Giustizia

  • In attesa di Giustizia: fuga dalla giustizia

    Devo ammettere che il sistema di consegna delle persone ricercate noto con l’acronimo MAE (Mandato di Arresto Europeo) non mi ha mai convinto molto: sul presupposto che i Paesi Membri della UE condividano sistemi giudiziari e tradizioni giuridiche comuni e condivisibili ed il conseguente principio di mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie, la richiesta di arresto di un cittadino in area Schengen sfugge nella maggior parte dei casi ad un controllo sostanziale dell’Autorità richiesta di valutarne la legittimità limitando la valutazione ad una verifica formale.

    Invero, ritenere che possa esservi una reale omogeneità tra sistemi penali che – viceversa – affondano le loro radici su culture fortemente dissimili costituisce una forzatura: basti pensare al diverso trattamento riservato a chi violi la legge sugli stupefacenti in Olanda, che rischia poco più che una ramanzina, piuttosto che in Italia dove le pene vanno fino a trent’anni di carcere ovvero alla circostanza che in Irlanda si rischia la reclusione per oltraggio alla Corte se non ci si presenta al processo mentre da noi (e anche altrove) è una libera scelta.

    Una tipicità del Mandato d’Arresto Europeo che lo distingue dalle convenzioni di estradizione è, però, pienamente condivisibile: l’avere sottratto al potere esecutivo la decisione finale sulla consegna al Paese richiedente, cioè a dire che il Ministro della Giustizia può decidere di darvi luogo o meno anche se l’Autorità Giudiziaria ha deciso diversamente. Una determinazione fondata esclusivamente su ragioni politiche.

    Cesare Battisti per lustri si è avvantaggiato di tale caratteristica restando a lungo gradito ospite in Francia ben protetto dalla cosiddetta “dottrina Mitterand” dal nome del Presidente che ne fu ispiratore e che era volta a concedere il diritto d’asilo a chi fosse ricercato per reati violenti ma di ispirazione politica. Purché, sia chiaro, non diretti contro la Repubblica Francese…Ne discendeva il rifiuto di qualsiasi richiesta di arresto ed estradizione da parte di Paesi terzi, soprattutto l’Italia negli “anni di piombo”.

    In vista dell’adozione del sistema MAE, che avrebbe posto nel nulla le garanzie ricevute, l’omonimo dell’eroe della Grande Guerra, che – al contrario – affrontò il patibolo austriaco piuttosto che l’onta della fuga, si organizzò una serena prosecuzione della latitanza trasferendosi, come noto, in Brasile dove certamente aveva già avuto rassicurazioni che il capo dello Stato, diciamo…progressista, lo avrebbe posto al riparo dalle pretese italiane.

    E così è stato fino a pochi giorni fa: il cambio di regime e del vertice istituzionale ha, però, fatto venir meno i presupposti di una libera permanenza al sole dei tropici per il pluriomicida. Peraltro, anche questa volta, il mutamento di tendenza era atteso e Battisti si è reso irreperibile: il Brasile è molto grande ma, soprattutto, è vicino alla Bolivia che, con il suo assetto politico attuale potrebbe essere il nuovo buen retiro di un fuggitivo il quale, anche questa volta si è sicuramente preparato al cambiamento con anticipo facendosi beffe di due Nazioni.

    Oltreoceano sono sbarcate le nostre Forze dell’Ordine per contribuire a ricerche che potrebbero essere tanto lunghe e complesse quanto vane e verosimilmente si tratta di un reparto altamente specializzato; ma un motivo di rammarico risiede nel fatto che, nonostante un facile pronostico sulle mosse di Battisti, le Autorità brasiliane non ne abbiano presidiato le prevedibili mosse, scongiurando la fuga.

    L’attesa di assicurare alla Giustizia un criminale continua, succube di scelte che con la Giustizia stessa non hanno alcuna affinità.

  • In attesa di Giustizia: gli ossimori di via Arenula

    Chi si ricorda di Soccorso Rosso? Era una struttura nata negli anni di piombo per offrire – tra l’altro –  assistenza legale ed economica ai militanti della sinistra extraparlamentare.

    Ora, nel terzo millennio, prende vita “Soccorso Rousseau”, chiamiamolo così per assonanza con la piattaforma internet del M5S su cui si esprimono e scambiano idee e proposte anche legislative; invero si tratta dello Scudo della rete: funzione che si propone di garantire la difesa ad iscritti e rappresentanti eletti del Movimento raggiunti da iniziative legali che il Ministro della Giustizia ritiene che non di rado siano avviate a scopo intimidatorio.

