Giustizia

  • In attesa di Giustizia: macro ematurie

    Cosa saranno mai le macro ematurie? Chiedetelo ai giudici, quelli che le sanno tutte, anche più dei medici, o almeno così credono: sono versamenti di sangue nelle urine ed è dovuta intervenire la Cassazione per chiarire quale sia il perimetro entro il quale una Corte d’Appello può sindacare la gravità di questa o altra patologia e se ne derivi l’impossibilità di presenziare ad un’udienza.

    Non importa più di tanto sapere dove si sono svolti i fatti perché taluni comportamenti arroganti si manifestano indifferentemente ovunque; siamo, comunque, in una sede di Corte d’Appello, e perviene ad una sezione l’istanza di rinvio di un procedimento da parte di un avvocato che giustifica la sua impossibilità ad essere presente con un certificato medico che attesta “dolori a tipo colica renale con macro ematuria e necessaria permanenza a casa per sottoporsi a terapie domiciliari per almeno due giorni”; le Loro Eccellenze, quand’anche non avessero studiato il greco al liceo classico, nel dubbio, non avrebbero avuto difficoltà a “googlare” cosa sono le macro ematurie, scoprendo che si tratta di presenza consistente di sangue nelle urine mentre la “colica renale” non richiede competenze linguistiche essendo ben noto cosa e quanto dolorosa sia.

    Con la concretezza tipica dei grandi giuristi questi tre saggi magistrati hanno colto l’essenza del problema risolvendolo con una decisione tranchant: trattasi di certificato di comodo perchè non accompagnato da riscontro diagnostico strumentale ed altresì perché le coliche renali, notoriamente, determinano conseguenze fisiche non fronteggiabili in pochi giorni. Periti dei periti…

    Peraltro, un “certificato di comodo” dovrebbe, appunto, far comodo a qualcuno nel determinare un rinvio dell’udienza ma la Corte non spiega neppure quale potrebbe essere l’infingarda e sottintesa intenzione dell’avvocato: non certo guadagnare tempo per la prescrizione perché in questi casi il rinvio determina la sospensione del tempo necessario a prescrivere. E allora? Era una bella giornata e voleva andare al mare, aveva sonno, non aveva studiato il processo? Invece nulla di nulla, a dimostrazione di come ci si compiaccia nel dimostrare l’arroganza di un dilagante potere e la pochissima considerazione della difesa, del diritto di difesa; i lettori forse ricorderanno – è di poche settimane fa – analoga vicissitudine di un avvocato catanese impossibilitato a recarsi in tribunale perché stava andando a fuoco la zona circostante la sua abitazione ma…non aveva documentato l’assoluta impossibilità di sfidare le fiamme.

    Il processo, pertanto, si è celebrato senza il difensore, con uno di ufficio raccattato all’ultimo momento ma sentenza e decisione sul rinvio che la precede sono stati impugnati in Cassazione…Cassazione che, già in passato, era dovuta intervenire – addirittura a Sezioni Unite – per affermare che è rilevante l’impedimento del difensore determinato da serie, imprevedibili ed attuali ragioni di salute debitamente documentate e tempestivamente comunicate. Un principio che dovrebbe essere ovvio ma evidentemente non lo era per tutti.

    La Corte di Cassazione ha fatto giustizia in solo un annetto di questo più recente scempio osservando che la qualificazione del certificato come “di comodo” non risultasse confermata da alcun elemento e che si sarebbe dovuta valutare la serietà dell’impedimento sulla scorta della certificazione rilasciata da uno specialista senza nulla in più pretendere in considerazione della repentina insorgenza del male. Una bacchettata finale è stata data osservando che le considerazioni svolte circa le conseguenze di una colica renale sono prive di qualsiasi riscontro scientifico.

    Giudici che si improvvisano biologi, medici, per quanto muniti solo dei personali pregiudizi, che puntano dritti alla meta dell’agognata celebrazione di un processo senza tanti orpelli, senza il fastidio di ascoltare il difensore: una giustizia così non è quella che ci si aspetta ed è confortante che sia stata ricacciata in un angolo dalla Corte Suprema perché, francamente, è essa stessa a generare un malore: dà la nausea.

  • In attesa di Giustizia: Abracadabra

    Abhadda kedhabrha in aramaico vuol dire “sparisci come questa parola” e, probabilmente, il vocabolo “abracadabra”, in uso nella magia mistica e come noi lo conosciamo, deriva proprio dalla versione nella antica lingua semitica.

    Oggi è usato universalmente e senza altre traduzioni come formula magica: magia bianca o magia nera? Nel dubbio, pensando al significato originario, se qualcuno la pronuncia in vostra presenza – peggio che mai se indirizzata proprio a voi – prestate la massima attenzione perché, forse, sta tentando di uccidervi…

    Con la magia nera non si scherza, è l’insegnamento che tramite questa rubrica perviene dalla Autorità Giudiziaria di Genova nell’ambito di una vicenda cui si era già alluso con sintesi in un numero precedente. Ora ci sono degli sviluppi e per questo seguito non possono prendersi in considerazione altre reali possibilità che, per equivoco, un Pubblico Ministero di Genova invece che le sue compresse per la pressione o la prostata, abbia assunto peyote o LSD proveniente dall’Ufficio Corpi di Reato.

