Giustizia

  • In attesa di Giustizia: avanti tutta 2

    Nello scorso numero abbiamo affrontato l’argomento relativo ai tempi di trattazione dei ricorsi per Cassazione e delle Udienze Preliminari, con l’impegno di raccontare ai lettori quali siano le modalità predilette dai giudicanti del settore penale per celebrare i processi di primo grado e di appello in guisa da risparmiare tempo.

    Cominciamo dal giudizio in Tribunale, in Corte d’Assise – dove si trattano principalmente gravi reati di sangue – l’attenzione è decisamente maggiore: l’impostazione sistematica del nostro codice vorrebbe che la prova relativa alla presunta responsabilità di un imputato si formi in dibattimento, cioè a dire, il Tribunale non dispone degli atti (tranne alcuni, relativi agli atti cosiddetti irripetibili, come i sequestri) delle indagini del Pubblico Ministero e quest’ultimo è tenuto a citare in giudizio i suoi testimoni, agenti operanti, consulenti, sottoponendoli all’interrogatorio e lasciandoli sottoporre al controinterrogatorio dei difensori nonché a domande finali dei giudici. Altrettanto possono fare i difensori, chiedendo di introdurre prove a discarico: ne consegue che l’attività di acquisizione della prova sia piuttosto laboriosa ma altrettanto garantita e garantista perché si realizza nel contraddittorio delle parti processuali con facoltà di confutazione.

    Ciò accade sempre più di rado; una modifica scellerata del codice di qualche anno fa prevede che “con il consenso delle parti” e con buona pace dei principi di oralità e formazione della prova in giudizio possano essere introdotte nel fascicolo del dibattimento tutte le attività di indagine svolte dal P.M. in splendida solitudine: dunque avviene che quest’ultimo, all’inizio del processo, chieda il consenso dei difensori a tal fine e, sovente spalleggiato dai giudici, svolge una forma di moral suasion paventando che in caso contrario  la pena finale possa essere più elevata, ovvero assai più mite se il consenso intervenga. Già, il tempo è denaro e, tanto, i giudicabili sono tutti colpevoli a prescindere: lo dice anche Davigo!

    Ne consegue che, sempre più spesso, il processo assuma connotazioni farsesche andando a concludersi in poche battute, esito scontato (una condanna ma mite) nel dispregio totale dello spirito del sistema accusatorio.

    L’appello: la gestione dell’udienza è simile a quella della Cassazione solo che i Giudici sono tre e non cinque e anche questi hanno molto da fare e bisogna accelerare. Dunque, si comincia chiedendo quali difensori intendano “riportarsi ai motivi”, cioè non discutere ma richiamarsi ad uno scritto introduttivo dell’impugnazione: i processi di costoro vengono chiamati per primi ma decisi insieme a tutti gli altri, se ve ne sono.

    Dovrebbe poi farsi – come in Cassazione, l’abbiamo visto la settimana scorsa – la relazione sul processo da parte di uno dei Giudici ma la domanda che viene subito rivolta è: “avvocato, possiamo dare per letta la relazione?”, se la risposta è “sì” si adombrano e talvolta non viene neppure fatta passando direttamente alla requisitoria del Procuratore Generale che, il più delle volte, consiste in un tacitiano “chiedo la conferma della sentenza” senza spiegare il perché.

    Questo, in riassunto, lo schema di un processo penale di appello tipo nel nostro Paese:

    Presidente: “Chiamiamo il processo a carico di Tizio, la relazione viene data per letta, parola al Procuratore Generale”

    Procuratore Generale: “Chiedo la conferma della sentenza”

    Avvocato difensore: “Mi riporto ai motivi”.

    Dopodichè, incamerati un certo numero di processi celebrati in tal modo, la Corte si ritira in camera di consiglio e li decide tutti insieme in tempo utile per essere a casa all’ora di pranzo.

    Se non ci credete, una mattina andate a vedere in Tribunale se le cose non vanno così, può bastare un’oretta: sapete, da noi l’efficienza nell’amministrazione della Giustizia è una realtà.

  • Mentono spudoratamente

    Mentre credi di scusarti, ti accusi
    San Girolamo; Lettere

    Quello di dire bugie, senza batter ciglio, sembrerebbe essere un distintivo vizio del primo ministro albanese. Lo ha dimostrato, per l’ennesima volta, anche domenica scorsa a Torino. Ospite al Salone del Libro per una sua presentazione, veniva contestato da alcuni suoi concittadini presenti. Con dei volantini in mano, denunciavano la connivenza tra la criminalità organizzata e il potere politico in Albania. Una volta allontanati i contestatori dalle forze dell’ordine, il primo ministro ha mentito di nuovo spudoratamente, come suo solito, quando si trova in difficoltà. Come se niente fosse ha detto che ”il fratello del [attuale] ministro degli Interni è in galera, arrestato dalla polizia” (Sic!). Mentre tutti sanno in Albania e non solo che il fratello dell’attuale ministro degli Interni è un libero e potente imprenditore sul quale grava una condanna di forma definitiva della Corte di Cassazione italiana del 12 settembre 2012, mai eseguita, per traffico internazionale di stupefacenti. Semplicemente perché il fratello del ministro, cambiando il nome, ha goduto sempre della protezione di suo fratello, potente politico, fedele e molto vicino al primo ministro.