    Il Guardasigilli, attraverso il sito, si è rivolto agli avvocati in generale e con toni confidenti li ha sollecitati a mettersi a disposizione assicurando la migliore assistenza, purché a costi contenuti indipendentemente dalla complessità della causa.

    A prescindere da possibili aspetti di rilevanza deontologica di cui non è il caso di interessarsi in questa sede, del fatto che un Avvocato con la A maiuscola è votato e tenuto a dare sempre il massimo, secondo le proprie competenze effettive una volta accettato un incarico, ciò che stupisce è l’ondivaga valutazione dei professionisti e del substrato delle  imputazioni.

    Ma come? Gli avvocati non erano tutti azzeccagarbugli (parole dell’On. Bonafede) da sottoporre al vaglio di una misteriosa filiera etica per accertarne i valori morali essendo presuntivamente sospetti di prossimità con il crimine organizzato (proposta del Presidente a Cinque Stelle della Commissione Parlamentare Antimafia)?

    E dei processi non ne vogliamo parlare? Questo non è forse il Paese dove non esistono innocenti ma solo colpevoli che “l’hanno fatta franca” secondo l’autorevole opinione di un Magistrato molto apprezzato dal Movimento per la sua visione della Giustizia?

    Allora c’è speranza,  il tessuto sociale non è del tutto marciscente! Si sappia che esistono potenziali vittime di persecuzione giudiziaria, di liste di proscrizione, cittadini accusati ingiustamente perché colpevoli solo di essere seguaci di Grillo.

    A costoro, tuttavia, bisognerà garantire un giusto processo che – forse – non è quello auspicato nei più recenti proclami e subitaneamente sostenuto con proposte inascoltabili dell’Associazione Nazionale Magistrati volte – più che altro – a eliminare di fatto il giudizio di appello. E se un militante 5 Stelle fosse condannato per errore? Può succedere, la giustizia degli uomini è per sua natura fallace: pazienza, in un sistema penale da Antico Testamento forse potrà contare sul perdono di Dio, il Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola.

    Ossimori…è vero che, a rigore, il termine esprime contrasto all’interno della medesima frase ma – in fondo – anche nel nostro caso caratterizza una linea di pensiero di origine unitaria che, altrettanto, esprime mancanza di senso logico.

    Tempi duri per la Giustizia e chi ne resta in attesa. E se, alla fine, ci sarà chi si lamenta ma nelle urne si è espresso in un certo modo, ricordi che di questa politica non è vittima ma complice.

  • In attesa di Giustizia: scherzi a parte

    Nicola Morra, chi era costui? Ma come chi era? Chi è: il neo Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, Senatore del M5S!

    In carica dal 14 novembre, in un’intervista ha illustrato le sue intenzioni e proposte che ne caratterizzeranno il mandato come successore di Rosy Bindi: tra queste spicca l’istituzione di una sorta di certificato di moralità per gli appartenenti ad alcuni ordini professionali che ne attesti, sembra di capire, l’assenza di contiguità con il crimine organizzato: tra questi, anzi tra i primi, ovviamente vi sono gli avvocati.

    La verifica di tale requisito dovrebbe essere affidato ad un controllo di filiera etica.

    Le domande che sorgono spontanee sono più di una: la prima di queste riguarda proprio il controllo di filiera etica…cosa sarà mai? E se non sappiamo cosa sia (il Senatore non lo spiega, ogni ipotesi è aperta…) appare problematico individuarne la dinamica di funzionamento; e ancora: perché non sono bastevoli i codici deontologici che ogni Ordine Professionale adotta unitamente a un sistema disciplinare il cui rispetto è affidato ad organi istituzionali già costituiti? Già, a proposito: a chi sarebbe affidato il compito di analizzare gli standard morali dei professionisti e su che basi? E poi? Chi supera l’”esame” avrà un attestato come le spiagge con il mare pulito?

    C’è da temere che, per gli avvocati, la circostanza che abbiano accettato incarichi da soggetti sospettati di appartenenza ad una associazione mafiosa possa divenire criterio dirimente in negativo a causa della ormai abusata e fuorviante immagine che si tende a rappresentare dell’avvocato colluso con il proprio assistito.

    Probabilmente siamo al cospetto della ennesima iniziativa di una parte politica che si sente investita di una missione purificatrice da portare a termine anche effondendo il sacro fuoco sugli Ordini Professionali mentre per altro verso si mette mano al diritto penale simbolico con la ideazione di  nuove ipotesi di reato e inasprimento delle pene.

