Giustizia

  • In attesa di Giustizia: la parola alla legittima difesa

    I casi in cui si tratta di legittima difesa arrivando sino al processo, come abbiamo avuto modo di registrare in precedenti articoli, sono pochissimi: un primo indicatore della sostanziale superfluità della riforma fortemente voluta dal Ministro dell’Interno perché la disciplina tradizionale è perfettamente adeguata e funziona.

    Se ne è avuta una ulteriore dimostrazione proprio pochi giorni fa quando la Procura di Arezzo ha chiesto l’archiviazione per Fredy Pacini, un piccolo imprenditore di Monte San Savino che, ferendone mortalmente uno, il 28 novembre scorso aveva sparato a due rapinatori che avevano preso di mira la sua azienda con un’intrusione notturna.

    A quanto è dato sapere sono stati decisivi gli esiti della consulenza balistica disposta dal P.M. insieme ad altri accertamenti investigativi di una certa complessità ma esauriti nel giro di pochi mesi: Pacini, vittima di precedenti ruberie si era determinato a dormire nel suo magazzini e, armato di pistola, aveva esploso numerosi colpi ma in direzione degli arti inferiori dei malviventi attingendo l’arteria femorale di uno di essi con esiti letali.

    Oltre che nel corso della scorreria, l’uomo si è potuto difendere adeguatamente sin dall’inizio dalla incolpazione di eccesso colposo in legittima difesa riuscendo in un lasso di tempo ragionevolmente breve a far valere la sua tesi: legittima difesa putativa, cioè a dire che è risultato ragionevole il convincimento circa un’aggressione che avrebbe messo a repentaglio la sua incolumità e proporzionata la reazione sebbene i banditi siano risultati, in seguito, disarmati.

    La recente riforma, si badi, non ha svolto alcuna funzione nell’esito di questa vicenda che ora dovrà ottenere una scontata “parola fine” dal Giudice per le Indagini Preliminari cui è affidato il compito di decidere sulla richiesta di archiviazione: nei confronti di Fredy Pacini si è applicata la normativa tradizionale dimostrandone la duttile struttura in uno con la possibilità di rapida fuoriuscita dal circuito giudiziario.

    In compenso, l’imprenditore esce umanamente provato dalla esperienza ma non per avere subito indagini a suo carico ma per la consapevolezza di aver ucciso un uomo disarmato che voleva rubare delle gomme e delle biciclette.

    Pacini non parla ma tramite il suo difensore lancia un messaggio pieno di umanità e sofferenza: “Sconsiglio a chiunque di tenere armi in casa: dopo quello che è accaduto a me non si vive più”.

    La riforma inutile ma pericolosa per lo slogan che l’accompagna è ormai entrata in vigore per quanto la sua promulgazione da parte del Capo dello Stato sia stata munita di un insolito messaggio ai Presidenti delle Camere e del Consiglio dei Ministri in cui si rilevano improprietà tecniche della complessiva disciplina cui porre tempestivamente rimedio e rischi di incostituzionalità laddove erroneamente interpretata e applicata.

    Nei termini chiariti dal Presidente della Repubblica è logico attendersi che l’attesa di Giustizia in casi come quello di Fredy Pacini e molti altri analoghi non resterà vana ma, forse, da Sergio Mattarella sarebbe stato auspicabile un atto di maggiore coraggio prima di apporre quella firma su una legge da lui stesso, senza mezzi termini, considerata sbagliata.

  • In attesa di Giustizia: separati in casa

    Giochereste una partita di pallone in cui l’arbitro vesta, invece della divisa, la maglia della squadra avversaria? Probabilmente no, comunque qualche dubbio sulla sua imparzialità sarebbe fondato.

    Ebbene, nel nostro ordinamento giudiziario le cose funzionano sostanzialmente così: il Giudice arbitro delle controversie – che per disposto costituzionale dovrebbe, dunque,  assicurare assoluta terzietà – appartiene al medesimo Ordine del Pubblico Ministero, proviene dal medesimo concorso, la funzione giudicante/inquirente è interscambiabile senza eccessive difficoltà, dulcis in fundo avanzamenti di carriera, incarichi direttivi, autorizzazioni per lucrosi incarichi fuori ruolo non meno che (rarissime) sanzioni disciplinari dipendono dal Consiglio Superiore della Magistratura composto tanto da giudicanti che da Pubblici Ministeri e governato dalla logica delle correnti e del compromesso non di rado anche a sostrato politico.