    In Albania dal 2013 ad oggi i due titolari del ministero degli Interni, che come obbligo legale ed istituzionale, per antonomasia, hanno la lotta contro la criminalità, sembrerebbe siano legati alla criminalità tramite stretti parenti e altro. Tutti e due sono stati scelti, e in seguito protetti, costi quel che costi, dal primo ministro. Del primo il lettore de “Il Patto Sociale” è stato informato continuamente, anche la scorsa settimana. Del secondo, lo scandalo, riaperto negli ultimi giorni, nel quale sembrerebbero coinvolti lui e il suo fratello, è tuttora in corso. Ma per il momento si potrebbe, per lo meno, fare una semplice riflessione. Come mai il primo ministro, in seguito a continue denunce pubbliche, sia dell’opposizione che dei media, avendo l’obbligo di verificare tutto, ha cercato invece, come suo solito, di nascondere questa allarmante e grave realtà?!

    Due anni fa lui, cercando di difendere l’attuale ministro degli Interni, allora presidente della Commissione parlamentare per la Riforma della Giustizia, gridava contro il suo predecessore, l’ex primo ministro (2005 – 2013), accusandolo di aver creato una falsa storia nei riguardi del fratello del ministro. Allora la considerava “Una storia con droga dal Venezuela, per il padre di due bambini (il fratello del ministro; n.d.a.) che fa il suo lavoro onesto”. Ma che aveva, secondo il primo ministro, una sola colpa: quella di essere “il fratello della persona che dirige la Commissione parlamentare per la Riforma [della Giustizia] più importante e più difficile in questi ultimi 25 anni”. Dai documenti, compresa anche la delibera della Corte di Cassazione italiana, presentati la scorsa settimana dai rappresentanti dell’opposizione, risulterebbe però che oltre al Venezuela ci sarebbero anche altri paesi dove il fratello del ministro avrebbe esercitato la sua attività di trafficante di stupefacenti.

    Una difesa, quella del primo ministro, che è seguita anche giovedì scorso durante la seduta plenaria del parlamento, e dopo che l’opposizione aveva reso noti i documenti che incolperebbero, senza equivoci, il fratello del ministro. Il primo ministro, come spesso, anche in questo caso, ha abusato con la mancata reazione dell’ambasciatore statunitense, dicendo che se ci fosse stata qualcosa di vero sul fratello del ministro e del ministro stesso, allora “…avrebbe parlato il nostro prezioso amico e [ben] presente nel nostro ambiente: l’ambasciatore degli Stati Uniti.”! Lo ha fatto anche in precedenza, usando “il silenzio” dell’ambascitore statunitense e/o quello della rappresentante dell’Unione europea a Tirana, quando si è trovato di fronte a situazioni imbarazzanti e difficilmente difendibili. Ma questa volta l’ambascitore non ha fatto “la sua spalla”. Ha reagito subito, contraddicendo quanto aveva detto il primo ministro e dichiarando che “gli Stati Uniti d’America stanno seguendo [e analizzando] le accuse” relative al fratello del ministro degli Intenri e che il primo ministro “parli [soltanto] a nome suo, mentre noi [Stati Uniti] parleremmo a nome nostro”! Essendo la prima volta che da parte dall’ambasciatore statunitense arriva una simile reazione, tutto fa pensare ad una cosa che supera alcune persone, nonostante esse siano un primo ministro, un ministro degli interni e/o altri.