    Forse sarebbe meglio pensare per prima cosa ad un miglioramento del servizio Giustizia e valga un esempio per chi fa della certezza della pena un obiettivo primario di governo: all’ufficio esecuzione sentenze penali della Procura di Milano (vale a dire quello che, in una delle sedi giudiziarie maggiori, si occupa di emettere gli ordini di carcerazione per i condannati con sentenza definitiva) di trenta segretari e cancellieri che dovrebbero essere a ruolo organico – fondamentale supporto dei magistrati addetti – ne sono rimasti in servizio una dozzina e a breve ne andranno in pensione altri quattro; di reclutamento attraverso il necessario concorso si fanno solo chiacchiere perché poi mancano le risorse economiche per gli stipendi e, a supplenza, sono stati inviati alcuni barellieri della Croce Rossa. Se, poi, l’arretrato diventa insostenibile e chi deve scontare una pena resta in libertà è conseguenza ovvia con buona pace degli epigoni della tolleranza zero.

    Invece dobbiamo pensare alla filiera etica e, possibilmente, a qualche nuova Authority – certamente munita di adeguato personale – che ne curerà i risultati distribuendo attestati di legalità  tra i destinatari del controllo tra i quali oltre agli avvocati il Senatore Morra ne ha citati anche altri quali commercialisti, architetti, ingegneri; per non incappare in discriminazioni poco giustificabili bisognerebbe suggerirgli di non dimenticarsi, per esempio, di nutrizionisti e veterinari.

    Il tutto tranne che qualcuno non appaia, garrulo, a dire: sorridete, siamo su Scherzi a Parte!

  • In attesa di Giustizia: i miserabili

    Il titolo di questa rubrica è “in attesa di Giustizia”, attesa che a volte si rivela molto lunga, a volte del tutto vana, altre – invece – mostra inattesa efficienza e un volto, più che austero, truce come accade a Salerno dove si sta celebrando l’incidente probatorio in un procedimento “collettivo” per estorsione: vale a dire che, ancora nella fase delle indagini, si anticipa l’acquisizione di prove testimoniali davanti a un Giudice in contraddittorio tra difese e P.M.: le deposizioni saranno poi utilizzabili nel dibattimento vero e proprio, alleggerendone il carico di lavoro e assicurandosi che la prova non vada dispersa per una successiva irreperibilità o indisponibilità (magari per motivi di salute o simili) dei testi.

    Il procedimento di cui parliamo è a carico di numerosi parcheggiatori abusivi che nel richiedere una mercede per il servizio prestato, proprio a causa della loro condizione che non la legittimava, avrebbero commesso il reato di estorsione punito con la reclusione fino a dieci anni.

    Onore, dunque, alla Procura salernitana che, con un’operazione di polizia del luglio scorso, ha sgominato questa congrega di ignobili malfattori, risolvendo la piaga sociale del parcheggio abusivo e dando vita a un memorabile maxi processo di cui, inspiegabilmente, le cronache diverse da quelle locali nulla riferiscono.

    Si sono ascoltati moltissimi testimoni, provenienti da ogni parte d’Italia, soggetti che si erano trovati a subire le intollerabili vessazioni dei parcheggiatori senza titolo: uno per l’altro hanno riferito di avere versato 50 centesimi, a volte un euro, visti più che altro come un gesto di carità e che le deposizioni precedenti non rispecchiavano per nulla il loro pensiero, avendo sottoscritto i verbali con la premura di chi vuole esaurire nel più breve tempo possibile un impiccio.

    Il P.M. di udienza a sentir ciò ha lasciato in un primo momento intendere che avrebbe messo sotto processo i testimoni per aver detto il falso, salvo poi rendersi conto che sarebbe stato quanto meno molto originale un altro maxi processo contro decine di persone per falsa testimonianza in un siffatto contesto.

    In qualche modo anche questa vicenda avrà un esito cercheremo di sapere quale: forse, però, la scelta migliore sarebbe stata, fin dall’inizio, chiedere l’archiviazione – come è possibile fare – per particolare tenuità del fatto: cioè a dire che il reato c’è ma talmente marginale da rendere il comportamento dell’autore irrilevante sotto il profilo penale.

    Invece, no: si è pensato che fosse meglio mostrare i muscoli dell’implacabile potere punitivo dello Stato contro quei poveretti ridottisi a mendicare qualche centesimo facendo i parcheggiatori abusivi e che ricordano “I Miserabili” di Victor Hugo: persone cadute in miseria, ex forzati, prostitute, monelli di strada, studenti in povertà.

    Un processo del genere allo Stato costa, e non poco, sia in termini economici che di impiego di risorse umane. Ai testimoni tempo sottratto al lavoro, alle famiglie, allo svago: ma è un dovere civico e un obbligo di legge andare a deporre…anche per una questione di centesimi.

    Ai parcheggiatori abusivi tutto ciò comporta l’ansia e la pena anticipata di un processo che si poteva evitare, mentre alla comunità, ai cittadini di una regione ad alta densità criminale, francamente non viene offerto nessun sollievo.

