Giustizia

  • In attesa di Giustizia: all’arrembaggio, miei prodi!

    Il commento di oggi è ragionato sulla legge in generale, su come sono regolati – in particolare – i rapporti tra poteri dello Stato, e gli equilibri istituzionali: parliamo della vicenda del pattugliatore della Guardia Costiera Ubaldo Diciotti e del suo carico di naufraghi migranti.

    L’unità navale era intervenuta a prestare soccorso ad un’imbarcazione con a bordo una sessantina di  migranti a rischio naufragio ed è rimasta a lungo in balia di ordini controversi:  in assenza del Premier, i suoi due Vice non si sono messi d’accordo né sul da dirsi né sul da farsi, finendo con l’esprimere valutazioni e intendimenti opposti: l’uno per offrire soccorso, l’altro per sventare lo sbarco mentre tuonava anche la voce del Ministro delle Infrastrutture che ha indirizzato la prua dei soccorritori verso il porto di Trapani.

    La sgomentevole saga si è arricchita di emozioni per la notizia di presunte violenze commesse durante i trasbordi da due migranti sospettati di essere al soldo dei trafficanti di umani facendo subito alzare i toni da parte del Ministro dell’Interno che – dimentico per un istante che il nostro non è (ancora?) uno Stato di Polizia – ha immediatamente invocato manette per tutti…e così è entrata in gioco anche la Procura della Repubblica di Trapani, unica autorità competente per valutare la eventuale fondatezza della ipotesi di reato e che ha sciolto la propria riserva solo dopo adeguati approfondimenti e iniziali indagini.

    Per risolvere lo stallo, con l’unità navale a bordeggiare nell’incertezza, è dovuto intervenire il Presidente della Repubblica (non è chiaro se dopo avere interpellato il Premier o meno), che aveva monitorato la situazione per l’intera giornata; per risolvere il garbuglio istituzionale che si era creato – per usare un eufemismo rispetto a confusione e conflitto di poteri –  nella sua qualità di Capo delle Forze Armate ha disposto che fosse consentita la discesa a terra dei migranti da una imbarcazione militare che null’altro ha fatto che rispettare il proprio dovere e gli obblighi giuridici incombenti non meno delle tradizioni della marineria circa il soccorso ai naufraghi.

    Al commentatore non meno che al cittadino non può sfuggire il preoccupante disallineamento tra forze di governo, miscellanea di autorità, opaca interpretazione di norme morali prima ancora che giuridiche risolto esclusivamente grazie al buon senso e all’autorevolezza del Capo dello Stato.

    E’ stato detto in premessa: il commento di oggi non è in materia di Giustizia in senso stretto, ma la bagarre  evidenziata in questa occasione è tristemente paradigmatica: se la Giustizia è frutto anche di una politica rispettosa di ruoli, funzioni e – quindi – di equilibrato esercizio del potere legislativo, l’attesa sarà ancora lunga.

  • In attesa di Giustizia: libertà perdute

    Coloro che hanno la capacità di sopportazione di leggermi su queste colonne, anche di quando in quando, sanno che sono un difensore delle garanzie  appassionato della Costituzione che assegna quelle primarie e inalienabili.

    Un avvocato, d’altronde, la Carta Fondamentale dello Stato la deve conoscere: sorprende, dunque, e non solo chi scrive, l’affermazione del sottosegretario alla Giustizia, On. Morrone, a proposito della necessità di eliminare le correnti di sinistra della Magistratura (violazione degli artt. 3, parità di diritti tra i cittadini e 18 della Costituzione) poi corretta estendendola a tutte le correnti: violazione del solo art. 18 che sancisce la libertà di associazione.

    Va detto che una ragione di fondo l’On. Morrone ce l’ha perché la fragmentazione in correnti della Magistratura si è rivelata dannosa soprattutto con riguardo al funzionamento del Consiglio Superiore che risulta condizionato dalla necessità di mediare le proprie decisioni nel rispetto di equilibri e interessi tra le diverse componenti, facendone così un  politicizzato con poteri effettivi (autoassegnatisi) più estesi di quelli istituzionali e non quello di autogoverno previsto – ancora una volta – dalla Costituzione.

    Esprimersi in quel modo, peraltro, è stato sbagliato sia dal punto di vista del diritto che politico…anche perché il rimedio è stato peggiore del male quando si è giustificato dicendo che è abituato a parlare in sedi differenti quali i comizi: come a dire che in campagna elettorale si possono dire e promettere cose che poi non avranno nessuna corrispondenza nei fatti. Ma questo, forse, già lo sapevamo e ce ne eravamo accorti da lungo tempo e con riguardo all’arco parlamentare quasi al completo.