    Questo per quando riguarda lo scandalo in pieno sviluppo, che coinvolgerebbe l’attuale ministro albanese degli Interni. Proprio quel ministro, che durante la prima seduta dell’attuale legislatura, il 12 settembre 2017 in Parlamento, cercava di nascondere la verità riguardante il suo fratello. In quell’occasione, parlando in politichese, diceva “…sono pronto, in ogni tempo, ad affrontare le mie responsabilità. Non intendo però replicare al vostro (dell’opposizione; n.d.a.) tran tran da quindici anni ormai… che si ripette ogni volta siete costretti ad attaccarmi politicamente”. Mentre dai documenti presentati la scorsa settimana dall’opposizione, risulterebbe, tra l’altro, che l’attuale ministro degli Interni, nel marzo 2017, nella veste di presidente della Commissione parlamentare per la Riforma della Giustizia e abusando di quel potere istituzionale, avrebbe falsificato un articolo di una proposta di legge, approvata dalla maggioranza parlamentare. E guarda caso, si tratterebbe di un articolo del nuovo Codice Penale, approvato nell’ambito della Riforma della Giustizia, che scagionerebbe il fratello del ministro, sia dalla possibilità di essere estradato in Italia per scontare la pena di sette anni e due mesi, che per scontare quella pena in una prigione in Albania. Ad ora nessuna plausibile e convincente smentita dal diretto interessato. Che sarebbe, in realtà, una missione molto difficile, perché i documenti sembrerebbe non lasciano spazi per tergiversare e mentire. Lo stesso ministro, mercoledì scorso però, dopo le prime sopramenzionate accuse dell’opposizione, non ha potuto più negare la verità del fratello trafficante. Lui ha ammesso finalmente che la storia di suo fratello, “legata ad una vicenda del 2002, quando lui era un 25enne trovato nel posto sbagliato e in compagnia delle persone sbagliate, non implica né ieri e né oggi il governo del quale faccio parte. Quella è stata e rimane una sua e soltanto sua storia personale”. Non ha potuto e, ovviamente, non ha voluto dire che il ministro è obbligato per legge, nonché moralmente, a rendere conto dei suoi stretti parenti, fratello incluso. La prevede anche la legge antimafia in vigore, guardiano e garante dell’attuazione della quale in Albania è istituzionalmente il ministro degli Interni. Il che significa, tra l’altro, che l’Albania è l’unico Paese dove il ministro, che ha l’obbligo istituzionale di garantire la corretta attuazione della legge antimafia, con ogni probalilità, è lui stesso soggetto di quella legge.

    Chi scrive queste righe è stato sempre convinto che in Albania la connivenza tra la criminalità organizzata e i massimi livelli della politica sia una pericolosa e allarmante realtà. In attesa di ulteriori sviluppi, diamo retta a San Girolamo perché si sa, “Mentre credi di scusarti, ti accusi”.

  • In attesa di Giustizia: avanti tutta!

    Il titolo di questa rubrica evoca aspettative non solo di risultati ma anche di tempi rapidi della Giustizia: una sentenza che giunga a distanza siderale dai fatti oggetto del processo, infatti, non è accettabile.

    A volte, anzi piuttosto spesso, capita che una decisione sia rapidissima, almeno con riguardo al momento in cui deve essere adottata…che è poi quello cruciale di un giudizio. Avanti tutta, allora!

    Dunque, penserà il lettore, le cose non vanno così male. Parliamone, ma non prima di avere sottoposto alcuni esempi.

    Incominciamo dalla fine: dalla Cassazione, organo supremo cui dobbiamo l’interpretazione delle norme, i ricorsi che vengono messi a ruolo di ogni udienza (che inizia, a regola, alle 10 del mattino) sono abitualmente qualche decina. Sì, avete letto bene.

    Di ogni ricorso viene fatta una relazione, cioè a dire uno dei Magistrati ne espone sinteticamente l’oggetto e i motivi a sostegno – tutti i partecipanti ne hanno una copia e, si spera, dovrebbero averlo studiato –  dopodiché la parola passa al Procuratore Generale che esprime il suo parere e formula le conclusioni: accoglimento, rigetto o inammissibilità.  Segue la discussione degli avvocati, se presenti: in Cassazione è, infatti, possibile affidarsi al semplice atto scritto.

    Trattati tutti i ricorsi (qualche ora passa), la Corte si ritira in camera di consiglio e li decide in un’unica sessione. Provate – è stato fatto da addetti ai lavori – se ne avete voglia e occasione ad andare a cronometrare quanto impiega mediamente a deciderne ognuno: basta far partire il tempo quando il Collegio si ritira e fermarlo quando suona la campanella che avvisa dell’imminenza della lettura dei dispositivi. Il risultato è che ogni ricorso ha avuto a disposizione per essere deciso una manciata di minuti che dovrebbero ricomprendere un confronto dialettico tra cinque Giudici di alto grado, la votazione e la redazione – che non di rado è ancora a mano – del dispositivo.

    E così è che questioni di diritto non di rado complesse e il destino degli uomini viene deciso in un batter di ciglia. Alzi la mano chi crede che, una discussione, magari non serrata (parliamo di un minuto o due a testa), tra i cinque ci sia stata e non che ci sia affidati ad una scelta già sostanzialmente preconfezionata dal relatore addirittura ben prima di avere udito il Procuratore Generale e gli avvocati ma solo letto gli atti in splendida solitudine e meramente illustrata agli altri componenti del Collegio.

    Tanto varrebbe “monocratizzare” la Corte Suprema, distribuendo meglio le risorse e offrendo maggiore dignità alla trattazione dei casi e ad ogni decisione.

    Provate, invece, ad andare a cronometrare il tempo che un Giudice dell’Udienza Preliminare (che dovrebbe essere un “filtro” verso il dibattimento) impiega per decidere se rinviare a giudizio o prosciogliere, anche solo parzialmente, degli imputati: il risultato è il più delle volte analogo alla Cassazione: pochi minuti per esaminare, magari, diverse posizioni e molteplici imputazioni dopo avere ascoltato le ragioni di altrettanti difensori.