    Comunque sia, anche questa settimana si registrano iniziative (e decisioni) assunte con sprezzo del ridicolo; ricapitoliamo: un’avvocata genovese viene imputata per avere sottratto un milioncino abbondante di euro ad un’anziana signora per la quale svolgeva la funzione di amministratrice di sostegno. E fin qui tutto normale, anzi, per quanto appreso sembra che le prove a carico della professionista siano piuttosto solide ma nel corso delle indagini è emerso anche un fatto piuttosto singolare e cioè che l’imputata, il cui telefono era intercettato, intentò l’omicidio della sua assistita dando mandato…a un sicario di professione, qualcuno reclutato nel dark web? Nossignori, complice dell’avvocata, che contribuisce acquistando delle candele rituali nere, diventa una fattucchiera esperta in voodoo.

    Spille, spillette e spillettoni ma, fortunatamente e come prevedibile, la vittima predestinata sopravvive alle punzecchiature di bamboline e feticci: sarà che a Genova non ci sono le esperte di Port au Prince ma il Pubblico Ministero (sempre immaginandolo sotto l’effetto non voluto di sostanze stupefacenti) chiede il rinvio a giudizio accusando di tentato omicidio l’avvocata, mentre la maga la fa franca per ragioni – a questo punto – ancor meno comprensibili.

    Il processo si è tenuto nei giorni scorsi, sebbene una data in prossimità di Halloween sarebbe risultata più consona ai fatti, e il Giudice ha pronunciato una sentenza di condanna non solo per la malversazione dei denari ma anche per il tentato omicidio pur ritenendo che il reato fosse da considerare impossibile (bontà sua, la magia nera non è stata considerata un mezzo idoneo) ma che il comportamento dell’accusata sia espressivo di pericolosità sociale giustificando un anno e mezzo di libertà vigilata, probabilmente con il divieto di frequentare medium, negromanti ed indovini.

    Insomma, un omicidio impossibile perché tentato con mezzi che non consentono di ritenere neppure l’esistenza di un “quasi reato” e, francamente, vi è da dubitare anche di una effettiva, maggiore, pericolosità sociale di colei che – tutt’al più – deve considerarsi una disonesta amministratrice: vi è, in sostanza, da dubitare altresì che vi fossero i presupposti anche per la libertà vigilata.

    Però, non si sa mai e lo ha detto la Procura di Genova: se vi capitasse di essere bersagliati da qualche preoccupante “abracadabra”, sappiate di essere nelle condizioni per reagire in stato di legittima difesa.  Però non sparate perché con le streghe l’unico metodo efficace ma piuttosto complicato è il rogo: meglio, allora pronunciare un più efficace scongiuro “aglio e fravaglia, fattura ca nun quaglia, corna e bicorna” e, senza restare in attesa,  farvi Giustizia da soli.

  • In attesa di Giustizia: con sprezzo del ridicolo

    Ma…non si dice “sprezzo del pericolo”? E’ vero, ma nulla vieta di utilizzare – se opportuna – la locuzione modificata e così come nel titolo è perfetta se riferita alle preoccupazioni, prepotentemente lamentate dall’Associazione Nazionale Magistrati a proposito della modifica della Costituzione intesa a separare le carriere tra Giudici e Pubblici Ministeri.

    Ancora?!  L’argomento è già stato affrontato più volte in questa rubrica ma deve essere ripreso perchè il dibattito si fa sempre più infuocato ed alimentato di continuo dal Sindacato delle Toghe, sebbene il disegno di legge che prevede tale riforma per il momento segni il passo: forse quella che è auspicata è una sollevazione popolare che intimidisca per tempo ed a tal punto la politica da suggerire di lasciar perdere con l’unica minaccia efficace cioè a dire quella della perdita di consenso, voti, e con essi potere. Ma si sa, l’elettorato ha la memoria corta e le prossime elezioni appaiono lontane.

    Dunque, con sprezzo del ridicolo si è sostenuto che con la separazione delle carriere il P.M. finirebbe sotto il controllo del Governo: il pensiero che ciò possa accadere munendo, oltretutto, di formidabili poteri un pinocchietto come Fofò Bonafede (il peggiore della storia ma in ottima compagnia con alcuni suoi predecessori) fa accapponare la pelle ma i Magistrati, fingono di non aver letto il testo dell’articolo 104 della Costituzione come previsto da tutte le iniziative di riforma: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere”.

    La norma costituzionale, così come costruita è di inequivocabile chiarezza anche per un cittadino digiuno di competenze giuridiche ed è stata richiamata proprio perché anche i lettori sappiano di cosa si sta parlando, figuriamoci per i Magistrati del Comitato Centrale dell’ANM che di leggi se ne intendono. O, almeno, dovrebbero.