    Lamentarsi sempre di ciò che accade a casa nostra, peraltro, non è giusto perché altrove non si viva esattamente come nella Città del Sole di Tommaso Campanella.

    Per restare in ambito europeo, su cui si incentra il focus del “Patto” vale la pena rimarcare che per la prima volta la Commissione UE ha attivato la procedura di infrazione prevista dall’art. 7 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione nei confronti della Polonia, sospettata di aver violato il diritto ad un ricorso effettivo a un giudice imparziale sancito dal TUE in combinato disposto con la Carta dei Diritti Fondamentali della UE.

    Tutto ciò in conseguenza del fatto che in quel Paese si è disposto il pre pensionamento per legge dei giudici della Corte Suprema che dovrebbero essere indicati dal Ministro della Giustizia che già ricopre la carica di Procuratore Generale. Altre norme riguardano il Consiglio Nazionale della Magistratura (analogo al nostro C.S.M.) e paiono volte a limitare l’autonomia dei Giudici mediante una più marcata sottoposizione all’Esecutivo.

    La salvaguardia del potere giudiziario da quello politico è un valore comune e da salvaguardare ad ogni costo: le nostre libertà, da noi come altrove, sono strettamente legate alla indipendenza dei Magistrati: ecco perché, si è espresso male, ma il sottosegretario Morrone  non ha tutti i torti e perché oggi Polonia e Stato di Diritto sono un ossimoro evidente.

     

  • In attesa di Giustizia: Noi siamo ciò che siamo stati

    Il 28 aprile del 1977 a Torino venne ucciso in un agguato delle Brigate Rosse il Presidente dell’Ordine degli Avvocati, Fulvio Croce. Cinque colpi di pistola, tre al torace e due alla testa a dimostrazione che la condanna a morte per tutti gli avvocati che avessero accettato di difenderli annunciata un anno prima dal brigatista Maurizio Ferrari non costituiva una minaccia vana.

    Gli appartenenti alle Brigate Rosse si dichiaravano combattenti prigionieri politici di un regime di cui ripudiavano il sistema giustizia e con esso la difesa tecnica che – in assenza conseguente di nomine fiduciarie – veniva affidata ad avvocati di ufficio. Senonchè, dopo quel proclama nessuno di coloro che venivano incaricati accettò l’incarico; in alcune sedi di processi ai terroristi vennero stilate liste di volontari ma a Torino si dovette ricorrere al disposto dell’art. 130 del codice di procedura penale vigente che prevedeva la nomina del Presidente dell’Ordine laddove non fosse disponibile nessun altro difensore: e così fu che Croce – civilista, tra l’altro –  venne prescelto, accettò l’incarico mostrando coraggio ed alto senso delle istituzioni e fu seguito da altri Consiglieri del Foro nella difesa di 44 imputati, tra cui i vertici delle Brigate Rosse rinviati a giudizio avanti alla Corte d’Assise di Torino.

    Ferrari, tra gli accusati alla sbarra, ribadì l’avvertimento rivolto agli avvocati sospettati di collusione con giudici strumenti di un sistema contro rivoluzionario.

    Ma nessuno fece un passo indietro, nemmeno dopo quel 28 aprile, un giorno in cui su Torino pioveva a dirotto quasi che anche il cielo piangesse quella Toga martire.

    Non tutti, partitamente i più giovani, ricorderanno questo passaggio della storia che non può essere dimenticato non solo per l’onore che deve rendersi a uomini come Fulvio Croce ma perché è simbolo di un periodo in cui l’Italia ha saputo resistere al più violento attacco alle istituzioni che la storia repubblicana ricordi. Resistere e uscire vincitrice.

    Lodevole è dunque la recente iniziativa del Consiglio Nazionale Forense che ha istituito un premio, costituito da una Toga e una targa al merito intitolato a Fulvio Croce e destinato da quest’anno ogni anno a un difensore di ufficio che si sia distinto nel ruolo secondo parametri dettati dal regolamento.

    L’iniziativa è volta a valorizzare la difesa di ufficio che è concreta rappresentazione sociale dell’avvocatura, strumento essenziale per il funzionamento della giurisdizione e garanzia del godimento dei diritti e attuazione dei principi costituzionali per i più deboli, vanto di civiltà giuridica di uno Stato di diritto.