    Nel prossimo numero de Il Patto Sociale continueremo ad affrontare l’argomento; nel frattempo, però, non lamentatevi più dei tempi biblici della Giustizia: ponetevi, al più, la domanda se questa lo sia.

     

  • In attesa di Giustizia: galera? tranquilli, ce n’è per tutti…

    Il nostro, si sa, è un Paese dove in molti si allietano con l’allegro clangore delle manette: indignati in servizio permanente effettivo, forcaioli più o meno politicamente impegnati e – naturalmente – magistrati orfani del sistema inquisitorio la cui apologia può rinvenirsi in un libro di alcuni anni fa di Marcello Maddalena (allora Procuratore della Repubblica di Torino) dal titolo “Meno grazia e più giustizia”, una conversazione con Marco Travaglio e prefazione di Piercamillo Davigo: et de hoc, satis.

    Quella di cui andremo ad occuparci oggi è una incredibile storia di manette che, però, trae probabilmente origine da sbadataggine piuttosto che da furori cautelari: il che non è detto che sia meno peggio.

    Deve premettersi che nel nostro sistema giudiziario, salvo i casi di arresto in flagranza da parte delle Forze dell’Ordine, la privazione della libertà personale può avvenire solo con provvedimento motivato di un giudice su richiesta del pubblico ministero: se non vi è quest’ultima, il giudice non può autonomamente disporre la cattura di nessuno. Ma a Napoli, pochi giorni fa, le cose sono andate diversamente: è accaduto, infatti, che un G.I.P. abbia arrestato dieci persone mentre il pubblico ministero aveva chiesto la cattura solo di sette; in soldoni, sono finiti in carcere dei cittadini nei confronti dei quali non vi erano gravi indizi di colpevolezza ed esigenze di tutela della collettività o delle indagini che sono i presupposti di un’ordinanza di custodia.

    L’equivoco – chiamiamolo così – si è risolto in una mezza giornata con la scarcerazione dei tre indagati in eccedenza ma non per questo l’accaduto è meno grave essendo espressivo di un livello di attenzione molto basso, inaccettabile da parte di chi svolge funzioni tanto delicate risultando paradigmatico di un approccio sciatto a temi con alto livello di criticità per chi ne è interessato e che non dovrebbe realizzarsi mai.

    Si dirà che è un caso isolato. Purtroppo non è così: è solo uno che è emerso; motivi di spazio impediscono di elencare con opportuna dovizia  ulteriori esempi che sarebbero disponibili:  per garantire alcuni momenti di amaro buonumore basterà qui ricordarne un paio, tra quelli recentemente e personalmente testati prendendo le mosse dalla sentenza di un giudice monocratico di Roma che scrive la motivazione di una sentenza con un linguaggio sincopato (xchè al posto di “perché”, 1 al posto di  “uno” e numerose altre simili perle) sebbene sarebbe giusto aspettarsi che i provvedimenti giudiziari siano scritti in lingua italiana e non come un sms: il che denota frettolosità non coerente con le funzioni. E qualcuno finisce in carcere.

    Proseguiamo con un altro monocratico, questa volta di Catania, che nel corpo di una decisione, dopo aver preannunziato l’analisi di intercettazioni telefoniche prosegue con quella che è – evidentemente – una lettera destinata alla fidanzata: duole sapere che un certo Pippo si è intromesso tra i due e che il magistrato da un anno insegue le capriole di umore della beneamata in cambio di sporadici sorrisi; dopo un paio di pagine si riprende con l’analisi delle prove e sebbene la vicenda sentimentale sia dolorosa e la poetica  struggente ciò che inquieta è che un giudice pensava ai casi suoi (e, probabilmente teneva aperti due files sul computer incappando, poi, in un copia e incolla…)mentre decideva il destino di cittadini; che non abbia riletto la sentenza prima di depositarla in cancelleria è pacifico. Altra galera dispensata.

    Il GIP che ha arrestato più persone di quante richieste, nel frattempo, è stato trasferito al civile (dove, pare, aveva già richiesto di andare) e sembra sia sotto procedimento disciplinare, nulla – invece –  sappiamo circa gli sviluppi della melanconica storia d’amore catanese e neppure se il magistrato romano si sia iscritto a dei corsi serali di italiano. Per fortuna non sono tutti così, anzi…ma anche questa è giustizia (“g” rigorosamente minuscola).

  • In attesa di Giustizia: avanti il tribunale del popolo

    Nello scorso numero abbiamo trattato una volta di più il tema della informazione giudiziaria e dei danni collaterali che può derivare: l’argomento rimane di attualità, e consente di affrontarlo da altre angolazioni prendendo spunto da un processo che si sta svolgendo alla Corte di Assise di Roma e che richiama un’attenzione morbosa e fuorviante dei media.

