, evento per altro non scontato e automatico, o ancora ai provvedimenti legislativi che “salvano” pregiudizievoli che avrebbero reso nulli o annullabili gli atti emessi. Ancora, accade che l’Ufficio difenda fino in Cassazione posizioni indifendibili, sperperando risorse delle Stato e denaro dei contribuenti.

    Spesso la pretesa accertata si basa su presunzioni con l’aggravante dell’inversione dell’onere della prova: il contribuente viene accusato e si trova a dover dimostrare di non aver commesso il fatto rasentando, a volte, l’insulso della probatio diabolica.

    Se il quadro velocemente dipinto non fosse già abbastanza preoccupante e indicatore della ormai imprescindibile riforma della giustizia tributaria, lo diventa oltremodo, se si legge il recente comunicato della Corte dei Conti incardinandolo nel contesto della lotta all’evasione nonché nei toni assunti dal dibattito politico al riguardo. Lotta all’evasione, per carità, che è sacrosanta ma che non dovrebbe assumere i caratteri dell’inquisizione e dovrebbe essere accompagnata da provvedimenti di revisione del sistema fiscale che è ormai del tutto inadeguato al Paese.

    Mi auguro, quindi, che il Presidente del Consiglio in carica, ricordando la propria estrazione di giurista, accademico e avvocato, nonché la promessa fatta di essere “l’avvocato del popolo italiano”, respinga garbatamente la proposta formulata dalla Corte dei Conti, forse in un impeto di disponibilità, e si acceleri invece su una seria riforma della giustizia tributaria che valorizzi il ruolo del Giudice attraverso la sua specializzazione, che preveda la separazione delle carriere e pari trattamento e tutela per tutte le parti del processo.

  • In attesa di Giustizia: diamo i numeri

    Mentre l’ineffabile Ministro della Giustizia rassicura che ha pronto un progetto per garantire, nel settore penale, la celebrazione di tre gradi di giudizio in quattro anni – ma non spiega bene come – vengono pubblicati i dati del recente sondaggio realizzato da Eurispes in collaborazione con le Camere Penali che hanno messo a disposizione sul territorio avvocati e praticanti per rilevare, sulla base di quasi 14.000 udienze celebratesi in trentadue sedi diverse di Tribunale, dati statistici rilevanti ed attendibili. Gli esiti, attesi ma non per questo meno preoccupanti, parlano di una Giustizia sempre in affanno, fatto chiaro che i procedimenti penali a livello nazionale sono quasi due milioni.

    Vediamo nel dettaglio: l’8,3% delle udienze viene rinviato per assenza dei testimoni del Pubblico Ministero, mentre solo l’1,5% a causa della mancata comparizione di quelli citati dalla difesa. A questi vanno aggiunti i rinvii per errori nella citazione per errori delle Segreterie del P.M. (1,7%) e quelli ascrivibili ai difensori (0,3%). Si tenga sempre conto che i rinvii determinati dalla difesa, anche per impedimento legittimo dell’avvocato o dell’indagato determinano l’interruzione del corso della prescrizione.

    Continuando nella disamina, un altro 15,7% delle cause di slittamento delle udienze è conseguente ad assenze del Giudice (3,3%) o suo mutamento soggettivo (0,3%) all’assenza del Pubblico Ministero (0,2%) e negli altri casi per irregolarità ascrivibili agli uffici giudiziari quali le omesse notifiche ad imputati e parti lese alle quali di aggiungono per l’8,1% le omesse notifiche da parte dell’Ufficio del Pubblico Ministero che son cosa diversa dalla notifica errata.

    Un ulteriore 2,4% delle udienze viene rinviato per problemi logistici: carenza di aule, mancanza di trascrittori, carico eccessivo del ruolo, mancata traduzione di detenuti dal carcere al Tribunale.

    Non trascurabile nemmeno il dato relativo agli esiti dei processi: il 26,5% si conclude con  la declaratoria di estinzione del reato (remissioni di querela, oblazioni, ammissioni alla messa alla prova, morte del reo), il 25,8% per assoluzioni davanti al Tribunale Collegiale, il 28,9% davanti al Giudice Monocratico, un ulteriore 4% per “particolare tenuità del fatto” nonostante il doppio filtro che dovrebbe essere garantito in fase di indagini agli episodi bagatellari. Tutti, ma propri tutti, “colpevoli che l’hanno fatta franca” secondo l’illuminato pensiero di Piercamillo Davigo la cui serenità nel giudizio è rispecchiata da queste sue parole.