    Con sprezzo del ridicolo, e qui sembra di assistere ad una pièce di avanspettacolo interpretata da Erminio Macario o da Pinuccia Nava in arte Scaramacai, affermano che il mondo intero invidia il modello italiano, e brama per adottarlo pari pari. Non è necessario essere lettori di questa rubrica per evitare l’emulazione come una malattia infettiva e, in realtà, il sistema a carriere separate, con diverse modulazioni, è vigente in Spagna, Germania, Svezia, Portogallo, Gran Bretagna, Stati Uniti, nella stragrande maggioranza dei paesi del Commonwealth Britannico, in Giappone, solo per citarne alcuni. Absit injuria verbis, noi siamo in compagnia di Turchia, Bulgaria e Romania ed anche della Francia dove, però, il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia.

    Un fondo di verità si scorge se si si pone l’attenzione al fatto che in molti di quei Paesi, soprattutto quelli anglofoni, il Pubblico Ministero è sottoposto al Ministro di Giustizia…ma non in Portogallo, per esempio, al cui modello si ispira la nostra proposta di riforma: carriere separate, P.M. indipendente; e cosa c’è che non piace del Portogallo, il baccalà, i pasteis de nata?

    L’ansia da sottomissione alla politica prende, poi, slancio se si parla di “indipendenza interna”, cioè della autonomia del C.S.M., che si duplicherebbe: uno per i Giudici ed uno per i P.M. ma con composizione paritaria tra laici eletti dal Parlamento (da scongiurare assolutamente!) e togati eletti dagli appartenenti all’ordine giudiziario. Ecco, a tal proposito sarebbe opportuna la conoscenza di un po’ di storia – forse appositamente trascurata – ed il ricordo dell’intervento di Giovanni Leone in Assemblea Costituente inteso a sostenere che nel C.S.M. fosse opportuna una equivalenza numerica tra membri laici e togati: “occorre eliminare il timore…che il CSM… possa trasformarsi in organo di casta, intorno al quale si coagulano interessi, intrighi, protezioni, preferenze, tali da costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli giudici…”.

    Era la seduta pomeridiana del 14 novembre 1947: gli avessero dato retta! Altro che inciuci correntizi modello Palamara. E, allora, basta con selettivi vuoti di memoria, basta con lo sprezzo del ridicolo, signori magistrati: se un dibattito è giusto che ci sia che sia serio e corretto.

  • In attesa di Giustizia: la saga dell’esaurito

    E’ diventata una saga quella del Tribunale piemontese che infligge 11 anni di reclusione ad un imputato di violenza sessuale dimenticandosi banalmente di far discutere il difensore: quasi fosse un inutile, anzi, un fastidioso orpello del processo.

    E’ una vicenda di cui ci siamo già occupati ma che ora “mette in onda” una nuova ed inquietante puntata di cui non si può trascurare la cronaca.

    Dopo che il C.S.M. e la Cassazione si sono occupati del procedimento disciplinare, della vicenda ha dovuto interessarsi anche la Procura di Milano, competente per i reati attribuiti a Magistrati del Piemonte: come i lettori, forse, ricorderanno il Presidente del Collegio, resosi conto del pasticcio che aveva combinato, ha pensato bene di provi rimedio con la classica pezza peggiore del buco  strappando il foglio su cui era stato scritto il dispositivo della decisione presa invitando solo a quel punto la difesa a discutere!

    Non è stato solo un gesto incomprensibile ed ingiustificabile: in questo modo – essendo il dispositivo un atto pubblico di cui si era anche data lettura – si commette un reato che si chiama falso per soppressione. Dettaglio che ad un magistrato del settore penale (e non solo) non sarebbe dovuto sfuggire.

    Atti, allora, giustamente inviati a Milano per procedere ma quella Procura, nota per l’inflessibile rigore, ha velocemente richiesto l’archiviazione che il GIP ha disposto con altrettanta ed inusuale velocità.

    Come giustificare tutto ciò? Si trattò di un erroruccio e mancò l’intento doloso: insomma, roba da Paperissima Show. Non è disponibile (probabilmente lo sarà mai) la motivazione di questa singolare – e generosa – decisione ma, un po‘ per gioco e per alleggerire l’argomento, proviamo ad indovinare mettendoci un pizzico di fantasia. Sua Eccellenza il Presidente avrà strappato la sentenza da lui stesso scritta poco prima perché in quel momento era stato distratto dalle urla del difensore? Un gesto non voluto, un muscolo involontario messo in moto dallo spavento. Potrebbe essere.

    Oppure…oppure… si è reso conto di averla tra le mani e si è spaventato immaginandola scritta da una entità sovrannaturale che in quei drammatici momenti lo aveva posseduto. Eventualità metafisica ma non impossibile.

    Magari ha confuso la sentenza con il Kleenex appena usato per soffiarsi il naso: questa è la più proponibile da immaginare se si conosce bene la rigida giurisprudenza sul dolo del falso per soppressione.

    Ma no, ecco la spiegazione! Incapacità di intendere e di volere temporanea: non si po’ dimenticare che il procedimento disciplinare sta procedendo a carico del solo Presidente (le due donne giudici a latere sono state subito prosciolte adottando il famoso schema argomentativo sviluppato da Totò: “e che so’ Pasquale io?!”) e la sanzione minima inflitta dal  C.S.M., una blanda censura, è stata annullata dalle Sezioni Unite Civili della Cassazione, raccomandando che in un nuovo giudizio si offra maggiore considerazione al fatto, documentato in una perizia,  che il Signor Presidente era stressato dal troppo lavoro.