    Si tratta della vicenda di un sottufficiale della Marina Militare, distaccato ai servizi segreti, che manovrando una pistola, colpì accidentalmente al braccio il fidanzato della figlia:  invece di chiamare subito i soccorsi ed assicurarne un ricovero, forse preso dal panico e sottovalutando la gravità delle lesioni, tergiversa, e con lui i suoi famigliari. Gli accertamenti medico legali hanno, viceversa, accertato che il proiettile ebbe ad assumere una traiettoria del tutto anomala, entrando dal braccio ma deviando per poi attraversare il polmone ed il cuore: la lesione è così divenuta mortale in conseguenza della condotta negligentemente attendista attribuita agli imputati (con il militare sono accusati in concorso del fatto anche coloro che erano presenti in casa e non adottarono nessuna iniziativa a salvaguardia del ferito).

    L’incolpazione è di omicidio volontario con dolo eventuale cioè a dire di con l’intenzione di attuare un evento lesivo accettando l’eventualità che le conseguenze siano più gravi del voluto; la difesa è che si sia trattato di omicidio colposo commesso dal solo imputato, vale a dire non con volontarietà ma con una negligenza di grado elevato che tecnicamente si definisce “colpa cosciente” il cui discrimine dal dolo eventuale è sottile e ben comprensibile solo agli addetti ai lavori. Si discute, in sostanza, la qualificazione giuridica del fatto, affrontando il tema dell’elemento soggettivo della condotta.

    Di una vicenda cosi complessa, le “aule mediatiche” da Chi l’ha Visto a Quarto Grado celebrano un processo parallelo, con l’inesorabile partecipazione di pseudo esperti, psicologi, criminologi, sociologi, tuttologi, che parlano di atti che conoscono appena o per nulla, mentre va in scena anche il comprensibile dolore dei famigliari della vittima. Ciò che accade davvero in Corte di Assise non interessa, anche perché ce la vedete voi una trasmissione incentrata sulla differenza tra colpa cosciente e dolo eventuale?

    Il primo risultato tangibile consiste nelle ingiurie e nelle minacce di cui sono stati fatti bersaglio gli avvocati difensori che hanno l’unica responsabilità di fare dignitosamente il loro lavoro senza neppure negare la materialità di quanto accaduto e – quindi – accampando insostenibili tesi di innocenza per il loro assistiti.

    Il rischio ulteriore del “processo parallelo” è un condizionamento più o meno inconscio dei giudici popolari ma anche di quelli togati che compongono la Corte d’Assise: sono tutti uomini e come tali soggetti a emozioni e fascinazioni esterne. Non a caso – e non è un sistema giudiziario che debba essere preso interamente ad esempio – negli Stati Uniti è fatto divieto ai giurati di leggere giornali e seguire trasmissioni televisive che trattano del processo durante la sua celebrazione: pena il congedo dalla giuria.

    La lettura, forse un po’ complessa, di un interessante libro, “Il Giudice Emotivo” può chiarire quali principi  non siano negoziabili neppure nel rispetto della libertà di stampa e del dovere di informazione.

    Diversamente, l’attesa di Giustizia rischia di diventare quella di una sentenza di condanna preceduta dal verdetto di un autoproclamato Tribunale del Popolo mediatico composto da indignati in servizio permanente effettivo e della ricerca di un colpevole purchessia.

  • In attesa di Giustizia: sanità malsana

    Ci risiamo: un’ennesima indagine della Procura della Repubblica di Milano disvela il supposto malaffare che alligna nel sistema sanitario lombardo: considerato a buon diritto un’eccellenza a livello nazionale ma non estraneo a quei fenomeni criminali che facilmente allignano e prosperano là dove vi sono consistenti volumi di denaro pubblico in distribuzione.

    Non è la prima volta, come si è anticipato, la storia rassegna numerosi precedenti da quello del Centro di Medicina Nucleare che coinvolse circa quattrocento medici di base accusati di prescrivere, dietro – peraltro –  modeste prebende economiche, accertamenti diagnostici strumentali inutili per garantire ad un istituto convenzionato di avvantaggiarsi con un giro di affari diversamente ingiustificato a danno della ASL competente che ne rimborsava il costo, alla più recente vicenda giudiziaria della “Santa Rita”, nota anche come clinica degli orrori. Da ultimo e a tacer d’altro, vi è stata l’inchiesta che ha attinto un noto primario ortopedico, poche settimane addietro rinviato a giudizio per lesioni colpose e corruzione: proprio dalle investigazioni svolte nei confronti di costui è scaturito il filone d’indagine che ha portato all’arresto di altri medici del Gaetano Pini e del Galeazzi, che sono considerati centri ortopedici di prima grandezza.