    Di questi valori, Fulvio Croce è stato ed è simbolo e stimolo ad onorare un ruolo, quello del difensore, che in base all’art. 24 ha rango costituzionale.

    Noi siamo ciò che siamo stati e in ciò risiede il valore della memoria. E quella Toga intrisa di sangue sotto la pioggia di Torino aiuta a non dimenticare e ad essere sempre migliori nell’adempimento del sacro dovere della difesa degli uomini.

  • In attesa di Giustizia: l’uovo di Colombo

    Nelle scorse settimane abbiamo segnalato – e siamo stati tra i primi, dianzi che diventasse uno scandalo nazionale – la situazione in cui versa il Tribunale di Bari, a rischio crollo che ha costretto gli operatori a ricercare non facili soluzioni alla criticità.

    Dopo avere ipotizzato di trasferire le attività in una sede distaccata dismessa dopo la soppressione si è arrivati all’allestimento di una tendopoli a fungere da aule in cui si celebrano processi; il tutto mentre ancora si discuteva sulla formazione di un esecutivo e, quindi, con un Ministro sul piede di partenza e uno non ancora insediato. Non potendo – anche per motivi di sicurezza – portare i detenuti nel campeggio giudiziario, per questi ultimi si sono riutilizzate aule della vecchia struttura anni trenta (perfettamente agibile e stabile) situata in centro città e ancora adibita a sede della Corte d’Appello.

    Intanto, la situazione nella tendopoli mostra tutti i suoi limiti, sia per la logistica destinata all’utenza che per il clima che arroventa ogni giorno di più, sia perché è complesso avere la fornitura di energia elettrica che serve per il funzionamento di microfoni e impianti di registrazione. Così si è tornati all’impiego a tutto tondo degli amanuensi.

    Giustamente, l’Unione delle Camere Penali ha deliberato una astensione di protesta – lunedì, martedì e mercoledì di questa settimana – e una manifestazione a Bari per denunciare una situazione che oscilla tra il paradossale e, amaramente, il ridicolo. Nel frattempo, però, si è formato il nuovo Governo e…voilà, la tanto agognata soluzione è subito stata trovata: un bel decreto legge che sospende tutti i processi (e il corso della prescrizione) a Bari fino a settembre quando – almeno questo – farà più fresco e, nelle more, si auspica l’individuazione di un immobile in cui trasferire gli uffici in condizioni di sicurezza. Sicurezza che deve intendersi anche con riguardo ai fascicoli non solo per evitarne l’esposizione ai fattori atmosferici ma proprio per la conservazione con il dovuto rispetto dei dati sensibili che contengono. Perderli del tutto, poi, vorrebbe dire non celebrare mai più i processi corrispondenti.

    Non può certo farsi carico all’Esecutivo attuale di una emergenza ignorata o addirittura non conosciuta (ma nel Tribunale di Bari già anni addietro vi erano preoccupanti buchi e crepe nei muri, infissi cadenti, macchie di umidità ovunque) dai Governi precedenti o dalle Autorità preposte alla manutenzione e segnalazione. Il rimedio, tuttavia se non è peggiore del male non convince, come non convincono le parole del Guardasigilli che critica la protesta dei penalisti perché aggiunge altri rinvii di processi in tutta Italia a quelli baresi.

    Vero senonché lo stato di agitazione dell’Avvocatura è l’unico strumento disponibile per denunciare un degrado inaccettabile e sollecitare interventi. A tacere del fatto che è stato proclamato prima delle decisioni del Governo, che tre giorni – sebbene a livello nazionale e con molte eccezioni circa le udienze rinviabili –  non sono tre mesi in una sede come Bari.

    Magari questo “sciopero” non si sarebbe fatto se si fosse potuto preconizzare l’autorevole intervento proposto da via Arenula. E non sarebbe stato difficile, in fondo, chiudere del tutto un tribunale che crolla senza averne un altro a disposizione che non sia una tendopoli è come la scoperta dell’uovo di Colombo, magari un po’ bollito. E la Giustizia può attendere.

  • Libertà per il ‘Premio Sacharov’ Lorent Saleh

    “Vengo a parlarvi come una mamma coraggio, come una madre che sta soffrendo”. La voce di Yamile Saleh, è fioca, rotta dall’emozione e dal dolore di dover raccontare la storia che non avrebbe mai voluto raccontare, quella di suo figlio, del suo unico figlio, Lorent, prigioniero politico in Venezuela. Anche lui fa parte dell’opposizione democratica costituita dall’Assemblea nazionale (guidata da Julio Borges) e da tutti i prigionieri politici figuranti nel ‘Foro Penal Venezolano’ alla quale il Parlamento europeo ha conferito il Premio Sacharov 2017.

