Giustizia

  • In attesa di Giustizia…computerizzata?

    Nel febbraio scorso il Governo ha elaborato la bozza del decreto legislativo con il quale si dovrebbe dare attuazione alla direttiva n. 680/2016 in materia di trattamento dei dati sensibili il cui obiettivo è la protezione delle persone “con riguardo al trattamento dei dati personali da parte delle autorità competenti ai fini della prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati o esecuzione di sanzioni penali”.

    All’art.8 dello schema del decreto si legge che:

    1) sono vietate le decisioni basate unicamente su trattamenti automatizzati, compresa la profilazione, che producono effetti negativi sul destinatario, salvo che siano state autorizzate dal diritto della UE o da apposite disposizioni legislative;

    2) le disposizioni di legge devono prevedere garanzie adeguate per i diritti e le libertà dell’interessato. In ogni caso è garantito il diritto di ottenere l’intervento umano da parte del titolare del trattamento;

    3) le decisioni di cui al punto uno non possono basarsi sulle categorie particolari di dati personali (quelli relativi all’appartenenza a razza, religione e sesso, etc.), salvo che siano in vigore misure adeguate a salvaguardia dei diritti, delle libertà e degli interessi legittimi dell’interessato.

    Se ne ricava che i tempi della giustizia  formata da algoritmi predittivi si avvicinano rapidamente; infatti, nel giudizio penale la profilazione (cioè a dire l’elaborazione dei dati dei cittadini, suddivisi in gruppi omogenei in base a gusti, interessi e comportamenti) non è  stata vietata, anzi è  ammessa con il solo limite che deve essere prevista per legge qualora produca effetti negativi sul soggetto destinatario.

    Rimane la garanzia di un “intervento umano”, previsto solo complementare (ma non essenziale) a quello automatizzato.

    Sono, forse, le avvisaglie del momento in cui una forma di intelligenza artificiale sostituirà (facendosi soccorrere soltanto se richiesto) quella umana?

    Alcuni  sono favorevoli alla introduzione nelle regole del giudizio di questa modalità di calcolo probabilistico, quando viene applicata per suggerire la proiezione dell’esito di un giudizio, evidenziandone i margini di vittoria e così contribuendo a scongiurare azioni legali temerarie: e in Francia, per esempio, ci sono aziende che sponsorizzano tali progetti.

    Se tutto ciò è in qualche misura accettabile nel giudizio civile, in quello  penale è evidentemente pericoloso fare statistica  sul destino di una persona, un essere umano che ha diritto di ricevere un trattamento che preferisca ad un sistema operativo  l’umano sentire: quello di quel giudice, a volte produttivo di decisioni severe, ma che in via generale ha “un umano sentire”; che nell’applicare le leggi  ha una percezione reale, concreta, della loro potenziale efficacia. Un giudice che coglie le fragilità dell’uomo e che offre – ove possibile – delle opportunità di riscatto oppure il pericolo di recidiva, opportunità che hanno sfumature così varie che una “macchina” non può calcolarle, perché non può empaticamente percepirle.

    E attenzione, questa tipologia di algoritmi predittivi non sono fantascienza: negli Stati Uniti d’America si usano da anni nella fase pre-processuale e più di recente anche nella fase di giudizio, con buona pace del verdetto reso dai “dodici pari” in giuria. Manca solo che si arrivi a quel futuro inquietante descritto nel film “Minority Report” in cui gli autori di un reato vengono individuati (e puniti) prima ancora che lo commettano.

    Una lettura interessante, su questa materia è quella del libro “Il Giudice emotivo” in cui si tratta proprio delle variabili nel giudizio indotte da dinamiche psicologiche del giudicante, anche fuorvianti come quelle determinate da “scorciatoie” inconsce di valutazione: se ne trae la conclusione – paragonando i sistemi –  che, forse, è preferibile che la Giustizia continui ad essere affidata agli uomini con tutti i loro limiti e la loro connaturata fallacia rispetto alla quale la legge appronta rimedi, piuttosto che a delle macchine di cui si postula il dogma della infallibilità.

