Giustizia

  • In attesa di Giustizia: schizofrenia al potere

    Il nostro è un paese a dichiarata vocazione manettara, non è la prima volta che questa osservazione viene svolta sulle colonne de Il Patto Sociale ed in questa rubrica dove si trattano temi legati alla giustizia, essenzialmente quella penale, estendendo lo sguardo anche alla legislazione sottostante che, quasi sempre, lascia esterrefatti per approssimazione, sciatteria, inclinazione a farsi condizionare dagli umori della piazza o ad inseguire il consenso con iniziative che vengono offerte come finalizzate a garantire maggiore sicurezza ai cittadini. Cittadini ai quali, in fondo, della giustizia – finché non finiscono nel tritacarne dei Tribunali – sembra interessare assai poco ma appaiono confortati e quasi rallegrati dal tintinnio degli schiavettoni.

    Sono lontani i tempi di grandi giuristi prestati alla politica come Alfredo Rocco, dei Padri Costituenti come Piero Calamandrei, capaci di elaborare con visione lucida e una tecnica normativa raffinata testi comprensibili,  è lontano il ricordo dell’epoca in cui un’Italia che, vicina a perdere la guerra, riusciva a promulgare un codice civile ispirato al diritto romano che, con qualche aggiornamento, è ancora attuale.

    La parola d’ordine, al giorno d’oggi è: certezza della pena, concetto ineccepibile e largamente condivisibile ma che è ben diverso e non va confuso con innalzamento irragionevole delle sanzioni che – tutt’al più – dovrebbe essere messo a fondamento della finalità di deterrenza del precetto penale, se necessario.

    Così non è ma si continua a praticare la strada dell’estremo rigore – e, come si vedrà tra poco, irragionevole – a dispetto di inconfutabili statistiche (non solo nazionali) che registrano un livello sostanzialmente inalterato del tasso di criminalità.

    Così avviene che il legislatore rimanga sordo ad un richiamo della Corte Costituzionale di due anni fa, che esaminando la questione aveva rivolto l’invito a rivedere il minimo della pena previsto per i reati, non lievi ma neppure aggravati, in materia di stupefacenti perché troppo distanti da quanto previsto per i casi di marginale rilevanza. Meno carcere? Giammai, anche se il massimo previsto sarebbe rimasto a ben trent’anni di reclusione.

    Dunque, il Giudice delle Leggi è ritornato in argomento rimediando alla inerzia del legislatore e, pochi giorni addietro, ha dichiarato la incostituzionalità dell’articolo 73 del Testo Unico sugli stupefacenti perché in contrasto con i principi di uguaglianza, ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.) e di funzione rieducativa della pena (art. 27 Cost.) con riguardo alle ipotesi “di confine” tra le due categorie distinte da una differenza di molti anni di detenzione: fatti lievi e non lievi. Come darle torto?

    Nel frattempo, in Parlamento veleggiano due disegni di legge presentati dagli azionisti di maggioranza del Governo: il primo della Lega si propone di eliminare qualsiasi tolleranza anche verso i reati relativi a modiche quantità di droga, innalzando le pene, il secondo – a firma di un Senatore del M5S è volto a legalizzare coltivazione, lavorazione e vendita della cannabis: quella “vera”, non la cannabis light, quella che ormai si trova anche dal tabaccaio. Insomma, non c’è solo la TAV a dividere i nostri statisti.

    Da un quadro siffatto si possono trarre agevolmente delle conclusioni e augurarsi che le cose cambino. Spes ultima Dea.

  • In attesa di Giustizia: giustizia fai da te

    Questa settimana inizierà, alla Camera dei Deputati, l’esame del disegno di legge sulla modifica della legittima difesa, provvedimento sostenuto non solo dalla maggioranza di governo ma anche da una parte della opposizione.

    Il timore è che la disciplina, fraintesa anche grazie allo slogan “la difesa è sempre legittima” che la accompagna, si riveli un pericoloso viatico verso una spirale di violenza. E se gli slogan, non diversamente dalle leggi, rischiano di avere una interpretazione autentica la visita in carcere a Piacenza e la solidarietà  del Ministro degli Interni ad Angelo Peveri va proprio in questa direzione.