    Lorent Saleh, a differenza di altri oppositori, ha avuto poco spazio per farsi sentire e da quattro anni, da quando è stato imprigionato, a parlare per lui è sua madre che gira il mondo raccontando l’assurda storia di suo figlio e la drammatica situazione del Venezuela. Attraversato da una terribile crisi economica, conseguenza delle politiche di stampo socialista bolivariano perpetrate da Hugo Chavez, il Paese è sottoposto ad una violenta repressione da parte dell’attuale Presidente Maduro che continua a far incarcerare e torturare tutti i suoi oppositori che condannano pubblicamente il suo modo di fare politica e quello del suo predecessore.

    Sin dal 2007, da quando cioè era ancora un giovane studente, Lorent denuncia la continua violazione dei diritti umani e la repressione di chi la pensa diversamente dal regime (non siamo più davanti ad un semplice governo monocolore!). E’ lungimirante Lorent, che sollecita, lui iscritto ad una università privata, tutti i colleghi e amici che frequentano altre università del Paese a prendere coscienza di quanto sarebbe potuto accadere da lì a poco. Nel 2011, con altri giovani dell’associazione Juventud Activa Venezuela Unida comincia uno sciopero della fame per tutti i prigionieri politici del tempo e riesce ad ottenere la liberazione di 11 di loro. Subisce minacce sebbene nel denunciare la repressione avesse seguito la prassi. Decide allora di lasciare il suo Paese per raccontare da lontano e in libertà quanto stava accadendo in Venezuela, e sceglie la Colombia, dove si sente a casa, confidando in un incontro con il Presidente Santos che si stava preparando alla sua rielezione. Siamo nel 2014, Lorent riesce ad avvicinarlo e ad implorare un aiuto concreto per il suo Paese ma accade l’imprevedibile. Santos decide “di consegnare il ragazzo agli sbirri del regime”, come racconta la signora Yamile, e solo dopo tre giorni dalla cattura viene emesso il mandato di arresto. Viene così ‘deportato’ nella Tumba di Caracas, un edificio incompleto progettato da un famoso architetto e che il regime di Maduro ha trasformato in quartier generale del SEBIN (Servicio Bolivariano de Inteligencia Nacional). Qui, a 16 metri sotto terra, ci sono delle celle di 3 metri per 2, con un giaciglio in cemento, senza servizi igienici, per espletare i propri bisogni si deve chiedere il permesso, pigiando un bottone, che arriva dopo ore. L’unico segno di vita esterna, se così si può chiamare, è il rumore dei vagoni del treno, l’inizio e la fine della giornata sono scanditi dal passaggio del primo e dell’ultimo treno. Il silenzio indica che un altro giorno è passato, un altro giorno sottratto alla vita e alla libertà è stato cancellato dal calendario dei reclusi. Nella ‘Tumba’ ogni tipo di tortura fisica e psicologica è ammessa, Lorent all’inizio subisce violenze bianche, quelle cioè che distruggono mentalmente perché sono pari a lavaggi di cervello. Il 16 maggio 2017 però accade qualcosa di inaspettato, con una rivolta i criminali comuni chiedono di essere trasferiti in un carcere vero, Lorent riesce allora ad avvicinarsi alle telecamere della TV che sta cercando di documentare l’accaduto e denuncia le aberrazioni alle quali i detenuti ‘politici’ sono sottoposti e che in quell’inferno sotterraneo sono ci sono anche dei minorenni. Quelle parole sono la sua nuova condanna. Yamile arriva per la visita periodica, vede passare tutti ma non suo figlio: è stato trattenuto, le dicono. Lui ormai è il simbolo dell’opposizione al governo Maduro, deve rimanere nella Tumba.

