Giustizia

  • Arrivano le archiviazioni giudiziarie telematiche. E tra le toghe c’è chi sbuffa

    Circa il 70% dei procedimenti penali termina con l’archiviazione in fase d’indagine ma l’informatizzazione dei servizi giudiziari introdotta per legge (e già in larga parte rinviata al futuro, con l’eccezione delle archiviazioni) fatica ad entrare a regime. Dall’1 gennaio tutto è cambiato, il magistrato non può più disporre l’archiviazione firmando carte ma deve accedere ad “App” autenticandosi, indicare l’ufficio di appartenenza, inserire gli estremi del fascicolo, cliccare su “redigi atto” e su “archiviazione”, poi va scelta da un menù la motivazione. Per procedere a questo punto, però, bisogna giustificare ad “App” il motivo e il problema è che si deve scegliere tra una delle opzioni standard (ad esempio “Modello incompleto”) oppure procedere per una “descrizione libera”. Il tutto moltiplicato per centinaia e centinaia di fascicoli l’anno.

    Tutto questo è visto come una fatica insopportabile e una perdita di tempo da parte del ceto togato, che ha trovato ne Il Fatto Quotidiano il portavoce delle proprie frustrazioni. “Prima riuscivo ad archiviare un fascicolo in meno di dieci minuti, ora ci vogliono almeno due ore” ha lamentato il procuratore di Napoli Nicola Gratteri all’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Stamattina nel mio ufficio il sistema è bloccato e non consente l’accesso, e in questi giorni siamo riusciti a inviare non più di tre o quattro richieste. Prima ci ribelliamo, segnalando con fermezza che “App” è radicalmente inadatto a gestire le indagini preliminari, e meglio è”, è quanto ha scritto ai colleghi – come riporta il medesimo quotidiano – il procuratore di Ascoli Umberto Monti. Il Fatto Quotidiano sottolinea che il Guardasigilli Carlo Nordio è al centro di numerosi strali di ex colleghi: “Le ricadute sugli assetti degli uffici saranno devastanti. Naturalmente il ministro, che per questo disastro dovrebbe dimettersi, non si assumerà la responsabilità”, pronostica in chat un gip del Sud. Qualcuno cede allo sconforto: “La sensazione di non essere più un magistrato, ma un funzionario che “flagga” caselle, è fortissima”, racconta in mailing list un pm siciliano. “Confesso di aver provato anche un senso di inutilità quando, dopo la terza volta che non si riusciva a copiare sul modello il testo della richiesta di archiviazione, ho abdicato e salvato le due righe del modello dandola vinta al sistema. Per la prima volta mi sono trovato a subire un vero e proprio condizionamento nel modo in cui ho esercitato la giurisdizione”. Una situazione che crea effetti paradossali: “Chiedere il rinvio a giudizio è diventato più semplice che archiviare“, scherza (ma non troppo) un giovane sostituto. Non male, per il ministro più garantista di sempre.

    Di control, le statistiche sugli errori giudiziari attestano che dal 1991 al 2022 la magistratura non solo non ha archiviato ma ha pure condannato 222 persone che non andavano processate. Il risarcimento dovuto per questi casi è stato di oltre 86 milioni di euro per tutti i 222 casi (solo nel 2022 gli errori giudiziari sono stati 8, e hanno comportato risarcimenti per 9 milioni e 951mila euro). Parallelamente, i casi di ingiusta detenzione – quando vi era sì motivo di processare una persona ma non di privarla della libertà nelle more del processo – sono stati oltre 30mila dal 1992 al 2022 (mediamente per 985 per anno) e hanno comportato indennizzi per oltre 846 milioni di euro (nel 2022 i casi di ingiusta detenzione sono stati 539, gli indennizzi corrisposti sono stati pari a 27,4 milioni di euro).

  • In attesa di Giustizia: le peggiori della settimana

    E’ difficile fare una graduatoria non meno che elencarle tutte, i lettori dovranno accontentarsi di una selezione.

    Abbiamo dovuto vedere le immagini di Ilaria Salis trascinata in catene come Amatore Sciesa e scortata da sicofanti in tuta mimetica e mefisto calato sul volto per avere un saggio sulla giustizia e le carceri ungheresi, perché iniziasse a scoperchiarsi un vaso di Pandora circa favoleggiate “tradizioni comuni e condivise” su cui si fondano istituti, sempre più numerosi, di cooperazione presupponendo il mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie in ambito UE: quello magiaro non è  certamente l’unico esempio, seguito a ruota da quello rumeno e chissà quanti ancora soprattutto tra i Paesi già appartenenti al Patto di Varsavia. Spiace dirlo proprio su queste pagine ma l’Europa sta dimostrandosi sempre più un’entità solo geografica e monetaria.