    La prescrizione riguarda invece il 10% dei casi ed è corretto ricordare che il 70% circa delle prescrizioni matura con il fascicolo ancora tra le mani del P.M., quindi in una fase che non sarebbe comunque toccata dalla irragionevole modifica della normativa che dovrebbe entrare in vigore da gennaio 2020.

    Il campione raccolto, come si è visto è adeguato e valorizzabile ad una rilevazione statistica che ha interessato non tutti i Tribunali ma solo le Sedi ritenute di maggiore importanza: gli esiti ci parlano di un sistema che – rispetto alla precedente raccolta di dati da parte di Eurispes, una decina di anni fa – non mostra segni di miglioramento nonostante i ripetuti interventi del legislatore, a riprova che il problema vero risiede nelle risorse umane ed economiche.

    E la Giustizia? Aspettatela come Godot insieme a Bonafede il cui cognome esprime una speranza ma non la capacità di trovare rimedi. Restate in attesa: prima o poi arriva. Ma non sempre, sia chiaro.

  • In attesa di Giustizia: fake news

    Da diversi giorni infuria la polemica  sulla decisione della CEDU relativa al c.d. ergastolo ostativo (quello che, per intenderci, preclude qualsiasi beneficio ai condannati) che, secondo i giuristi del Fatto Quotidiano avrebbe addirittura ucciso di nuovo Falcone e Borsellino. Linea editoriale e di pensiero cui si è adeguata la maggior parte degli organi di informazione ingenerando subliminalmente  il timore nell’opinione pubblica che, a stretto giro, feroci criminali mafiosi torneranno – come recita il codice penale – a “scorrere in armi le campagne”.

    Non Il Patto Sociale: in questa rubrica cerchiamo solitamente di offrire ai lettori dei dati e strumenti di conoscenza perché talune notizie possano essere da loro stessi comprese e valutate evitando, finché è possibile, di esprimere punti di vista soggettivi.

    Annotare un certo modo di fare giornalismo, diffondendo notizie false oppure approssimativamente illustrate, fa insorgere un primo dilemma: si tratta solo di impreparazione generalizzata di coloro i quali  – pure – sono addetti al settore della cronaca giudiziaria oppure la scelta di allarmare ed indignare gratuitamente è funzionale ad intercettare il populismo giustizialista imperante?

    Necessità di garantire la vendita di un numero elevato di copie al pubblico manettaro o servile complicità con i nuovi padroni della politica? Quale che sia la risposta ai quesiti che ci siamo posti si ricava come unica certezza che la disinformazione sui temi della giustizia penale è ormai una regola e che l’indipendenza dei media da fattori economici o politici è una chimera.

    Proviamo, allora, a fare chiarezza sul tenore della recente decisione della Corte Europea sull’ergastolo ostativo: quest’ultima ha unicamente affermato il contrasto ai principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo dell’automatismo normativo che sottragga ad un Giudice la possibilità di verificare se anche per un ergastolano sia praticabile l’avvio di un percorso di recupero, magari dopo decenni di reclusione.

    Nessun rischio per la collettività, dunque, per le paventate, imminenti e terrifiche liberazioni di killer e capi cosca. Si tratta solamente solo della restituzione di un vaglio complesso, difficilissimo, non scontato e tormentato per chi lo deve assumere, alla sua sede naturale: la giurisdizione, come dimostra paradigmaticamente un caso al quale, peraltro, si è dato ampio risalto.

    Gli organi di informazione sembra però che non se ne siano avveduti, ma proprio negli stessi giorni la Corte di Cassazione si è pronunciata sui benefici richiesti dal pentito di mafia Giovanni Brusca, co-autore tra l’altro – lui sì – della strage di Capaci. Lo status di collaboratore di giustizia è l’unica eccezione oggi normativamente consentita all’ergastolo ostativo: Brusca ha, dunque, diritto a chiedere dei benefici penitenziari, ma non la certezza di ottenerli. Decide un Giudice, e il Giudice, in quel caso, ha detto: no, ancora non ci siamo.

    È esattamente quello che in seguito alla sentenza della CEDU accadrà ora per tutti i condannati ad ergastolo ostativo con un iter di valutazione che si può immaginare sarà ancora più rigoroso di quello riservato ai collaboratori di giustizia.