    Per una migliore comprensione è necessario sintetizzare la vicenda processuale di questo imprenditore rimasto vittima di decine di furti nella sua azienda e che – esasperato – all’ennesima intrusione ha reagito sparando e mettendo in fuga tre ladri, ferendone uno ad un braccio; fin qui nulla di anomalo, senonché, poco più tardi, uno di costoro ritorna per recuperare l’autovettura utilizzata per raggiungere il luogo del tentato furto ma viene individuato, bloccato da un dipendente di Peveri che lo immobilizza. A questo punto, forse anche prima, sarebbe stato il caso di chiamare la Polizia per i rilievi del caso: invece si opta per l’occhio per occhio, dente per dente e il ladro viene prima malmenato e poi attinto da un colpo di fucile al petto che si sosterrà essere partito accidentalmente. In seguito, senza che la difesa dell’imprenditore abbia mai nemmeno tentato di sostenere la legittima difesa, Angelo Peveri è stato condannato per tentato omicidio a quattro anni e mezzo di carcere che ora ha iniziato a scontare.

    Probabilmente nessuno, di fronte ad una simile ricostruzione dei fatti – non contestata dall’imputato se non con riferimento alla  fortuità della fucilata – azzarderebbe l’ipotesi di una reazione giustificabile, anche tenendo conto dell’esasperazione dopo una lunga teoria di ruberie subite, ed anche la pena inflitta risulta equilibrata.

    Il segnale che arriva dalla visita di Salvini al condannato, invece, rischia di alimentare nell’opinione pubblica la convinzione che la legittima difesa domiciliare in fase di approvazione consista in una sorta di “giustizia fai da te” sempre consentita e con qualsiasi estensione nei confronti di chi si introduca in luoghi di dimora o esercizio di attività produttive.

    Vero è che nel privato domicilio l’ultimo baluardo è offerto proprio dalla vittima dell’intrusione ma da qui a dire che qualsiasi risposta possa giustificarsi come proporzionata all’offesa, al pericolo e conforme ad un senso comune di giustizia il passo è lungo.

    Ne abbiamo già parlato ma sembra opportuno ribadire che il rischio sia, da un lato, l’innalzamento del gradiente di aggressività dei delinquenti – che tali sono e tali restano, con freni inibitori già allentati – a fronte del concreto pericolo di incorrere in risposte armate in una probabile spirale di violenza da scongiurare, dall’altro, una corrispondente reattività che metta innanzitutto a repentaglio la incolumità di chi possa essere confuso con un aggressore (immaginiamo, per esempio, un senza tetto che cerchi riparo).

    A tacere di tutto ciò, i numeri, la statistica, parlano di un intervento che, se da un lato può essere dannoso, dall’altro si propone come inutile anche al fine di evitare il patimento del processo a chi abbia difeso se stesso, i propri cari o beni, per verificarne la legittimità: a livello nazionale nel 2013 ci sono stati cinque procedimenti a giudizio, nel 2014 nessuno, nel 2015 tre, nel 2016 due mentre con percentuale vicina al 100% del totale dei casi si perviene alla archiviazione. In altre ipotesi, molte delle quali riguardano aggressioni di fatto bagatellari o nelle quali non vi è stato né pregiudizio né reale pericolo per la incolumità vi è solo da rallegrarsi che nessuno – vittima o aggressore – si sia fatto male, senza la pretesa che il cittadino faccia supplenza delle Forze dell’Ordine là dove è irragionevole pensare che, con il massimo sforzo possibile, possano estendere l’opera di prevenzione perché questa non è né incremento di sicurezza né, tantomeno, di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: dagli all’untore!

    I pazienti lettori di questa rubrica me ne daranno atto: “In attesa di Giustizia” è uno spazio di approfondimento nel quale nomi di indagati, tranne che si tratti di vicende già ampiamente note, non se ne fanno, si evita di dare giudizi anticipati, tutt’al più si commentano fatti già accertati definitivamente sollecitando una riflessione ma senza nemmeno provare ad imporre una linea di pensiero.

    Nella quotidianità della cronaca giudiziaria le cose vanno diversamente: la esigenza primaria sembra essere solleticare sempre più quelle pruderie giustizialiste che esprimono sgradevolmente la deriva forcaiola di un Paese in cui c’è da consolarsi che non si debba essere giudicati da una giuria di (presunti) pari: trovarne dodici tutti insieme non sarebbe per nulla facile.

    Non è nuova neppure l’ostilità manifesta verso la funzione difensiva: brutta gente gli avvocati, almeno finché il destino non ne rende necessaria l’assistenza, e omologarli ai loro clienti è la regola.  Sia ben chiaro, devono considerarsi tutti presunti colpevoli in spregio ad un parametro costituzionale condiviso da tutti gli ordinamenti democratici e il difensore viene proposto come complice.