    Eppure non si tratta di novità se la Procura Generale di Milano – neanche a dirlo in persona del Consigliere Cuno Tarfusser – aveva espresso, già da tempo, parere negativo alla consegna all’Ungheria – in seguito alla emissione di un mandato di arresto europeo – proprio del coimputato di Ilaria Salis evidenziando la mancanza di garanzie di quel sistema e le condizioni detentive degne della Turchia di “Fuga di Mezzanotte”.

    A proposito di Procure Generali: quella di Brescia ha chiesto la conferma della condanna di Piercamillo Davigo affermando che “Davigo ha trasformato documenti riservati nel segreto di Pulcinella”: il parere non è vincolante e deciderà liberamente la Corte d’Appello ma il pronostico non sembra favorevole e probabilmente genera ansie nella redazione del Fatto Quotidiano dove, all’improvviso, hanno scoperto che esiste la presunzione di innocenza, tanto è vero che Travaglio si sta sperticando nella difesa di un imputato; il che è cosa buona e giusta anche se suona vagamente sospetta la circostanza che tutto questo fervore garantista sia rivolto nei confronti del figlio del suo ’”azionista di riferimento”: Beppe Grillo.

    Naturalmente Ciro Grillo deve essere considerato – come tutti – presunto innocente fino a sentenza definitiva ed ha diritto ad un giusto processo come vuole la nostra Costituzione…un processo che però, nel suo caso e come prevede la legge, si sta celebrando a porte chiuse per la delicatezza degli argomenti, tutelando il diritto alla riservatezza tanto della denunciante quanto degli accusati.

    La regola generale vuole che ai processi vi sia la partecipazione del pubblico con la finalità di consentire il controllo sull’andamento della giurisdizione da parte dei cittadini nel cui nome vengono pronunciate le sentenze. Viene allora da domandarsi: se questa pubblicità è legittimamente esclusa perché (e, soprattutto, come) la si aggira, commettendo, tra l’altro, un reato (anche se non viene mai contestato), divulgando poi a mezzo stampa i verbali corrispondenti alle udienze non pubbliche? Nello specifico, il riferimento è ancora una volta al Fatto Quotidiano ed alla vicenda per violenza sessuale di gruppo che vede coinvolto Grillo jr. e i suoi amici, in particolare, sembra che l’interesse sia stato improvvisamente rivolto all’interrogatorio della ragazza, presunta vittima senza risparmiarne neppure un passaggio tra quelli che contengono le vivaci contestazioni delle difese e che, al di fuori di un’aula di Tribunale, possono ascriversi più al gossip ginecologico che ad un settore della informazione e della cronaca giudiziaria.

    Gran finale riservato al recentissimo flop che arricchisce lo score imbarazzante del Pool Corruzione Internazionale – ora soppresso dal Procuratore Capo – che fu creato a suo tempo da quel Fabio De Pasquale, che (a sua volta presunto innocente) è sotto processo per avere, nella nota indagine ENI-Nigeria, occultato prove a favore degli imputati, poi tutti assolti: sentenza contro la quale si è pure ingegnato di fare appello finendo letteralmente sbeffeggiato dalla Procura Generale.

    Questa volta, il 30 gennaio, sono stati tutti assolti gli accusati in un processo per supposte tangenti pagate da un’azienda tedesca per l’appalto di lavori nella metropolitana di Mosca. Cosa importasse alla Procura milanese di tutto ciò non era chiarissimo fin dall’inizio ma, con buona pace del “filtro” da sempre malfunzionante dell’udienza preliminare, sono finiti a giudizio manager finlandesi, tedeschi, russi ed anche qualche italiano: questi ultimi per avere emesso… delle fatture che apparivano da subito regolari, inerenti a forniture di materiali.

    Il fatto non sussiste, è la formula tranciante adottata dal Tribunale che chiude dopo nove anni questa vicenda e suona come dire: perdonate loro (i Pubblici Ministeri) che non sanno quello che fanno, convinti tuttavia di essere investiti di una missione salvifica, meritevole persino di essere esportata…anche senza licenza; un po’ come quella volta che, qualcuno lo ricorderà, c’era stato chi voleva arrestare Yasser Arafat per atti di terrorismo mentre partecipava ai funerali di Pertini.

    In attesa di giustizia, ungheresi e rumeni paiono essere in ottima compagnia.

  • Non cadere nel tombino

    In Italia in 30 anni ci sono stati 30.000 errori giudiziari che hanno portato ingiustamente in carcere, per mesi, per anni, per decenni persone innocenti privandole di una parte, a volte considerevole, della loro vita con tutto quanto ne consegue per le relazioni famigliari, interpersonali, per il lavoro, la vita sociale e la salute mentale.

    Questi errori hanno avuto un rilevante peso economico sia per i singoli, ingiustamente detenuti, che per lo Stato che ha dovuto, giustamente, provvedere, anche se a volte in ritardo, ai risarcimenti.