    Nessuno tornerà impunemente in libertà a dispetto delle ennesime fake news e di una stampa che non si è neppure accorta o voluta accorgere che il caso Brusca era la chiave di interpretazione per fugare timori e indignazioni dei cittadini.

    La realtà rimane così estranea al dibattito sulla giustizia penale. La verità su questi temi, lo abbiamo scritto molte volte, non fa audience, non produce like, non diffonde indignazione e paura, tramite i quali conseguire consenso politico. E allora, vai con il titolo sul nuovo omicidio di Falcone e Borsellino! Sdegno, urla e grida e alti lai disperati mentre il Ministro interviene promettendo rimedi  immediati e giustizia e i cittadini si sentono prossimi alla salvezza.

    Ciak, buona la prima.

  • In attesa di Giustizia: si salvi chi può

    Dopo la delibera di astensione dalle udienze di cui abbiamo trattato la settimana scorsa, si alimenta a livello politico il dibattito sulla prescrizione; alle voci dissonanti si unisce anche quella di Matteo Renzi non senza creare immaginabili fibrillazioni in una maggioranza di Governo che non sembra essere molto più coesa rispetto a quella gialloverde ma tenterà di sopravvivere. Naturalmente in questa perenne ricerca di una mediazione tra opposti orientamenti, a farne le spese sono i cittadini destinatari di leggi confuse, frutto di compromessi sensibili al mantenimento di equilibri politici ma sfuggenti all’esigenza di fornire una legislazione intellegibile.

    Italia Viva, afferma il leader della neonata compagine (di centroqualcosa – non si sa bene cosa), è pronta a chiedere di rivedere la norma, fermamente contestata,  al momento di discutere l’intero pacchetto giustizia (ma quale?) offrendo suggerimenti in Aula; il tutto, con magistrale cerchiobottismo, non senza elogiare l’operato del Guardasigilli in una perenne rincorsa al sorpasso sul PD.

    Anche Maria Elena Boschi, che nella sua vita precedente ha fatto l’avvocato, in un’intervista ha alluso alla necessità di trovare una soluzione; secondo una fonte attendibile di area renziana la proposta sarà nel senso di ripristinare il normale decorso della prescrizione in favore degli imputati assolti nei confronti della cui sentenza di proscioglimento il Pubblico Ministero abbia proposto appello.

    Secondo la medesima fonte, con valutazione purtroppo condivisibile, il congelamento della prescrizione condurrà, nel giro di alcuni anni, ad un accumulo insostenibile dell’arretrato nella trattazione dei processi soprattutto nelle Corti d’Appello venendo meno il solo elemento che, pur impropriamente, evita il collasso e cioè a dire la selezione che la magistratura fa tra i diversi fascicoli: quelli che hanno qualche probabilità di arrivare a una decisione definitiva e quelli che ne sono privi; un male necessario questa specie di “filtro” in un sistema afflitto da fisiologica inefficienza.

    Non sembra, tuttavia, agevole pronosticare una disponibilità anche da una parziale marcia indietro da parte dei pentastellati che, nel loro furore manettaro, sono di stretta osservanza davighiana: non esistono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca.

    Fatto sta che il blocco della prescrizione è, sfortunatamente, già legge sebbene con entrata in vigore al 1° Gennaio 2020, frutto avvelenato anche in questo caso di una difficile intesa mediata con la Lega per l’approvazione della disciplina c.d. “spazzacorrotti” e fondata sulla previsione che nel frattempo sarebbe stata varata una riforma epocale della giustizia, di altissimo livello tecnico come solo gli operosi giureconsulti di quella evaporata maggioranza avrebbero potuto assicurare al Paese ed alla posterità plaudente.

    Prima le donne ed i bambini, pardon, prima gli assolti e…si salvi chi può! Probabilmente questa timida manifestazione di garantismo non si salverà nemmeno loro che finiranno con l’annegare tre le beghe di maggioranza, cripto opposizione interna e, come di consueto, mancanza di visione prospettica sulla ricaduta di riforme arraffazzonate e sciatte.

    Tanto, anche degli innocenti non interessa a nessuno: ci provò anni addietro l’On. Pecorella con una modifica della procedura penale che da un lato introduceva nel codice il principio del ragionevole dubbio già, in termini diversi, costituzionalizzato ed a fondamento delle decisioni assolutorie e dall’altro il divieto per il P.M. di impugnare le sentenze liberatorie sul ragionamento di fondo che proprio un’assoluzione in primo grado ed una eventuale condanna in appello, nella loro antiteticità esprimo il grado massimo di dubbio.