    Ad oggi la signora Yamile non sa ancora quale sia il reale capo di accusa per il quale Lorent sia stato arrestato e imprigionato in quello che non è neppure un carcere. Cinquanta udienze rinviate e tante versioni fornite da esponenti della polizia: dall’aver scritto un volantino in cui denunciava le promesse non mantenute da Chavez, e per questo motivo non avrebbe dovuto lasciare il Paese, all’aver lavorato per l’ufficio passaporti da attivista politico. Sa solo che il regime ha rubato quattro anni di vita a suo figlio, anni in cui avrebbe dovuto vivere la vita di un ragazzo normale, anni in cui avrebbe potuto mettere su famiglia e lavorare. Non aveva ambizioni politiche Lorent e se solo lei avesse immaginato tutto il dolore che sarebbe scaturito da quella vicenda avrebbe impedito a suo figlio di esporsi in prima persona con dimostrazioni pubbliche e scioperi della fame. “Vengo a chiedervi di aiutarmi a far liberare mio figlio, grazie al Premio Sacharov, affinché possa vivere finalmente una vita normale”, è l’appello commosso della signora Yamile, che aggiunge “sarebbe opportuno che il Presidente Santos, che ha ricevuto anche il Premio Nobel per la Pace, prima di lasciare il suo incarico riconoscesse di aver sbagliato”. E poi l’invito rivolto a tutti, perché non si dia per scontato che non si possa perdere quanto di bello e prezioso ci abbia dato la vita: “Siate persone attente alla libertà, non lasciate mai che i vostri diritti siano calpestati”.

  • In attesa di Giustizia: giustizialismo senza fine

    Del processo c.d. “Aemilia” in corso di celebrazione  ci siamo già occupati in passato: nel corso della udienza preliminare erano accaduti fatti inaccettabili come la discriminazione ai controlli di ingresso (tra l’altro davanti a un capannone fieristico trasformato in aula, sotto la pioggia battente) degli avvocati a seconda che fossero per le parti civili o difensori di imputati che venivano perquisiti a riprova dell’implicito ed offensivo avvicinamento ideale ai loro assistiti, peraltro, pur trattandosi di un procedimento per fatti di criminalità organizzata ancora presunti innocenti.

    Ora, mentre è in corso il dibattimento di primo grado e si profila la dichiarazione di nullità di una corposa serie di atti processuali, l’Assessore alle politiche per la legalità dell’Emilia Romagna Massimo Mezzetti fa sentire la sua voce stonata per commentare il fatto. Il politico, infatti, ha dichiarato di non comprendere dove sia il confine, dove finisce il diritto alla difesa e il diritto di sciopero e dove inizia l’uso strumentale di questi per stravolgere l’esito di un processo importante e quindi, dove finisce il diritto alla difesa e dove inizia la complicità. Affermazioni gravissime perché tolgono la foglia di fico a quell’assimilazione tra difensori e criminali (o meglio, presunti tali) assistiti senza che vi sia il minimo fondamento per un’ingiuria così profonda a chi veste la toga. Mezzetti ha persino auspicato che non venga vanificato un anno di lavoro nel processo più importante alla mafia in corso di celebrazione al nord.

    Non è utile per il lettore scendere nel dettaglio tecnico, che sarebbe noioso, di cosa sia successo e quali siano le regole non rispettate che rischiano di compromettere la stabilità dell’impianto accusatorio: il processo è fatto di regole, la procedura penale segna le garanzie del cittadino di fronte alla pretesa punitiva dello Stato e i giudici ne sono i custodi non meno degli avvocati. Invocare che tale rispetto venga meno è di per sé una istigazione ad un reato prima ancora che un segnale di inciviltà giuridica da parte di un rappresentante delle Istituzioni; ma, forse, questo Mezzetti non lo sa, atteso che – nonostante il ruolo – sembra che di diritto ne mastichi molto poco.

    Abbiamo affrontato nello scorso numero la gaffe del Premier sul principio di non colpevolezza – così definendola perché anche a lui compete il beneficio del dubbio – ascoltato con preoccupazione le linee programmatiche di intervento del Ministro della Giustizia e le parole del Ministro dell’Interno che sostiene l’esistenza di una lobby dei difensori di ufficio che si arricchisce sui migranti e sarebbe in qualche modo corresponsabile dei problemi che ne derivano; soprattutto sull’arricchimento e la dinamica dell’assistenza avrebbe potuto farsi documentare meglio: al suo Dicastero sanno come vanno le cose.

    Il dubbio che la deriva giustizialista stia prendendo corpo trascinando il sistema  verso il baratro dei diritti e delle garanzie non è una preoccupazione astratta. E bene sarebbe che nel rispetto del principio della separazione dei poteri, vero Mezzetti? la politica rimanga nel proprio ambito evitando di intimorire e offendere gli avvocati che per loro natura e fortuna non hanno elettori ma soprattutto non hanno padroni né padrini cui rendere conto.

