Giustizia

  • Sciopero degli avvocati penalisti contro l’abolizione della prescrizione

    L’Unione delle Camere penali ha proclamato 5 giorni di sciopero, dal 21 al 25 ottobre, contro lo stop della prescrizione dopo il primo grado di giudizio, che entrerà in vigore il primo gennaio 2020. «Il Ministro della Giustizia ha pubblicamente dichiarato che nessun intervento è previsto su quella norma, mentre il Partito Democratico, ha formulato, sul punto, riserve assai blande», protestano i penalisti, che parlano di principio «aberrante» e avvertono che così «il cittadino resterà in balia della giustizia penale per un tempo indefinito».

    I penalisti giudicano «manifestamente inverosimile il proposito, pure sorprendentemente avanzato dal Ministro, di un intervento di riforma dei tempi del processo penale prima della entrata in vigore della riforma della prescrizione, cioè entro il 31 dicembre 2019». Per questo ritengono che il cittadino resterà in balia della giustizia penale «fino a quando lo Stato non sarà in grado di celebrare definitivamente il processo che lo riguarda», come denunciato dall’«intera comunità dei giuristi italiani». E, aggiungono, «è chiaro a tutti gli addetti ai lavori, anche alla magistratura, che l’entrata a regime di un simile, aberrante principio determinerebbe un disastroso allungamento dei tempi dei processi, giacché verrebbe a mancare la sola ragione che oggi ne sollecita la celebrazione».

    I penalisti protesteranno di fatto per una intera settimana, non solo disertando le udienze, ma anche astenendosi «da ogni attività giudiziaria».

  • In attesa di Giustizia: anni di piombo

    Correva l’anno 1998, mese di novembre, quando la Corte Costituzionale censurò per l’ennesima volta una riforma del codice di procedura penale mirata a garantire l’oralità del giudizio e la possibilità di interrogare e controinterrogare le fonti di accusa: il codice promulgato nel 1989, purtroppo, doveva misurarsi con una Costituzione che, pur restando di alto profilo, quanto a talune garanzie dell’imputato guardava ad un sistema inquisitorio, quello disegnato dalla legislazione degli anni ’30.

    L’Unione delle Camere Penali allora Presieduta dal Prof. Giuseppe Frigo, che proprio della Corte Costituzionale entrerà a far parte in seguito, proclamò per protesta un’astensione dalle udienze reclamando contro un ripristino strisciante del modello processuale abrogato e confliggente con quello di impronta accusatoria introdotto un decennio prima.

    Durissima e, francamente, inaccettabile fu la reazione dell’allora Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro che bollò gli avvocati come terroristi sostenendo che ribellarsi contro una sentenza della Corte Costituzionale è comportamento equiparabile a scendere in piazza armati.

    I penalisti dalle parole di Scalfaro ricavarono stimoli ancora più forti a proseguire nella loro protesta arrivando a prevedere la restituzione dei tesserini di appartenenza agli Ordini professionali – un terrorista non può essere contemporaneamente uomo della legge – querele nei confronti di Scalfaro per diffamazione del quale pretesero le scuse e raccogliendo, per vero, solidarietà bipartisan dai rappresentanti della politica.

    Tanto è vero che il 23 novembre 1999, esattamente un anno dopo, fu approvata la modifica dell’art. 111 della Costituzione con un articolato che, sostanzialmente, clona l’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo introducendo i principi del c.d. giusto processo e ponendo così termine a una diatriba a colpi di modifiche normative e interventi del Giudice delle Leggi che provocò, per anni, solo incertezza del diritto e compressione delle garanzie dei cittadini. Tutti terroristi, forse, anche quei senatori e deputati che, con maggioranza qualificata e doppia lettura della novella costituzionale, avevano riequilibrato le sorti del processo penale. Almeno secondo il pensiero del Presidente Scalfaro che nel frattempo aveva lasciato il Quirinale.

    Ora ci risiamo: l’Unione ha proclamato cinque giorni di astensione a partire dal 21 ottobre per lamentare la mancata – sebbene promessa – riforma del processo penale che avrebbe dovuto fungere da ammortizzatore alla sostanziale eliminazione della prescrizione già approvata ed in vigore a partire dall’anno prossimo: astensione contro una legge dello Stato e fortemente voluta dagli illuminati giureconsulti pentastellati! Tornano gli anni di piombo? Ancora terrorismo in Toga?

    Se questo è terrorismo, allora c’è da augurarsi che sia l’anticamera di una guerra civile anzi – meglio ancora – di una guerra di civiltà, una di quelle guerre, di quelle battaglie che gli avvocati non hanno mai temuto di affrontare e mai per interessi personali o di categoria ma sempre e solo nell’interesse dei cittadini, di coloro che si trovano al cospetto di un potere che li sovrasta, il potere punitivo dello Stato.

    E’ tempo di legge finanziaria, recupero delle risorse per evitare l’aumento dell’IVA, ma è anche tempo di elezioni suppletive al C.S.M. dopo scandali e dimissioni risalenti a poche settimane addietro ma nessuno più ne parla, così come delle riforma in materia di Giustizia: questi sono temi che non garantiscono comprensione e consenso e i cittadini restano – anche se non lo sanno –  in attesa di Giustizia e anche se non sanno nemmeno questo non sono soli: con loro ci sono quei terroristi degli avvocati penalisti.