    Ma anche quella norma di civiltà durò poco, cadde proprio sotto il maglio della Corte Costituzionale.

    La sensazione è, dunque, che una norma sulla prescrizione contraria al buon senso, alla nostra tradizione giuridica ed incompatibile con i malfunzionamenti del settore delle giustizia, entrerà in vigore anche se non è da escludere che una futura e diversa maggioranza possa intervenire abrogandola in un’altalenante funzione normativa  destinata a soddisfare di volta in volta le aspettative del proprio elettorato e non dei cittadini, di tutti i cittadini.

     

  • Giustizia ingiusta

    Tra il crimine e l’innocenza non c’è che lo
    spessore di un foglio di carta timbrata.

    Anatole France; da “Crainquebille”

    “La maestosità della giustizia risiede tutta intera in ogni sentenza resa dal giudice in nome del popolo sovrano”. Così inizia “Crainquebille” di Anatole France. Un lungo racconto che attrae il lettore con la sua semplicità nel raccontare la vita quotidianamente vissuta e lo porta per le vie del quartiere parigino di Montmartre del XIX secolo. Proprio per quelle vie dove ogni giorno passava anche Jérôme Crainquebille. Essendo un venditore ambulante di ortaggi, da più di mezzo secolo lui spingeva la sua carretta dalla mattina alla sera per le vie di Montmartre, ripetendo sempre la stessa frase: “cavoli, rape, carote”. Tutti lo conoscevano e lui conosceva tutti. Le massaie compravano da lui quello che ad esse serviva per cucinare, mentre lui guadagnava quello che gli serviva per vivere. E tutto questo a Crainquebille sembrava conforme alla natura delle cose.

    Però un giorno, mentre scendeva per Rue Montmartre, madame Bayard, la ciabattina, uscì dalla sua bottega perché voleva comprare dei porri. Cercando di fare un prezzo comodo per se stessa, cominciò a mercanteggiare. Poi, dopo aver concordato sul prezzo, prese i porri, ma non avendo con se i soldi, andò a prenderli. Il che causò il blocco del traffico. Ragion per cui l’agente 64 chiese a Crainquebille di circolare. Cosa che lui faceva regolarmente da più di cinquant’anni; circolare dalla mattina alla sera. Con il passare del tempo aveva imparato ad ubbidire ai rappresentanti dell’ordine pubblico. Perciò quell’ordine gli sembrò normale. Era ben disposto a ubbidire all’agente 64, perché era abituato ad ubbidire alle autorità. Ma anche lui aveva però la sua buona ragione di non muoversi; attendeva i suoi soldi per i porri. E questo era un un suo diritto al quale Crainquebille non poteva rinunciare. Si trovò a decidere e scegliere tra un suo dovere e un suo diritto. E scelse il diritto di avere i suoi soldi, trascurando il suo dovere di spingere la sua carretta e non ostacolare il traffico a Rue Montmartre. Nel frattempo però la carretta di Crainquebile, ferma in mezzo alla strada, aveva intralciato il passaggio di diversi carri e altri mezzi di trasporto. Si sentivano urla e ingiurie da tutte le parti. Di fronte ad una situazione del genere all’agente 64, uomo di poche parole ma deciso nel fare il suo dovere, non rimaneva altro che agire. Tirò fuori il taccuino delle multe e si prestò a scrivere. Al che Crainquebille, con delle frasi e dei gesti disperati ma non di rivolta, cercava di spiegare all’agente 64 che attendeva i suoi soldi. L’agente però capì tutto male, credendosi insultato. E siccome per lui ogni insulto, qualunque esso fosse, prendeva nel suo cervello la forma di uno degli insulti più usati e offensivi in quel periodo dai parigini contro gli agenti, e cioè “Mort aux vaches – morte alle vacche!”, non gli rimase altra scelta. Sentendosi profondamente offeso come rappresentante delle autorità, l’agente 64 arrestò Crainquebille e lo portò al commissariato per oltraggio ad un agente della forza pubblica. Cominciò allora per Crainquebille la prima esperienza diretta con la giustizia. E quella giustizia lo dichiarò colpevole senza colpa, semplicemente perché il giudice non poteva non credere all’agente 64. Per il giudice non valse niente la testimonianza di un medico, ufficiale della Legione d’Onore, presente all’arresto, che dichiarò dietro giuramento, che Crainquebille non aveva insultato l’agente 64. Ma in quel tempo, come scrive Anatole France, “in Francia i sapienti erano dei sospetti”.