  • In attesa di Giustizia: Verziano Coffee Morning

    Mentre il Governo traccheggia accampando giustificazioni poco credibili con la promulgazione del nuovo Ordinamento Penitenziario, normativa impopolare sotto elezioni e con un corpo elettorale affamato di vendetta sociale, il 20 febbraio si è celebrata la giornata mondiale della Giustizia Sociale: iniziativa poco conosciuta patrocinata dall’ONU il cui tema, quest’anno, erano i lavoratori in movimento.

    In questo ambito, una manifestazione degna di nota è stata organizzata nel carcere di Verziano, vicino Brescia: istituto progettato inizialmente per essere un istituto penitenziario minorile è stato da subito destinato a casa di reclusione, cioè a dire, un luogo destinato ai detenuti in espiazione di una pena definitiva dei quali, secondo il dettato costituzionale, si deve curare la rieducazione.

    Dunque, pochi giorni dopo, la mattina di sabato 24, la casa di reclusione è stata aperta alla cittadinanza per poter accedere alle strutture interne dove la colazione è stata servita dai detenuti con caffè e pasticcini prodotti da loro: infatti, regolarmente stipendiati, un certo numero di carcerati che fruiscono di misure alternative alla detenzione è stato assunto, tramite una cooperativa, da aziende private per produrre cialde per l’espresso e cannoncini farciti. Un po’ di numeri? In un anno sono stati realizzati oltre venti milioni di cialde, mentre i pasticcini confezionati raggiungono quotidianamente il quintale.

    Ne abbiamo già parlato su queste colonne: è intuitivo che l’avviamento ad una specializzazione professionale agevoli il reinserimento sociale facilitando l’accesso al mondo del lavoro e ad avvantaggiarsene è proprio quella sicurezza cui tanto anela una classe politica ansiosa di farne viatico per il consenso.

    Con sacrificio e grazie alla collaborazione di cooperative ed aziende private, in più di un istituto penitenziario si realizzano attività simili ma resta fondamentale comunicarne l’utilità all’esterno: anche e soprattutto avvicinandovi la cittadinanza, come hanno fatto a Verziano dove per dare lavoro, con imprese già pronte ad offrirlo, ad altri condannati servirebbe però un nuovo padiglione. E qui la parola passa al Ministero della Giustizia ed alla cronica mancanza di risorse economiche nelle casse dello Stato.

    E’ stato il pensiero liberale di Cesare Beccaria a porre le fondamenta perché la pena non rimanesse una mera retribuzione del crimine connesso ma un’occasione di riscatto: e in questa finalità bisogna crederci, non fosse altro perché sono i numeri a segnalare che l’opera di reinserimento, quando è resa possibile ed adeguata è efficace  mentre la caduta nella recidiva è marginale.

    E per comprendere meglio quanto intenso sia anche per molti di quegli uomini rinchiusi in gabbia il desiderio di migliorarsi, lascio la parola a quanto scritto da un detenuto in occasione della visita alle carceri del Papa: “Oggi mi sento libero nella mente e nell’anima, oggi so che anche in questo inferno di peccatori c’è speranza: non siamo dimenticati o emarginati, non siamo solo un numero di matricola, oggi siamo di nuovo uomini, donne, madri, padri e figli. Grazie Francesco.”

  • In attesa di Giustizia: elogio degli avvocati scritto da un avvocato

    Sapete da cosa si distingue se di un investimento è stato vittima un cagnolino oppure un avvocato? Nel primo caso vi sono tracce di frenata…

    In questa freddura è racchiusa tutta la poca considerazione riservata alla categoria degli avvocati: soggetti causaioli e perditempo, con ciò intendendosi che l’interesse principale coltivato sarebbe quello di creare conflittualità dalla cui esistenza e durata ricavare ricchezza nel sostanziale disinteresse delle reali ragioni dei propri assistiti e con attenzione rivolta solo a quelle “di bottega”.

    E’ ben vero che in una categoria professionale che supera le 250.000 unità a livello nazionale è possibile che allignino anche personaggi di pochi scrupoli, scarsamente rispettosi della deontologia e della esigenza di formazione e specializzazione: ogni generalizzazione in questo senso è ingenerosa e come tale andrebbe evitata, purtuttavia è ampiamente diffusa.