     

  • In attesa di Giustizia: niente di nuovo dal fronte occidentale

    La rubrica non si è trasformata: non è diventata uno spazio dedicato alla recensione letteraria ma come il protagonista del romanzo di Remarque e i suoi camerati si accorgono di quanto la guerra sia inutile senza ottenere risposte precise alla domanda su chi vi avesse dato inizio e per quale motivo, anche noi ci poniamo e – in questo caso – ci poniamo nuovamente la domanda sul perché certe disfunzioni del sistema si ripetano inesorabilmente e del perché non vi sia un criterio per porvi rimedio.

    Parliamo, oggi, di una argomento già affrontato tempo addietro: l’abuso della carcerazione preventiva e, in particolare, dei casi nei quali ad una privazione della libertà non di rado prolungata segue l’assoluzione dell’imputato: sono moltissimi e con un trend che non conosce miglioramenti.

    I numeri sono impressionanti, soprattutto se proposti utilizzando una media: ogni  otto ore un innocente viene arrestato, lo Stato dal 1991 ad oggi ha speso 56 euro al minuto per indennizzi seguenti ad ingiuste detenzioni, complessivamente circa 800 milioni; sul podio, se così si può definire, delle Sedi Giudiziarie ove si è verificato il maggior numero di questi casi nel 2018 si collocano Catanzaro, Napoli e Roma.

    Tra l’altro i dati impiegati in questo articolo, diffusi dal Ministero della Giustizia, sono parziali perché non tutte le sedi hanno trasmesso i loro e ne mancano un buon 20% e purtuttavia il totale ascende a circa mille istanze di riparazione per ingiusta detenzione presentate appunto nel 2018 delle quali 630 sono state accolte e si tenga conto che buona parte dei dinieghi si fonda sul presupposto che l’indagato, al momento dell’arresto, si sia avvalso della facoltà di non rispondere: cioè a dire, l’esercizio del diritto al silenzio, costituzionalmente assistito, determina un pregiudizio proprio a chi sia stato giudicato non colpevole.

    Paradossi della nostra Giustizia o una forma di sostegno indiretto alle esangui casse dello Stato cui, sempre avendo a misura l’anno precedente, queste forme di indennizzo sono costate 23 milioni?

    O, forse, può pensarsi che essendo la decisione affidata alle Corti di Appello del luogo ove si è celebrato il processo ad un innocente queste ultime abbiano la tendenza a non smentire più di tanto l’operato di taluni colleghi sostenendo che la detenzione sì vi è stata, ma anche se seguita da sentenza assolutoria non era ingiusta?

    Epigoni del Davigo pensiero, quello secondo il quale in realtà non vi sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca?

    Chi può dirlo: certamente il fenomeno, imbarazzante nella sua dimensione e tendenziale uniformità nell’arco di decenni, merita che se ne parli e che vi si ponga rimedio; e qui viene il difficile perché una malcelata tendenza manettara si è largamente diffusa tra Pubblici Ministeri e Giudici da Mani Pulite in poi, il cittadino medio è forcaiolo, il Governo e il Parlamento sono a trazione giacobina.

    I cittadini, che sono coloro che poi votano però possono essere sensibilizzati, devono poter conoscere una realtà che dati i numeri non può considerarsi fisiologica e a questo fine l’Unione delle Camere Penali ha istituito un osservatorio sull’errore giudiziario con il progetto di creare una banca dati e di fare informazione con convegni itineranti aperti al pubblico.

    Servirà? Noi ricominciamo da qui raccontandovi di una Giustizia che a volte, proprio per gli innocenti non arriva fino in fondo riconoscendo il loro diritto ad una riparazione, ricordandovi che su quel fronte continua a non esservi nulla di nuovo.

  • Cronaca di un verdetto preannunciato

    Le leggi sono ragnatele che le mosche grosse sfondano,
    mentre le piccole ci restano impigliate

    Honoré De Balzac

    Sì, era proprio la cronaca di un verdetto preannunciato quello della Corte per i Reati Gravi, letto la sera tardi del 19 settembre scorso. Verdetto che riguardava l’ex ministro dell’Interno albanese (2013 – 2017). Proprio quello che nel 2015 era stato accusato, per primo, da un funzionario della Polizia di Stato, ormai in asilo e sotto protezione in un paese europeo, perché perseguitato per quella ragione. Proprio quell’ex ministro che è stato accusato in seguito e con altri fatti concreti dall’opposizione e dai media non controllati, per la cannabizzazione dell’Albania e per il suo diretto coinvolgimento con un noto gruppo criminale che coltivava e trafficava la cannabis. Proprio quell’ex ministro però, per il quale, dopo aver, finalmente, “rassegnato le sue dimissioni” l’11 marzo 2017, l’attuale primo ministro dichiarava che lui “era il nostro campione che ha trasformato la Polizia [di Stato] da quella che era, all’istituzione più credibile”. Quanto è successo da allora in poi, dati e fatti alla mano, dimostra però l’esatto contrario sulla credibilità della Polizia di Stato e sulle falsità delle dichiarazioni del primo ministro.