    Il Ministro della Giustizia ha dichiarato che nel 2026 si arriverà finalmente al pieno dell’organico, intanto i tribunali sono intasati, da anni, da pratiche e processi inevasi e non si sa come risolvere il problema nell’immediato.

    Il digitale corre veloce e forse un domani saremo giudicati, assolti o condannati, dall’intelligenza artificiale, Dio ce ne scampi, sta però di fatto che più gli enti pubblici sono informatizzati e meno funzionano le cose, basti pensare all’impossibilità di accedere ai siti delle questure, per prenotare l’appuntamento per il rinnovo del passaporto, o le attese di mesi per avere, Milano o Roma è indifferente, la carta d’identità.

    Nessuno sembra accorgersi dei disagi che i cittadini stanno subendo, in speciale modo i più anziani ed i meno esperti nell’informatizzazione, abbiamo una società solo per giovani mentre la maggioranza della popolazione è anziana, un problema la denatalità ma un problema anche non comprendere le difficoltà di chi non smanetta sui social.

    Siamo assolutamente favorevoli ai grandi progetti, purché si realizzino effettivamente, ma mentre si guarda alle mete più in alto sarà bene che governo ed opposizioni, nazionali, regionali e locali, guardino anche in basso dove vive e sgomita la gente comune. Inoltre guardando sempre e solo in alto si rischia di cadere in un tombino rimasto aperto.

  • In attesa di Giustizia: la fabbrica dei reati

    Lo scorso fine settimana si sono tenute le cerimonie di apertura dell’Anno Giudiziario: per prima a Roma e subito dopo in tutti gli altri capoluoghi di Corte d’Appello. In un momento dedicato alla sintesi del lavoro svolto nei diversi territori, i dati sulla produttività degli Uffici sono stati commentati con l’accompagnamento di una sorta di fil rouge rappresentato dalla diffusa (e comprensibile) lamentazione sulle carenze di organico tanto della magistratura quanto delle funzioni amministrative.

    Il Ministro della Giustizia ha rassicurato che – con il concorso già in essere per 400 posti – e quelli prossimi venturi entro un paio d’anni le scoperture relative a giudicanti e requirenti saranno colmate: beato lui che ci crede ancora mentre, con qualche lodevole eccezione come il Distretto di Perugia, il piatto piange e si consolidano pendenze ed arretrati che – viceversa – si sarebbero dovuti abbattere con le riforme approvate per conseguire gli agognati fondi del PNNR. Tanto per la cronaca, Roma è in testa a questa classifica di demerito. Dimentica, però, il Guardasigilli che proprio la sua proposta di istituire un Collegio Giudicante per decidere sulle richieste di arresto assicurando maggiori garanzie agli indagati ha suscitato le perplessità della Ragioneria dello Stato perché non si sa bene dove rovistare in fondo alla cavagna per pagare gli stipendi del maggior numero di giudici necessario che andrebbero a sommarsi a quelli già oggi mancanti.

    In tutto questo, e se ne è già trattato in precedenti occasioni, il legislatore esita a dare il via libera ad una corposa ed ancor possibile depenalizzazione, che libererebbe da penosi incombenti la Polizia Giudiziaria e sgombrerebbe Procure e Tribunali dalla gestione di una moltitudine di “reati nani” che riguardano comportamenti di nessun allarme sociale e nessun disvalore meritevole della sanzione penale, tutt’al più di una multa al pari del divieto di sosta: dall’esercizio abusivo della professione di custode di condominio alla falsificazione del marchio “salame di Varzi”, tanto per fare un paio di esempi (ma sono centinaia).

    Per soprammercato, mentre il sovraffollamento carcerario torna ad essere un’emergenza, quella che può definirsi “la fabbrica dei reati” sforna a ciclo continuo nuove e fantasiose fattispecie di delitto che hanno come capostipite l’inutilissimo e confuso decreto anti rave party cui hanno fatto seguito l’omicidio nautico, l’abbandono scolastico, la resistenza passiva a Pubblico Ufficiale e molte altre ancora che trovano i loro spunti opportunistici nei più disparati fatti di cronaca contribuendo solo ad abbassare, se esistesse, il PIL del diritto penale liberale di cui Carlo Nordio è sempre stato un alfiere…ma qualcuno, evidentemente rema contro e – pochi lo sanno, poco se ne sa ed ancor meno se ne parla – il suo Capo di Gabinetto, un Magistrato chiamato a quel ruolo cruciale per la dimostrata capacità organizzativa del Tribunale di cui era Presidente, ha rappresentato l’intenzione di dimettersi anche per le continue ingerenze del suo vice.

    Nel frattempo, l’Associazione Nazionale Magistrati, invece di offrire un contributo costruttivo, sembra preoccupata solo di criticare l’operato del Guardasigilli, preoccupata essenzialmente di scongiurare la separazione delle carriere.