    L’Organismo Congressuale Forense (del quale i più ignorano esistenza e funzioni), con delibere del gennaio scorso ha indetto la Giornata dell’Orgoglio dell’Avvocatura e della Salvaguardia delle Tutele da svolgersi in due distinti momenti: uno a carattere nazionale per il 16 febbraio e uno a dimensione distrettuale per il giorno 23 dello stesso mese (quest’ultima con contestuale astensione dalle udienze) per informare la comunità sullo stato delle cose nel settore della giustizia e rivendicare e rivendicare i valori della professione forense.

    Mi sembra che un momento peggiore non si potesse scegliere per fare una simile iniziativa che, meritevole nelle intenzioni, non pare abbia conseguito i risultati attesi: alzi la mano chi ne ha saputo qualcosa, a dimostrazione che anche una superficiale comunicazione abbia raggiunto i destinatari, cioè i cittadini.

    Il momento, inoltre, è da considerarsi  negativo perché collocato nel pieno di una campagna elettorale che è infuocata proprio sul tema della giustizia mostrando allarmanti, ancorché non nuove, derive giustizialiste ed in coda ad una legislatura che ha mostrato una evidente tendenza ad assecondare più che altro istanze di vendetta sociale contro emergenze reali o presunte.

    La manifestazione accomunava – inoltre – rivendicazioni di inelegante tipologia sindacale relative al diritto di una giusta remunerazione che, a parere di chi scrive, dovrebbero trovare altrove un momento di dibattito.

    Resta il fatto che un contributo, per quanto minimo, alla valorizzazione della categoria sento il dovere di darlo e lo farò con parole che non sono mie citando innanzi tutto l’articolo 24 della Costituzione che declina la possibilità per tutti di agire in giudizio a tutela delle proprie ragioni, l’inviolabilità del diritto di difesa e la possibilità di accedere al servizio/giustizia anche per i non abbienti mediante il patrocinio a spese dello Stato. Quella dell’avvocato è, dunque, una funzione di rango costituzionale.

    E aggiungerei il pensiero del grande giurista e membro della Assemblea Costituente Piero Calamandrei: “l’avvocatura, anche nello Stato autoritario, risponde ad un interesse pubblico altrettanto importante quanto quello cui risponde la magistratura: giudici e avvocati sono ugualmente organi della giustizia, sono servitori ugualmente fedeli dello stato che affida loro due momenti inseparabili della stessa funzione”.

    Altro non mi sembra sia utile aggiungere: consapevole che non tutti gli iscritti agli Albi rispecchiano questi valori per tutti gli altri che vi si riconoscono e li praticano con sacrificio quotidiano valgano queste mie considerazioni a rivendicare l’orgoglio della Toga.

  • “Un’azione politica responsabile può andare oltre la legge?”

    Si intitola Un’azione politica responsabile può andare oltre la legge? – Riflessioni doverose per il bene della cosa pubblica il convegno che si svolgerà venerdì 23 febbraio 2018, dalle 10.00 alle 13.00, nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano.

    Dopo i saluti istituzionali del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, Avv. Remo Danovi,  del Presidente della Camera Penale di Milano, dell’Avv. Monica Gambirasio, Presidente dell’ Ordine dei Giornalisti della Lombardia e del Dottor Alessandro Galimberti – il Sole 24 Ore, seguirà la tavola rotonda, introdotta dall’Avv. Guido Camera, con  il Prof. Avv. Marcello Gallo, il Prof. Salvatore Veca, il Dottor Ferruccio de Bortoli. Modererà i lavori il Dottor Franco De Angelis

  • Giustizia: troppi scarcerati per vizi di forma e decorrenza dei termini

    Ancora una volta, sono stati scarcerati, per vizio di forma, persone probabilmente colpevoli di gravissimi reati (nell’agrigentino sono tornati liberi presunti boss e gregari di Cosa nostra accusati di associazione mafiosa ed estorsione)! Quante volte abbiamo letto notizie come questa? Quante volte è successo lo chiediamo al Ministro della Giustizia, al Ministro degli Interni, al presidente del CSM e della Camera Penale. Quante volte, negli ultimi dieci anni, vi sono stati ‘vizi di forma’ che hanno impedito la celebrazione dei processi, l’accertamento della verità, la giusta punizione dei colpevoli e il rispetto del diritto delle vittime?