    I veri grattacapi dell’ex ministro dell’Interno cominciarono il 17 ottobre 2017, quando in Italia sono stati arrestati i membri di un ben strutturato gruppo criminale che trafficava stupefacenti dall’Albania in Italia. Tra gli arrestati c’era anche il capo del gruppo e parente dell’ex ministro. Proprio uno di quelli che aveva denunciato nel 2015 il funzionario della Polizia di Stato, ormai in asilo, dopo essere stato perseguitato in Albania. Il 18 ottobre 2017 la Procura per i Reati Gravi aveva chiesto ufficialmente al Parlamento di avviare le procedure per permettere l’arresto dell’ex ministro, in quel periodo deputato. Da quel momento in poi, la maggioranza governativa, per motivi politici e ben altri ancora, tramite i suoi rappresentanti nelle apposite commissioni parlamentari, ha cercato di ritardare il processo per la revoca dell’immunità parlamentare all’ex ministro. Alla fin fine e grazie a tutto il necessario appoggio istituzionale e altro, per l’ex ministro non c’è stato nessun arresto. Lui ha seguito il processo giudiziario da cittadino libero. L’ex ministro, all’inizio, è apparso veramente abbattuto nelle sue uscite pubbliche. “Io verrò arrestato, io sto andando in prigione. Il Parlamento è stato radunato a votare per decidere se andrò in prigione o no”. Così dichiarava lui il 19 ottobre 2017, durante una trasmissione televisiva in prima serata e dopo che anche il primo ministro aveva fatto chiaramente capire, con una sua dichiarazione su Facebook, che aveva abbandonato il suo prediletto e “ministro campione”. Soltanto all’inizio però, perché dopo qualche giorno l’ex ministro ha cambiato completamente atteggiamento. La sua nuova strategia si basava sulle minacce tramite chiari messaggi in codice. Cosa che ha continuato a fare anche in seguito. Lo ha fatto anche prima della sopracitata seduta del 19 settembre scorso della Corte per i Reati Gravi e continua a farlo in questi giorni. Perché non si sa mai e tutto può ancora succedere. Sono dei messaggi che, tenendo presente quanto è accaduto in Albania durante questi ultimi anni, si indirizzerebbero al primo ministro e ad alcuni ex colleghi e/o alti rappresentanti della maggioranza governativa. Usando proprio delle frasi offensive, dette dal primo ministro in altre precedenti occasioni, nonché allusioni ai “fratelli” coinvolti in affari di droga. In Albania tutti sanno a quali fratelli l’ex ministro fa riferimento. Ed essendo stato titolare per quasi quattro anni del ministero dell’Interno, l’ex ministro potrebbe avere documenti, registrazioni e filmati che potrebbero coinvolgere veramente anche dei fratelli delle persone ai massimi livelli dell’attuale gerarchia politica in Albania. Lì, dove tutti sanno che se l’ex ministro dell’Interno ha fatto quello per il quale è stato pubblicamente accusato, mai e poi mai poteva farlo senza il beneplacito del primo ministro. Anzi, in Albania tutti sono convinti che l’ex ministro ha semplicemente eseguito degli ordini ben precisi, seguendo una ben dettagliata strategia. Strategia basata sulla connivenza del potere politico con la criminalità organizzata per permettere al primo il mantenimento e il consolidamento del potere politico e all’altra ingenti guadagni miliardari. Si valuta che soltanto nel 2016 gli introiti dal traffico illecito della cannabis siano stati di circa un terzo del prodotto interno lordo dell’Albania! E si tratta soltanto di una valutazione approssimativa.

    In seguito ai primi messaggi in codice dell’ex ministro, che si pensa siano stati direttamente indirizzati al primo ministro, quest’ultimo ha cambiato completamente atteggiamento nei suoi confronti. Ha cominciato ad attaccare a spada tratta, come suo solito, i media e i procuratori che si stavano occupando del caso. Procuratori i quali, nella sopracitata richiesta ufficiale indirizzata al Parlamento, chiedendo l’avvio delle procedure per l’arresto dell’ex ministro, erano convinti che lui fosse coinvolto, appoggiasse e facilitasse le attività del sopracitato gruppo criminale. Riferendosi ai procuratori del caso, ai quagli all’inizio chiedeva soltanto di fare giustizia fino in fondo, dopo i messaggi in codice dell’ex ministro, il primo ministro ha cambiato radicalmente opinione. Lui si “meravigliava” e si chiedeva “…dove è stato trovato questo zelo sconoscituo da una Procura per i Reati Gravi, che non ha mosso un dito da quando è stata costituita….?”.

    Da allora in poi tante cose sono cambiate radicalmente, anche per “salvare” l’ex ministro. Perché salvando lui il primo ministro salva tante altre cose e, secondo le cattive lingue, salva anche se stesso. E tutto ciò in palese violazione della Costituzione e delle leggi in vigore e nell’ambito dell’ormai pubblicamente fallita “Riforma di Giustizia”. Così, violando quanto stabilisce la Costituzione, è stato votato in Parlamento, o meglio dire nominato, il nuovo procuratore generale provvisorio, termine quello inventato appositamente, perché non esisteva da nessuna parte. Poi, in seguito, è stato nominato il capo della Procura per i Reati Gravi. Tutti e due delle persone ubbidienti agli ordini politici del primo ministro, come i tanti fatti ormai accaduti lo dimostrerebbero. Tra i primi atti ufficiali dei nuovi nominati ci sono state le rimozioni dal caso del ministro dell’Interno, di tutti i procuratori. I nuovi incaricati per più di un anno e mezzo, guarda caso, non sono riusciti a portare alla Corte per i Reati Gravi delle prove per sostenere l’accusa formulata dai loro colleghi, precedentemente rimossi dall’incarico. E le prove, secondo chi se ne intende, sono state tante e convincenti. Tutto per arrivare ad un preannunciato verdetto. Quello letto la sera tardi del 19 settembre scorso. Verdetto che ha condannato l’ex ministro soltanto per “abuso d’ufficio”. A causa del rito abbreviato la condanna è stata ridotta a 3 anni e 4 mesi di affidamento in prova al servizio sociale e il divieto di svolgere funzioni pubbliche. Sono state respinte “per mancanza di prove” le accuse di “traffico di sostanze stupefacenti” e “associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga”!