    L’intera comunità degli avvocati penalisti applaude a questi autorevoli precedenti di cui potranno far uso nella quotidianità professionale, spalancando le porte a successi fino ad ora insperati successi. L’amministratore di società fallita ha bruciato i libri contabili? Fu un fatale errore. Il funzionario delle agenzie delle entrate ha omesso di segnalare l’evasore? Era stressato per il troppo lavoro. E nessuno ci aveva mai pensato!

    A questo punto è doveroso congratularsi con chi ha così brillantemente il povero esaurito: chi mai e chi meglio dell’ex Procuratore Capo di Torino, Marcello Maddalena?

    Applausi a scena aperta mentre viene in mente quello slogan pubblicitario che diceva: “ti piace vincere facile eh?”.

    Senza offesa, ben s’intende.

  • In attesa di Giustizia: la vecchia guardia va in pensione ma non si arrende

    Non importa se sono state decine di migliaia i cittadini che hanno firmato  l’iniziativa di legge popolare per la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri, non importa neppure se alla Camera sono già in esame quattro diversi disegni di legge sia di maggioranza che di opposizione su questo argomento: la grave colpa per queste iniziative e la responsabilità sul loro possibile percorso parlamentare (che avrà inizio il 6 settembre) viene fatta ricadere su un uomo solo, come se fosse l’uomo solo al comando anche se così non è, Carlo Nordio, Ministro della Giustizia che – per la verità – è da sempre sostenitore di questa riforma.

    Una vecchia guardia composta da oltre trecento magistrati in pensione ha sottoscritto un appello inviato al Guardasigilli avvertendolo dei pericoli cui si andrebbe incontro se la separazione delle carriere diventasse realtà, chiedendo di fermare il percorso parlamentare: tra di loro vi sono giudici, P.M., civilisti e penalisti, molti dei quali sono nomi noti come l’ex Procuratore Generale della Cassazione, Giovanni Salvi, che da P.M. ha a lungo indagato sulla strage di Ustica, o Francesco Greco, ex Procuratore Capo a Milano dove è stato componente storico del Pool “Mani Pulite”.

    Potevano godersi in pace la generosa pensione che lo Stato attribuisce loro, invece hanno ritenuto di riproporre i paventati rischi di questa riforma che, ab immemorabile, è invisa e contrastata con tutte le forze dalla magistratura associata di cui tocca un nervo scoperto; si ipotizza uno stravolgimento della Costituzione che porterebbe con sé la ricaduta antidemocratica della sottoposizione del Pubblico Ministero al potere esecutivo che avrebbe così la facoltà di inibire piuttosto che stimolare le indagini a seconda che attingano alleati od oppositori politici, amici o avversari, potentati o meno: insomma, quello che – secondo Luca Palamara – hanno fatto proprio loro per decenni; c’è, poi, il tema della cultura della giurisdizione: le diverse esperienze sarebbero, infatti, utili ad accrescerla.

    Invero, non è dato comprendere il fondamento di questi timori posto che la nostra Costituzione già disegna una diversità di funzioni – non una separazione delle carriere, compatibile ed ideale con l’attuale sistema accusatorio, perché i Padri Costituenti “guardavano” al modello di processo penale inquisitorio vigente all’epoca –  e, soprattutto, dispone di almeno quattro articoli corrispondenti ad altrettanti paletti volti ad impedire che l’indipendenza della magistratura sia minata dalla sottoposizione all’Esecutivo: nessuno di questi argini ad uno strapotere politico risulta intaccato dalla riforma.

    Quanto alla cultura della giurisdizione, è – appunto – un problema di cultura, di mentalità e non di transito da una funzione (o carriera) ad un’altra: ovviamente avere svolto funzioni giudicanti può essere di grande supporto se si passa a quelle inquirenti poiché il Pubblico Ministero avrà “fatto scuola” di valutazione delle prove e potrà meglio individuare le evidenze utili e sostanziose da ricercare nelle indagini per poi sottoporle al Tribunale. Molti, troppi, sono invece gli esempi di P.M. che transitando alla giudicante hanno mantenuto la mentalità poliziesca dell’inquisitore: Piercamillo Davigo ne è l’archetipo, e questo va decisamente meno bene.

    Lamentano, infine, i firmatari della petizione che il P.M. per legge è obbligato a svolgere indagini in favore dell’indagato e non di rado, in dibattimento, chiede l’assoluzione: il che non potrebbe avvenire se venisse formato alla sola logica dell’accusa. A prescindere dal fatto che sono casi isolati quelli in cui si assiste ad una ricerca delle prove a favore (ne abbiamo, invece, di scoperte e nascoste…) il codice prevede ciò solo al fine di poter scegliere se l’accusa è sostenibile in giudizio oppure no e chiedere quindi l’archiviazione; e vi è da augurarsi che, carriere separate oppure no, il Pubblico Ministero faccia sempre e comunque buon governo dell’equilibrio.