    La storia si è ripetuta di recente, vittima una Collega che svolge anche funzioni apicali nella sua Camera Penale. Basta leggere, in proposito, uno dei tanti titoli che hanno offerto risalto al suo coinvolgimento in una indagine di grande criminalità e che è paradigmatico: “indagata la presidente dei penalisti, ha aiutato il boss suo assistito”.

    Come regola, fino a sentenza definitiva dovrebbe usarsi il condizionale, ma sembra che ci sia chi è in grado di raggiungere granitiche certezze già in fase investigativa da trasferire come Vangelo all’opinione pubblica insieme a un messaggio, subliminale ma non troppo, volto a infangare ancor di più la categoria: “se questo è il presidente, immaginatevi chi possono essere gli altri…”.

    Non avendo disponibilità  degli atti, proprio grazie alla stampa, è possibile – però –  apprendere che l’ipotesi accusatoria ha trovato subito una prima smentita: il Giudice delle Indagini Preliminari, infatti, ha rigettato la richiesta del Pubblico Ministero di interdire questa Collega dall’esercizio della professione ritenendola ingiustificata perché il quadro indiziario non è connotato dalla gravità. Ma questa è una notizia che scompare tra le righe degli articoli, sovrastata da titoli di stampo inquisitorio su quattro colonne.

    Simili attacchi si ripetono sempre più di frequente e quello di cui parliamo è solo il più recente ma purtroppo non sarà certo l’ultimo segnalando una verticale caduta di valori fondanti di un corretto esercizio del diritto di cronaca, frutti avvelenati della dilagante cultura della intolleranza e del sospetto, espressione volgare della ricerca spasmodica della notizia ad effetto e un bel “dagli all’untore!” funziona sempre.

    Forse, in ultimo, non è neppure corretto parlare di informazione, cronaca e professionisti del giornalismo: in certi casi si è al cospetto di avvoltoi che si avventano sulla preda e sul fatto che richiama di più l’attenzione, che fa vendere di più o aumenta gli ascolti.

    Restate con noi: qui ci sarà sempre rispetto per la funzione difensiva, che rimane limpido presidio rispetto alla pretesa punitiva dello Stato non meno che per la legge e le istituzioni,  e, almeno fino a prova contraria, manterremo inalterato il nostro stile, quello che impedisce di pronunciare verdetti anticipati di condanna, quello che consente di considerare come bassa macelleria la violenza verbale di certe modalità di informazione.

  • In attesa di Giustizia: vigilando redimere

    Il titolo riprende il motto che compariva nello stemma degli Agenti di Custodia prima che venissero smilitarizzati e trasformati in Corpo della Polizia Penitenziaria: più comprensibile a chiunque, ancorché in latino, dell’attuale (sempre in latino) dice tutto di quella che dovrebbe essere la missione di questi servitori dello Stato, e cioè contribuire all’attuazione del principio costituzionale di finalità rieducativa della pena.
    Nei confronti degli appartenenti a questa Forza dell’Ordine si deve nutrire rispetto per il sacrificio che impone il loro ruolo: una vita trascorsa per gran parte in carcere, in sostanza dei semi liberi, con doveri, responsabilità e sacrifici che meritano di essere valorizzati. A tacere della quotidiana esposizione al rischio.
    La gran parte di loro merita questi apprezzamenti e contribuisce ad offrire a noi tutti maggiore sicurezza non meno che – nei limiti del possibile – dignitose condizioni di vivibilità ai reclusi negli istituti penitenziari. La gran parte, appunto…forse non proprio tutti anche se è fisiologico che – come in tutte le categorie – tra loro ci siano anche personalità di minore statura umana e morale.
    Nel mondo della informazione globalizzata accade che sulla pagina Facebook della rivista “Polizia Penitenziaria – Società, giustizia & sicurezza” sia stato pubblicato un rapporto dell’Autorità Garante delle Persone detenute: si tratta di un organismo statale indipendente, composto da un collegio di tre esperti in materia, in grado di monitorare, visitandoli, i luoghi di privazione della libertà (oltre al carcere, i luoghi di polizia, i centri per gli immigrati, ecc.) con lo scopo di individuare eventuali criticità e, in un rapporto di collaborazione con le autorità responsabili, trovare soluzioni per risolverle. Dopo ogni visita, il Garante nazionale redige un rapporto contenente osservazioni ed eventuali raccomandazioni e lo inoltra alle autorità competenti.
    Quello di cui trattiamo, pubblicato sul social network, evidentemente non è piaciuto per i rilievi fatti su alcune condizioni detentive di “carcere duro” registrate come inadeguate e, con il metodo di confronto e dialogo tipico di Facebook, i commenti rivolti al Garante, Prof. Mauro Palma – presumibilmente, almeno in parte, di Agenti e certamente di simpatizzanti – sono stati di questo tenore: “spero ti ammazzino un figlio, ammazzati indegno, non mi stupirei se questo fosse uno stipendiato dalle mafie, ma chi lo ha messo questo stupido?” . Solo alcuni esempi per fermarsi alle considerazioni più garbate.
    A seguito di una vasta riprovazione che ha avuto come protagonisti tanto il Sindacato di categoria della Polizia Penitenziaria che il Ministero della Giustizia passando per la Procura Nazionale Antimafia e l’Unione delle Camere Penali, il post è stato cancellato e prese le distanze dagli intervenuti.
    Non sappiamo se, prima di eliminare tutto, siano stati registrati i nominativi degli autori dei commenti: certamente sarebbe stato opportuno perché qualora si tratti di dipendenti dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria nei loro confronti si dovrebbero avviare azioni disciplinari e in taluni casi anche denunce penali.
    Non è stato decisamente un momento alto di espressione di democrazia, sensibilità umana e giuridica; allarma piuttosto pensare che – se così fosse – alligni ancora nelle Istituzioni la figura dello sbirro: pessimo esempio per le reclute del Corpo della Polizia Penitenziaria di cui infanga l’immagine, custode delle peggiori tradizioni carcerarie, memoria storica di un tempo che è da augurarsi come trascorso del tutto, mentre ciò che non deve dimenticarsi è l’insegnamento di quel motto: Vigilando redimere.