    Avrete notato che su queste colonne non sono stati fatti nomi, neppure con riferimento a fatti che hanno visto ormai concludersi definitivamente l’iter giudiziario: ne spiegherò il perché costituente la ragione di fondo dell’articolo di questa settimana, fatta la premessa maggiore che è giusto vi sia un controllo sociale sulla gestione di un settore pubblico sensibile come la sanità e sulla amministrazione della giustizia. L’informazione deve, dunque esserci, ma alcuni limiti perimetrali appaiono opportuni.

    Cominciamo dal passato più o meno remoto, sempre con riferimento alle vicende ricordate: coloro che sono stati coinvolti a diverso titolo sono morti, stanno scontando lunghe pene detentive, qualcuno deve essere ancora giudicato, altri sono risultati estranei ai fatti. Tutti costoro, se già processati hanno – se non altro – il diritto all’oblio, quantomeno per evitare che da giudizi e pregiudizi ricadano immaginabili effetti negativi su incolpevoli famigliari e/o collaboratori.

    Chi, invece, non è ancora attinto da una sentenza di condanna ha la giusta pretesa di far valere la propria presunzione di non colpevolezza e, soprattutto, di non essere giudicato al di fuori di un Tribunale sulla scorta di una conoscenza frammentaria ed atecnica degli atti.

    A maggior ragione, una significativa riservatezza dovrebbe essere assicurata a chi risulta “solamente” raggiunto da un provvedimento di cattura ed è, quindi, ben lontano non solo da una affermazione di colpevolezza ma anche solo da un rinvio a giudizio.

    Proviamo a immaginare l’impatto che “il mostro sbattuto in prima pagina” ha sull’esistenza di figli incolpevoli che devono andare a scuola il giorno dopo, di coniugi che dovranno affrontare i colleghi di lavoro, i conoscenti, i vicini di casa: non è sicuramente ciò che la giustizia e chi la amministra vuole ma la fuga di notizie sembra essere un aspetto ineliminabile e quanto appena accaduto con riguardo a primari e imprenditori arrestati, con atti processuali e intercettazioni telefoniche disponibili nelle redazioni di giornali e telegiornali prima ancora che in cancelleria è paradigmatico.

    La Sanità è malata? Il rimedio sta altrove, non certo nello spettacolarizzare di arresti e vicende umane nelle quali anche il colpevole, o presunto tale, nel suo malessere esprime una tragicità che meriterebbe – se non rispetto – almeno un minimo di riserbo.

  • In attesa di Giustizia: giustizia ai tempi della crisi

    Si sa, in tempi di crisi aumentano i reati che ne sono espressivi, compresi quelli che si ritiene appartengano solo all’immaginario collettivo costituendo esempi irrealistici. Così non è e fa fede la vicenda di un uomo residente nella provincia di Lecce processato per aver sottratto una melanzana (avete letto bene: una melanzana!) sebbene il derubato, un contadino, avesse manifestato l’intenzione di non perseguirlo…ma per il furto si procede di ufficio e i Carabinieri che avevano fermato l’uomo con il  compendio dell’orrendo crimine ancora in mano avevano dovuto informare la Procura della Repubblica.

    Il Pubblico Ministero, a questo punto, avrebbe ben potuto evitare un seguito  in base alla norma del codice che prevede si possa chiedere l’archiviazione quando il reato è di particolare tenuità, ma non lo ha fatto nonostante la oggettiva marginalità dell’illecito.

    Rinviato a giudizio, lo sventurato si è visto infliggere in primo grado una condanna a cinque mesi di reclusione e trecento euro di multa (il P.M. pare avesse chiesto molto di più…), ridotta poi in appello a due mesi e centoventi euro.

    L’assistenza di un tenace difensore di ufficio ha portato il processo fino in Cassazione ove si è celebrato il lieto fine: la condanna è stata annullata proprio perché il fatto è stato ritenuto di lieve entità.

    Il lettore è giusto che sappia quanto tenue è il valore di questa ruberia: si parla di venti centesimi stabiliti in seguito ad una perizia disposta nel corso del processo, perizia che – chiaramente –  è costata molto di più, così come a carico del bilancio del Ministero sono rimaste tutte le altre spese vive che la vicenda ha generato. A tacere contributo all’intasamento del sistema a discapito di altri procedimenti che è facile immaginare di rilievo maggiore sia per le persone offese che per i responsabili.

    Non è la prima volta che su queste colonne ci occupiamo di casi analoghi dai contorni grotteschi: il fatto che si ripetano giungendo – sicuramente non tutti  – agli onori delle cronache è sintomatico di un sistema giudiziario malato di inefficienza e, talvolta, di mancanza di buon senso comune in cui gli sprechi non si contano e poco o nulla si fa per evitarli anche quando la legge stessa offra un’agevole soluzione.