    E noi, da ultimi, ci interroghiamo se congratularci perché tutto ciò conferma che la legge è veramente uguale per tutti, perché la Giustizia di cui siamo in costante attesa infine è arrivata anche in questo caso o perché un fenomeno delinquenziale di questa portata è stato debellato e non affligge più il salernitano…ma anche no.

     

  • In attesa di Giustizia: in assenza di giustizia

    Da qualche settimana a questa parte si parla molto – lo abbiamo fatto anche qui – di legittima difesa, contrasto alla corruzione, prescrizione, riforma del processo penale e molti altri argomenti – come sempre, come tutti quelli che riguardano il settore giustizia forieri di polemiche.

    Giustizia, appunto: è ciò di cui tratta questa rubrica, un po’ polemicamente richiamandone un’attesa che non di rado è assai lunga, talvolta addirittura vana come nel caso, che sembra dimenticato, del Tribunale di Bari.

    Proprio per questo motivo, vale la pena rinfrescare la memoria anche dei lettori: alle soglie dell’estate scorsa, il Tribunale del capoluogo pugliese è stato dichiarato inagibile, pericolante, qualcuno ha parlato anche di edificazione abusiva (!) della struttura che  – peraltro  – avrebbe dovuto originariamente ospitare tutt’altri uffici pubblici. Infissi cadenti, infiltrazioni di umidità, impianti elettrici allo scoperto e forse neppure a norma, buchi nei muri e quant’altro possa identificare una costruzione fatiscente erano ormai una realtà sotto gli occhi di tutti da anni ma nessuno ha fatto nulla fino a quando non si è raggiunto il punto di non ritorno che ne ha determinato la chiusura.

    Ma se il Tribunale è chiuso, le udienze dove si fanno e la Giustizia come si amministra? Dapprima fu  l’obbrobrio della tendopoli installata dinanzi al tribunale e le udienze celebrate, a seconda, sotto il solleone piuttosto che i temporali estivi…intanto è arrivato un decreto legge: si faranno solo i processi con detenuti, tutti gli altri no fino a che non si troverà una sistemazione, sospendendo il corso della prescrizione sebbene la responsabilità del rinvio sia della Pubblica Amministrazione. Decreto incostituzionale ma passato indenne dal visto del Quirinale.

    Sono passati mesi nei quali una soluzione non sembra neppure abbozzata: i processi di cui è prevista la celebrazione non si fanno più sotto le tende ma dove capita, secondo le disponibilità di altri edifici come il vecchio Tribunale (che ospita ancora la Corte d’Appello e uffici giudiziari diversi) o quelli di sedi distaccate. Nel frattempo si registrano smarrimenti continui di fascicoli, deterioramento e perdita di parte degli atti contenuti, i servizi di cancelleria funzionano con i limiti che si possono immaginare e l’arretrato sta incrementando a livelli insostenibili e richiederà anni ed anni per essere smaltito una volta tornati – chissà quando –  alla normalità: l’intero settore logistico legato al settore è semi paralizzato.

    Intanto, le Forze dell’Ordine non sanno nemmeno come regolarsi con gli arresti perché non si sa chi se ne possa interessare con la tempestività dovuta: il tutto in un territorio ad alta densità criminale ma anche interessato da attività imprenditoriali rilevanti e massicci flussi turistici. Si è posto il focus sull’area penale perché è quello che ostenta le più evidenti criticità ma, va da sé, anche quello civile risulta coinvolto nel disastro.

    Di Bari e della sua condizione di assenza di Giustizia sembra davvero che tutti si siano dimenticati e l’impatto è micidiale sotto il profilo economico anche in considerazione del fatto che a questo sfacelo sopravviveranno solo alcuni studi legali, sia pure a costo di ridurre significativamente la struttura con perdita di posti di lavoro: soprattutto gli avvocati più giovani sono destinati a chiudere l’attività con conseguente perdita di anzianità ai fini contributivi e pensionistici e a rimettersi in gioco ricercando un’occupazione diversa e per la quale non dispongono della inclinazione e professionalità di base.

    Come dire, altre centinaia di persone senza futuro, non meno della giustizia, travolti da un incomprensibile oblio.

  • In attesa di Giustizia: il manifesto elettorale

    Torniamo a parlare della prescrizione: l’argomento ha tenuto banco per tutta la settimana perché la sua proposta di modifica ha condotto se non sull’orlo di una crisi di governo (ma quasi) su quella di una crisi di nervi tra componenti della maggioranza governativa (anzi oltre); poi, come politica vuole, si è raggiunto un compromesso. Si farà ma più avanti insieme a una riforma complessiva del processo penale. Quindi, forse.