    A proposito di ANM: in questi giorni si è conclusa la revisione del processo in favore di Beniamino Zuncheddu (anche di questa vicenda si è occupata la rubrica) che, con 33 anni di carcere da innocente ha conquistato il triste Guinness dei Primati di settore e che dovrebbe essere nominato senatore a vita diventando la memoria per il nostro futuro perché, come dice Primo Levi, chi dimentica il passato è condannato a riviverlo e nessuno vuole che si ripetano vicende come quelle di Enzo Tortora e Beniamino Zuncheddu. Ma a costui, risultato vittima di conclamata insipienza, incompetenza, inadeguatezza di chi lo aveva malamente giudicato, l’ANM non chiede scusa, difendendo la bugia secondo cui la responsabilità dei giudici mortificherebbe la loro indipendenza, sempre pronta a protestare se si prova a negare alla magistratura un potere assoluto ed incondizionato che schiaccia gli individui nella morsa tra la fabbrica dei reati e quella parodia di Stato di diritto che siamo diventati.

  • Fedez perde la causa contro il Codacons

    Fedez perde la sua battaglia legale contro il Codacons. L’Associazione dei consumatori era stata querelata dal rapper per diffamazione dopo che da questa era stato accusato di «pubblicità occulta» e «omofobia». Il Tribunale di Roma ha respinto le richieste di Fedez, disponendo l’archiviazione della querela «per insussistenza del fatto e per quella dell’elemento soggettivo».

    La vicenda risale al 2021, quando il Codacons denunciò un presunto caso di pubblicità occulta da parte del rapper per aver adoperato un cappellino con il logo di un noto marchio sportivo durante il concertone del primo maggio a Roma e rese noti alcuni «testi omofobi» dell’artista, dal linguaggio piuttosto esplicito, in concomitanza con la campagna del rapper sul ddl Zan.

  • In attesa di Giustizia: Pledge of Allegiance

    Giustizia ad orologeria, se ne fa sempre un gran parlare – ultimamente anche a proposito dell’indagine sul governatore uscente della Sardegna che, come pare, non sarebbe stato ricandidato a prescindere – ma per una volta una decisione giudiziaria, per di più della Cassazione a Sezioni Unite (che sono il massimo organo interprete della legge), si propone quanto mai tempestiva per placare le polemiche immediatamente alimentate dalla sinistra in seguito alla manifestazione in memoria dei cosiddetti Martiri di Acca Larenzia.

    Per chi non lo sapesse, si tratta di un duplice omicidio a sfondo politico, risalente al 1978, attribuito ad un commando dei Nuclei armati per il contropotere territoriale in cui vennero assassinati due giovani appartenenti al Fronte della Gioventù davanti alla sede del MSI in via Acca Larenzia, quartiere Tuscolano di Roma. Si trattò di un agguato particolarmente brutale, un ferito venne inseguito mentre tentava di darsi alla fuga per infliggere il colpo di grazie sparandogli vigliaccamente alla schiena con una mitraglietta Skorpion, arma prediletta da certe formazioni extraparlamentari che fu, anni dopo, rinvenuta in un covo della BR risultando utilizzata da queste ultime in ben altri tre omicidi.

    Le indagini per individuare gli autori dell’agguato mortale non hanno esitato nulla  ed ogni anno i giovani trucidati ad Acca Larenzia vengono commemorati con un raduno all’ora e sul luogo della strage nel corso del quale vengono chiamati ad alta voce i loro nomi cui viene data una corale risposta “Presente” con simultaneo levarsi di braccia destra tese.

    Quest’anno, sarà perché al Governo c’è una coalizione di centro destra (o di destracentro, come taluno preferisce sottolineare) stabilizzata e sostenuta dal consenso dell’elettorato, sarà perché qualcuno si è ricordato della “Legge Scelba” che sanziona le manifestazioni di fascismo, alto si è levato il lamento da via del Nazareno e dintorni: identificateli, indagateli, arrestateli, puniteli tutti come meritano!…ma, proprio negli stessi giorni, ecco la Suprema Corte annullare le condanne per i partecipanti ad una analoga manifestazione anche questa periodica, a Milano, ed in memoria di un altro giovane missino: Sergio Ramelli.

    Stando alla informazione provvisoria della Cassazione, fare il saluto romano, secondo quei Giudici, non è reato se, contestualmente, non vi è il rischio concreto di ricostituzione del Partito Nazionale Fascista che, pare doversi escludere nel corso di commemorazioni.