    Secondo l’impostazione tradizionale del processo penale accusatorio, nel nostro sistema introdotto ormai trent’anni fa, le carriere di Giudici e P.M. sono nettamente separate, addirittura gli uffici sono ubicati  in edifici diversi; nel nostro Paese, tuttavia,  ogni tentativo di intervenire normativamente in proposito incontra un fitto fuoco di sbarramento da parte della Magistratura paventando – innanzitutto – il rischio che, separando le carriere, il Pubblico Ministero diventerebbe dipendente dal potere esecutivo e, pertanto, subordinato alla politica: nulla di meno vero perché per conseguire questo scopo non basterebbe neppure una legge ordinaria ma bisognerebbe intervenire su tre o quattro articoli della Costituzione che i Padri Costituenti avevano opportunamente elaborato proprio per scongiurare questo rischio.

    Una politica pavida e perennemente tenuta sotto scacco dalla Autorità Giudiziaria ha traccheggiato, dunque, per circa sei lustri senza mai  varare questa opportuna riforma dell’Ordinamento Giudiziario. Si è, allora, provveduto alla raccolta di firme per un disegno di legge di iniziativa popolare promosso dalla Unione delle Camere Penali che, coronata da successo, è approdato alla Camera ed è ora sostenuta da un gruppo molto trasversale di una cinquantina di deputati ed assegnata alla Commissione Affari Costituzionali.

    Dunque, vi è per la prima volta la concreta possibilità che la separazione delle carriere divenga legge generando sgomento e allarme all’interno dell’Associazione Nazionale Magistrati e motivo di ennesima frizione tra i due Vice Premier uno dei quali – Salvini – è favorevole alla riforma, l’altro no.

    E’ recente un incontro tra la Giunta dell’A.N.M. e il Capo dello Stato (che è anche Presidente del C.S.M., giova ricordarlo) nel corso del quale si è voluto affrontare l’argomento della separazione delle carriere con Sergio Mattarella spendendo – tra l’altro – argomenti fuorvianti e autenticamente ingannevoli come quello del rischio di perdita di indipendenza del P.M. (per evitare equivoci, il disegno di legge prevede espressamente l’indipendenza da qualsiasi potere dell’Ufficio Requirente) e, soprattutto tentando indebitamente di coinvolgere il Presidente della Repubblica in un prossimo, libero, dibattito parlamentare.

    Gli ingredienti per rendere accidentato il percorso di una riforma, che si propone come ammodernatrice del sistema giudiziario e volta ad attuare i principi del giusto processo, ci sono tutti: il conflitto strisciante tra poteri dello Stato, il contrasto interno alle forze di Governo, non mancheranno dunque le polemiche al momento del voto alle Camere orientato dalla disciplina di partito.

    Nel frattempo, mentre i Magistrati si sgomentano all’idea di diventare separati in casa, diverse decine di migliaia di cittadini, che hanno sottoscritto il disegno di legge recandosi ai gazebo allestiti in tutta Italia dagli avvocati penalisti, restano a guardare, restando ancora una volta in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: passatempi costituzionali

    Chi ha la pazienza di seguire questa rubrica ben sa che la Costituzione ed il suo rispetto sono un riferimento costante e quando si parla di qualche intervento sulla Carta Fondamentale dello Stato vengono i brividi freddi: culmine della preoccupazione fu l’ampia riforma a trazione renziana, fortunatamente abortita in sede referendaria.

    Ora, spigolando qua e là tra i disegni di legge in gestazione, emerge dai lavori parlamentari una proposta di modifica dell’articolo 111, quello – per intendersi meglio – che regolamenta il cosiddetto “giusto processo”: ed è già un po’ inquietante che si sia sentito il bisogno di enunciare come principio cardine dell’ordinamento quell’equità che del giudizio dovrebbe essere una componente ovvia e naturale. Quando tale intervento fu fatto a fine millennio, peraltro, c’erano delle ragioni sulle quali non è necessario oggi dilungarsi, il legislatore fece un saggio copia e incolla dell’art. 6 della CEDU e nessuno ha avuto sino ad ora da lamentarsi.

    Il 4 aprile, di iniziativa dei Senatori Patuanelli e Romeo, è stato comunicato alla Presidenza della Camera Alta una proposta di integrazione dell’art. 111 composta da due soli commi, eccoli:

    Nel processo le parti sono assistite da uno o più avvocati. L’avvocato ha la funzione di garantire l’effettività della tutela dei diritti e il diritto inviolabile della difesa. In casi tassativamente previsti dalla legge è possibile prescindere dal patrocinio dell’avvocato, a condizione che non sia pregiudicata l’effettività della tutela giurisdizionale.

    L’avvocato esercita la propria attività professionale in posizione di libertà autonomia e indipendenza.

    Tutto scontato, penserà il cittadino privo di specifiche competenze tecniche, e avrebbe assolutamente ragione. Rimarrebbe forse un po’ sorpreso dalla riserva di legge sulla autodifesa ma anche ciò è già previsto in limitati casi come, per esempio, nei ricorsi al Giudice di Pace contro le contravvenzioni al codice della strada.