    Chi scrive queste righe è convinto che il processo a carico dell’ex ministro dell’Interno rappresenta un’ulteriore testimonianza del totale fallimento della Riforma della giustizia e del pieno controllo del sistema e dello Stato da parte del potere politico. Purtroppo con il preannunciato verdetto del 19 settembre scorso si è verificato in Albania quanto scriveva Balzac circa due secoli fa. E cioè che le leggi sono ragnatele che le mosche grosse sfondano, mentre le piccole ci restano impigliate.

     

    23 settembre 2019

  • In attesa di Giustizia: facce d’angelo

    Nell’immaginario collettivo il delinquente non solo è cattivo ma è anche brutto, trasandato, oppure agghindato in maniera vistosa e pacchiana. Per intenderci, lo stereotipo perfetto è il Pietro Gambadilegno di Walt Disney che a tutto il resto aggiunge anche una mutilazione che deve supporsi esito di qualche azione violenta.

    Del resto la Scuola Positiva di Cesare Lombroso aveva elaborato una teoria secondo la quale – in sintesi – dalla fisiognomica dell’uomo potevano riconoscersi le differenti forme di una sua inclinazione criminale: donde la definizione di “soggetto lombrosiano” entrato nel linguaggio comune per indicare una persona poco raccomandabile.

    Sui  moduli di schedatura del Ministero dell’Interno, fino a qualche decennio fa, tra i segni distintivi dei pregiudicati o sospettati rientrava il mancinismo essendo l’uso della “mano del diavolo” un indicatore di potenziale pericolosità: si parla, infatti, di personaggio sinistro a proposito di delinquenti. L’annotazione fu eliminata solo grazie all’intervento dell’On. Mino Martinazzoli, nella sua qualità di Ministro della Giustizia e…mancino.

    Insomma, è vario il palinsesto delle caratteristiche – più o meno attendibili che siano –  che descrivono un criminale o un’indole malvagia. L’abito, peraltro, come suol dirsi, non fa il monaco e non è certo mancante tra i criminali la rappresentanza dei cosiddetti “colletti bianchi”: professionisti, dirigenti d’azienda, servitori dello Stato, politici e imprenditori, spesso insospettabili, che seppur elegantemente vestiti, colti e di bell’aspetto commettono reati meno esecrabili.

    Questa riflessione nasce dall’arresto recentissimo di una serie di tecnici e dipendenti della società che cura la manutenzione delle autostrade quale strascico delle indagini sul crollo del ponte Morandi a Genova che, a vario titolo, avrebbero negligentemente svolto le rispettive attribuzioni volte a garantire la sicurezza della circolazione ovvero eluso doverosi interventi. L’accadimento, nel rispetto della presunzione di non colpevolezza di tutti costoro svolge una mera funzione di stimolo alla riflessione prendendo ad esempio, piuttosto, persone e fatti rispetto ai quali vi è stata già una sentenza definitiva; e la casistica è infinita da Michele Sindona (il salvatore della lira) in avanti, ma anche indietro. Corrotti, corruttori, trafficanti di influenze, bancarottieri, grandi evasori e chi più ne ha più ne metta con nomi, cognomi e reati loro ascritti.

    E viene da chiedersi:  i rapinatori stile Pietro Gambadilegno, sono peggio? Talvolta no, anzi, spesso non è così almeno con riguardo a certe tipologie di crimini e di criminali. Chi è peggio tra il rapinatore – caso realmente accaduto – che assalta un furgone blindato munito di un falso bazooka costruito con tubi da impianto idraulico senza far male a nessuno e senza che alla fine la ricchezza di banche e assicurazioni eviti, insieme al loro tracollo, conseguenze per chicchessia o il bancarottiere che prima si arricchisce e poi fallisce e scappa con il malloppo mettendo sul lastrico intere famiglie di lavoratori? Chi preferite tra l’abile truffatore che sfila un bel po’ di denaro dai fondi neri di imprenditori ingordi con l’illusione di un investimento che potrebbe fare da trama a un film di Totò (altra storia vera) e l’industriale che risparmia sui presidi di sicurezza sul lavoro e così mette a rischio quando non manda a morire i propri dipendenti?

    E si potrebbe andare avanti con gli esempi senza che ciò debba valere a giustificazione di nessuno ma solo per ricordare un po’ a noi stessi che se si delinque si è comunque delinquenti indipendentemente dall’abito firmato o meno che si indossa e che la Giustizia non è velocissima ma prima o poi arriva per tutti…anche se qualcuno, alla fine e sebbene non abbia la faccia d’angelo, può risultare un po’ più simpatico di altri.