  • In attesa di Giustizia: voce dal sen fuggita

    Settant’anni della Costituzione, una Costituzione che ha sventato il colpo di mano di una serie di modifiche ed un referendum che l’avrebbero snaturata poteva essere festeggiato meglio: una carta fondamentale in cui riecheggiano lo spirito e il pensiero di Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Camillo Cavour e di giuristi come Bettiol, Calamandrei e – naturalmente – Cesare Beccaria. Quest’ultimo ha avuto ottime ragioni per rivoltarsi nella tomba e anche la statua che lo ricorda, a fianco del Comando della Polizia Locale di Milano, ha mostrato segni di insofferenza.

    Il Premier Conte è un giurista e non è pensabile che ignori uno dei parametri costituzionali che costituiscono pietra angolare del sistema penale.

    Tuttavia, illustrando il programma di Governo alla Camera e trattando il tema della Giustizia ha parlato di rispetto del principio di colpevolezza. Manca un “non”, il lapsus, risulta più facile alla stregua della declinazione del principio che il legislatore costituzionale ha formulato in termini più timidi della presunzione di innocenza di stampo anglosassone.

    Le implicazioni del canone, i giuristi ben lo sanno, non sono di minore impatto sottendendo l’attribuzione dell’onere della prova a carico del Pubblico Ministero, il diritto al silenzio garantito all’accusato e il concetto di ragionevole dubbio.

    Ne consegue che la proposizione del Prof. Conte ha fatto scalpore anche tra i non addetti ai lavori perché l’eliminazione di quel “non” esprime una preoccupante prospettiva per chiunque, anche chi nulla abbia in astratto da temere dalla Giustizia per lo sgomentevole pendant con il Davigo – pensiero: non esistono innocenti ma solo colpevoli che non abbiamo ancora scoperto.

    Viene da pensare che sia una voce dal sen fuggita,  frutto avvelenato di una full immersion nel programma di governo rivisto e corretto di marca pentaleghista nel quale la parte dedicata alla giustizia è un inno al processo di polizia con accompagnamento di manette soliste.

    Insomma, dopo aver sentito parlare di un “contratto di governo” in cui spiccano per il settore giustizia e come previsione di intervento agenti provocatori, intercettazioni ad alzo zero, ripristino di reati depenalizzati, inasprimento delle pene, istituzione della sezione nazionale della Rifle Association dopo la modifica della legittima difesa (che diventerebbe qualcosa di vicino alla licenza di uccidere di 007) e riduzione drastica dei benefici dell’Ordinamento Penitenziario un po’ di confusione sul perimetro delle garanzie per il neo Premier strappato senza preavviso alla sua cattedra di Diritto Privato, è possibile…ma non dovrebbe essere così perché rischia di essere inconsciamente espressiva di una cultura della intolleranza e del sospetto che paventiamo diventi lo spirito guida della legislatura.

    D’altronde anche da via Arenula sono stati lanciati messaggi poco rassicuranti nel senso che i sigilli che il Ministro intende guardare, con ammirazione e palpitante attesa, sono quelli apposti alle patrie galere.

  • In attesa di Giustizia: attenti al lupo!

    In altre occasioni abbiamo parlato delle insidie – oltre che delle opportunità – che la rete e le nuove tecnologie offrono e sempre più spesso accade che quel genere di molestie per evitare le quali, un tempo, era sufficiente staccare la cornetta del telefono oggi sono diventate più invasive perché il persecutore può usare altri strumenti di quotidiana necessità e utilizzo come il cellulare, la posta elettronica e i sistemi di messaggistica che ti raggiungono ovunque e in qualsiasi momento.

    Certo, c’è sempre la possibilità di non rispondere o chiudere la comunicazione a una telefonata con numero oscurato ma, intanto, il senso di disagio e preoccupazione è assicurato.

    Un primo sistema per individuare il molestatore è rivolgersi alla Polizia Postale per risalire a chi corrisponda una casella di posta elettronica mentre per i numeri di telefono oscurati, previa denuncia all’Autorità Giudiziaria contro ignoti, i gestori telefonici offrono, con un costo mensile molto contenuto, un sistema denominato “override” che disvela il numero sottostante ad uno oscurato, così non appena arriverà la chiamata dell’ignoto molestatore quest’ultimo avrà finalmente un’utenza da cui risalire e – magari – sorpresa non improbabile si scoprirà che è un recapito già in agenda di persona insospettabile e ben conosciuta.