    Così come pensata, sospensione definitiva dopo la sentenza di primo grado, disegnerà un sistema del processo che manterrà una persona, per un tempo assolutamente indefinito, nella qualità di imputato, anche se assolto ma la sentenza appellata dal Pubblico Ministero. Con buona pace della tutela delle parti offese dalla commissione dei reati, che attenderanno giustizia molto a lungo.

    La riforma si rivelerà, comunque, tardiva, inefficace ed irrealizzabile.

    Sarà tardiva perché applicabile solo anni dopo la sua approvazione: potrà, infatti, riguardare solo i reati commessi dopo la sua entrata in vigore e, quindi, considerando tempi di scoperta, avvio delle indagini, rinvio a giudizio celebrazione e termine del processo di primo grado.

    Inefficace perché i dati statistici provenienti dal Ministero della Giustizia segnalano che, in percentuale preponderante il termine di prescrizione matura nella fase delle indagini preliminari e riguarda reati di marginale offensività: difficile pensare che impatti su un reato di corruzione, visto che la norma sembra essere stata suggerita proprio dalla volontà di contrastare fermamente questo fenomeno,  perché già oggi servono diciotto anni. E uno Stato, un sistema, che si teme non riescano a garantire la fine di un processo in un simile lasso di tempo segnalano altro genere di problemi  strutturali cui converrebbe prestare subito maggiore attenzione.

    Irrealizzabile perché in contrasto con il parametro Costituzionale del giusto processo e della sua ragionevole durata mentre l’allungamento dei tempi prescrizionali rappresenta il presupposto di una denegata giustizia che consentirà alle Corti d’Appello ed alla Corte di Cassazione di dilatare a discrezionalmente i tempi di celebrazione ricorrendo ad una sorta di eugenetica giudiziaria con priorità offerta a taluni casi piuttosto che ad altri. Il processo, per garantire la parità dei cittadini davanti alla legge deve avere irrinunciabilmente tempi circoscritti che non possono essere lasciati ad una determinazione casuale o alla diversa organizzazione degli Uffici Giudiziari sul territorio.

    Il Guardasigilli, peraltro, ha anticipato importanti interventi mirati alla assunzione di personale nel comparto giustizia che consentirà migliorie di funzionamento della macchina della giustizia che se vi fosse – magari! – non richiederebbe alcun intervento sulla prescrizione: in ogni caso si tratta di un mero annuncio perché la generica previsione di spesa non è supportata da una adeguata analisi delle necessità del settore, posto prima di qualsiasi intervento strutturale è necessario studiare i motivi della inefficienza come diversificati per specifici ambiti operativi e territorio. Di qualcosa di simile non vi è traccia.

    Lo stesso principio della certezza della pena, così caro alle forze di Governo alla perenne ricerca di consenso, è nella realtà tradito perché paradossalmente la pena non sarà più certa: a prescindere dalle aspettative delle vittime, un imputato non saprà più quando verrà definitivamente assolto o condannato. Se condannato, certamente ci sarà una pena: ma una pena tardiva può considerarsi come giusta e certa e diventare un efficace strumento dissuasivo? Quello della modifica della prescrizione non è un intervento mirato e pensato nell’interesse del Paese e della Giustizia (questa volta con la G maiuscola) ma solo l’ennesimo manifesto di una politica in perenne campagna elettorale.

     

  • In attesa di Giustizia: il conte Attilio

    Sapete da cosa si capisce se, in un incidente stradale, è rimasto vittima un cane oppure un avvocato? Nel caso dell’avvocato non ci sono tracce di frenata…è una delle freddure da cui si ricava – paradigmaticamente – l’impopolarità di questa categoria di professionisti sebbene la funzione dell’avvocato abbia un riconoscimento nella Costituzione laddove, all’art. 24 reca che la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, con ciò intendendosi qualsiasi genere di giudizio: civile, amministrativo, contabile, tributario piuttosto che penale.

    Ma tant’è: gli avvocati sembrano non godere di grandi simpatie, soprattutto negli ultimi tempi: si è levata per prima la voce del SINAPPE, che è il Sindacato di categoria della Polizia Penitenziaria, scagliatosi con un comunicato in cui si lamentano alcune recenti modifiche dell’Ordinamento Penitenziario che, tra l’altro, conterrebbero “un regalo agli avvocati finanziato dai cittadini col gratuito patrocinio” lamentando in particolare la facoltà data ai carcerati di richiedere un risarcimento per le inaccettabili condizioni detentive (stigmatizzate, peraltro, dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che sarebbe il frutto normativo avvelenato di un Parlamento in cui è massiccia la presenza dell’avvocatura, regista occulta di simili manovre volte a far proliferare l’attività della categoria remunerata, spesso e benevolmente, dal patrocinio concesso dallo Stato. Insomma, un lobbismo da cialtroni che agevola degli accattoni.