  • In attesa di Giustizia: la banalità del male

    Talvolta, purtroppo sempre più spesso, la cronaca offre spaccati di una società che sembra essere in grave debito di ossigeno con i valori: una donna viene uccisa per poco più di tre euro che l’assassino si spende subito per una birra, dei ragazzini invece che giocare a pallone o andare al cinema si divertono dando fuoco a un clochard, una banale lite del sabato sera sfocia in una rappresaglia armata che stronca il futuro di un atleta che, a quanto pare, non era neppure il bersaglio.

    E’ la banalità del male: uomini, giovani, apparentemente normali, contesti normali, nei quali è improvvisa e letale una violenza priva di qualsiasi spiegazione.

    L’indignazione è unanime ma appartiene a quella medesima società che ha prodotto quei delinquenti così banali eppure così crudeli e subito si leva l’invito a sanzionarli con pene esemplari.

    La Giustizia, purtroppo, quando la legge penale non ha svolto la sua funzione dissuasiva può solo muoversi nella duplice direzione di retribuire il delitto e tentare di recuperare i colpevoli: funzione quest’ultima indispensabile perché, tendenzialmente, prima o poi tutti escono dal carcere e bisogna prevenire per quanto possibile che delinquano ancora.

    Gli adolescenti che hanno dato fuoco a un senza tetto non faranno nemmeno un’ora di detenzione: uno ha meno di quattordici anni e per la legge non è imputabile perché presuntivamente così immaturo da non saper discriminare ancora il bene dal male, l’altro è stato affidato ai servizi sociali e messo alla prova.

    Preoccupa soprattutto il primo: se la Giustizia nulla può che ne sarà di lui in una famiglia che – evidentemente – non ha saputo trasferirgli insegnamenti basilari? Del secondo si può solo sperare che i Servizi Sociali svolgano la loro funzione al meglio, anche in questo caso di supplenza rispetto a un nucleo originario rivelatosi incapace di strutturarne la formazione. Se così fosse, la messa alla prova sarebbe certo meglio del carcere che rischia di risultare una palestra di criminalità per un giovane in età evolutiva che una analisi condotta su di lui da un team specializzato ha ritenuto del tutto immaturo.

    Gli altri banali assassini di cui abbiamo accennato, invece, andranno in carcere, sono già in carcere e ci resteranno a lungo: rapidamente individuati e arrestati insieme alla loro povertà spirituale hanno fino ad ora segnato l’abilità investigativa delle nostre Forze dell’Ordine.

    Arriveranno le condanne, la Giustizia amministrerà il loro futuro e in un certo senso anche il nostro a seconda che la finalità rieducativa della pena dovesse risultare efficace o fallire…ma se anche avesse esito positivo si può parlare di Giustizia in senso ampio e in questo mondo se una vita vale quanto una birra, e una lite inchioda sulla sedia a rotelle un atleta?

    Il carcere altrui non ripaga di ciò che si è perduto per sempre come, credo, sia solo un sollievo apparente e crudele l’assistere alle esecuzioni capitali tipico del modello americano: guardare il boia in azione e un uomo morire, in realtà, segnala come la banalità del male alberghi pericolosamente un po’ in tutti e non c’è Giustizia che possa rimediarvi.