    Oggi possiamo compiacerci perché un povero uomo ha, infine, evitato l’onta del pregiudizio penale, per una normativa intelligente che ciò ha reso possibile e per la determinazione di un avvocato? Probabilmente sì, questi sono profili non indifferenti, ma una simile attesa di giustizia, tenendo conto che la stessa sottoposizione a processo è una pena, ha fatto pagare a un cittadino  uno scotto francamente inaccettabile ed allo Stato un conto salato che si sarebbero potuti evitare.

  • Achtung Binational Babies: bambini rubati dallo Jugendamt tedesco

    Tutti i genitori italiani che hanno conosciuto lo Jugendamt tedesco e il sistema familiare di quel paese e che si sono visti cancellare dalla vita dei loro figli (ogni genitore non-tedesco è infatti nocivo al processo di germanizzazione dei bambini e dunque ritenuto nocivo al cosiddetto “bene del bambino”- in senso teutonico) sanno che questo problema non va affrontato né con gli psicologi e tanto meno con gli assistenti sociali, è un problema esclusivamente politico ed economico, oltre che giuridico.

    La Germania si impossessa dei bambini per motivi economici e conduce queste sue azioni in modo sempre più estremo perché politicamente (e non solo) si sente superiore e soprattutto perché Stati come l’Italia, che paiono aver perduto la loro dignità, glielo permettono.

    Infatti, non solo lo Stato italiano tace ai suoi concittadini il pericolo di un trasferimento in Germania con la famiglia, ma lascia completamente soli coloro che si trovano a vivere l’inferno della persecuzione tedesca e che disperatamente cercano aiuto. Invano.

    La maggior parte dei Consoli, che in effetti sono tenuti a rispettare le indicazioni del Ministero degli Esteri, si nascondono dietro al “non possiamo intervenire in procedimenti stranieri”, “non possiamo far scoppiare un incidente diplomatico per due bambini”, “si cerchi un buon avvocato”, ecc… (ho messo il virgolettato perché si tratta di frasi dette veramente!) quando invece è soprattutto necessario far sentire forte la presenza dello Stato italiano a supporto del proprio concittadino. All’estero l’italiano è percepito come orfano. Un apolide è forse maggiormente tutelato.

    Sul versante italiano la situazione è, se possibile, peggiore. I magistrati dei tribunali italiani paiono – troppo spesso – al soldo di un governo straniero. Alla richiesta (istanza) tedesca non si dice mai di no e se l’istanza non è fondata, si distorce la nostra propria Legge per riuscire ad applicarla in favore della parte tedesca.

    La nostra giustizia, notoriamente molto lenta, diventa improvvisamente veloce ed efficace quando si tratta di accogliere ed eseguire le richieste straniere, soprattutto se tedesche.

    Se la parte tedesca reclama degli alimenti, quella italiana si ritrova velocemente e inesorabilmente un ufficiale giudiziario italiano a requisire e pignorare ogni suo avere: i soldi devono arrivare velocemente in Germania. Se invece è la parte italiana a reclamare gli alimenti a quella tedesca, oltre alle lungaggini italiane per ottenere un decreto esecutivo, dovrà aspettarsi il diniego di quelle tedesche che utilizzeranno ogni articolo ed ogni comma del loro codice di procedura (ben diverso dal nostro!) per evitare che soldi tedeschi passino la frontiera. Ma c’è di peggio. Se un genitore italiano rientra in Italia con il proprio figlio, si ritroverà in prigione in un batter di ciglio, e il bambino sarà immediatamente rimpatriato. Se invece un genitore straniero porta illecitamente il figlio all’estero, allora si muove la burocrazia, cioè non succede niente (in ogni caso, niente di efficace) e il bambino resta all’estero. Addirittura se il genitore straniero porta il figlio all’estero illecitamente e poi rientra sul territorio italiano lasciando il figlio all’estero nelle mani di parenti più o meno stretti, questo genitore straniero, colpevole di un reato penale e oggetto di denuncia, potrà continuare tranquillamente a vivere in Italia senza che gli venga torto un capello. Nel confronti del genitore italiano ci si giustificherà con la solita “lentezza della giustizia” che però pare esista solo quando questa “giustizia uguale per tutti” viene invano reclamata da un cittadino italiano.

    Abbiamo smesso di chiederci il perché, vogliamo solo che tutto ciò abbia fine. Chiunque riceverà l’incarico di formare il nuovo Governo, dovrà farlo nell’interesse dell’Italia e degli Italiani e non dei burocrati (tedeschi) di Bruxelles. E’ dunque con rinnovata forza che chiediamo ci si occupi di questo tema!

  • Sia fatta giustizia in tribunale prima che in televisione

    Tra i valori che mantengono in vita una democrazia vi sono certamente la libertà individuale, che trova limite nelle leggi e nelle regole sulle quali si reggono la convivenza civile e lo Stato, la libertà di espressione e di stampa, il diritto a una giustizia imparziale e certa.