    Questi vizi di forma da cosa sono dipesi e per quale assurdo motivo non si sono approntate misure per prevenirli ed impedirli? E per quale motivo non sono state approntate misure per accelerare le indagini, ed i processi, così da evitare la scarcerazione, per decorrenza dei termini, di tante persone colpevoli?

    E quanti altri delitti e dolori si sarebbero potuti evitare se alle denunce di donne maltrattate si fosse data più attenzione e se non si continuasse a fare abitare i persecutori violenti in prossimità delle loro vittime?

    Il problema giustizia resta uno dei più gravi in Italia: dal sistema processuale al risarcimento del danno, dalla tutela delle vittime alla inumana realtà delle carceri.

    Il problema giustizia si trascina da decenni ma le maggiori forze politiche poco lo hanno in mente e poco ne parlano anche in questa campagna elettorale e questo atteggiamento la dice lunga sulla loro conoscenza effettiva della realtà della giustizia italiana, sulla loro coscienza e sul loro grado di attenzione ad un problema grave che interessa la maggior parte dei cittadini tuttora vittime di soprusi e violenze, non solo da parte della criminalità organizzata!

    E resta un’inquietante domanda: chi accerta la responsabilità per i vizi di forma e la decorrenza dei termini? E se esistono responsabilità quali sono le conseguenze per chi ha sbagliato?

  • In attesa di Giustizia: dagli, dagli all’avvocato!

    Non bastassero i toni da grida manzoniane, che la campagna elettorale aveva già assegnato al  tema della giustizia, la violenza sulle donne è tornata alla ribalta in seguito a gravissimi fatti di sangue e di molestie verificatisi sull’asse tra Macerata e Roma dove, da ultimo, una anziana senza tetto ha subito violenza – come pare – da un immigrato nordafricano.

    A tacere di questi episodi, l’incandescente dialettica sull’argomento è stata rinfocolata dalle polemiche che sono seguite all’incidente probatorio celebratosi a Firenze nel processo in cui due carabinieri sono indagati per violenza sessuale con riferimento alle modalità con cui i difensori dei militari hanno gestito il contro interrogatorio delle presunte vittime.

    Detto per i lettori non tecnici che l’incidente probatorio consiste in una anticipazione nella fase delle indagini di un passaggio tipico del dibattimento, cioè a dire l’interrogatorio davanti al Giudice ed in contraddittorio con il P.M., di testimoni o persone offese di un reato che non sia opportuno differire nel tempo. Nel caso che oggi ci interessa è stata stigmatizzata da un lato la durezza dei difensori nel porre domande alle ragazze, dall’altro si è enfatizzata la sensibilità del giudice nel porvi freno.

    Si è scritto su autorevoli organi di stampa a diffusione nazionale che un simile modo di procedere comporta una vittimizzazione secondaria cioè a dire la sottoposizione a nuovi traumi, durante un processo, a chi abbia già subito un’offesa.

    Sembrerebbe tutto ineccepibile ma…chi scrive (e verosimilmente neppure i redattori degli articoli cui si allude) non dispone degli atti integrali del processo la cui conoscenza sarebbe chiarificatrice per comprendere ed eventualmente condividere la scelta difensiva.  Invero, solo dall’insieme degli elementi di prova sin’ora acquisiti, che necessitano di una convalida o smentita proprio attraverso gli strumenti tipici previsti dal codice  può  valutarsi la fondatezza di un’accusa basata esclusivamente sulla parola di chi accusa e cui – pertanto – incombe l’onere di provare le proprie ragioni a fronte della presunzione di rango costituzionale di non colpevolezza  dell’accusato.

    Proprio perché è carente in radice la conoscenza del fascicolo non appare condivisibile la scelta di schierarsi dalla parte di qualcuno, facendo solo chiacchiere da Bar Sport; tutto ciò, come anticipato, vale anche per chi scrive: tuttavia non può non osservarsi che un difensore ha  il compito di far emergere – laddove traspaia – l’infondatezza dell’accusa: e ciò non solo è possibile ma è doveroso farlo anche con ferma determinazione e durezza.