  • In attesa di Giustizia: moderate le parole!

    Ne abbiamo trattato alcuni numeri addietro: dal 12 gennaio i Giudici di Pace sono in sciopero, si astengono cioè dal celebrare le udienze, per protesta contro il trattamento economico – previdenziale previsto per la categoria; in quell’articolo, insieme alla fondatezza di quelle lagnanze, si era evidenziato come l’amministrazione della Giustizia non possa prescindere dal contributo dei Magistrati Onorari, tra questi i Giudici di Pace, sebbene qualche rilievo negativo sia possibile sulla loro preparazione di base, sui criteri di reclutamento e sulla formazione offerta prima di attribuire le funzioni.

    Una vicenda piuttosto singolare in cui tutti i protagonisti (Giudice di Pace, imputato e persona offesa) sono avvocati può risultare paradigmatica di quanto affermato: con atto di querela è stata chiesta la punizione di un professionista per il reato di diffamazione che sarebbe consistito nell’utilizzare, all’interno di un atto giudiziario, la frase “la difesa della controparte,  con affermazioni denigratorie sulle quali si sorvola, vuole far credere…” .

    Sorprende, innanzi tutto, che il Pubblico Ministero assegnatario del fascicolo abbia disposto la citazione a giudizio per un modo di esprimersi che, evidentemente, non offende la reputazione: tutt’al più può ritenersi che l’espressione sia aspra ma niente più, tenendo anche conto del fatto che, fisiologicamente, negli scritti difensivi del processo civile si tende a svilire le ragioni avversarie sostenute dall’avvocato di parte e questo vale per entrambi i contendenti.

    In sede processuale, invece, il P.M. (quello di udienza, sicuramente diverso da quello titolare delle indagini) ha chiesto l’assoluzione ma il Giudice di Pace è stato di diverso avviso e ha condannato ritenendo integrata la diffamazione.

    Morale: qualche biglietto da cento euro di multa e più o meno altrettanti di risarcimento danni. Da noi si fanno processi per questo tipo di problemi e per ottenere risultati simili: ma non è finita qui, infatti il condannato ha – giustamente – ritenuto di impugnare una sentenza quanto meno molto originale ed altrettanto giustamente, potendolo fare,  ha fatto ricorso diretto in Cassazione invece che appello.

    In quattro pagine di motivazione, la Corte ha fatto letteralmente a pezzi la decisione del Giudice di Pace, affrontando la tematica sotto ogni punto di vista possibile, compreso quello secondo la quale la sussistenza di un reato non può in ogni caso essere ancorata alla sensibilità o suscettibilità della presunta persona offesa e soprattutto che ciò che rileva è la obiettiva capacità offensiva delle espressioni usate da valutarsi in base al significato socialmente condiviso delle parole. Concetti, questi ultimi, che senza necessità di approfondimenti  giurisprudenziali e di dottrina ma con l’impiego di ordinario buon senso avrebbero potuto evitare persino il rinvio a giudizio con risparmio di tempo, risorse, energie.

    La Corte di Cassazione, per vero, ha affrontato anche tutti questi aspetti e l’estensione e spessore della motivazione suonano un po’ come bacchettate al Giudice di Pace e al P.M. della fase delle indagini e, perché no? anche del querelante. Ammesso che mai abbiano la curiosità o l’occasione di controllare come è andata a finire una vicenda che insegna molte cose: che il non adirarsi è sintomo di grande saggezza, come ricordava Plutarco, che le querele sono comunque cose serie da trattare con attenzione anche se portano a modestissime conseguenze sul piano economico e che la Giustizia (se tutto va bene, ovviamente) prima o poi arriva.