    In buona sostanza non si vedono né rischi ne vantaggi a mantenere unificate le carriere dei magistrati e permane oscuro il motivo di cotanta ostilità che non risieda nella privazione di maggiori chance di passare da una funzione ad un’altra, dal civile al penale e viceversa a caccia di sedi più appetibili, ruoli maggiormente gratificanti e di prestigio a seconda di quali posti si liberino. A pensar male si fa peccato ma, qualche volta, si indovina.

    Concludendo con una provocazione viene da domandarsi perché questi trecento, quando erano giovani e forti nell’esercizio delle loro funzioni, avendo tanto a cuore indipendenza ed equilibrio dei magistrati, cultura della giurisdizione non abbiano mai pensato che una utile separazione delle carriere potesse essere quella tra P.M. e giornalisti che non comporta alcuna modifica costituzionale, sebbene sia materia politicamente e mediaticamente molto sensibile e redditizia visto che su atti ed intercettazioni “dal sen fuggite” si costruiscono fatturati e carriere con pregiudizio della reputazione anche terze persone coinvolte e prima ancora dell’accertamento della responsabilità degli indagati – che, magari non verrà accertata – minando, oltretutto, la “verginità cognitiva” di chi deve giudicare con le anticipazioni del processo e del giudizio possibili facendo zapping tra Chi l’ha visto, i plastici di Porta a Porta, Quarto Grado e la lettura qualche paginata non solo del Fatto Quotidiano ma anche del Corriere della Sera.

  • In attesa di Giustizia: Perry Mason e il cliente povero

    Chi non conosce Perry Mason e non ha mai visto almeno un telefilm della serie interpretata da Raymond Burr? Avvocato di straordinaria fortuna e bravura, nel suo destino c’era solo la difesa di innocenti ingiustamente accusati ma che venivano tutti assolti nel mentre che il vero colpevole veniva scoperto e la giustizia trionfava grazie anche all’abilità del fido investigatore, Paul Drake.

    Tutto molto bello ed anche molto glamour; i clienti di Perry Mason sono sempre stati bellocci (o bellocce), stilosi e benestanti che possono permettersi una difesa competente, impegnata, a tutto campo, che però costa ed è una cosa per classi abbienti. E chi è privo di disponibilità si accontenti del public defender.

    Da noi no! Da noi la giustizia sarà anche lenta ma l’articolo 24 della Costituzione che dice che è un diritto inviolabile e che per i non abbienti sono assicurati i mezzi per difendersi. Insomma, a ben vedere non è proprio così: chiariamo subito che il concetto di non abbiente, per poter fruire del patrocinio a spese dello Stato, è legato attualmente al limite reddituale di 12.838,01 euro (a famiglia!) e come avvocato si può scegliere quello che vuole…tra coloro che si trovano in un apposito elenco in cui i Perry Mason, diciamo così, non sono la maggioranza. Si aggiunga che un “virgola 02” fa la differenza: oltre quella soglia il difensore se lo deve pagare direttamente il cliente.

    Vero è anche che ci sono molti professionisti che vedono il loro impegno come una missione ed in taluni casi sono disponibilissimi ad assistere applicando tariffe minime se non gratuitamente…ma lo Stato, no, lo Stato non fa sconti e se si supera quello “01”, tanto per cominciare, le copie degli atti se le deve pagare l’accusato mentre con il gratuito patrocinio sono esenti da costi.

    Che sarà mai, per qualche fotocopia? Facile a dirsi: ma ci sono processi composti da fascicoli monumentali e i costi non sono quelli della tipografia sotto casa ma elevatissimi anche ora con gli strumenti a disposizione, anche quando si tratta semplicemente di chiedere una copia informatica che si fa in una manciata di minuti su un dischetto o una chiavetta e l’operazione, per banale che sia, ve la dovete fare voi portandovi il supporto da casa.

    Senza scomodare casi di imputati privi di grossi problemi economici, come quelli per il crollo del Ponte Morandi che per ottenere la copia del fascicolo avrebbero dovuto sborsare oltre 750.000 € – a testa, sia ben chiaro, ma che hanno dovuto comunque organizzare una raccolta fondi per fare copia integrale da condividere successivamente insieme ai costi – è emblematica la vicenda di P.D. che andiamo a raccontare.