    Insomma, principi noti anche nelle discussioni da bar sport. Scrivono i Senatori proponenti che l’intenzione è quella di rendere espressi principi già impliciti nella Costituzione (l’allusione è all’art. 24, chiarissimo tra l’altro) ed enunciati chiaramente nell’Ordinamento della Professione Forense (art. 1 l. 31/12/2012 n. 247), ma anche in una Risoluzione del Parlamento Europeo (Atto P6_TA(2006)0108).

    E, allora, dov’è la novità, dove l’utilità? Mistero. Sembrerebbe di essere al cospetto di un innocua interpolazione e altro non sovviene per giustificare questa iniziativa di legge costituzionale che – tuttavia – comporterà laboriosi passaggi in Commissione e Aula: tempo che, forse, sarebbe meglio impiegare altrimenti, magari per dar seguito alle indicazioni del Capo dello Stato sulla necessità di colmare rapidamente lacune evidenti nella recente modifica della legittima difesa.

    In attesa di Giustizia, di leggi più comprensibili e utili, accontentiamoci di passatempi costituzionali.

  • In attesa di Giustizia: un anno bellissimo, ma anche no

    Tra le promesse post elettorali il Governo aveva formulato quella di un anno bellissimo a venire dopo l’insediamento a Palazzo Chigi: il pronostico era riferito all’economia e non è questa la sede per commentarlo, in questa rubrica parliamo di giustizia e siccome anche questo ambito rientra nelle priorità di intervento dell’esecutivo, qualche considerazione – invece – si può fare.

    A Bari, tanto per cominciare, alle soglie dell’estate si era verificata l’inagibilità del Tribunale: criticità affrontata inizialmente con la celebrazione delle udienze (non tutte, sia chiaro) in una sorta di accampamento tendato esposto a temperature elevate non meno che alle piogge, e sarebbero i problemi minori. Da allora la situazione non è molto migliorata: gli uffici giudiziari sono stati sottratti alle tensostrutture per essere trasferiti in vari plessi che vanno da un ex palazzo della Telecom a sedi giudiziarie circumvicine chiuse perché soppresse; il tutto con una quotidiana, necessitata, transumanza di fascicoli, magistrati, cancellieri, avvocati e imputati con quanto ne consegue in termini di dignità delle persone, dei ruoli ma anche di efficienza e salvaguardia degli atti processuali che rischiano continuamente di andare smarriti, degradati per l’incuria o confusi tra loro. Si teme che anche quest’anno verrà decretata la sospensione dei processi penali per i tre mesi estivi con blocco della prescrizione, che in questo caso è incostituzionale. Come dire, la soluzione è nel non fare qualcosa intanto che ci si arrangia.

    Proseguiamo: la Corte Costituzionale, oltre un anno fa, aveva invitato il legislatore a por mano alla legge sugli stupefacenti perché prevedeva pene minime ritenute irragionevoli, quindi in contrasto con l’articolo 3, per i reati “di confine” tra le ipotesi di minore gravità e quelle ordinarie non aggravate. Ovviamente, un legislatore sensibile solo al tema della certezza della pena, confuso con quello della sua durata, si è ben guardato dal seguire le indicazioni del Giudice delle Leggi che, così, nel mese di marzo è dovuto intervenire nuovamente dichiarando l’incostituzionalità di quelle sanzioni non senza rimarcare, tra le righe della sentenza, una colpevole inerzia da parte di chi avrebbe dovuto provvedervi da tempo.

    Un’altra “legge manifesto” è stata quella a contrasto dei reati contro la Pubblica Amministrazione, il cosiddetto Decreto Spazzacorrotti che prevedeva – tra l’altro – l’esclusione immediata dei condannati, anche per fatti anteriori alla sua entrata in vigore,  dalla possibilità di ottenere taluni benefici previsti dall’Ordinamento Penitenziario. Proprio di questa norma il Guardasigilli andava molto fiero, senonché sono già almeno quattro le ordinanze di altrettanti Tribunali di Sorveglianza di trasmissione alla Corte Costituzionale per non manifesta infondatezza di eccezioni di costituzionalità sollevate.

    Pochi giorni fa, dopo lunghissima riflessione, il Capo dello Stato ha promulgato la riforma della legittima difesa accompagnandola con un fattore eccezionale: una missiva ai Presidenti delle Camere e del Consiglio dei Ministri con la quale da un lato si invita il legislatore a colmare immediatamente evidenti lacune tecniche del testo e dall’altro interpretando la complessiva disciplina in termini che la propongono come del tutto superflua, non diversamente dal commento che su queste colonne era stato offerto qualche settimana addietro.