  • In attesa di Giustizia: decisioni inopportune

    Sta facendo molto discutere la decisione della Corte d’Appello dei Minori di Napoli di autorizzare uno dei responsabili, reo confesso, dell’omicidio di una guardia giurata avvenuto solo pochi mesi fa di trascorrere a casa con i famigliari, invece che in carcere, il giorno del suo diciottesimo compleanno.

    Vero è che si tratta di un soggetto minorenne, almeno all’epoca dei fatti, e il processo minorile contempla possibilità decisionali molto ampie in termini non solo di gestione della libertà personale ma anche delle modalità definitorie del processo, non ultimo in tema di dosimetria delle pene. Il tutto tenendosi conto delle relazioni che esperti dei servizi sociali forniscono all’autorità giudicante che – a sua volta – è integrante nella composizione da professionisti non togati provenienti dal settore della psicologia evolutiva, sociologia e altri affini.

    In questo caso, come sembra sia accaduto, l’autorizzazione sarebbe stata concessa proprio sulla scorta di una positiva valutazione del giovane che – senza averla letta – è da ritenersi fondata su una rivisitazione critica positiva del proprio vissuto da parte dell’autore del fatto, di una elaborazione della condotta criminale posta in essere registrandone l’estremo disvalore.

    E sin qui va bene: se la legge lo consente – e lo consente – e vi sono i presupposti emergenti dalla relazione degli assistenti sociali, la Corte d’Appello ben poteva concedere il permesso, ma avrebbe anche potuto negarlo rilevando, per esempio, la estrema gravità del reato commesso, la prossimità temporale con il fatto, l’inopportunità dell’autorizzazione a un soggetto ancora in una fase di rieducazione iniziale attraverso il trattamento penitenziario.

    Oppure, avrebbe potuto decidere favorevolmente ma ponendo degli obblighi in capo al beneficiato quali per esempio, il divieto di festeggiamenti per così dire “pubblici”, cosa che al giorno d’oggi si può realizzare – così come si è realizzata – mediante l’impiego dei social media.

    Se da un lato è ragionevole pensare che per il giovane omicida sia stato un momento di comprensibile gioia trascorrere un compleanno importante tra gli affetti famigliari e non in carcere e lo stesso sia stato il sentimento provato dai parenti più stretti, questa occasione di giubilo è stridente con il dolore ancora recentissimo dei congiunti della vittima che non avranno più né compleanni, né Festività Natalizie, né altre occasioni per brindare con il proprio, padre, marito, amico.

    Le immagini della festa diffuse senza risparmio su Facebook piuttosto che su Instagram non sono sfuggite, provocando l’indignazione non solo dei famigliari della sventurata guardia giurata uccisa solo a marzo scorso. Tutto ciò assume il sapore di una beffa che la giustizia avrebbe dovuto e potuto impedire: da un lato un assassino conclamato che poco tempo dopo un omicidio brinda, dall’altro le lacrime ancora calde di chi ha perso per mano sua una persona cara.

    Bastava davvero poco e la Giustizia poteva avere il suo corso naturale, concedendo ciò che poteva essere concesso a un giovane che – forse – si sta davvero recuperando e ponendo i presupposti per rispettare la sensibilità delle vittime indirette delle sue azioni. Troppo veloce, questa volta la Giustizia, soprattutto è arrivata con modalità del tutto inopportune ed era questione non tanto di applicazione della legge ma di buonsenso.