  • In attesa di Giustizia: occhio ai guardoni

    Una recente decisione della Cassazione merita di essere commentata sia perché ha suscitato un certo clamore ed è interessante non solo per gli studiosi del diritto ma anche per il motivo che può offrire spunti di riflessione non disgiunti – per una volta – da un sorriso affrontando un tema delicato ed attuale come la tutela della privacy in un contesto singolare un po’ piccante e più leggero di altri argomenti che qui vengono trattati.
    Questo il fatto: l’imputato venne denunciato, rinviato a giudizio ed inizialmente condannato per il reato di interferenze illecite nella vita privata per avere filmato attraverso le finestre una avvenente dirimpettaia mentre, inguda, usciva dalla doccia…certamente non il comportamento di un gentiluomo di altri tempi ma che per la Suprema Corte, che ha annullato la condanna, non integra illecito penale.
    La decisione, in tempi di preteso rigoroso rispetto della riservatezza può sembrare incomprensibile e invece ha un fondamento giuridico che la Cassazione ha illustrato con chiarezza di argomenti.
    Per comprendere al meglio deve farsi una premessa: la donna di cui sono state carpite le immagini non si era curata, o era dimentica del fatto, che le finestre del suo appartamento (prospicente a breve distanza da altro immobile) erano sprovviste di tende, imposte, persiane o tapparelle ovvero che le stesse non erano azionate in guisa da impedire la visibilità di quanto avveniva all’interno. Dunque, via libera al voyeur di turno che non si è perso l’occasione per documentare l’imprevista ed apprezzata visione.
    Ciò che non sappiamo, la sentenza della Cassazione tratta solo i profili di diritto e non quelli di fatto – se non in termini estremamente riassuntivi – dei ricorsi portati alla sua attenzione, è come la vittima di tali non apprezzate attenzioni se ne sia accorta: ma si tratta di una mera curiosità la cui soddisfazione non è rilevante per comprendere la decisione.
    La Corte è partita dal presupposto che il reato che era stato denunciato, punisce chiunque mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora si procuri notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentesi nei luoghi di abitazione o nelle loro pertinenze a condizione che questa condotta sia realizzata indebitamente, come suggerisce l’aggettivo “illecita” usato nel titolo dell’articolo del codice.
    Ciò significa che quanto osservato o ascoltato liberamente da estranei, cioè senza ricorrere a particolari accorgimenti, possa anche essere registrato o filmato ed il reato non si configura; sostanzialmente è la conseguenza di una rinuncia di fatto alla riservatezza da parte di chi è titolare del corrispondente diritto.
    Per trarre una conclusione: la tutela del privato domicilio e quanto all’interno vi accade è limitata a ciò che si verifica al suo interno in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non percepibile a terzi.
    Sbirciare e origliare cosa fanno i vicini di casa continua – dunque – ad essere una forma di maleducazione ma non un crimine a condizione che ciò avvenga con implicito assenso, mentre, per esempio, dotarsi di un drone (le nuove tecnologie possono indurre straordinarie tentazioni) per restare comodamente sotto l’ombrellone e lustrarsi gli occhi con il topless delle signore che prendono il sole su un barchino lontano dalla riva del mare è un reato che la legge punisce fino a quattro anni di reclusione e la Giustizia da noi è lenta ma quando arriva anche una occhiatina di troppo può costare molto cara.
    Manuel Sarno

  • In attesa di Giustizia: prossima fermata Rebibbia

    L’ala del Falcon bianco senza insegne dei servizi segreti si inclinò quasi a fare un inchino mentre l’aereo iniziava la virata verso il litorale laziale dopo un lungo volo dalla Bolivia: Cesare Battisti stava ritornando a casa.

    Ne avevamo trattato alcune settimane fa, formulando l’auspicio che le difficoltà connesse alle ricerche su un territorio molto esteso non estenuassero gli investigatori alla ricerca dell’assassino fuggiasco: i nostri agenti si sono dimostrati ancora una volta all’altezza della situazione con un’indagine tecnica di meticolosa e mirata intercettazione accompagnata da un lavoro tipico da “piedipiatti” battendo palmo la zona dove avevano tracciato la presenza del latitante e mostrandone la foto a negozianti, baristi, passanti.

    Rapidissima è stata la consegna da parte delle Autorità Boliviane, che hanno deluso le aspettative di un nuovo asilo politico, e questa tempistica richiede qualche spiegazione per rispondere a immaginabili domande che i lettori si saranno fatti in proposito.

    Molto semplicemente, la Bolivia  potendo scegliere tra dare corso a una doppia richiesta di estradizione pendente sul capo di Battisti (una, storica, dell’Italia e una più recente legata al mandato di arresto emesso dal Brasile) ha optato per una terza via possibile: l’espulsione come persona non grata dal territorio nazionale dopo averne eseguito la cattura che è avvenuta ad opera di una squadra mista di operanti boliviani dell’Interpol e italiani.

    Come conseguenza, non diversamente da quanto accade quando da noi viene espulso un extracomunitario, Battisti è stato imbarcato sul primo volo diretto al Paese di origine: con la differenza che non si trattava di un semplice cittadino straniero privo del permesso di soggiorno ma di un latitante in stato di arresto e – dunque – consegnato agli agenti incaricati della sua cattura.