    La lettura della motivazione di questa sentenza potrà lumeggiare una tematica che, per il momento, può essere lasciata alle lamentazioni della sinistra da talk show, quella che, tanto per dirne una, dovrebbe rammentare che, tra il 1943 ed il 1949 nella paciosa Emilia, si registrò un numero particolarmente alto di omicidi a sfondo politico (quasi tutti impuniti) perpetrati anche a guerra finita non da brigatisti rossi (i famosi “compagni che sbagliano”) ma da partigiani e militanti del PCI; ebbene, quella piagnucolosa sinistra che paventa il ritorno della dittatura e la resurrezione dal regno dei morti di Benito Mussolini dovrebbe considerare che quei virtuosi patrioti che spargevano sangue in quello che è stato definito “Il triangolo della morte” si salutavano con il pugno chiuso alzato, esattamente come i boia di Stalin, tanto per fare un altro esempio, e gli assassini di Prima Linea: nessuno, però, ardisce sostenere che quel saluto abbia in sè connotazioni criminali sebbene riferibile, almeno in parte, ad una militanza e ad un’ideologia politica sanguinaria invocando la persecuzione di chi ancora usa salutare in quel modo, soprattutto i lavoratori nelle manifestazioni di protesta.

    E poi, una cosa va detta: il cosiddetto saluto romano ha un’origine tutt’altro che romana e non è ben chiaro da chi o cosa sia stato mutuato: forse dal “protofascista” Gabriele D’Annunzio durante l’Impresa di Fiume (1919/20), ma è sicuro che il braccio destro teso con il palmo rivolto verso il basso era il gesto ideato dallo scrittore Francis Bellamy che accompagnava dal 1892 il giuramento di fedeltà alla bandiera nelle scuole degli Stati Uniti: il Pledge of  Allegiance. In attesa di giustizia con il chiarimento definitivo che verrà dalla motivazione della Cassazione, in occasione di un controllo della DIGOS o di un “al lupo, al lupo!” di Elly Schlein, per evitare inutili strascichi, ci si potrebbe, dunque, difendere dicendo di essere studiosi di storia americana in esercitazione.

  • In attesa di Giustizia: la parola alla giustizia

    La Corte d’Appello di Brescia ha ritenuto ammissibile l’istanza di revisione del processo per la strage di Erba che ha visto condannati alla pena dell’ergastolo i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi: istanza munita della insolita caratteristica di essere stata proposta non solo dai difensori ma anche dal Sostituto Procuratore Generale di Milano, Cuno Tarfusser.

    La prima udienza si terrà a marzo ed è frutto di un primo vaglio, positivo, sulla mera correttezza formale di presentazione della richiesta: dovrà, poi, valutarsi la sussistenza dei requisiti sostanziali necessari perché si proceda alla revisione vera e propria. Il che, in buona sostanza, significa un nuovo processo alla luce di prove nuove a discarico degli accusati emerse successivamente alla condanna.

    L’Avvocato Generale di Milano (che non è un avvocato ma un Magistrato con funzioni apicali del medesimo Ufficio cui appartiene Cuno Tarfusser), Lucilla Tontodonati, ha espresso un parere scritto negativo sostenendo che non siano state proposte prove nuove, piuttosto, una rivisitazione di quelle già acquisite in precedenza e valutate in tre gradi di giudizio.

    Tale ragionamento può essere condiviso solo in parte considerando che la originaria porzione “scientifica” delle indagini è suscettibile di essere riconsiderata alla stregua della evoluzione degli strumenti di accertamento tecnico oggi – e non allora – evoluti e disponibili e la ricerca della verità su un crimine efferato dovrebbe essere obiettivo primario. Di più: se Olindo e Rosa fossero innocenti significa che ci sono in libertà i colpevoli di quell’orrendo fatto ed è a costoro che dovrebbe riaprirsi la caccia.

    Tra tutte le osservazioni – che sarebbe eccessivamente lungo e complesso riassumere – a sostegno del dubbio, una probabilmente è la più inquietante di tutte: i minuziosi rilievi fatti sulla scena del crimine hanno consentito la raccolta di una quantità di tracce biologiche e merceologiche riferibili a soggetti rimasti ignoti (oltre a quelle delle vittime e dei loro congiunti) ma non ve n’è una sola che conduca a Romano o Bazzi; il che è più inverosimile che sorprendente. Vi sono, poi, le modalità con cui sono stati gestiti gli interrogatori dei coniugi accusati: sia con domande suggestive che con alcune contestazioni apertamente false che non hanno estorto le confessioni ma le hanno indotte in forma acquiescente ai desiderata degli investigatori. Non ultime le perplessità circa il tardivo riconoscimento di Olindo Romano da parte dell’unico testimone, seguito a ripetute descrizioni di un soggetto completamente diverso e la fantomatica macchia di sangue riferibile ad una delle vittime che si assume repertata sulla vettura dell’imputato e riprodotta in una foto che…non la ritrae! Ed il cui destino resterà un mistero nella confusa catena di raccolta, conservazione ed analisi irrispettosa dei protocolli di polizia scientifica.

    A proposito di reperti, non si deve dimenticare che, ufficialmente per errore (un po’ come capitato a Bergamo nella vicenda legata all’omicidio di Yara Gambirasio) sono andati distrutti dei reperti che, guarda caso, la Cassazione aveva ritenuto fruibili dalla difesa per un’accurata analisi scientifica.