    Si sappia che il codice che regola il processo penale prevede proprio che la prova si formi nel contraddittorio delle parti e che – quindi – il momento cruciale di un’attività difensiva risiede nel controesame dei testimoni ostili e nella capacità di condurlo nelle due modalità tipiche: costruttivo ma anche distruttivo, volto cioè a rappresentare se non il mendacio la scarsa attendibilità dell’accusatore.

    Almeno sotto questo profilo qualcosa da imparare dagli americani ce lo abbiamo: nel loro sistema la cross examination è un istituto processuale rispetto al quale la competenza è stata affinata da epoca molto risalente e, per un confronto caratterizzato da forti analogie può essere l’interessante lettura dei verbali di “Florida vs. William Smith Kennedy” processo celebratosi del 1991 e che vide un rampollo della nota famiglia imputato di stupro davanti alla Corte della Contea di Palm Beach.

    L’Avv. Black, suo difensore, partì da dei dati di fatto (proprio quelli che oggi noi non conosciamo in dettaglio) per dimostrare l’inverosimiglianza della ricostruzione fornita dalla presunta parte lesa, una giovane donna sottoposta per undici ore ad un interrogatorio che generò una tensione emotiva tale che alcuni giurati  svennero.

    Pragmaticamente, si era scelto solo di provare a dimostrare che la vittima non poteva essere creduta a prescindere dalla prova provata di una falsità del narrato: concetti solo apparentemente simili.

    Nessuno si stupì in quel caso, neppure i giurati che pronunciarono un verdetto di non colpevolezza e, forse, non ci dobbiamo stupire o – peggio – indignare nemmeno noi, men che mai qualora la conoscenza dei fatti e degli atti sia parziale, se gli avvocati fanno il loro dovere, nell’osservanza della legge non meno che nel rispetto del dovere che su di loro incombe di assolvere ad un impegno che è sacralizzato da canoni costituzionali. A tacer del fatto che, per restare, a quanto accaduto nell’incidente probatorio di Firenze, essendo un’udienza a porte chiuse, neppure sul contenuto dei magnificati interventi del Giudice vi sono dati di completezza.

    Dare addosso ai difensori, peraltro, è un esercizio che sembra non esaurire risorse: dimenticando però che l’attesa di giustizia non può essere solo quella di una sentenza che individui un colpevole purchessia per placare la sete di vendetta sociale.

  • In attesa di Giustizia: verso le elezioni…dello sceriffo?

    In altre occasioni, su queste colonne, abbiamo affrontato il tema del rapporto intercorrente tra politica, giustizia e sicurezza che è tutto sbilanciato a favore di quest’ultima in quanto ogni intervento così orientato (anche solo apparentemente) è foriero di ampio consenso presso un’opinione pubblica, o meglio, un corpo elettorale assai sensibile all’argomento.

    I fatti di cronaca degli ultimi giorni sembrano giovare alla causa di chi è alla ricerca di voti facendo leva proprio sul senso di insicurezza che hanno alimentato: due ragazze uccise barbaramente, un giustiziere armato, una rapina con sparatoria possono fornire materiale inesauribile per una campagna elettorale giocata sulle paure della gente comune. Nessuna parte politica sembra essersi sottratta al dibattito e nessuna ha espresso concetti coerenti con il pensiero liberale, optando – piuttosto – per una propaganda fondata sulla repressione.

    Tutto molto facile: se è vero che la comparsa di nuove categorie di emarginati che fuggono da miseria, guerre e persecuzioni ha portato con sé inevitabili frange di criminalità renderla destinataria di un diritto penale “del nemico” è operazione agevole e ampiamente condivisa soprattutto laddove possa apparire indistinto il confine con il terrorismo di matrice islamica ed il suo doveroso contrasto.

    Sempre attualissimo il tema della legittima difesa, con proposte in ordine alla sua estensione, quando non ad una possibile presunzione per legge.

    Ovviamente, la certezza della pena è un obiettivo considerato equivalente all’inasprimento delle sanzioni ed alla riduzione delle garanzie: con buona pace dei canoni costituzionali relativi alle finalità rieducative della pena, alla ragionevolezza, alla presunzione di non colpevolezza e – non ultimo – al giusto processo.