    In ultimo, la Commissione Europea ha censurato pesantemente il “sistema giustizia” italiano, maglia nera tra i Pesi UE, per lentezza e inefficienza. Allora, forse, non sono quegli Azzeccagarbugli degli avvocati (così definiti da Bonafede) la causa di tutti i mali della Giustizia che impone il previsto blocco della prescrizione dal 2020.

    Il Ministro a tale autorevole critica ha già risposto che in uno dei prossimi Consigli verrà proposto il piano di intervento per dimezzare i tempi dei processi: se la tecnica normativa sarà analoga agli esempi proposti non c’è da stare tranquilli e l’unico anno bellissimo di cui favoleggiare è possibile che resti quello cantato da Lucio Dalla.

  • In attesa di Giustizia: in nome del popolo italiano

    La giustizia è amministrata in nome del popolo, così recita l’articolo 101 della Costituzione, nella intestazione delle sentenze non può mancare – a pena di nullità – l’intestazione “In nome del popolo italiano”. Il parametro costituzionale esprime, tra l’altro, il potere di verifica da parte dell’opinione pubblica sulla amministrazione della giustizia.

    Un tempo, almeno con riguardo ai processi (soprattutto quelli penali) più coinvolgenti, la abituale e talvolta massiccia presenza di pubblico alle udienze costituiva l’estremo fisico del controllo sull’andamento della giurisdizione; oggi le cose sono cambiate, e salvo rari casi, le presenze sono ridotte a qualche familiare o a gruppi di ragazzi in visita scolastica.

    Tuttavia, un controllo in quel settore è ancora possibile e lo è ancor più agevolato  grazie ai media; sempre che, ovviamente, l’informazione non sia distorta, di parte o volta ad assicurare più che altro maggiori vendite o share.

    Il 17 aprile è mancato Massimo Bordin, voce storica di Radio Radicale: uno di quelli che l’informazione giudiziaria la sapeva fare con quella trasversalità ed indipendenza che sono patrimonio dei radicali ma anche con rigore e competenza. L’Unione delle Camere Penali, due giorni dopo la scomparsa, ha istituito un premio a lui intitolato da assegnare ogni anno al giornalista o alla testata che si sarà maggiormente distinta per correttezza e completezza della informazione su vicende giudiziarie con particolare riguardo al concreto rispetto della dignità delle persone coinvolte e del principio di non colpevolezza.

    Sino a fine marzo, invece, Piero Sansonetti è stato Direttore de “Il Dubbio”, testata giornalistica che ha come editore la Fondazione dell’Avvocatura Italiana del Consiglio Nazionale Forense e che si è proposta come pubblicazione garantista, rivolta contro le forme di giustizialismo e destinata a chi intenda approfondire le ragioni della difesa e non solo quelle dell’accusa cui – di solito – si offre maggiore spazio in cronaca.

    Non è ben chiaro cosa abbia indotto il licenziamento di Sansonetti: a sentir lui una delle ragioni  risiederebbe nell’esigenza per “Il Dubbio” di essere più filogovernativo perché giornale di una Istituzione Pubblica, l’altra nell’averlo orientato troppo a sinistra.

    Se fosse vera la prima, grande sarebbe la preoccupazione perché sottende il concetto di stampa di regime, riferita per di più ad un’area – quella della Avvocatura – che dovrebbe farsi garante di indipendenza assoluta; se fosse vera la seconda ostenderebbe il tradimento della filosofia di impostazione della testata, posto che la politica giudiziaria della sinistra ha una deriva forcaiola inequivocabile.

    Resta, a margine di queste vicende di vita così diverse ma con un minimo comun denominatore professionale, la riflessione sull’importanza di una informazione giudiziaria corretta, destinata a dare vita a quel canone costituzionale ricordato all’inizio da cui discende la rilevanza e la dignità dell’opera del cronista giudiziario.

    Su queste colonne ci proviamo: fornendo notizie e spunti senza altra pretesa che stimolare curiosità e approfondimento autonomo del lettore, qualche certezza solo se supportata da evidenze incontrovertibili.

    Su queste colonne scrivo io che non sono – come furono per la cronaca giudiziaria negli anni ’50 – Dino Buzzati per il Corriere della Sera o Alfonso Gatto per Il Mattino ma respiro quell’aria di libertà che l’editore mi lascia senza se e senza ma.

    E la libertà, quando della Giustizia si deve restare in perenne attesa, è un bene di valore assoluto.

  • In attesa di Giustizia: la bandiera della libertà

    Gli avvocati, come noto, non godono di grande popolarità: visti come cavillosi mestatori intenti a fare mercimonio della professione per assicurare impunità ai colpevoli nei processi penali e ragioni non dovute alla parte assistita negli altri settori della giurisdizione.