    In buona sostanza, un processo che merita ampiamente di essere sottoposto ad una analisi critica, al di là dei rigori formalistici al cui ossequio si intende legare il diniego della revisione.

    Rispetto che sembrerebbe, altresì, dovuto a quella forma di giustizia che si definisce “teorematica” che si realizza quando vi è l’impossibilità di costruire un’ipotesi di accusa su dati empirici verificati e consolidati e, ad un certo punto, prende forma un teorema e tutti gli elementi che lo confortano vengono valorizzati a differenza di quelli che lo smentiscono.

    Come dire che in una gara di tiro con l’arco prima viene scagliata la freccia e poi si disegna il bersaglio intorno al punto di impatto per dimostrare che si è fatto centro.

    Vi sono fatti e – soprattutto misfatti – che reclamano l’individuazione di un responsabile ma un colpevole purchessia non è giustizia e neppure vendetta sociale ma semplicemente una vergogna a cui, se possibile, dando parola alla Giustizia deve porsi rimedio.

  • In attesa di Giustizia: giustizia da palcoscenico

    La Riforma Cartabia sta andando, con fatica, a regime realizzando quello che può definirsi uno sfratto degli avvocati dai Tribunali: mentre da tempo i processi di Appello e Cassazione si celebrano in larga misura  lontano anzi, paradossalmente, fuori dalle aule con un grazioso scambio di mail, il deposito di gran parte degli atti dovrà ora avvenire tramite il “Portale” (sperando che funzioni e che i destinatari ricevano, scarichino e leggano quanto trasmesso) o forse no perché c’è ancora grande confusione sotto il cielo della giustizia penale e non è chiaro se gli strumenti da impiegare siano informatici, telematici o coesistenti con il vecchio, caro, cartaceo…Insomma permangono dubbi operativi che nessuno è in grado di chiarire con apprezzabile certezza sebbene la scelta di un’errata modalità (o una malfunzione del sistema che nel periodo di “test” ha rappresentato quasi la quotidianità) comporti conseguenze assai più gravi di una risposta sbagliata al dilemma “liscia, gassata o Ferrarelle?”.

    Viceversa, atti giudiziari, trascrizioni di intercettazioni, verbali di perizie e via enumerando continuano ad avere libera circolazione ed essere linfa vitale per le redazioni dei quotidiani e gli autori di trasmissioni televisive e qualsiasi iniziativa volta a garantire un maggiore riserbo sia alle attività investigative che alle persone a vario titolo coinvolte viene additato come un attentato alla libertà di stampa da parte di un regime autoritario che tenta la reintroduzione della censura: il processo è, ormai, materiale da palcoscenico trasferito dalle aule rimaste deserte ai salotti dei talk show a corredo ed arricchimento delle più ghiotte e pruriginose anticipazioni della carta stampata e neppure alle più atroci sofferenze, alle più insensate violenze, vengono riservati i limiti di una dimensione più intima, personale. Sembra, talvolta, che la ricerca, l’esigenza di giustizia passi in secondo piano e l’amplificazione della tragedia abbia in sé un’occasione di ricerca della notorietà.

    Alla tragedia ognuno ha il diritto di reagire come meglio ritiene ma talune forme di “transumanesimo mediatico” impongono delle riflessioni e fermo restando che il giudizio deve restare sospeso quando non si dispone di dati sufficienti…anzi, sarebbe meglio non giudicare proprio.

    Tuttavia, fa riflettere la nonna di Giulia Cecchettin che, pur potendolo fare, non ha rinviato la presentazione di un romanzo che – a quanto pare – affronta proprio il tema della violenza di genere mentre la sorella, un’intervista dopo l’altra, è stata incoronata da Repubblica “donna dell’anno”. Infine, il padre si è affidato ad una agenzia per curare l’immagine e la comunicazione…va bene tutto ma, augurandoci per lui che non sia la stessa di Chiara Ferragni, sorge spontanea la domanda se, prima o poi con questa giustizia da palcoscenico, dovremo aspettarci i parenti delle vittime al Grande Fratello VIP.  Gesti liberi, ma sembra tutto troppo. Quanto alla natura del processo, è dai tempi di Gesù che li fanno fare al popolo…e chi critica certi atteggiamenti non dimentichi che c’è chi cavalca le disgrazie del prossimo e le “usa” andando oltre il diritto di cronaca con interviste banalissime ma intrusive, i tinelli tv con le solite compagnie di giro, instant books scritti con atti avuti chissà in che modo:  così si accende un faro sulla vittima di turno e la si guarda con occhio ora indecente, ora speculativo, ora moralista, ora saccente, ma sempre illiberale.

    Così come illiberale sarebbe alterare il delicato equilibrio tra le garanzie processuali dell’imputato e la soverchiante forza dello Stato che lo accusa.