    Se il diritto alla libera espressione e alla libertà d’informazione, che oggi va ovviamente intesa in un senso ampio e inclusivo dei media online, deve essere sempre garantito, parimenti sempre deve essere garantito che l’informazione sia corretta e sopratutto che non diventi, come avviene in troppi casi, uno strumento fine a se stesso solo per fare audience.

    Negli ultimi anni è diventato molto di moda che i talk show, o appositi programmi, si occupino di processi. Tutto bene se i processi sono già celebrati, tutto bene se anche prima del processo si parla del caso senza  però sostituirsi alla magistratura. Purtroppo invece troppe volte i programmi televisivi si tramutano in aule di tribunale, con esperti veri o presunti, con testimoni veri o presunti, con informazioni riunite come in un collage, saltando passi importanti della vicenda, per arrivare già a una sorta di sentenza o comunque all’obiettivo di condizionare, in un senso o nell’altro, lo spettatore.

    La pericolosità di questo sistema è evidente, non solo per quanto riguarda l’influsso esercitato sull’opinione pubblica, ma anche per l’influenza che può avere sui giudici e sulla giuria popolare.

    La ricerca della verità spetta anche ai giornalisti di inchiesta ma il giornalista dovrebbe avere la capacità deontologica di raccontare tutti i fatti e non soltanto quelli che servono ad ottenere quanto interessa alla spettacolarità del programma. Purtroppo, con buona pace dell’Ordine dei giornalisti e della commissione di vigilanza Rai, abbiamo assistito e stiamo assistendo alla creazione di mostri più che alla ricerca della verità.

    Tutto questo si sta verificando anche per il caso dei macrobiotici di Mario Pianesi: anche giornalisti che in molte occasioni avevamo apprezzato si sono esibiti in dichiarazioni e atteggiamenti che non fanno onore alla loro professionalità.

  • In attesa di Giustizia: cultura dell’illegalità

    Il manettaro perde le catene ma non il vizio: da quando Piercamillo Davigo è passato dalla Procura della Repubblica alle funzioni giudicanti – e da qualche anno alle più alte, come giudice della Suprema Corte di Cassazione – non ha perso occasione per riproporre le proprie opinioni personali nei confronti del processo penale che altro non dovrebbe essere che un patibolo predestinato per gli indagati.

    Da ultimo, inarrestabile anche dalla neve, ha partecipato ad un seminario sulla corruzione tenutosi a Potenza  riproponendo l’abusato refrain che gli è caro: “non ci sono innocenti ma solo colpevoli che l’hanno fatta franca”.

    L’argomento che ha scatenato la furia inquisitoria di Davigo è il presidio normativo posto alla utilizzabilità delle intercettazioni: senza scendere in questa sede in dettagli da addetti ai lavori, al lettore basti sapere che il nostro codice prevede l’osservanza di una serie di regole affinché la captazione di conversazioni sia legittima; il che non deve sorprendere perché la tutela della segretezza delle comunicazioni è garantita dalla Costituzione e – dunque – se è vero che vi si può derogare ciò è possibile solo in forza di un giustificato provvedimento della Autorità Giudiziaria e nel rispetto dei canoni normativi. Qualora ciò non avvenga, le conversazioni intercettate è come se non esistessero ed al giudicante è precluso farne uso.

    Epigono maldestro di Niccolò Machiavelli, Davigo ha sostenuto che vale tutto per contrastare il male endemico che nel nostro Paese è costituito dalla corruzione, lamentando che – per converso – vi sarebbero migliaia di criminali assolti ingiustamente perché le prove raccolte a loro carico mediante intercettazioni sono state dichiarate inutilizzabili.

    Falso e inaccettabile. Falso perché ogni giorno in Italia sono in media arrestate  tre persone che in seguito verranno ritenute innocenti. Tenendo conto del fatto che non certo in tutti procedimenti in cui vi sia la limitazione della libertà di qualcuno le indagini si fondano su intercettazioni (più o meno correttamente eseguite) ci si rende conto che Davigo ha veramente dato i numeri, sfoggiando una particolare forma di subcultura della legalità.

    Inaccettabile poiché in tal modo si è sostenuta implicitamente la necessità di una giustizia senza regole o nella amministrazione della quale le regole – e la stessa Costituzione – possano essere disapplicate, ignorate, violate senza conseguenze per arrivare ad una condanna purchessia: un invito eversivo al disprezzo delle garanzie fondamentali che è inaccettabile provenga da chi la Costituzione ha giurato di difendere e rispettare.

    Mentre i miei cinque lettori staranno concludendo queste righe, io sarò in procinto di discutere in Cassazione alla Quinta Sezione, che è di fianco alla Seconda il cui Presidente è proprio Davigo: il mio ricorso ha una sua dignità ma non posso essere certo del risultato. Sicuramente la notte prima dormirò più sereno sapendo che non sarà lui a presiedere.

Pulsante per tornare all'inizio