    Questo sventurato – non importa se colpevole o innocente: tra l’altro non lo sappiamo essendo ancora sotto processo – ha limiti di reddito che non gli consentono di ottenere il gratuito patrocinio ma non è sicuramente un uomo ricco e l’indagine che lo ha coinvolto si basa quasi del tutto su intercettazioni telefoniche il cui prezzo di copiatura dei files audio è stato calcolato in 59.000 euro, che in tasca non ci sono; il costo industriale, al netto delle chiavette che si deve comperare il difensore sarà qualche decina di euro ma le casse dello Stato sono esauste e se quello è il prezzo…quello si paghi. Oppure niente intercettazioni. Ma senza (e senza soldi per procurarsele) uno come fa a difendersi se non sa da cosa? L’avvocato di P.D. ha portato la questione fino in Cassazione sostenendo che in tal modo si realizza una mutilazione del diritto di difesa e la Cassazione, quella che grazia il Presidente che decide un processo senza avere ascoltato il difensore perché stressato (è un esempio di cui la rubrica si è occupata la settimana scorsa) ha risposto che non c’è nessuna violazione, nessuna sanzione processuale legata al fatto che l’imputato, per mancanza di risorse,  non potesse procurarsi i supporti magnetici delle registrazioni effettuate a suo carico. Oltretutto – nella sentenza non è scritto proprio così ma il senso è questo – l’avvocato avrebbe ben potuto munirsi di cuffiette ed andare ad ascoltarsele, gratis in questo caso, trascorrendo lietamente alcune settimane nella cancelleria dove il Pubblico Ministero le aveva graziosamente messe a disposizione. Certo, come no. Perry Mason non abita qui in compenso c’è il cliente povero e, forse, almeno in una certa misura hanno ragione gli americani quando dicono che è meglio essere ricchi, bianchi e colpevoli piuttosto che neri, poveri e innocenti.

  • In attesa di Giustizia: noli inspicere

    Non giudicare. Non giudicare significa comprendere: finchè giudichi non potrai comprendere gli altri e neppure te stesso. “Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati: perdonate e sarete perdonati”, così si legge nel Vangelo.

    Giudicare è un tormento ed anche con la più elevata attenzione non sempre si sfugge all’errore, fisiologico nella giustizia terrena.

    Viene allora da chiedersi perché mai debba essere chiamato a rispondere in sede disciplinare il povero giudice Ernesto Anastasio del Tribunale civile di Santa Maria Capua Vetere solo perché non deposita le sentenze alla cui redazione doveva provvedere e non lo ha fatto da un paio d’anni pur avendo trattato le relative cause: sarà, forse, una stretta osservanza del precetto contenuto nelle Scritture? E allora, come criticarlo?

    La ragione è un’altra: voleva fare il poeta, non il magistrato e lo attesta nella sua perizia, disposta dal C.S.M., il Prof.  Ferracuti docente di Psicopatologia forense alla Sapienza…”l’uomo non vive l’attuale lavoro come una forma di espressione di sé e siccome pensa che non è quello che davvero avrebbe voluto fare lo boicotta”.

    Anastasio, a sua volta, ha così giustificato il suo (non) agire: “Vivo questa situazione di dissidio interiore. Il problema è grave, non sta bene che un giudice faccia tutto questo macello, non credo che morirò magistrato, non mi pare plausibile”. Intanto, però, chiede di continuare a fare il giudice di Sorveglianza a Perugia dove nel frattempo è stato trasferito. E qualcuno, a Santa Maria Capua Vetere ha ereditato il suo ruolo ed alcune decine di sentenze da scrivere relative a procedimenti che non ha trattato: immaginate i capolavori che ne usciranno.

    La soluzione, tuttavia, sembra a portata di mano: basterebbe autorizzare Anastasio a scrivere le sentenze in tetrametri trocaici, endecasillabi, rime baciate; il problema sarebbe risolto con soddisfazione di tutti.

    Una decisione, invece, l’hanno presa le Sezioni Unite della Cassazione (il nostro massimo organo giudicante) e hanno pure scritto la motivazione riferita ad un caso che questa rubrica ha già trattato: quello del Presidente del Tribunale di Asti che aveva pronunciato una condanna ad undici anni di reclusione senza avere ascoltato l’arringa difensiva, poi aveva stracciato il dispositivo, e senza neppure giustificarsi, dato la parola all’avvocato.

    Ecco, le Sezioni Unite hanno annullato anche lo scappellotto (un blando ammonimento) che la Sezione Disciplinare aveva inflitto al solo Presidente mentre gli altri due giudici del Collegio erano andati indenni da qualsiasi sanzione: quasi che non fosse cosa loro contribuire al rispetto di una regola processuale non opinabile. Poverello! Anche per questo magistrato è risultato salvifico l’esito di una perizia medica: era stressato e la ridicola – altro termine non sarebbe idoneo a definirla – sentenza della Cassazione parla di inadeguata valorizzazione e controdeduzione delle circostanze stressogene da parte del Consiglio Superiore che già si era coperto di ridicolo per il ricordato tenore della sua decisione.

    Enzo Tortora, dall’alto della sua esperienza, aveva ragione quando affermò che in Italia esistono tre categorie di persone che non rispondono delle proprie azioni: i minori di quattordici anni, i pazzi ed i magistrati.

    Le sentenze se non si condividono si impugnano, è questa una regola aurea degli avvocati ma a fronte di una come quella in commento l’indignazione è tale che deve trovare uno sfogo: se possibile (ma non lo è) sarebbe stato meglio affidarne la redazione ad Anastasio, se non altro non avrebbe mai visto la luce.  Chi è in attesa di Giustizia si auguri di non trovare mai sulla sua strada un giudice stressato, uno che – invece che ad occuparsi di processi gravi – dovrebbe essere adibito (beninteso a parità di stipendio non sia mai che non riesca a mettere insieme il pranzo con la cena) ad ammortare cambiali smarrite: tanto non ne circolano quasi più. Voi dite, invece, due pedate e fuori dall’Ordine Giudiziario? Beh, come darvi torto?