    Insomma, ad entrambi va assicurata libertà: alla vittima fuori, all’imputato dentro il processo penale ma la sovraesposizione mediatica di entrambi è diventata purtroppo inarrestabile: ad un certo punto l’informazione diventa deformazione dei fatti che potrebbe avere effetti devastanti per tutti nell’ottica di un giusto processo, ferma restando la ferma denuncia di ogni violenza  – non solo quella di genere –  in molti casi di taluno si rasenta il linciaggio, mentre altri soggetti vengono lasciati liberi liberi di commetterne…e molto va imputato, purtroppo, alla comunicazione.

    Per ultima, una considerazione amara: si fa un gran parlare di certezza della pena che deve essere momento di rieducazione di chi è ritenuto colpevole di un crimine ma nessuno pensa a questo modello di società, con questi mezzi a portata di tutti, pasciuta con giustizia da palcoscenico, che va rieducata tutta.

  • A che punto è la notte

    Leggendo il titolo di un inquietante saggio di Alessandro Barbano, “La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana”, spontanea sorge la domanda mutuando quello di un romanzo noir firmato da Fruttero e Lucentini nel 1979.

    La risposta non è di quelle confortanti: siamo nel cuore di una notte senza luna né stelle; il nuovo anno porta con sé una legge finanziaria che dota con una manciata di spiccioli il settore della giustizia. In compenso bisognerà confrontarsi con la Riforma “Cartabia” finalmente (?) a pieno regime per gli aspetti legati alla informatizzazione del processo penale rispetto alla quale il personale degli uffici non è ancora adeguatamente preparato all’impiego del “Portale” dedicatovi: una mastodontica accozzaglia di malpensati e malfunzionanti software che plasticamente rappresenta la figura del cretino elettronico capace di impicciare e rallentare vieppiù il lavoro di strutture che da sempre sono in debito d’ossigeno con la produttività.

    Questa proverbiale incapacità di dotare il sistema di strumenti in grado di efficientarlo non si spiega in altro modo che con un originario maleficio, una fatwa, una misteriosa iattura che produce – addirittura – l’effetto contrario di complicare ulteriormente le cose, talvolta con il contributo di fastidiosi poltergeist trasferiti direttamente dalla consolle di una discoteca allo scranno di Guardasigilli o di altri figuranti meno bizzarri ma non meno perniciosi.

    L’anno che verrà non sembra, per ora, autorizzare profezie consolatorie come nella lirica di Lucio Dalla se è vero come è vero che le riforme liberali preannunciate dal Ministro Nordio sono parcheggiate su un binario morto e tenute sotto tiro non solo dalla potenza balistica dell’Associazione Nazionale Magistrati ma anche da fuoco amico; il tutto mentre, anche volendo, si possono ritoccare solo marginalmente gli assetti recentemente dati al processo penale dopo aver fruttato solo ciò che realmente interessava:  fondi del PNRR.

    Qualcosa, per esempio, si sta cercando di fare con riguardo ai limiti imposti alla facoltà di impugnazione con l’intento manifesto di ridurre il carico soprattutto delle Corti di Appello.  Il che, tradotto, non significa dotare il Paese di una giustizia che lavora meglio ma di uffici giudiziari che lavorano meno grazie ad una disciplina riformatrice che grida vendetta e la cui incostituzionalità risulterebbe chiara anche ad uno studente del secondo anno della scuola alberghiera.

    Un altro terreno di scontro, ormai da decenni, è quello della prescrizione, il cui regime è già stato modificato quattro volte negli ultimi diciotto anni, ed a cui si sta ponendo nuovamente mano: emblema di una giustizia che rassomiglia sempre più alla tela di Penelope, da fare e disfare come prezzo da pagare al processo penale divenuto terreno di scontro politico e di acquisizione del consenso elettorale.

    E non si torni a dire che la prescrizione è il vergognoso istituto che salvaguarda ricchi e potenti dal meritato castigo per le loro malefatte perché di vergognoso c’è solo un apparato che – come accaduto a Napoli e reso noto dai media – non riesce a terminare un processo alla criminalità organizzata in meno di vent’anni e dopo tre dalla conclusione non sono ancora note le motivazioni della sentenza. Una giustizia che arriva dopo un quarto di secolo non è degna di questo nome né per gli accusati né per le vittime…ma anche un tempo minore indigna: a Torino ne hanno impiegati sedici (di cui nove solo per fissare una data il giudizio di appello) per una violenza sessuale, a Milano un fascicolo relativo a gravi fatti di concussione è rimasto, insieme ad altri, a fare le ragnatele in un armadio per quasi quattordici anni prima di essere riesumato dal Magistrato “erede” del ruolo di un P.M. che prima di andare in pensione era ossessionato esclusivamente dall’indagare sulle cene eleganti ad Arcore.

