Giustizia

  • Eurojusitalia: la prima banca dati in Italia che collega il contenzioso della Corte di Giustizia con il contenzioso nazionale

    La banca dati Eurojusitalia nasce da un’idea di molti anni fa, quando fu pubblicata, nel 2007, la prima edizione della «Giurisprudenza di diritto comunitario. Casi Scelti» (Giuffrè editore, poi, leggibile in www.eurojus.it). Fu privilegiata la raccolta di casi rilevanti di diritto dell’Unione europea, pubblicando varie edizioni dell’opera (la quinta è del 2020) per poi “mettere in cantiere”, in continuità con la precedente iniziativa, la banca dati.

    Lo scopo di Eurojusitalia è di dare uno strumento utile ed immediato per l’accesso alla giurisprudenza della Corte di giustizia e del Tribunale dell’Unione europea che origina da “ricorsi italiani” e da rinvii pregiudiziali sollevati da giudici italiani dal 2020 in poi. L’attenzione è, dunque, per i casi italiani (contenziosi e pregiudiziali) documentando, per i rinvii pregiudiziali, origine e seguito, e quindi ordinanza di rinvio e pronuncia del giudice nazionale che ne è seguita (il c.d. suivi nazionale).

    Eurojusitalia è pertanto in grado di fornire un quadro d’insieme delle questioni italiane sottoposte alla Corte di giustizia e al Tribunale dell’Unione europea. Consente altresì di verificare come i giudici nazionali hanno dato o stanno dando seguito alle decisioni della Corte. Un dato, questo, che non sempre è facile da reperire e, dunque, da conoscere e che può essere utile non solo per chi studia il diritto UE e la sua applicazione in Italia, ma anche per il giudice e l’avvocato che devono affrontare casi analoghi e vogliono, quindi, conoscere il precedente, e anche per chi voglia comunque documentarsi, come si è detto, sui casi italiani.

    La home page del sito è stata progettata per consentire una ricerca informatizzata semplice e agevole, al fine di evitare (se possibile) che chi necessita di un’informazione sia “scoraggiato” dalla difficoltà della ricerca. La pagina principale dispone di una varietà di filtri di ricerca con l’individuazione, per esempio, dell’organo giudicante, degli estremi della causa, della ricerca per materia, della ricerca per parole chiave, della data di pronuncia. In questo modo l’utente è indirizzato verso una più corretta consultazione e al tempo stesso è garantito il collegamento al sito della Corte di giustizia, www.curia.europa.eu, mediante un apposito link di rimando, usufruibile ogniqualvolta l’utente desideri esaminare altra documentazione (i filtri di ricerca sono “cumulabili” e “modificabili” in ogni momento).

    Un’altra peculiarità di Eurojusitalia è quella di offrire un costante aggiornamento, compresa la giurisprudenza del Tribunale unificato dei brevetti, operativo dal 1 giugno 2023, che è legittimato a proporre rinvii pregiudiziali.

    La realizzazione del progetto, fortemente voluto dal Prof. Bruno Nascimbene, professore emerito di diritto dell’Unione europea nell’Università di Milano “Statale”, già ordinario di diritto internazionale nell’Università di Genova, è avvenuta grazie alla collaborazione degli avvocati delle “cause italiane” e si è avvalsa del lavoro di Cristina Ranno, Ginevra Greco, Sara Morlotti, che continueranno a mantenerla aggiornata. Gli aspetti tecnici del portale sono invece gestiti da Pyx-is IT Consulting.

    La banca dati, totalmente open access, è disponibile collegandosi al sito www.eurojusitalia.eu.