    L’insegnamento di Cesare Beccaria, che è evocato proprio dall’art. 27 della Costituzione, dovrebbe cedere il passo al pensiero dell’omonimo Lombroso secondo il quale il criminale nasce tale ed è – pertanto – insensibile a priori a qualsiasi iniziativa volta al reinserimento sociale.

    Ecco, dunque, che langue la riforma dell’Ordinamento Penitenziario contenuta in una legge delega e sostanzialmente pronta per l’emanazione da parte del Governo e poco importa che le statistiche del Ministero della Giustizia segnalino un tasso di recidiva contenuto da parte dei condannati ammessi a misure alternative alla detenzione rispetto al 70% di chi sconta per intero la pena dietro le sbarre: non è mestieri inimicarsi (proprio adesso…) gli elettori con un provvedimento definito in maniera completamente fuori luogo salvaladri.

    Per questo c’è ancora tempo, molto poco, troppo poco per credere che un intervento ritenuto impopolare possa bruciare le tappe approdando sulla Gazzetta Ufficiale. Poco importa che la riforma non sia salvaladri ma salvauomini e vada incontro ad esigenze di maggiore tutela della collettività: è una patata bollente da rifilare alla prossima legislatura dopo essersi allacciati alla poltrona con una cintura di sicurezza, con buona pace della Giustizia che è abituata ad attendere.

  • In attesa di Giustizia: venenum in cauda

    Lo scioglimento delle Camere non ha messo fine ad una legislazione volta a ridurre sistematicamente le garanzie processuali, sbilanciando il sistema sempre più a favore della parte inquirente. Infatti, trattandosi di decreto legislativo e – dunque – attività normativa attribuita al Governo, che permane in carica, è stata pubblicata in Gazzetta la nuova disciplina sulle intercettazioni telefoniche che mostra alcuni aspetti preoccupanti.

    Vi è, innanzitutto, l’estensione di fatto a tutte le indagini e non solo a quelle sulla criminalità organizzata e terrorismo dell’impiego del c.d. captatore informatico, un virus inoculabile oltre che nei computer in qualsiasi telefono di ultima generazione che renderà ascoltabili persino le conversazioni tra indagato e difensore e poco importa che siano considerate inutilizzabili processualmente: è come chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati…
    E’, poi, prevista espressamente la possibilità per i giornalisti di accedere al materiale investigativo, cioè a dire quello che non si è ancora sottoposto ad un confronto dialettico con le ragioni della difesa e che si presta – per la necessitata parzialità della pubblicazione – ad una lettura che, fuori contesto, può essere significativamente equivoca e distorta.
    Ma non basta.  Sebbene recenti fatti di cronaca abbiano segnalato il rischio che il contenuto degli ascolti sia strumentalmente alterato dal personale addetto, la recente disciplina sottrae al P.M la facoltà di selezionare le intercettazioni ritenute utili alle indagini attribuendola alla Polizia Giudiziaria.
    Quest’ultimo profilo, tra l’altro, comporta di fatto il vulnus di un principio fondamentale: la Costituzione, invero, dopo aver previsto che i giudici (deve intendersi giudici e pubblici ministeri) sono soggetti soltanto alla legge (art. 101) e che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere (art. 104) hanno anche declinato la regola per cui l’autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria (art. 109). Questo complesso comparto di garanzie è volto a scongiurare il rischio che la Magistratura risulti in qualsiasi modo subordinata al potere politico e, a tal fine, lo stesso braccio operativo del Pubblico Ministero viene posto in una condizione che impedisca il potenziale condizionamento da parte dell’Esecutivo.
    Ora, questa relazione di dipendenza funzionale viene sostanzialmente ribaltata proprio in un ambito sensibile come quello della limitazione della libertà delle comunicazioni: ciò sebbene proprio il codice del processo penale del 1989 (che disciplina anche le intercettazioni e “subisce” la recente modifica) abbia più che rafforzato il principio in parola creando un embrione di rapporto organico tra Procure della Repubblica e Sezioni di Polizia Giudiziaria.
    Vero è che bisogna coltivare fiducia nelle Istituzioni e – tra queste – verso le Forze dell’Ordine: tuttavia, l’espressione “Stato di Polizia” ha un significato tutt’altro che rassicurante ed proprio in questa direzione che conducono riforme come quella di cui abbiamo trattato e che con la Giustizia hanno una parentela fin troppo vaga.