    La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del giudizio, recita la nostra Costituzione e – con le inevitabili eccezioni – il ministero degli avvocati è svolto con lealtà e rispetto della legge con l’obiettivo principale di far rispettare le garanzie che ad ognuno spettano in ogni sede giudiziaria.

    Paradigma della sacralità della funzione difensiva è l’avvocata iraniana Nasrin Sotoudeh: impegnata nella difesa di attivisti, oppositori di regime e donne iraniane arrestate per il solo fatto di essersi tolte il velo in pubblico, ha vinto il Premio per la Scrittura per la Libertà nel 2011 e il Premio Sakharov per la libertà di pensiero l’anno dopo.

    Già arrestata e condannata nel suo Paese per aver cooperato con il Centro di difesa per i Diritti Umani, è stata nuovamente catturata e processata per reati contro la sicurezza nazionale, per tali intendendosi il suo quotidiano contrasto a qualsiasi forma di autoritaria compressione della libertà: lo scorso mese è stata condannata a trentotto anni di carcere e centoquarantotto frustate da infliggersi in pubblico affinché sia di esempio.

    Poco si sa del processo a carico di Nasrin Sotoudeh se non che non è stato sostanzialmente consentito un contraddittorio e, quindi, la difesa stessa è stata mutilata irrimediabilmente.

    Una donna a difesa della libertà,  delle donne e non solo, dei diritti fondamentali di tutti che paga con la sua libertà ed il suo sacrificio, un’autentica martire immolatasi sapendo a cosa andava incontro in una battaglia disperata per la giustizia nel suo Paese dove, diversamente da noi, non c’è neppure attesa. Non c’è e basta.

    Un esempio per chiunque, una vicenda di cui si parla poco o nulla un grido nel silenzio sulle atrocità che questa donna coraggiosa ha combattuto da sempre.

    In un mondo globalizzato dove qualsiasi accadimento, anche il più banale e dal più remoto dei luoghi sembra riverberarsi come un’onda d’urto  sull’intero pianeta di vicende come queste l’opinione pubblica di interessa poco e punto e le coscienze che si smuovono non sono molte.

    Tra queste quelle dei suoi Colleghi, degli Avvocati con la A maiuscola, di coloro che preferiscono essere chiamati difensori perché rende meglio l’idea; la mobilitazione è massiccia, simbolicamente tre Camere Penali (Roma, Milano e Brescia) hanno già iscritto come socia onoraria Nasrin Sotoudeh, le altre 127 si stanno muovendo in tal senso e – tra le altre iniziative – il 18 aprile ci sarà un flash mob degli avvocati milanesi: in toga davanti al Consolato della Repubblica Islamica dell’Iran a reclamare la liberazione dell’avvocata.

    Servirà, non servirà? Un significato profondo, tuttavia, questa manifestazione lo esprime: quelle toghe provocatoriamente indossate saranno un simbolo di libertà e di amore, estremo visibile di chi porta nel cuore il destino dei più deboli e degli oppressi, un vessillo che nessuna violenza può ammainare, se mai rendere ancora più orgoglioso chi lo veste con dignità, coraggio, e quotidianamente si impegna nell’interesse di quella Giustizia che deve essere vista  non come strumento repressivo bensì come una categoria dello spirito, comportante vincoli etici ed indicazioni culturali inderogabili.

  • In attesa di Giustizia: castrazione costituzionale

    Sarà che si avvicina la tornata elettorale europea, sarà forse che questo Paese vive in perenne campagna elettorale per consultazioni politiche ed amministrative calendarizzate senza soluzione di continuità ma la ricerca del consenso, attraverso il tradizionale stimolo dell’elettore a sostenere chi sembri garantirgli più sicurezza, sembra avere importanti accelerazioni.

    Si è dato il via con l’introduzione di limitazioni di accesso al giudizio abbreviato (che, a fronte della rinuncia ad importanti garanzie processuali, garantisce riduzioni di pena a chi sia condannato) sul falso presupposto che determinava sentenze troppo miti per reati gravi ed in particolare impediva l’irrogazione dell’ergastolo per gli omicidi.

    In verità, il giudizio abbreviato, così com’era strutturato, consentiva di infliggere il carcere a vita (salvo elidere la pena accessoria dell’isolamento diurno che può andare da un minimo di sei mesi fino a tre anni) così come pene inferiori in base alla valutazione che il Giudice poteva fare delle circostanze aggravanti e attenuanti, nel caso vi fossero. Non diversamente da quanto poteva e può ancora accadere in un giudizio ordinario e si consideri che nella ipotesi “base” il nostro codice prevede per l’omicidio la pena non inferiore a ventuno anni e non l’ergastolo. E nel rispetto del parametro costituzionale della finalità rieducativa della pena, l’ordinamento prevede, tranne in limitati casi, che un “fine pena mai” diventi un fine pena molto lungo ma con un termine.