  • In attesa di Giustizia: violenza chiama violenza

    Recenti, ma purtroppo non inusuali, fatti di cronaca sono lo spunto per la settimanale riflessione sulla Giustizia. La tematica è quella della violenza sessuale, il suo rapporto in termini di prova con principi irrinunciabili del processo penale che ruota, principalmente, intorno ad un presupposto fondante ma altrettanto impalpabile: il consenso.

    ll tema del consenso non può essere relegato ad uno scontro tra opposte linee di pensiero né diventare opportunità per speculazioni di natura politica poichè con il rapporto sessuale si coniuga tramite esiti chiarissimi e parametri condivisi: deve essere esplicito e non equivocabile; il consenso implicito (in un atteggiamento, in un comportamento, peggio che mai in un abbigliamento) è sintomatico di un approccio culturale e sociale indecente ed inaccettabile, che appartiene ad epoche e contesti sociali che sono – o dovrebbero essere – fortunatamente trapassati remoti.

    Ad un consenso esplicito, poi, deve corrispondere una persona in condizioni fisiche e psichiche tali da consentirne la consapevole manifestazione. Questo canone non ha alcuna ragione di essere modificato o derogato se sia stata la vittima stessa a porsi in condizione di incapacità, ubriacandosi o drogandosi perchè un approccio sessuale con una persona in stato di manifesta alterazione, non può trascurare l’ipotesi che il consenso all’atto, ovvero il mancato dissenso, potrebbe essere condizionato proprio da quelle condizioni.

    L’inosservanza di questi criteri discretivi di una libera e consapevole volontà rendono la condotta penalmente rilevante: il che significa che ne entrano in gioco altri ed altrettanto fondamentali del vivere civile, dotati di rango costituzionale equivalente a quello della inviolabilità della libertà e della intangibilità della integrità fisica e morale della persona. Per primo la riferibilità del reato ad un autore che deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio. In secondo luogo, l’onere della prova, quanto mai difficile in questi casi, che è a carico a chi accusa. La peculiarità specifica del tema di prova, la difficoltà della sua ricostruzione con le implicazioni psicologiche, culturali, ambientali, sociali che inesorabilmente lo connotano, non possono invertire ma neppure affievolire il rispetto delle due regole cardinali del processo.

    Nella quotidiana realtà dei giudizi per violenza sessuale non è, purtroppo, infrequente un loro sovvertimento ed è questo è il nocciolo della questione sul quale occorre interrogarsi senza ipocrisie. La percezione della “debolezza” della (presunta) vittima della violenza sessuale, e la forza culturale del (giusto) tema del consenso, determina quella che si potrebbe definire una “autosufficienza probatoria della versione dei fatti” offerta dalla persona offesa. Lo ha raccontato, ripetuto, perché mai dovrebbe mentire? Quindi è successo.

    In tal modo si perviene ad una forma di attendibilità pregiudiziale, si potrebbe dire preconcetta e ad oltranza del “soggetto debole”, che indebolisce sia il principio dell’onere probatorio che quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio. E ciò anche attraverso una sorta di stigma di indegnità da attribuire ad ogni tentativo difensivo di metterla in dubbio.

    Tutto ciò ha anche un nome: la confutazione della credibilità della versione accusatoria, viene immancabilmente bollata come “vittimizzazione secondaria”. Una categoria, questa, certamente rilevante sotto il profilo sociologico, ma tanto inconcepibile quanto suggestiva nelle dinamiche del processo penale.

    La parola di uno contro quella dell’altro: quale altra difesa potrebbe avere, allora, un imputato se non insinuando il dubbio, se ve ne sono gli estremi, che la propria versione dei fatti, e non quella della (presunta) vittima, sia quella giusta? Il controinterrogatorio di chi accusa, costituzionalmente normato, serve proprio a questo e laddove soccorrano indicatori di mendacio deve essere anche duro per far risaltare la falsità del dichiarante.

    Il tema del consenso resti, dunque, intangibile: e che sia un consenso esplicito ed inequivocabile al rapporto purchè questo principio di civiltà non diventi il grimaldello volto a pretendere e, talvolta, ottenere, un processo con regole probatorie modificate per i reati di violenza sessuale.