    Buon anno…speriamo, tanto peggio di così sarà difficile.

  • Giustizia a due velocità

    Milano, 31 marzo 2017

    Egr. Ministri,
    Mi rivolgo a voi con una lettera aperta perché ciò che mi tocca personalmente riguarda ormai migliaia e migliaia di miei connazionali che, per i motivi più diversi, hanno sperimentato cosa significa doversi confrontare con le istituzioni europee e più precisamente con quelle italiane sottomesse e conniventi con quelle tedesche.
    Le amministrazioni tedesche emettono decreti provatamente discriminatori nei confronti dei cittadini italiani, poi li inviano in Italia chiedendone l’esecuzione che, in forza dei regolamenti europei, l’Italia esegue senza più alcuna possibilità di verifica. Ma per quelle persone che come me si battono da anni e riescono con successo (agendo veramente in rete con i nostri servizi locali e consolari) a tutelare i propri concittadini, soprattutto minori, l’Italia riserva un trattamento particolare: inasprisce le discriminazioni iniziate in Germania, facendole proprie ed ampliandole. Utilizzando in pratica, nei confronti dei suoi concittadini, una giustizia a due velocità, rapidissima nell’attaccare, lentissima nel tutelare.
    Cercherò di riassumere il più possibile i fatti: nel 2008 sono tornata in Italia dalla Germania con i miei figli in tutta legalità, ma sulla scorta di una traduzione falsificata (falsificazione accertata dalla Procura della Repubblica) i miei figli sono stati immediatamente prelevati a scuola e rimpatriati (tra l’altro infrangendo anche un accordo firmato davanti l’allora vice questore di Milano). La Suprema Corte di Cassazione ha cassato il decreto con rinvio. Sono andata in Germania e da lì sono ripartita con i miei figli. Come ben saprete la decisione della Cassazione cassa il decreto ma non l’ordine di rimpatrio pertanto, in attesa della riapertura del procedimento di primo grado, non ho potuto rientrare a Milano. Sono stata ritenuta responsabile di questo vuoto legislativo e condannata a risarcire 50.000 €. Nel tempo necessario ad ottenere la decisione della Cassazione (più di un anno), in Germania mi avevano tolto ogni diritto, forti del fatto che proprio il mio paese aveva rimandato in Germania due suoi cittadini minorenni, i miei figli. In Germania hanno utilizzato questo lasso di tempo per pronunciare il divorzio e assegnare al mio ex-marito anche la mia pensione, se mai ne avrò una. Hanno anche deciso che, pur avendo perso il mio impiego a causa di questa vicenda, io debba pagare quasi 1.000 € al mese di mantenimento. Hanno già fatto pignorare l’appartamento in cui abito, acquistato 12 anni prima di sposarmi, unico bene che mi è rimasto. I miei risparmi, pur non essendo provento di reato, ma appunto risparmi, sono stati confiscati dal tribunale di Milano. Caso mai tutto questo non fosse bastato, la Corte d’Appello di Milano mi ha anche condannato per maltrattamenti: era pacifico che io non abbia mai maltratto i miei figli né li abbia spinti a fare ciò che non volevano, quindi hanno risolto in questo modo: la parte tedesca ha presentato nel 2011 una dichiarazione di uno psicologo tedesco dello Jugendamt (Amministrazione per la gioventù tedesca, per la quale lavora il mio ex-cognato) che affermava che tra me ed i mie figli ci fosse una relazione simbiotica e che quindi il loro assenso dovesse essere considerato un dissenso. Ad una lettura delle date sarebbe stato facile capire che questo psicologo, che scrive nel 2011, non mi ha mai visto con i miei figli, poiché dal 2008 io non posso tornare in Germania. Non serve essere uno psicologo per confrontare le date…non solo questo non è stato considerato, ma una delle giudici che ha sentenziato la condanna, seduta in aula di fronte a me, dormiva durante l’arringa del mio avvocato. Questo non rafforza la fiducia nelle istituzioni.