    Il cittadino, adeguatamente disinformato dalla propaganda, ovviamente plaude e si sente in un mondo migliore.

    E mentre la Corte delle Leggi viene investita – a tre mesi dalla promulgazione – da più di un’eccezione sulla costituzionalità di un punto centrale proprio sulla esecuzione della pena del c.d. “decreto spazzacorrotti”, un’altra iniziativa quantomeno discutibile impegna la discussione parlamentare: la castrazione chimica.

    Qualcosa di simile, o forse peggio, nel nostro sistema penale c’è già ed è contenuto nella normativa della monta equina che prevede l’obbligo di ottenere l’approvazione degli istituti  di incremento ippico ed un certificato del veterinario provinciale in difetto della quale il proprietario dell’ “equide” – così lo definisce la legge – rischia un’ammenda ma il Giudice deve anche disporre la castrazione dell’ignaro puledro. La regola vale anche per i tori…

    Se la disciplina fosse più nota il WWF e la protezione animali scatenerebbero l’inferno; invece se si parla, anche in termini di sottoposizione volontaria, di castrazione chimica di un uomo la condivisione è ampia…anche se la i sospetti di incostituzionalità sarebbero più di uno.

    A prescindere dalla ventilata volontarietà della sottoposizione ad un trattamento farmacologico, un rattoppo da verificare se non faccia discendere comunque un’ incongruenza con l’art. 32 della Costituzione, il profilo più certo è la disparità di trattamento (art. 3): sempre a prescindere, questa volta dalla efficacia e mancanza di controindicazioni dei farmaci impiegabili, volti a mitigare gli impulsi del testosterone, gli effetti collaterali (anche irreversibili) e l’inefficacia terapeutica dal punto di vista psicologico, il tutto sarebbe riferibile solo agli uomini. E per le donne? Il caso recente, verificatosi a Prato, di un’insegnante ebefrenica (per usare un elegante grecismo) che è stata indagata per violenza sessuale su un minore è indicativo che questo tipo di reati e la pedofilia non sono riferibili solo ai maschi.

    L’emendamento sulla castrazione chimica sembra sia stato ritirato, tra le polemiche, dal disegno di legge sul c.d. revenge porn ma con la promessa di essere riproposto in seguito in forma più organica.

    Per ora si può stare tranquilli rispetto ad un ulteriore assalto alla Costituzione che rischia lei di essere castrata. I cavalli e i tori, invece,  per salvare i “gioielli di famiglia”, potranno continuare a fare affidamento, se non altro, su un sistema in cui l’attesa di Giustizia è molto lungo.

  • In attesa di Giustizia: giustizia e gestanti

    Che si sappia, era già successo un anno fa circa a Livorno: un’avvocata (come si usa dire adesso) di Pisa in stato di gravidanza considerata a rischio aborto aveva presentato con buon anticipo un’istanza di rinvio di udienza per legittimo impedimento rappresentando l’impossibilità di indicare un sostituto poiché si trattava di un incombente importante cui avrebbe dovuto presenziare lei in quanto titolare dell’incarico difensivo.

    Nonostante fosse corredata di certificato medico la richiesta è stata ritenuta inammissibile perché sarebbe stato indicato solo genericamente il rischio cui si esponeva la professionista. Tale provvedimento aveva determinato una risoluta presa di posizione da parte delle Camere Penali locali e della Associazione dei Giovani Avvocati.

    Non è dato sapere che sviluppi abbia avuto questa vicenda né se ve ne siano state altre (una sarebbe già di avanzo…) almeno fino a pochi giorni fa quando la storia si è ripetuta a Roma davanti al Tribunale Civile che, dopo aver differito un’udienza senza fornire spiegazioni del motivo ha rigettato la richiesta di rinvio presentata da un’avvocata perché la nuova data coincideva sostanzialmente con quella per lei prevista per il parto. O meglio, il Giudice nel suo provvedimento ha riservato ogni valutazione “all’esito delle determinazioni della controparte attesa la natura del procedimento e gli interessi sottesi”. Come dire: se ne parlerà direttamente quel giorno senza che la richiedente il rinvio possa partecipare al contraddittorio.

    Quello che non si è detto è che si trattava di una ordinaria causa di separazione tra coniugi.

    L’accaduto ha generato indignazione ed una durissima risposta del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma che in una nota ha ricordato al Tribunale (che le norme le dovrebbe conoscere) che proprio la legge di bilancio del 2018, coordinandosi con i codici di procedura civile e penale, ha disciplinato la possibilità per gli avvocati in stato di gravidanza di chiedere rinvii nei due mesi anteriori alla data del parto e nei tre successivi.