    Tuttavia, perché si integri il reato c.d. di stalking, è necessario che sia documentato in denuncia un comportamento persecutorio abituale e continuativo tale da generare uno stato d’ansia oltre che un necessario cambiamento dello stile di vita per sottrarsi alla persecuzione ed evitare pericoli, cambiando anche utenze e recapiti il che crea molto disagio. Tali pericoli, talvolta è accaduto, vengono sottovalutati proprio da chi dovrebbe curarne la prevenzione e il contrasto sino a che non è troppo tardi perché si è verificato un esito fatale per la vittima.

    Ecco allora che la tecnologia “buona” viene in aiuto delle persone offese degli stalkers con una applicazione per il telefono palmare chiamata Mytutela e presentata pochi giorni addietro al tavolo permanente istituzionale per la prevenzione ed il contrasto alla violenza nei confronti di donne e minori.

    Completamente gratuita, l’applicazione è stata sviluppata da un ingegnere elettronico e da un tecnico informatico che lavorano come consulenti di Tribunali e Procure insieme ad un’esperta di social network, permette di fare direttamente una copia forense di foto, e mail e chat: insomma tutto ciò che può costituire prova di atti persecutori da allegare a una denuncia.

    Non solo, l’applicazione consente una sorta di interattività per cui segnalerà agli utenti una serie di allerte: quando le chiamate saranno troppe o i messaggi esplicitamente minatori, sul telefono compariranno degli allarmi: programma reso possibile da una scansione semantica nella quale sono state inserite parole del genere  “ti faccio fuori”, “pubblico le tue foto” eccetera.

    Questo strumento sarà di fondamentale importanza anche per gli investigatori qualora si trovino nella necessità di entrare in un cellulare protetto il cui proprietario e vittima, ahimè, non sia più in grado di fornire la password, operazione che a volte richiede settimane mentre un criminale resta libero.

    Disponibile a breve per i dispositivi con sistema Android, sarà successivamente messa sul mercato anche per i prodotti Apple e così, se da un lato bisognerà continuare a stare attenti al lupo nascosto nelle ombre del web, anche il lupo dovrà stare molto attento a chi gli dà la caccia.

  • In attesa di Giustizia: giustizia senza tetto

    Se a Parigi ci fosse il mare sarebbe una piccola Bari: è un vecchio modo di dire che sottende la bellezza del capoluogo delle Puglie: che è anche una importante sede giudiziaria e come tale deve essere dotata di uffici adeguati e funzionali…senonché, di recente, il Tribunale ha dovuto chiudere i battenti perché a rischio crolli e – a quanto si dice – anche affetto da problemi di abuso edilizio nella edificazione.

    Questa la storia, di cui difficilmente troverete traccia anche cercando in internet.

    A Bari, dagli anni Trenta, la Giustizia veniva amministrata in una struttura costruita senza lesinare né gli spazi, né la qualità dei materiali.

    Ad un certo punto, verso fine millennio, si decise che nella originaria struttura sarebbero rimasti solo alcuni uffici, in particolare la Corte d’Appello, trasferendo gli altri in un edificio originariamente destinato ad ospitare l’INAIL: poco comprensibili le ragioni di una simile scelta che – oltretutto – determinava il problema dello spostamento da un luogo all’altro (neppure vicini) agli avvocati che avessero nello stesso giorno udienza in Corte e in Tribunale con aggravio di gestione degli impegni. Per gli  scaramantici, poi, il fatto che la nuova sede fosse antistante un cimitero non costituiva certo motivo di allegrezza.

    Per diversi anni si è andati avanti con crepe che si aprivano nei muri, macchie di umidità, infissi insicuri; infine, pochi giorni fa, la indifferibile decisione di chiudere per le ragioni che si sono illustrate all’inizio.

    E le udienze, dirà il lettore? Semplice, non si fanno poiché vengono rinviate d’ufficio tranne quelle del settore penale con detenuti che sono state ritrasferite temporaneamente nel “vecchio” palazzo in attesa che la situazione si normalizzi: ma come?

    Una soluzione sembra essere stata individuata nella riapertura della sede distaccata di Modugno – dunque, non lontano ma pur sempre in un altro comune – che dispone di uffici giudiziari nuovi di zecca e praticamente mai usati perché poco dopo l’inaugurazione la sede era stata soppressa per legge e restava vuota ed inutilizzata. Sarà, tuttavia, necessario organizzare il trasloco che non è impresa agevole tenendo anche conto della delicatezza del trasferimento di migliaia di fascicoli cartacei: che non ne vada perso nessuno è pura utopia.

    Le notizie su questo ennesimo dissesto della giustizia arrivano frammentariamente e solo grazie a rapporti personali e racconti sussurrati: quanto sin’ora appreso, tuttavia, non può che determinare un comprensibile turbamento.