    Dopo aver scontato la pena Crainquebille, uscito di prigione, riprese a spingere la sua carretta per le vie di Montmartre. Ma trovò tutto cambiato. Le massaie non compravano più niente da lui. Il che causò a Crainquebille tanta sofferenza e disperazione. Fino al punto di voler tornare di nuovo in prigione, perché almeno lì poteva mangiare e dormire al coperto. E siccome sapeva il trucco, perché non approfittare? Bastava trovare un agente e dirli in faccia “Mort aux vaches”. E così fece. Ma purtroppo per lui, il primo agente trovato per strada, dopo aver sentito pronunciargli in faccia “Mort aux vaches”, consigliò semplicemente a Crainquebille di continuare a camminare. E come scrive Anatole France alla fine del suo racconto, “Crainquebille, la testa bassa e con le braccia a ciondoloni, s’addentrò nell’ombra sotto la pioggia.”.

    “Crainquebille” è un racconto, il cui contenuto dovrebbe servire da lezione e far riflettere tante persone, anche in Albania, su come non dovrebbe funzionare la giustizia. Soprattutto in Albania, dove la realtà con la giustizia è ben diversa e tutt’altro che normale. In Albania attualmente, prove e fatti alla mano, il sistema della giustizia risulta essere controllato dal potere politico, essendo, allo stesso tempo, radicalmente corrotto. Purtroppo attualmente in Albania ci sono tanti poveri “Crainquebille” che non trovano giustizia e vengono condannati per fatti non commessi e/o per delle accuse del tutto infondate. Tra quei tanti, ci sono anche venditori di ortaggi negli angoli delle strade di Tirana e altrove che cercando di guadagnare per sopravvivere, vengono maltrattati pubblicamente dai poliziotti e spesso finiscono anche in prigione. Proprio come accadeva a Crainquebille. Sono gli stessi poliziotti che però non osano agire contro i criminali e spesso collaborano con loro. Anche questo è un fatto ben noto ormai in Albania. Perché i criminali adesso si sentono potenti e se ne strafottono altamente sia della polizia, che dei giudici. Perché quello che importa adesso in Albania, le uniche cose che importano, sono il potere e il denaro. Con il potere, quello politico per primo, e con il denaro si fa e si controlla tutto. Anche la polizia di Stato e il sistema della giustizia.

    Il nostro lettore è stato informato continuamente, durante questi anni, della grave situazione in cui versa il sistema della giustizia in Albania. Compreso anche il diabolicamente premeditato fallimento della Riforma della giustizia. La crisi profonda e il voluto fallimento di quella Riforma lo ha ultimamente documentato e denunciato anche il presidente della Repubblica, la più alta istituzione dello Stato. Anche se quello Stato attualmente è pericolosamente controllato dal primo ministro, il quale sta cercando di rimuovere dall’incarico lo stesso presidente della Repubblica, per diventare poi, un monarca onnipotente con tutte le allarmanti conseguenze. Tutto ciò in seguito ad una strategia per non far funzionare, tra l’altro, da ormai quasi due anni, la Corte Costituzionale e la Corte Suprema. Tutto ciò dopo che tutte le procure ubbidiscono umilmente e vergognosamente agli ordini politici partiti da molto in alto. E tutto ciò con il continuo consenso e il dichiarato supporto dei soliti “rappresentanti internazionali”. I quali, però, avranno sulla coscienza, se ne hanno una, le loro malefatte in Albania a scapito degli albanesi. Ma, secondo le cattive lingue, loro avranno comunque tanti milioni per i servizi resi. E le cattive lingue spesso non parlano a vanvera.

    Chi scrive queste righe valuta che la situazione in Albania sta diventando sempre più grave e critica. Egli lo ripete da tempo ormai, ma soprattutto durante gli ultimi mesi. Credendo di conoscere le cause, egli è altresì convinto che senza sradicare definitivamente anche la giustizia ingiusta in Albania le cose andranno di male in peggio. Perché, come scriveva Anatole France riferendosi alla giustizia giusta, “Quando cresce un potere illegittimo, essa non ha che riconoscerlo per poi renderlo legittimo”. E se no, spetta soltanto agli albanesi decidere cosa fare.

     

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