    Ma non basta e c’è di peggio: monta, infatti, la polemica – anche interna, a livello di compagine governativa –  in merito alla proposta di sospendere definitivamente il corso della prescrizione dei reati dopo il giudizio di primo grado e, a tacere delle criticità anche di ordine costituzionale (magari ci ritorneremo in dettaglio con un prossimo articolo) che conseguirebbero ad un siffatto intervento, gli epigoni della riforma non hanno perso l’occasione per parlare a sproposito e  per di più offendendo l’Avvocatura.

    Infatti un Senatore M5S, tale Urraro, ha affermato che la riforma porterà ad un abbreviamento dei processi perché gli imputati non avranno più interesse ad allungarne i tempi per arrivare alla prescrizione.

    Gli ha fatto eco e dato supporto il Guardasigilli Bonafede condividendone il pensiero ed aggiungendo che in questo modo si porrebbe finalmente un freno agli espedienti che – secondo lui –  gli avvocati azzeccagarbugli metterebbero in campo per conseguire il traguardo della impunità per i loro assistiti.

    Urraro e Bonafede sono avvocati, così almeno risulta dalla biografia di entrambi, e dovrebbero ben sapere due cose entrambi e tre il Ministro: che la percentuale in assoluto preponderante di reati estinti per  prescrizione si registra nella fase delle indagini preliminari, cioè quando il dominus assoluto del processo è il Pubblico Ministero; quest’ultimo – oberato di fascicoli – spesso opta per trascurarne alcuni a vantaggio di altri aventi maggiore priorità e lasciando così prescrivere reati peraltro bagatellari.

    Dovrebbero, poi, sapere che qualsiasi allungamento del processo causato dal difensore o dall’imputato genera già adesso  per legge la sospensione della prescrizione e – quindi – questi espedienti quasi truffaldini cui hanno fatto riferimento sono del tutto inutili a determinare l’estinzione del reato per decorso del tempo.

    Il Ministro, poi, spingendosi a definire gli avvocati azzeccagarbugli dovrebbe sapere – essendo lui stesso avvocato – che una simile aggettivazione, oltre che ingiustificata, è diffamatoria e dunque integra un reato.

    Bonafede, criticatissimo da più parti per questa infelice uscita,  si è poi scusato, ha spiegato che non voleva offendere e che la sua frase è stata equivocata.

    Sarà: all’apparenza – se la lingua italiana ha ancora un senso – spazio agli equivoci non se ne ravvedono e dopo queste infelici espressioni aggiunte agli impropri argomenti di sostegno alla proposta di legge viene piuttosto da pensare a quel Conte Attilio dei Promessi Sposi che, spavaldo ed arrogante altrove, alla tavola di Don Rodrigo esprimeva tutta la sua subalternità di fronte proprio ad Azzeccagarbugli.

  • In attesa di Giustizia: quando la giustizia diventa vendetta sociale

    Non è una novità che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rilevi delle criticità nel nostro ordinamento: recentemente, dopo che l’istituto era stato scrutinato negativamente anche dalla Corte Costituzionale (e ne abbiamo trattato su un numero di qualche settimana addietro), l’attenzione si è posata ancora sull’articolo 41bis dell’Ordinamento Penitenziario, quello che prevede un regime detentivo particolarmente duro per i carcerati ritenuti a più elevata pericolosità: generalmente e per espressa previsione normativa, gli appartenenti ad associazione mafiosa.

    Ovviamente, anche Bernardo Provenzano vi era sottoposto e tale era rimasto anche quando le sue condizioni di salute erano diventate tali da renderlo obiettivamente inoffensivo e proprio al suo caso si  è interessata la CEDU registrando una violazione dei diritti fondamentali: ma, tant’è, nonostante che le Procure interessate alla esecuzione della pena del boss (Palermo, Firenze e Caltanissetta) avessero formulato parere favorevole alla revoca del 41bis, il Ministero e la Procura Nazionale Antimafia si sono opposti sostenendo che il detenuto poteva ancora impartire ordini e comunicare con l’esterno.

    Bernardo Provenzano è morto il 13 luglio 2016 sottoposto a carcere duro sebbene le sue condizioni fossero tali da renderlo sostanzialmente una larva: allettato da circa due anni, quarantacinque chili di peso, nutrito attraverso un sondino il cui scollegamento avrebbe provocato la morte nel giro di un paio di giorni; privo di orientamento, affetto da encefalopatia degenerativa, rimane un mistero come avrebbe mai potuto esprimere pericolosità non diversamente contenibile se non attraverso un trattamento disumano.