    Questa scelta, tra l’altro, oltre che a velocizzare l’iter (diversamente si sarebbe dovuti passare da una procedura di estradizione prima nei confronti del Brasile e poi a quella verso l’Italia con tutte le immaginabili conseguenze sotto il profilo dei ritardi a causa di appelli e ricorsi) ha garantito che la pena che verrà eseguita sarà quella dell’ergastolo. Anche questo profilo va spiegato.

    Invero il Brasile, come molti Paesi di ispirazione giuridica iberica, non conosce nel proprio ordinamento il carcere a vita, dunque l’estradizione avviene solo con il patto che al condannato verrà fatta scontare una pena massima non perpetua: come dire, trent’anni al massimo. Si immagini che proprio per questa ragione la Spagna era diventata negli anni ‘70/’80 il buen retiro di molti catturandi italiani che rischiavano o avevano già avuto irrogato l’ergastolo e si dovette arrivare ad un trattato apposito ad inizio millennio per facilitarne arresto e consegna. Del resto, anche noi, per analoghe ragioni, non estradiamo verso gli Stati Uniti soggetti a rischio di pena capitale se non viene assicurato che soggiaceranno – al più – all’ergastolo.

    Tutto questo in base a norme del diritto internazionale, trattati di cooperazione giudiziaria ed estradizione. Ma l’espulsione è un’altra cosa, è istituto giuridico ben diverso ed ha segnato, infine, il destino di un uomo sfuggito per fin troppo tempo alle sue responsabilità.

    Qualcuno dirà: ma dopo quarant’anni ha ancora senso una sanzione che, per dettato costituzionale, dovrebbe essere con finalità rieducative? Certo che sì, perché la pena assolve anche a scopi diversi, di natura retributiva: diversamente l’illecito penale resterebbe privo di conseguenze per decorso del tempo (e già, in parte, è così per reati meno gravi dell’omicidio).

    Comunque, un po’ di rieducazione non farà male nemmeno a Cesare Battisti, ammesso che riesca: unico tra una cinquantina di latitanti in condizioni analoghe alla sua che aveva il vezzo di farsi beffe della giustizia, delle sue vittime, del nostro Paese, facendosi ritrarre sorridente a brindare alla libertà e alla fortuna che ne accompagnava la fuga ogni volta che segnava una nuova tappa.

    All’aeroporto di Ciampino gli sarà stato consegnato un ordine di esecuzione con la dicitura “fine pena: mai” e da lì sarà stato condotto, come vuole la legge, nel carcere più vicino: quindi Rebibbia. E tutto questo, probabilmente, gli avrà spento il sorriso. L’attesa di Giustizia è durata quasi otto lustri ma, alla fine, è stata soddisfatta.

  • In attesa di Giustizia: giustizia in sciopero

    Dal 12 gennaio al 9 febbraio sarà astensione dalle udienze dei Giudici di Pace che garantiranno un solo giorno alla settimana di celebrazione dei processi: la protesta è stata proclamata a fronte del mancato riconoscimento da parte del Governo (non solo quello in carica) di una serie di aspettative che i cosiddetti Magistrati Onorari rivendicano in materia retributiva, assistenziale e previdenziale.

    Giustizia in sciopero, dunque: se ne parlerà poco e sottovoce quando – invece – è un argomento da conoscere e non sottovalutare.

    Attualmente nel nostro Paese prestano servizio oltre settemila Magistrati Onorari che non solo sono Giudici di Pace ma anche Giudici Onorari di Tribunale e Vice Procuratori altrettanto Onorari: questi ultimi, nella gran parte dei casi, sono avvocati che esercitano funzioni giudicanti o requirenti in sedi necessariamente diverse da quelle dove svolgono in via principale la professione e senza il contributo dei quali l’Amministrazione della Giustizia sarebbe ancora più imballata di quanto non lo sia attualmente. Basti pensare che i Magistrati Ordinari, quelli cioè che lo sono divenuti in seguito a concorso, sono poco più che ottomilacinquecento.

    Scarse se non nulle tutele in caso di infortuni, malattie e gravidanze, i Magistrati Onorari prestano la loro opera a fronte di indennità che non arrivano a 20.000 euro lordi all’anno nella migliore delle ipotesi:  pagati “a cottimo”, cioè a udienza o per ogni sentenza pronunciata, per intendersi, quello che un Giudice Ordinario con un’anzianità di una decina d’anni guadagna in circa due mesi, oltre – naturalmente –  ad accantonamento della liquidazione, trattamento pensionistico, mantenimento dello stipendio in caso di malattia, ferie, gravidanza cui gli Onorari non hanno diritto.