  • Achtung, binational babies: Lo Jugendamt tedesco oltrepassa le frontiere

    Circa dieci anni fa si concludeva la vicenda di una coppia franco-tedesca alla quale lo Jugendamt (Amministrazione per la gioventù) aveva tolto le figlie, prelevandole una dalla scuola e l’altra dall’asilo. L’improvviso allontanamento era avvenuto perché una delle bimbe aveva rivelato a scuola il progetto di trasloco, cioè che avrebbero lasciato la Germania per andare a vivere in Francia, a pochi chilometri di distanza, poiché vivevano nei pressi della frontiera. I genitori lottarono per sei mesi per riaverle a casa, ma compresero ben presto che ciò che stava accadendo era conforme al sistema di “tutela” di tutti i bambini che risiedono in Germania. Quindi il papà, durante una delle brevi visite concesse, decise di attraversare il ponte sul Reno, rientrando in Francia con le figlie, dove anche la mamma li raggiunse immediatamente. I genitori si rivolsero subito alla polizia e al tribunale francese per denunciare gli abusi subiti, mentre le autorità tedesche emettevano mandati di arresto contro i genitori e avvisi di ricerca di minori scomparsi. Gli esiti positivi di visite, colloqui e perizie portarono il giudice francese a stabilire in via definitiva che non ci fosse assolutamente nessun motivo per togliere le figlie ai genitori. Da allora, circa dieci anni fa, tutta la famiglia vive in Francia. Una delle figlie è maggiorenne, l’altra si appresta a terminare il liceo. I traumi vissuti nei sei mesi passati con una coppia di estranei, impegnati tra l’altro a denigrare continuamente i veri genitori delle bambine (https://www.youtube.com/watch?v=QX5jqQCad6U&t=162s) non sono mai stati completamente superati, ma si pensava che questa famiglia sarebbe stata per lo meno lasciata in pace. Legalmente lo Jugendamt può infatti agire solo in territorio tedesco. La sua competenza termina alla frontiera. Registriamo invece in questi giorni un primo sconfinamento: un funzionario dello Jugendamt ha suonato alla porta dell’abitazione di Strasburgo, unica residenza di genitori e figlie, affermando di voler controllare se il “benessere” della bambina, quella minorenne, fosse tutelato! Quando la mamma, cittadina tedesca, gli ha ricordato che i tribunali francesi si erano già occupati del caso e avevano già sentenziato e che ogni decisione era stata trasmessa alle autorità tedesche, ha semplicemente ribadito che “la Germania non riconosce le sentenze emesse dai tribunali degli altri paesi dell’Unione”. Ricordiamo per inciso che ogni normativa europea stabilisce esattamente il contrario, ma si sa, in questa Europa le regole sarebbero uguali per tutti, ma valgono solo per alcuni. Si potrebbe anche pensare che un giudice tedesco che invia un suo funzionario in una giurisdizione straniera e che dopo dieci anni nomina un tutore e continua a rifiutarsi di chiudere un procedimento sia un singolo caso di delirio da onnipotenza. In realtà ciò che sta accadendo è la trasformazione sempre più evidente dell’Unione europea in “grande Germania”, o addirittura in “grande fratello teutonico”, dove le vittime non sono solo i cittadini degli altri paesi, ma anche gli stessi cittadini tedeschi. Nel mio precedente articolo, Il modello tedesco di Bibbiano. Da dove viene e come funziona il modello applicato nei casi dei bambini strappati illecitamente ai propri genitori (https://www.ilpattosociale.it/2019/07/29/achtung-binational-babies-il-modello-tedesco-di-bibbiano/) spiegavo come la metodologia usata negli scandali italiani relativi agli affidi, determinati in base al possibile reddito prodotto da allontanamenti e terapie, in realtà è ciò che in Germania non solo viene applicato da anni, ma in quel paese è addirittura legale. Parlavo dell’esportazione del metodo di mercificazione del bambino che dalla Germania sta arrivando in Italia e un po’ in tutta Europa. Ebbene direi che siamo già andati oltre, non solo viene esportato il modello tedesco negli altri paesi, addirittura si scalvano le giurisdizioni e in concreto le frontiere per assicurare che venga realizzato quanto deciso dallo Jugendamt, detentore assoluto del potere decisionale su cosa sia “bene” per un bambino, cioè rimanere in Germania, anche senza i genitori. La morale della vicenda, almeno per noi Italiani, è che dovremmo smettere di credere che tutto ciò che viene dall’estero è migliore, dovremmo riflettere sulla mercificazione in atto dei bambini, oggi ancora oggetto di inchieste in Italia e soprattutto dovremmo capire dove ci sta portando questa Unione europea che non coincide con il concetto di Europa. La mercificazione dei bambini verrà presto integrata e legalizzata all’interno di un sistema che sta già cambiando gli appellativi. La mercificazione si chiamerà semplicemente e definitivamente “tutela”.

    Membro della European Press Federation
    Responsabile nazionale dello Sportello Jugendamt, Associazione C.S.IN. Onlus – Roma
    Membro dell’Associazione European Children Aid (ECA) – Svizzera
    Membro dell’Associazione Enfants Otages – Francia

  • In attesa di Giustizia: la legge è mobile qual piuma al vento

    Altro giro, altro regalo: frutto di improbabili coalizioni e di una legge elettorale scritta per favorire se non preordinare un inciucio che non si è potuto realizzare per la schiacciante – ma, forse, non inattesa – vittoria del M5S, la crisi di Governo sembra prossima a consegnare il Paese al Governo giallorosso, ormai l’ennesimo che non esprime la volontà del corpo elettorale.

    Dio solo sa se non sarebbe preferibile una squadra con Liedholm premier, Totti, Falcao, Nesta, Bruno Conti e tanti altri campioni a quello che ci aspetta, non solo sul versante dell’economia ma anche su quello della giustizia.

    Nelle concitate fasi di condivisione della ennesima, improbabile, opera di programmazione delle linee guida di un esecutivo non eletto e non voluto dai cittadini si intravedono già le intenzioni di modificare quanto è stato solo di recente approvato: per esempio, come è già stato esplicitamente affermato, in tema di regolamentazione dei flussi migratori.

    Senza entrare nel merito dei decreti sicurezza, l’ultimo dei quali licenziato dalle Camere a una manciata di giorni dalla crisi, questo settore normativo che coinvolge diversi ambiti della giurisdizione e delle competenze amministrative è paradigmatico di un gravissimo deficit di cui il nostro sistema soffre in maniera sempre più marcata: la certezza del diritto.

    Nella nostra sventurata Repubblica, a tacere della confusione che sembra albergare abitualmente nella penna del legislatore, ad ogni mutar di maggioranza corrisponde un’azione uguale e contraria in materia di giustizia rispetto all’Esecutivo precedente e dal connubio tra i giustizialisti del PD e i giacobini pentastellati c’è da stare sicuri che qualcosa di buono non si avrà, a prescindere dalle modifiche preannunciate, aspettiamoci anche subito una prescrizione legata al succedersi delle ere glaciali, qualche nuovo reatuccio contro la Pubblica Amministrazione senza pensare seriamente a una riduzione delle pastoie burocratiche, che sono il brodo di coltura della corruzione, e probabilmente una sensibile frizione tra alleati sul tema del sovraffollamento carcerario, che è di nuovo un’emergenza, e le possibili soluzioni.