    Fatto sta che, se non altro, in questo caso vi è stata una retromarcia e il rinvio è stato concesso senza nulla togliere all’obbrobrio della prima determinazione.

    Questi episodi ne richiamano alla mente un altro, di qualche anno fa, sempre “romano”: ancora una volta un’avvocata apprende, di domenica, della scomparsa improvvisa della madre che viveva a Chieti: prima di partire per l’Abruzzo avverte i suoi collaboratori dell’accaduto e passa dallo studio per lasciare tre istanze di rinvio per altrettante udienze del lunedì subito successivo. Risultato: un’udienza rinviata, un’altra no perché non era stato documentato il decesso del genitore, la terza nemmeno perché tardivamente richiesta.

    Come dire: in questo Paese, in perenne attesa di una Giustizia che viaggia a passo di lumaca, si può essere persino privati del diritto di coltivare salute e  sentimenti. Siano essi quello di una vita in arrivo da tutelare o un dolore lancinante e improvviso.

  • In attesa di Giustizia: l’isola felice… che non c’e’

    In attesa di Giustizia: il titolo della rubrica è stato scelto apposta ad evocare una endemica lentezza del nostro sistema giudiziario a fare il paio con decisioni discutibili, norme di problematica razionalità e non sempre intellegibili.

    La risoluzione delle controversie, particolarmente sulla interpretazione delle leggi, la loro corretta applicazione ai casi concreti e la adeguatezza delle motivazioni poste a base delle sentenze (sia di condanna che di assoluzione) è affidata alla Corte di Cassazione, Giudice di terza istanza che non entra nel merito delle questioni ma analizza solo che nei processi  vi sia stato rispetto del diritto sostanziale e processuale nel pervenire alla decisione.

    La Corte Suprema – come non del tutto propriamente qualcuno la chiama – ha sede unica a Roma e su di essa convergono i ricorsi provenienti da tutte le sedi giudiziarie del Paese; un lavoro immane, basti dire che, nel settore penale che impiega sei sezioni più una “stralcio”, sono affluiti negli ultimi dieci anni centinaia di migliaia di ricorsi: dai 44.029 del 2008 ai 51.956 del 2018 con un picco di 56.632 nel 2017. Come dire che, facendo una media imperfetta, se le sette sezioni lavorassero senza sosta, sabato, domenica e feste comandate incluse, per pareggiare i conti dovrebbero decidere una ventina di ricorsi al giorno previa, per ciascuno (che magari riguarda più posizioni) relazione introduttiva, requisitoria del Procuratore Generale e discussione degli avvocati. Tutto ciò senza considerare che i Giudici – sono cinque per ogni Collegio Giudicante – devono, nel frattempo, studiarsi i processi per l’udienza successiva e ad ognuno dei componenti ne viene anche affidato un certo numero per approfondire le questioni e poi scrivere le motivazioni della sentenza. Missione impossibile, direte voi: e invece, no ma vedremo a che prezzo.

    Potrà ancor di più sorprendere che in varie occasioni, e tra queste nel 2018 secondo l’Ufficio di statistica della Cassazione, non solo si è smaltito per intero il carico dell’anno ma si è anche aggredito l’arretrato: in soldoni, restando agli ultimi dati, ogni 100 nuovi ricorsi ne sono stati decisi quasi 111, smaltendo le pendenze di anni pregressi.

    Non siamo al cospetto di superuomini, però: il trucco c’è ma i non addetti ai lavori non lo possono scoprire e consiste nelle declaratorie di inammissibilità (oltre il 70% dei ricorsi esaminati) la stragrande maggioranza delle quali sono affidate alla sezione “stralcio” di cui si diceva prima che è la Settima Penale dopo un filtro – si fa per dire – iniziale che consiste in un’occhiata al ricorso, quando perviene, da parte di un Sostituto Procuratore Generale la cui richiesta di inammissibilità (se vi è, e vi è molto spesso), pomposamente definita requisitoria scritta, consiste in una crocetta apposta su un modulo prestampato: tipo un quiz a risposta multipla. La Settima Sezione, dove il ricorso viene trattato senza la presenza del difensore che può solo mandare uno scritto, dal canto suo quasi mai si pronuncia diversamente dalla dichiarazione di inammissibilità ed in ruolo può avere diverse decine di cause al giorno. Avete letto bene, immaginate l’attenzione prestata.

    I ricorsi che restano assegnati alle altre sezioni per essere esaminati in contraddittorio restano comunque moltissimi e una gran parte viene anche in questa sede dichiarato inammissibile: possibile? Inammissibilità significa avere – per esempio – dedotto una nullità non prevista dal codice, aver firmato un atto senza essere legittimato, avere sbagliato i termini per un’impugnazione: cose da ignoranza crassa, insomma. Peraltro, se si vanno a guardare le motivazioni di altre sentenze della Cassazione, diverse da quelle che individuano l’inammissibilità, si scopre che la levatura argomentativa è obiettivamente modesta nella gran parte dei casi.