    Ho scontato la mia pena in carcere e ai domiciliari, ma per questi 6 mesi aggiuntivi per maltrattamenti aspetto da oltre due anni che mi venga assegnata una misura alternativa. In attesa, mi è stato imposto il divieto di espatrio, sulla base di una legge emanata prima dell’istituzione dello spazio Schengen che non differenzia l’uso del passaporto da quello della carta d’identità. Mi risulta che io debba attendere questa decisone per almeno altri due anni, trovandomi dunque a scontare una pena aggiuntiva di almeno 4 anni, “autoprodottasi” e che inoltre mi impedisce di lavorare, essendo il mio ambito quello dell’import/export e del commercio estero.
    Si potrebbe essere tentati dall’affermare che i tempi della giustizia sono lunghi, ma vi assicuro che non è così: ogni mia richiesta è stata prontamente rigettata, con un’efficienza invidiabile. Citerò solo l’ultimo esempio in ordine di tempo: se non voglio diventare una senzatetto per via della vendita del mio appartamento pignorato, devo pagare ogni mese al mio ex-marito 2.060 € (il fatto che io sia disoccupata pare non avere alcun peso); ho chiesto la sospensione di questo provvedimento in attesa che si pronunci il tribunale del riesame da me adito, ma è bastato un solo ed unico giorno per rigettare la mia istanza, motivata dal fatto che il tribunale del riesame non si è ancora pronunciato, quest’ultimo ovviamente ha ben altri tempi tecnici e so che dovrò aspettare ancora molti mesi. Nel frattempo non so come pagare i 2.060 € mensili e, una volta venduto il mio appartamento, in aggiunta alla deportazione che hanno subìto i miei figli, non ci sarà più nessuna possibilità di rimediare a tutto questo male, esattamente così come la sentenza positiva di Cassazione non ha rimediato al male fatto dal Tribunale per i minorenni.
    Sorvolo sul fatto che, in completo dispregio di altisonanti dichiarazioni a favore dell’interesse del minore, non ho visto i miei figli per sei anni, neppure un solo giorno e che per vederli, appunto un giorno, l’anno scorso il mio ex-marito mi ha chiesto 2.000 €. E’ stato aperto un fascicolo per estorsione, ma non meravigliatevi se vi confesso che le mie aspettative di giustizia sono estremamente ridotte.
    In sintesi: i bambini vengono mandati in Germania con esecuzione immediata, mentre l’accertamento della Procura circa la falsificazione e il ricorso in cassazione con l’annullamento del decreto di rimpatrio (evidentemente sbagliato perché appunto cassato) durano anni. La Germania approfitta di questi anni per emettere in mia assenza ogni genere di decreto a mio sfavore, poi li manda in Italia per esecuzione e l’Italia, di nuovo rapidissima, esegue e mi condanna. Ogni mia lecita richiesta di giustizia, a rettifica dei danni causati da questa lentezza, deve attendere anni, mentre i tentativi di rendere lente anche le esecuzioni di ciò a cui non ci sarà poi più nessun rimedio sono rigettate nel lasso di tempo di un solo giorno.
    E’ difficile spiegarsi perché l’Italia, così indulgente verso ogni genitore straniero (ogni straniero che porta i figli all’estero resta sempre impunito e i bambini non rientrano), si accanisca contro i propri concittadini, impedendo loro, non solo di crescere i propri figli, ma anche di lavorare e di avere un alloggio. 
    La conseguenza è che i cittadini si sentano sempre più distanti dalle istituzioni che dovrebbero rappresentarli e rappresentare i loro interessi e non quelli di paesi stranieri.
    E’ per abbattere queste distanze che vi chiedo di intervenire prontamente, affinché questi soprusi legalizzati abbiano fine. Non è ammissibile che essere cittadini italiani significhi essere privati dei propri figli, del proprio lavoro e del proprio tetto.
    In attesa di urgente riscontro, resto a disposizione e porgo
    Distinti saluti,

    Marinella Colombo

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