    Sono solo alcuni esempi, se ne potrebbero fare altri: molti altri, troppi, egualmente distribuiti su tutto il territorio mentre la politica si affanna a cercare le più improbabili intese per varare riforme gattopardesche… e se qualcuno vi chiedesse a che punto è la notte della giustizia saprete cosa rispondere.

    Buon anno a tutti…

  • In attesa di Giustizia: Gotterdammerung

    Oddio, un dramma musicale come Il Crepuscolo degli Dei di Wagner è forse accostamento eccessivamente ardito al tema di questa settimana ma la repentina caduta d’immagine di alcune figure – fino al giorno prima quasi idolatrate – risulta fragorosa e munita di una certa drammaticità che non è solo nel destino dei protagonisti bensì quella insita in una società decadente pronta ad entusiasmarsi per un modello di vita sognato e che va ben oltre quello della “famiglia del Mulino Bianco” di Barillana memoria ed altrettanto lesta  ad omologarsi a quella dilagante linea di pensiero manettara e giustizialista da Fatto Quotidiano.

    Parliamo, ovviamente, dell’affaire del Pandoro Balocco che sta alimentando un dibattito assorbente su tutti i media risultando doppiamente fuori luogo perché il momento storico rassegna problematiche ben più gravi e meritevoli di continua attenzione e perché  – non inaspettatamente –  si è trasferito il tutto sul piano della rimproverabilità penale scatenando, nei salotti di casa prima ancora che nelle Procure della Repubblica, la caccia a colpevoli, già ritenuti tali, che non possono farla franca.

    In quest’ottica deve apprezzarsi la prudenza ed equilibrio con cui si stanno muovendo gli Uffici Inquirenti, sommersi da esposti di vari enti rappresentativi dei consumatori (con questi ultimi sollecitati a presentarne in proprio allegando lo scontrino di acquisto del pandoro della discordia e, in mancanza, ad autocertificarne la pregressa compera), che hanno ritenuto di iscrivere la segnalazione a Modello 45: vale a dire ad aprire indagini conoscitive senza ipotesi di accusa né indagati per fatti che apparentemente non costituiscono reato. Si tratta di un atto dovuto nel vero senso della parola non potendo essere ignorati gli esposti stessi, che suppongono la commissione di una truffa aggravata, destinandoli al cestino.

    Per quello che è dato sapere, peraltro, gli estremi del reato di truffa non ci sono: l’Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato, analogamente a quanto può fare il Giurì di Autodisciplina, interviene quando una pubblicità può risultare ingannevole, ma un conto è pubblicità ingannevole che è tale quando si spinge la vendita valorizzando qualità che non sono poi sviluppate ed altra cosa è la truffa che – in un caso simile –  si integrerebbe quando con artifizi e raggiri si induca taluno ad acquistare un pandoro per poi non trovare nulla nella confezione o qualcosa di completamente diverso.

    Chi ha comperato il “Pandoro griffato Ferragni” è stato condizionato nella scelta quando già aveva inteso comperare un dolce di quella tipologia, tuttavia orientandosi sulla scorta di una comunicazione fuorviante. La truffa, dunque, a parere di chi scrive, non c’è e non c’è neppure il reato di frode in commercio per configurare il quale è necessaria la vendita di un bene diverso da quello pattuito per origine, provenienza, qualità o quantità…e che la griffatura Chiara Ferragni costituisca una qualità del pandoro è revocabile in dubbio; tra l’altro se l’Authority, che ha avuto a disposizione tutto quanto necessario per la decisione, avesse rilevato indicatori di illeciti penali avrebbe dovuto spontaneamente trasmettere gli atti all’Autorità Giudiziaria…

    La verve del difensore si attenua, invece, nei confronti di chi, per conto di Chiara Ferragni, si occupa della comunicazione e non tanto per quella relativa al Pandoro Balocco e le finalità benefiche dell’operazione quanto per il suggerimento del video di scuse che, dal maquillage ai toni usati suona falso come una banconota da due euro.

    Colpevole! Certamente il curatore di questa rubrica non è un esperto di marketing, però è tra gli innumerevoli destinatari di quel messaggio, acquirenti o meno del dolce incriminato, e una certa consuetudine con la proposizione di balzane giustificazioni (sia pure in sedi differenti) l’ha maturata: in tutta franchezza quel messaggio è ben lontano dall’essere convincente, anzi, è frutto a sua volta di quella decadenza culturale cui si è alluso all’inizio. L’affaire Balocco presenta in tutte le sue forme quella trasvalutazione di tutti i valori cui si riferisce Nietzsche  nel suo Gotzen-Dammerung, che fa il verso proprio all’opera di Wagner ed il Crepuscolo degli Idoli cui assistiamo è il frutto malato di una moralità da bar sport che diventa strumento di controllo allo scopo di punire, di voler trovare colpevoli a tutti i costi: roba da Piercamillo Davigo che non merita neppure la Ferragni in pigiama penitenziale grigio, quasi penitenziario, se non fosse per il prezzo di listino.

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