    E, allora tutto si spiega: la Corte non è un’isola felice ma una sede dove la qualità va a scapito della quantità: con buona pace della funzione di indirizzo e di interpretazione della legge che dovrebbe avere.

    E’ ben vero che anche dal lato degli avvocati – bisogna convenirne – il livello qualitativo delle impugnazioni in Cassazione è tutt’altro che eccelso e che, come si dice da qualche parte, chi ha tetti di vetro non dovrebbe tirare sassi ai vicini. Ma il 70% abbondante di inammissibilità (con quel metodo di analisi e decisione descritto) cui si aggiunge un altro 10% abbondante di rigetti deve far riflettere. Forse abbiamo scoperto che l’isola felice non c’è ed al suo posto hanno messo un sentenzificio.

  • In attesa di Giustizia: siamo nelle mani di Dio

    In solo una settimana è successo di tutto e di più e questa rubrica per trattarne adeguatamente dovrebbe occupare per intero un numero de Il Patto Sociale.

    Una necessaria selezione ha condotto a focalizzare tre episodi, uno dei quali tenuto per ultimo in un soggettivo crescendo di rilevanza, sicuramente è il più inquietante.

    Non c’è chi non abbia avuto notizia della diffusione delle immagini a luci rosse della deputata grillina Giulia Sarti: francamente, a parte il diritto che deve riconoscersi a chiunque di comportarsi come ritiene nella sua intimità laddove non sia nocivo ad altri, è sgomentevole come la rete possa diventare territorio di caccia ed utile strumento per volgari regolamenti di conti, ricatti e trasferendo sul piano personale, con il pretesto di ergersi a censori della morale,  motivi diversi di contrasto.

    L’accadimento ha però suscitato l’interesse ad approfondire chi sia Giulia Sarti, e qui arriva una sorpresa che genera qualche riflessione: laureata in giurisprudenza nel 2012, deputato M5S dal 2013, è ora Presidente della Seconda Commissione Giustizia della Camera. La domanda sorge spontanea: sarà bravissima ed ottima persona ma quale esperienza, competenza, specializzazione ed autorevolezza – al di là, magari, di ottime votazioni negli esami e di laurea – si può avere poco dopo il diploma per assurgere ad un ruolo così delicato in sede legislativa senza  nemmeno  avere mai esercitato una professione forense? Un segno evidente di quanto i compromessi politici nella spartizione delle poltrone possano incidere sulla sensibilissima attività di normazione in materia di giustizia.

    Passiamo ad altro e anche di ciò si è ampiamente trattato sui media ma, se fosse sfuggito, ecco l’accaduto: la Cassazione ha, giustamente, annullato una sentenza della Corte di Appello di Ancona che aveva mandato assolti i presunti autori di una violenza sessuale (precedentemente condannati in primo grado di giudizio) adducendo la ragione che la vittima sarebbe – per usare un eufemismo – non così avvenente da stimolare appetiti sessuali. Può essere che gli imputati non siano davvero responsabili di quel crimine ma la motivazione è inaccettabile e, facendo un passo oltre l’impatto sensazionalistico della notizia, ci fa comprendere come la legge (sperando che sia fatta bene) possa essere uguale per tutti ma la giustizia assolutamente no.

    In ultimo, qualcosa che solo alcuni addetti ai lavori hanno appreso: dopo che il Ministro della Giustizia ha annunciato l’intenzione di riformare il processo penale, anticipando alcune linee di intervento, la Associazione Nazionale Magistrati si è accodata formulando le sue proposte e l’Unione delle Camere Penali ha ritenuto giustamente di aprire un tavolo di concertazione per condividere le iniziative che, non sempre, erano convincenti dal punto di vista del rispetto delle garanzie.

    Ebbene, nel corso di una riunione con i suoi iscritti, il Presidente dell’A.N.M. – dimentico di essere registrato e ripreso da Radio Radicale – ha spiegato senza mezzi termini in che modo avrebbe fatto il gioco delle tre tavolette con gli avvocati penalisti: e cioè facendo credere loro di essere d’accordo su una specifica riforma (qui non interessa sapere esattamente quale ma è una di significativo rilievo) mostrando il testo di un possibile disegno di legge salvo poi farne avere un altro, diverso e meno garantista, al Ministro quando si fossero trovati a quattr’occhi. Ogni commento è riservato ai lettori.

    Insomma, l’attesa di Giustizia, con questi presupposti, sembra essere un momento ancora di là da venire e non può essere che motivo di preoccupazione considerare che, in questo delicatissimo settore, siamo tutti soltanto nelle mani di Dio.

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