    Si dirà, è stato anche detto da autorevoli esponenti politici: inumani sono stati i comportamenti di Provenzano in vita, responsabile di omicidi e non solo, per un criminale così non può esserci nessuna pietà.

    Credo che di uno Stato che non amministra Giustizia bensì realizza forme di vendetta sociale non abbiamo bisogno: il rigore cui era sottoposto Bernardo Provenzano prevedeva – come per tutti quelli nelle sue condizioni – una limitazione dell’ora d’aria che da allettato in stato vegetativo non poteva fare, così come non avrebbe potuto comunque leggere la corrispondenza se prima non sottoposta a censura, né poteva prepararsi pasti caldi (il divieto recentemente ritenuto irragionevole dal Giudice delle Leggi) e tantomeno comunicare durante le limitate visite dei famigliari. Tutto ciò solo per fare alcuni esempi tra i vincoli di cui era destinatario e senza dimenticare che il suo ricovero era stato disposto presso il braccio penitenziario dedicato dell’Ospedale San Paolo di Milano: dunque in regime neppure di piantonamento presso struttura sanitaria ma di permanente detenzione che assicurava il massimo della sicurezza possibile.

    Bernardo Provenzano in vita resta quello che le sentenze di condanna hanno descritto e ha scontato la sua pena fino in fondo: tuttavia l’ultimo periodo di espiazione rassomiglia tanto a quel truce spettacolo fondato sul principio “occhio per occhio dente per dente” messo in scena nelle camere della morte dei penitenziari statunitensi dove il difensore, il Procuratore Distrettuale e i famigliari delle vittime possono assistere alla esecuzione del condannato.

    Lo Stato di Diritto è, dovrebbe essere, un’altra cosa: doverosamente rigoroso nei confronti di chi ne ha violato le leggi ma mai vindice. La lenta agonia in carcere di Bernardo Provenzano si sarebbe compiuta comunque e ben poteva far parte della sua pena ma l’accanimento inutile che l’ha accompagnata ha il sapore acre della tortura piuttosto che della Giustizia.                 

  • In attesa di Giustizia: errare humanum est

    Il dogma della infallibilità su questa terra può riferirsi solo al Pontefice: nel mondo della Giustizia le cose vanno diversamente e – non a caso – il nostro sistema prevede tre gradi di giudizio che, a parere di alcuni, sono troppi ed ingiustificati, reclamando la soppressione di quello di appello.

    A sproposito, i cultori della riduzione delle garanzie processuali citano gli esempi di altri Paesi: di solito gli Stati Uniti dove non è affatto vero che l’ordinamento preveda meno possibilità di impugnazioni rispetto al nostro; se mai, è proprio il contrario con l’unica differenza che oltreoceano i processi sono tutti con giuria (anche quelli di natura civile) che pronuncia un verdetto, cosa molto diversa da una nostra sentenza perché non ha una motivazione in fatto e diritto che segua la decisione. In appello, però, ci si va eccome: essenzialmente per violazioni della procedura in cui è incappato il Giudice che ha diretto il dibattimento, ma anche per altri motivi tra cui persino la dimostrata inadeguatezza della difesa.

    La ontologica fallacia della giustizia degli uomini non può, dunque, prescindere dalla facoltà attribuita all’accusato di difendersi facendo riesaminare il proprio caso da Giudici di grado superiore, fosse anche solo perché ciò che si lamenta è una pena eccessiva.

    Proprio di innalzamento delle pene si sente parlare ultimamente sempre più spesso come se fosse la panacea di tutti i mali, la facile risposta con rimedio dissuasivo ad istanze securitarie sempre più avvertite – non meno che sollecitate, soprattutto in un clima di permanente campagna elettorale – nella opinione pubblica.

    I numeri, però, se parliamo di riduzione dei gradi di giudizio, non mentono e dicono qualcosa di differente che dovrebbe far riflettere tanto il popolo dei giustizialisti quanto il legislatore laddove volesse assecondare anche questa pulsione forcaiola.

    Ogni anno in Italia vengono riconosciuti oltre un migliaio di risarcimenti per ingiusta detenzione; tradotto: è la riparazione economica per chi abbia subito una carcerazione preventiva salvo poi essere assolto. A prescindere dal fatto che, con una infinità di stratagemmi argomentativi (volti essenzialmente a limitare i danni per le esauste casse dello Stato) non tutte le prigionie rivelatesi ingiustificate ottengono un ristoro, quei numeri dicono che mediamente ogni otto ore viene arrestato un innocente.