  • Verità inoppugnabili ancora nascoste

    Il fatto veramente grave è che di fronte alle dichiarazioni di De Angelis che sostiene sia l’innocenza dei condannati in via definitiva per la strage di Bologna sia di sapere che in molti conoscono e non dicono  la vera verità su mandanti ed esecutori, le varie forze politiche di opposizione chiedano le sue dimissioni invece di chiedere che sia convocato subito dai magistrati per dire quello che ritiene di sapere.

    Non è questione di dare credito o meno alle parole di De Angelis, il problema è perché, di fronte a dichiarazioni tanto gravi, non si usino gli strumenti necessari per dimostrare che sbaglia o per aggiungere qualche pezzo  di verità se è ancora mancante.

    Ci furono anni, lunghi anni, di misteri che restano ancora insoluti, di attribuzioni di delitti poi in parte negate o ancora riconfermate.

    Nonostante le decisioni di Draghi e della stessa Meloni troppi dossier sono ancora  secretati, la vicenda De Angelis potrebbe essere finalmente l’inizio di un nuovo percorso di verità in un Paese che in troppe occasioni ha visto la mafia, la criminalità organizzata, il terrorismo, i servizi deviati e la politica intrecciarsi  e che ancora non riesce a fornire verità inoppugnabili su troppe tragedie.

     

  • In attesa di Giustizia: i soliti sospetti

    “In attesa di Giustizia” non va in vacanza e nella settimana che segna l’inizio delle ferie giudiziarie (di cui qualcuno ancora lamenta che lavorare stanca, contestando l’eliminazione renziana dei primi quindici giorni di settembre) vi è nuovamente l’imbarazzo della scelta tra le notizie da commentare o far emergere all’attenzione dei lettori.

    La più ghiotta, si fa per dire, riguarda l’indagine della Procura di Perugia che sta disvelando come alla passione per il dossieraggio non siano risultati estranei nemmeno apparati della Direzione Nazionale Antimafia: struttura fortemente voluta da Giovanni Falcone con il compito di coordinare le indagini sulla criminalità organizzata delle Procure Distrettuali; viceversa, non sembra che tra le sue funzioni vi sia mai stata quella di rovistare tra i conti correnti di esponenti politici, imprenditori, personaggi noti, e le segnalazioni di operazioni sospette della Banca d’Italia. Per farne che? Bisognerà chiederlo – se mai vorrà rispondere – al luogotenente della G.d.F.  che sembra gestisse (su input di chi? a Perugia si ipotizza che sia coinvolto anche qualche magistrato) una centrale di dossieraggio abusivo proprio all’interno della DNA, ed ha fatto della sua vita una missione dedicata all’accesso abusivo ai sistemi informatici per poi accumulare un tesoretto di dati pronti per un che non è certamente legato ad inchieste su mafia e terrorismo per le quali non erano stati richiesti…però già dal 2020 parte di queste informazioni riservate era stata condivisa con le redazioni di importanti quotidiani.

    Già, i media, senza i quali questo mercimonio (impensabile che tali scambi avvengano gratuitamente) non avrebbe motivo d’ essere: il “DDL Nordio”, appena approdato in Senato, si propone – tra l’altro – proprio di porre un argine all’uso delle Procure come cassette della posta per informazioni di garanzia, brogliacci di intercettazioni, estratti conto e contabili di bonifici bancari.

    “Orrore, operazione di regime, bavaglio alla libertà di informazione! noi continueremo a pubblicare le intercettazioni anche prima che siano legittimamente utilizzabili”: questo il proclama dell’indomito Travaglio ertosi ad ultimo baluardo della democrazia contro un’operazione di censura a matrice fascista. Pronto a sfidare i sicari dell’OVRA (non lo ha detto ma probabilmente lo ha pensato) l’Uomo del Fatto non si è reso conto che in questo modo ha confessato, caso mai la cosa fosse sfuggita, vari reati e ne ha commesso uno nuovo: istigazione a delinquere perché tale nobile attività di inchiesta giornalistica contro i soliti sospetti è un crimine per quanto punito con severità minore al mancato rispetto di un semaforo rosso; il rigore della legge prevede, infatti, una multa massima di 258€ in alternativa alla pena detentiva che non viene mai inflitta a nessuno. In realtà neppure quella pecuniaria.

    Eppure a causa di intercettazioni ed informazioni di garanzia dal sen fuggite vite intere possono essere rovinate, come quella di un padre separato (è storia recente, una delle tante), imputato di violenza sessuale sulla figlioletta in base alla equivoca interpretazione di una captazione telefonica: intercettato, indagato, revocata la potestà genitoriale, licenziato, processato, assolto. Assolto, non colpevole, chiamate come volete la conclusione di questo come di altri processi: non è un lieto fine da prescrizione del reato o con un mite patteggiamento a seguito di accordo economico, il ritiro della querela o grazie ad altro bizantino e salvifico cavillo. Intanto un’esistenza è stata devastata.