    Da un lato vi sarà la visione carcerocentrica dei grillini, dall’altra la propensione a valorizzare le possibilità di recupero e reinserimento dei condannati dei Dem…ma solo dopo avere contribuito a riempire gli istituti di pena con una legislazione poco sensibile alle garanzie processuali e molto alla capacità dissuasiva legata all’inasprimento delle sanzioni. E su quest’ultimo punto un accordo sarà più facile.

    Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi, scriveva Bertold Brecht… e dire che  noi avremmo bisogno e basterebbe un governo che sappia quello che fa e che lo faccia per un’intera legislatura senza abbandonare un settore sensibile come quello della giustizia alla visione diversa che si realizza al mutar di maggioranza, al soddisfacimento degli umori della piazza. La giustizia non dovrebbe avere colori né appartenenze politiche ma essere una categoria dello spirito comportante vincoli etici e indicazioni culturali inderogabili e non un mero mezzo tecnico di difesa collettiva visto come tanto migliore quanto più drastico ed efficiente.

    Ma tant’è: siamo abituati persino alla decretazione d’urgenza in materia penale lasciando poi il sistema ad affrontare il problema di decreti legge non approvati o modificati in sede di conversione, con quello che ne discende in termini di chiarezza della norma e di sua diversa applicazione nel tempo, creando i presupposti per trattamenti dispari cui deve poi trovare il modo per porre rimedio.

    La legge è uguale per tutti c’è scritto nelle aule di Tribunale ma non è vero nemmeno quello e meno che mai è uguale per tutti la Giustizia. Dipende tutto con che Governo arriva.

  • In attesa di Giustizia: chiaroscuro da un carcere

    Ci risiamo, ormai da mesi il sistema penitenziario è nuovamente in affanno per il sovraffollamento ma nessuno ha finora nemmeno accennato ad affrontare il problema, anzi. Questa settimana la rubrica offre ai lettori la visita guidata in un piccolo istituto penitenziario, il San Cataldo di Caltanissetta, per offrire uno spaccato delle condizioni di vita e di come sono generosamente affrontate dal personale le quotidiane difficoltà.

    L’edificio risale al 1920, destinato ad orfanotrofio e solo in seguito adibito a carcere e, ovviamente, carenze strutturali dovute alla età della costruzione ed a inadeguati interventi successivi.

    Gli agenti in servizio sono 57 (61 previsti dalla pianta organica) e l’assistenza sanitaria è fornita solo dalle 8.00 alle 20.00. Di notte le emergenze vengono gestite dalla guardia medica, il che esprime un dato allarmante relativamente ai tempi di attesa in caso di bisogno poiché la guardia medica deve assicurare il servizio a circa 20.000 altri utenti.

    All’esterno del carcere, sotto una palma secolare, si trova una scultura a rilievo che ritrae i Giudici Falcone e Borsellino realizzata da un detenuto, all’interno sono ospitate – ad oggi – circa 120 persone tra le quali alcune hanno problemi di dipendenze da droga, altri sono affetti da patologie che richiedono terapie farmacologiche controllate e un discreto numero manifesta disagi psichici ma il contratto dello psichiatra è scaduto e la figura non è stata ancora ripristinata.

    Sempre all’interno si trovano locali vivibili, realizzati con l’apporto lavorativo dei detenuti che hanno curato l’impianto elettrico e la muratura: vi è anche un moderno polo didattico, con aule spaziose dotate di apparecchiature moderne “touch screen” che entrerà in funzione tra poco, da settembre, e vi si accede tramite tornelli videosorvegliati dotati di riconoscimento biometrico degli iscritti ai corsi.

    L’istituto è costituito da due sezioni: una ospita il reparto isolamento e l’infermeria, l’altra la rimanente parte della popolazione detenuta. Soltanto nel settore ‘isolati’ non c’è la doccia in cella.

    I muri dei locali, peraltro, sono cadenti e l’infermeria necessita di una massiccia opera di recupero per il quale sembra sia già stato approvato un finanziamento.

    Le celle, non una esclusa, sono anch’esse malconce e opprimenti: le finestre, nella parte bassa, per esigenze di sicurezza, sono coperte da pesanti pannelli di ferro che con il caldo si arroventano rendendo i locali incandescenti.

    Nelle celle, tuttavia, gli sgabelli hanno gli schienali: sembra normale ma non lo è in questo mondo parallelo e sconosciuto e sono segnali di attenzione: in carcere non esiste il superfluo e, troppo spesso, neppure il necessario a garantire condizioni di vita accettabili. Ci sono televisori di dimensioni adeguate e anche piccoli frigoriferi che consentono ai detenuti di godere di acqua fresca e di conservare il cibo.

    In questo piccolo carcere che sopravvive con dignità è in funzione un servizio di lavanderia per chi è distante dalla propria famiglia e non può effettuare frequentemente il cambio della biancheria.

    Il personale è cortese e attento alle necessità dei ristretti. L’area educativa funziona e garantisce tempi rapidi nella elaborazione dei programmi di recupero ma ciò che manca sono gli assistenti sociali, oberati di altre priorità e che con il carcere si dividono come possono.