    A questi casi si aggiungono gli errori giudiziari che sono qualcosa di diverso e ancora più grave: riguardano chi abbia subito un processo riportando una condanna definitiva successivamente sottoposta a revisione per il sopravvenire di prove a discarico di un imputato che, nel frattempo, ha scontato anche molti anni di carcere, privato della propria famiglia, lavoro, dignità oltre che della libertà.

    L’errore giudiziario, spesso, esprime la superficialità delle investigazioni che – per disposto normativo – il Pubblico Ministero dovrebbe (ma non fa praticamente mai) svolgere anche in favore dell’indagato e invece sono orientate a senso unico in ottica colpevolista.

    Può essere forse utile un passaggio dal sito errorigiudiziari.com per capire meglio di cosa si stia parlando senza che sia necessario passare in rassegna (ne basta qualcuno come esempio) le centinaia di casi di errori giudiziari ricordati.

    Serve un momento di riflessione su una Giustizia che non ha certo bisogno di un ulteriore perimetro alle garanzie, trasformata da categoria dello spirito, comportante vincoli etici e indicazioni culturali inderogabili in un mezzo tecnico di difesa collettiva ritenuto tanto migliore quanto più drastico nella sua efficienza.

     

  • In attesa di Giustizia: buon appetito!

    No, non vi siete sbagliati, la rubrica di ricette è altrove su queste colonne: qui continuiamo a parlare di Giustizia, o quel che ne resta…questa settimana prendendo spunto da una recentissima decisione della Corte Costituzionale che contribuisce a fare del nostro un Paese meno imbarbarito da una legislazione troppo spesso subalterna alla piazza ed alle pulsioni giustizialiste che ne derivano.

    Credo che tutti i lettori abbiano sentito parlare del regime detentivo previsto dall’articolo 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario: il cosiddetto “carcere duro” che viene inflitto, con provvedimento del Ministro Guardasigilli, ai prigionieri ritenuti più pericolosi poiché inseriti (o supposti tali…non è necessaria una sentenza definitiva di condanna) in associazioni  di elevata statura criminale.

    Le condizioni in cui vivono la carcerazione questi detenuti sono effettivamente rigidissime e volte ad impedire che anche dall’interno di un penitenziario mantengano i rapporti con le rispettive consorterie di appartenenza: per esempio, i colloqui con i famigliari sono limitati e avvengono in ambienti in cui il contatto sia ridotto al minimo, l’isolamento all’interno della struttura è pressoché totale anche nell’ora “d’aria”, sono limitati i beni che possono ricevere dall’esterno, sono sostanzialmente esclusi da benefici di legge.

    Fino a venerdì scorso, questi carcerati – alcuni dei quali, come detto, sono assistiti ancora dalla presunzione di innocenza – a tutti gli altri limiti loro imposti dovevano sommare il divieto di potersi preparare il pasto in cella, a proposito del quale il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale ha rilevato che si tratta di: “un momento che costituirebbe modalità umile e dignitosa per tenersi in contatto con le usanze del mondo esterno, il ritmo dei giorni e delle stagioni nel fluire di un tempo della detenzione che trascorre altrimenti in un’aspra solitudine”.

    Mafiosi reali o presunti che fossero i destinatari di questa disposizione, la norma suona come una inutile barbarie di cui il Giudice delle Leggi ha fatto giustizia scrutinandone l’incostituzionalità sotto il duplice profilo di violazione degli articoli 27 che postula che le pene (e, quindi, la loro modalità di esecuzione) non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e 3 della Costituzione.

    L’esame di quest’ultimo è interessante perché, sebbene esprima il concetto di parità dei cittadini davanti alla legge, esprime, sottendendolo, il principio di ragionevolezza perché – secondo l’elaborazione giurisprudenziale che la Corte ha consolidato da tempo – l’eguaglianza davanti alla legge significa divieto di discriminazione irragionevole.

    Il principio di uguaglianza diventa, così, parametro fondamentale di ragionevolezza di cui le leggi devono essere munite: ne consegue che anche il trattamento con una data pena di una certa categoria di reati e di colpevoli (o presunti tali…) diventa suscettibile di giudizio sulla sua ragionevolezza se gli elementi su cui si fonda non risultino obbiettivi, rilevanti, giustificabili.

    Forse non sarebbe stato necessario che a dirlo fosse la più alta Giurisdizione della Repubblica, sarebbe dovuto bastare (ad averne) il buon senso del legislatore per capire che il divieto di cottura dei cibi “è privo di ragionevole giustificazione perché incongruo e inutile alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione (l’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario)”. Così, testualmente scrive la Corte Costituzionale cancellando dal sistema una disciplina che non poteva definirsi che indecente…e giustizia è fatta anche se l’attesa è durata molti anni.

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