    Incompetenza e miopia gestionale, spreco di risorse, approssimazione: un corollario differente da questi accadimenti è difficile trarlo: e se la giustizia (la g minuscola è ancora una volta voluta) mostra ancora una volta il suo volto peggiore, non può essere motivo di consolazione il pensiero della fortuna toccata all’INAIL ed ai suoi impiegati che sono rimasti nella loro originaria ubicazione ed a quella di Giudici e Avvocati della vicina Trani che continuano a fare udienza nella splendida (e solida) sede di Palazzo Torres, risalente alla prima metà del XVI secolo, prospicente il mare, immune da vizi di costruzione e con certezza realizzato su licenza edilizia.

  • In attesa di Giustizia: più manette per tutti

    Si queste colonne il tema è stato ampiamente affrontato in più occasioni: l’Italia è una Paese dimentico di aver dato i natali a Cesare Beccaria e di aver saputo elaborare una Costituzione che racchiude in sé le principali garanzie su cui si regge un sistema penale moderno; al giorno d’oggi larghe fasce della popolazione sono ispirate da istanze securitarie e forcaiole. Questo, almeno, finché non tocca a loro finire sotto processo, cosa che può avvenire anche per le ragioni più banali: dall’aver acquistato durante una crociera una coppia di pappagallini di cui è criminalizzato il possesso nella apposita voliera alla mancata certificazione da parte del veterinario provinciale dello stato di sana e robusta costituzione degli stalloni e dei tori impiegati nelle fiere agricole per la monta.

    Mentre vengono scritte queste righe, un Governo ancora non c’è ma esiste un contratto di governo che alla voce “Giustizia” annota alcuni passaggi che sono, a dire poco, inquietanti: premessa la abrogazione di ogni intervento normativo passato che abbia comportato depenalizzazione alla istituzione della figura dell’agente provocatore nei reati contro la pubblica amministrazione, passando per l’allungamento dei termini di prescrizione e l’inasprimento delle pene per determinati reati.

    Interventi che, se vi saranno, risulteranno nella migliore delle ipotesi inutili e nella peggiore dannosi; vediamo perché, limitandoci a quelli citati a mo’ di esempio.

    Reintroduzione di talune figure di reato: con la depenalizzazione non si è voluto ridurre le aree di illecito, bensì, attribuire a istituti punitivi diversi dal processo penale (che ha costi non indifferenti in termini economici e di risorse impiegate), così provvedendo anche alla riduzione del carico di arretrato. Alcuni reati sono, così, diventati illeciti amministrativi sanzionati con una multa di immediata erogazione, altri sono punibili se la persona offesa aziona il proprio diritto davanti al Giudice di Pace con l’obbiettivo di ottenere un ristoro economico; si tratta, ovviamente, di fattispecie di moderata o nessuna rilevanza penalistica come l’ingiuria che è tanto diffusa quanto di marginale disvalore, restando un fatto che ha visto protagonisti due contendenti i quali non si sono spinti oltre qualche parola particolarmente “vivace”.

    L’agente provocatore nei reati contro la pubblica amministrazione altro non sarebbe, poi, che un istigatore a delinquere, figura ben diversa da quello impiegato – per esempio – nei fatti di traffico di stupefacenti dove non è impiegato per sobillare a commettere un crimine – e, quindi, di fatto, non lo provoca – ma si pone come simulato acquirente dopo essersi infiltrato nel mercato del narcotraffico per disvelarne i gestori.

    Allungamento della prescrizione: allo stato attuale una indebita compensazione dell’IVA impiega fino a vent’anni a prescrivere e un esercizio abusivo di attività commerciale quindici: stiamo parlando di reati non particolarmente gravi, immaginatevi il resto e, soprattutto, se può essere pensabile tenere in vita dei processi per tempi così lunghi confidando di poter ancora ritrovare testimoni o documenti utilizzabili.

    L’inasprimento delle pene, infine: è storicamente e statisticamente dimostrato che non comporta effetti sostanziali dal punto di vista della deterrenza come dimostrato dalla quantità inalterata degli omicidi nei Paesi che prevedono la pena capitale oppure le conseguenze impalpabili in termini di prevenzione e riduzione dei crimini seguite all’innalzamento sino a trent’anni di reclusione, secondo la nostra vigente normativa,  per il commercio di stupefacenti.

    Più manette per tutti non significa, dunque, né più sicurezza per i cittadini né – tantomeno – più Giustizia.

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