    Proprio dei reati di violenza sessuale e della delicatezza della valutazione della prova si è scritto recentemente su queste colonne e, sebbene non sia fonte di consolazione, non capita solo da noi. L’ultimo esempio è quello di Kevin Spacey, grande attore, imputato di reati di matrice sessuale che per l’ordinamento americano sono particolarmente esecrabili come recita l’incipit di ogni puntata di Law & Order Special Victims Unit.

    Assolto prima a New York e poi a Londra ma una carriera finita, una vita gravemente condizionata.

    Queste sono le esperienze giudiziarie quotidiane che dovrebbero insegnare qualcosa ai giustizialisti da tastiera, ai cacciatori dei soliti sospetti, i vari Travaglio ai Gramellini di turno: storie che imporrebbero ancora di riflettere su quanto è facile distruggere un uomo e sia opportuno astenersi da giudizi preconcetti.

    Sfortunatamente sono lezioni che, come pare, in pochi dimostrano di sapere apprendere e, allora, avanti il prossimo, ce n’è per tutti…

  • In attesa di Giustizia: il sacro fuoco della giustizia

    Temo che questo possa essere l’ultimo appuntamento con la rubrica “In attesa di Giustizia” perché l’attesa è finita: non tanto grazie alla Riforma Cartabia le cui ombre si allungano sempre più minacciose sulle flebili luci che ne rischiarano gli articolati, quanto agli esempi di indomabile efficienza di chi esercita la giurisdizione.

    O, forse, no.

    Siamo a Catania, una Catania soffocata dal caldo e divorata dalle fiamme che hanno avvinto non solo l’aeroporto ma interi comprensori urbani: ciononostante i baluardi della legalità non smettono di profondere furore intellettuale coniugato a diuturno impegno e accade questo…

    Gianluca Costantino è un avvocato etneo che risiede proprio in una delle zone più colpite dalle fiamme, la sua casa ne è circondata, i trasporti pubblici sono paralizzati, quelli privati rischiosi e l’Avvocato ha udienza penale:riesce, tuttavia, a mandare una mail con la richiesta di rinvio di un’udienza per legittimo impedimento e trova anche un collega che si presenta in aula per sostituirlo e sostenere le ragioni di differimento.

    Niente da fare, il Giudice è inflessibile perché nella sua amministrazione arde il sacro fuoco della giustizia e la macchina non si può fermare per varie ragioni: la prima è rappresentata dal nemico di sempre, la prescrizione del reato che si avvicina e la seconda consiste nel fatto che il rinvio avrebbe imposto ai polpastrelli dei funzionari di cancelleria, ormai piagati a furia di spedire notifiche via pec, di farne altre a coloro che dovrebbero essere avvisati del rinvio; a tacer di questo, nel provvedimento di diniego si legge altresì che l’istanza non è documentata né attesta l’assolutezza dell’impedimento: Costantino poteva, magari, vestirsi con una tuta ignifuga per adempiere al suo dovere e sarebbe stato utile allegare all’istanza il file di un telegiornale recente con i Canadair che sorvolano l’abitazione del professionista.

    Il diritto di difesa, come si vede, non è poi una garanzia così assoluta ma ad assetto variabile e la decisione del Tribunale di Catania propone solo un interrogativo – e non ci sono parole migliori – cioè se sia frutto di crassa ignoranza piuttosto che di schietta malafede.

    Per i lettori, infatti, è opportuno ricordare la regola in base alla quale il corso della prescrizione viene sospeso se un differimento del processo è determinato da impedimenti o esigenze dell’imputato o del suo difensore. Ma se anche così non fosse, la domanda da porsi è se l’incolumità di un avvocato possa valere meno della prescrizione di un reato che, se è da ritenersi prossima durante il giudizio di primo grado non può essere che frutto di inerzia del P.M. durante la fase delle indagini oppure di malfunzione, congestione, inefficienza del Tribunale…ah, già, la risposta è sì: uno di meno.

    Parliamo ora delle notifiche con cui il Giudice temeva di onerare la cancelleria oltre il sopportabile: tanto per cominciare, l’avviso di un rinvio non deve essere fatto a chi è presente in udienza (nel nostro caso neppure all’avvocato impedito a presenziare essendosi fatto sostituire da un collega) perché riceve contestualmente notizia della data successiva. Viceversa, nel caso in cui non si presenti qualcuno che, invece, deve partecipare all’udienza – per esempio un testimone – la notifica è nuovamente ed in ogni caso dovuta.

    Allora, di cosa stiamo parlando? Se la vicenda non fosse surreale, verrebbe da pensare di essere su “Scherzi a Parte” e ad uno scherzo di cattivo gusto: indigna – come scrive in una nota ufficiale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania – la mortificazione del diritto di difesa e sarebbe interessante sapere se identica decisione sarebbe stata adottata se analogo impedimento avesse coinvolto un Giudice o un P.M..

    Sarebbe interessante, altresì, conoscere – se mai commenterà l’accaduto – l’opinione del Sindaco di Catania, Enrico Trantino, avvocato penalista di lungo corso. Concludendo, soccorre alla memoria il pensiero di Tito Livio richiamato, proprio in Sicilia, dal Cardinale Pappalardo ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”. Ma quelli erano i tempi delle guerre puniche.

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