    Invero, la qualità del servizio offerto in non pochi casi proprio dai Giudici di Pace (diverso è per gli Onorari di Tribunale e Vice Procuratori che, come detto, devono essere avvocati) soprattutto nel settore penale non è di eccellenza: d’altronde per accedere alle funzioni mediante selezione basta la laurea in giurisprudenza: il che significa, come è capitato al sottoscritto a Voghera, di trovare come Giudice un agente immobiliare di Genova, ma anche un direttore di banca in pensione – per esempio –  può esserlo, purché una trentina d’anni prima si sia laureato.

    E’, però, vero anche che la cosiddetta “Giustizia di prossimità” è affidata proprio a loro e se il livello di professionalità è modesto dipende anche dai criteri di inserimento in ruolo e dalla formazione offerta: resta il fatto che una mole notevole del carico, bene o male, viene smaltita in questi uffici.

    Il malessere degli “Onorari”, la crisi di cui non si occuperanno le cronache è – tuttavia – uno degli indicatori più evidenti e comprensibili dei mali del settore se lo Stato non è in grado di assicurarne l’amministrazione senza ricorrere massicciamente a soggetti poco più che volontari, a personale di cui non si provvede né a valutare né a garantire in seguito  adeguata preparazione per le delicate funzioni cui sono chiamati e che in un trattamento umiliante non trovano neppure lo stimolo per aggiornarsi e migliorare.

    Si dirà allora: perché lo fanno?  Alcuni per spirito di servizio e, generalmente, sono i migliori (ottimi Onorari, non solo tra i Giudici di Pace si trovano…), altri c’è da supporre per arrotondare le entrate: uno per l’altro maltrattati non meno dei cittadini che si rivolgono a un sistema inidoneo a soddisfare quell’attesa di Giustizia che assomiglia sempre più ad una vana speranza.

  • In attesa di Giustizia: botti di fine anno

    Chissà se a Capodanno assisteremo ad altre scene di giubilo dai balconi di Palazzo Chigi? La legge finanziaria è in via di approvazione in “zona Cesarini” e ce la dovrebbe fare, evitando il problematico esercizio provvisorio di bilancio; ci sarà poi da attendere il via libera definitivo da Bruxelles a gennaio inoltrato e la declinazione di una quantità di decreti attuativi. Forse niente botti di fine anno per questo motivo e, forse, la delicatezza del momento ha fatto passare in secondo piano l’approvazione del c.d. “Spazzacorrotti”: la complessa disciplina che rielabora il palinsesto delle norme a contrasto dei reati contro la Pubblica Amministrazione.

    In passato ne avevamo già trattato, quando era solo una bozza, ora meriterebbe approfondimenti non esauribili in un solo articolo ma – sin d’ora – è possibile considerare come ci sia poco da compiacersi per un intervento che, ancora una volta, non va alla radice del problema per marginalizzare il fenomeno corruttivo bensì tocca, più che altro, lo statuto penale inasprendo le pene. Il che, come si è visto in passato, come l’esperienza insegna anche in altri settori del diritto punitivo, non impatta significativamente sulla riduzione degli illeciti.

    D’altronde le linee guida di questo Governo sono chiare e irretrattabili: il Ministro della Giustizia, a proposito proprio dello “Spazzacorrotti” ebbe addirittura a dire, in fase di lancio del provvedimento, che “sarà molto difficile evitare il carcere anche in caso di sospensione condizionale”, con ciò alimentando la speranza che Babbo Natale gli abbia portato in dono un codice da rileggersi con attenzione prima di fare certe dichiarazioni.

    O, forse, il Guardasigilli intendeva riferirsi ad una diversa – ben diversa – norma prevista dall’Ordinamento Penitenziario (di cui i pentastellati sono nemici acerrimi) che prevede limiti molto rigorosi alla fruizione di benefici per i colpevoli di determinati reati quali l’associazione mafiosa, il narcotraffico organizzato, la violenza sessuale.

    Ora l’elenco è stato arricchito con i reati contro la Pubblica Amministrazione ma un legislatore quanto mai sciatto non ha fatto i conti con una necessaria armonizzazione del sistema creando confusione – non scenderemo qui in dettagli eccessivamente tecnici per i lettori – non solo con la legge penale sostanziale e processuale ma anche con riguardo alla giurisprudenza sia della Corte Costituzionale che della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

    Insomma, c’è poco da festeggiare, soprattutto per i cittadini e – tra questi – gli interpreti della legge: l’attesa di Giustizia non è nemmeno questa volta coronata positivamente tranne che, ai botti di fine anno, non si preferisca il tintinnare delle manette.

                                                                          

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