    Il lavoro è una nota dolente: non ce n’è per tutti e non con continuità e non può creare professionalità per un futuro nella vita libera ma soltanto riempire un tempo inerte.

    Le condizioni della struttura impongono, poi, convivenza forzata tra persone diverse per età, provenienza, abitudini. Alcune celle dell’istituto ospitano fino a diciotto detenuti e c’è un solo servizio igienico nel quale due water sono posti uno accanto all’altro e separati a mezza altezza da un muretto di cemento.

    Le pareti di quasi tutti i locali sono cadenti, lo spazio destinato alle attività ricreative all’esterno è inadeguato.

    L’area colloqui è gradevole ma poco areata, tuttavia è stato reso attivo il sistema di collegamento via Skype per sostituire l’incontro con i familiari quando impossibilitati a raggiungere l’istituto.

    L’aria della c.d. “socialità” è ampia ma molto calda e logora. I servizi igienici sono pressoché inaccessibili. L’affaccio è su un cortile invaso da rifiuti ed escrementi di piccioni.

    Il carcere è riuscito a ricavare dei locali per la pittura e corsi di bricolage e c’è – incredibile a dirsi – un bel teatro, luminoso e capiente che impegna i detenuti in rappresentazioni alle quali anche pubblico esterno ha partecipato e presso il quale si sono svolte splendide iniziative come “al cinema con papà” in cui ai genitori reclusi è stato consentito, prima del colloquio, di vedere un cartone animato con i propri bambini.

    Infine c’è anche una chiesa all’interno della quale si trova un presepe realizzato con estrema cura dai detenuti, ricco di minuziosi particolari.

    Chiaro scuro da un luogo di detenzione: anche questa che è stata descritta è attesa di giustizia se giustizia è punizione ma anche recupero del condannato.

    Grazie alla delegazione delle Camere Penali che con il suo resoconto della visita a San Cataldo ha reso possibile trasferire anche sulle colonne del Patto Sociale uno spaccato di vita sconosciuta.

  • In attesa di Giustizia: voci stonate nel coro

    La tragica vicenda legata all’omicidio del vice brigadiere dei Carabinieri, Mario Cerciello Rega, continua ad alimentare polemiche e prese di posizione cui non si vorrebbe assistere anche per non turbare e meno che mai condizionare il lavoro di chi sta svolgendo indagini rivelatesi più complesse del previsto nella ricostruzione non solo degli antefatti ma anche della stessa dinamica omicida.
    Non senza costernazione si sono registrate, sia attraverso gli organi di informazione che sui social media, le opinioni di alcuni “avvocati” – ma, forse, sarebbe meglio definirli co-iscritti al medesimo Albo professionale – che hanno invocato soluzioni giudiziarie tanto drastiche quanto contrarie ai basilari principi su cui si fonda l’esercizio di una professione nobile e che rimane tale anche quando si assiste il presunto colpevole di un crimine efferato.
    Il ministero del difensore, su queste colonne lo si è ricordato in più occasioni, non consiste nella omologazione alle scelte criminali eventualmente optate da coloro di cui assumono la difesa: essenzialmente si sostanzia nel presidio alle garanzie che il diritto assegna al cittadino a fronte della pretesa punitiva dello Stato, nella assicurazione che sia sottoposto ad un giusto processo e, se dichiarato colpevole, lo sia per il reato effettivamente commesso e condannato ad una pena giusta, giammai esemplare.
    Si sono udite voci inneggianti tanto al ripudio delle regole processuali quanto alla celebrazione di processi sommari, persino alla reintroduzione nel sistema della pena capitale, a tacere delle giustificazioni inaccettabili offerte in merito a quanto contestualizzato dalla foto che ritrae uno degli arrestati bendato e ammanettato durante l’interrogatorio o, quantomeno, la fase che immediatamente lo ha preceduto: il che, per una regola processuale espressa, potrebbe vanificare totalmente l’attendibilità della confessione resa.
    Eppure simili esternazioni provengono da soggetti che dovrebbero essere tecnicamente attrezzati ma, soprattutto, moralmente impegnati da un giuramento che hanno scelto liberamente di pronunciare quando hanno indossato la Toga: “Consapevole della dignità della professione forense e della sua funzione sociale mi impegno ad osservare con lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini di giustizia e tutela dell’assistito, nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento ma altresì e ancora di più, con alcuni fondamentali principi deontologici”.
    A prescindere dal tenore della formula di impegno, vi è anche il Codice Deontologico che stabilisce che “L’avvocato, anche al di fuori dell’attività professionale, deve osservare i doveri di probità, dignità e decoro, nella salvaguardia della propria reputazione e della immagine della professione forense”.
    E non è un bello spettacolo che avvocati, pubblicamente e al di fuori dell’attività professionale, auspichino processi sommari se non condanne senza processo, magari anche senza avvocato: è un inquietante segnale di decadimento morale della figura dell’Avvocato; e alzi la mano chi – laddove necessario – si farebbe difendere da uno che ha espresso siffatti convincimenti da quali discende la preoccupazione che il populismo giudiziario stia travolgendo anche l’avvocatura: se così mai fosse prima ancora che l’attesa di Giustizia sarebbe vanificato il complesso di garanzie al cui rispetto è deputata, sarebbe la fine dell’ultimo baluardo della libertà.

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