    In tal modo si aggiunge dolore al dolore, violenza alla violenza, ingiustizia all’ingiustizia.

  • Borsellino e Falcone: le verità negate

    Giusto, doveroso, necessario ricordare i due magistrati martiri non solo  della mafia perché ormai è chiaro che non sono solo gli esecutori materiali gli assassini

    Mancano ancora le borse, le agende, l’esamina approfondita e pubblica, lo studio vero, dei tanti documenti di Borsellino e Falcone e quanti altri documenti mancano all’appello?

    Quanti sono i morti: magistrati, carabinieri, poliziotti, giornalisti e persone della società civile che la mafia ha ucciso? Dov’è l’elenco completo dei loro nomi che possa ricordare a tutti gli italiani quale sacrificio di sangue è costata la ricerca di una verità che tutt’ora è negata!

    Quante di queste morti potevano essere evitate con una politica differente?

    Ricordare, ogni giorno, per dare vita ad una società diversa dove la commemorazione è seguita da azioni concrete che portino a squarciare, finalmente, il velo che ancora ricopre  azioni nebulose, complicità, silenzi dei quali tanti sono responsabili cominciando dall’alto perché, come diceva un vecchio tassista romano, il pesce puzza dalla testa.

  • In attesa di Giustizia: la corrida e la rivoluzione digitale

    Ennesima settimana convulsa sul fronte della giustizia: il luna park dell’opposizione purchessia ha sfoderato l’artiglieria contro le ultime iniziative, o per meglio dire gli annunci, del Guardasigilli il quale ha ribadito che la sua azione di Governo prevede la separazione le carriere tra giudicanti e pubblici ministeri e di rimodulare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; a quest’ultimo proposito non sono mancate neppure le salve di “fuoco amico” supportate dalla vibrante indignazione dei familiari di vittime della mafia.

    Una vera e propria corrida, intesa anche nell’accezione che al termine fu data dal celebre programma condotto da Corrado Mantoni: dilettanti allo sbaraglio in salsa di ignorante malafede e vediamo nell’ordine il perché di cotante ambasce senza che vi sia neppure un articolato su cui ragionare.

    L’obiezione principale che viene rivolta alla separazione delle carriere – con l’Associazione Nazionale Magistrati in prima linea – è che comporta la dipendenza del Pubblico Ministero dall’Esecutivo subendone le imposizioni su quali indagini avviare e quali fermare. Orrore autoritario e fascista da scongiurare a qualunque prezzo.

    Ebbene, che vi sia un simile automatismo non sta scritto da nessuna parte (in Francia, per esempio, le carriere sono unificate ma il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia) ed, anzi: per raggiungere questo risultato bisognerebbe modificare ben quattro articoli della Costituzione posti a tutela della indipendenza della Magistratura da qualsiasi altro potere, con ciò intendendosi sia quella giudicante che quella inquirente (la Costituzione lo precisa). Impresa cui nessuno ha mai neppure accennato ed inverosimile se si pensa all’iter previsto per le modifiche costituzionali con doppia lettura alle Camere e maggioranza qualificata di 2/3. Le ragioni della contrarietà sono altre, forse meno nobili… ma andiamo oltre.

    Concorso esterno: sia chiaro innanzitutto, per chi non lo sapesse, che è un delitto che il codice penale non prevede. Proprio così, un reato per cui si può essere condannati frutto di una interpretazione giurisprudenziale, per quanto non risulti che i giudici possano sostituirsi al legislatore con le loro sentenze.

    Nordio, in realtà, non ha affatto detto che intende abolire questa ipotesi di reato ma tipizzarla meglio in via normativa, magari secondo i dettami della Costituzione che prevede che nessuno possa essere ritenuto responsabile per un fatto non previsto dalla legge come reato ed anche che le leggi siano tassative. Cioè puntualmente definite in modo che i cittadini sappiano cosa è consentito e cosa è vietato o punito. Esattamente quello che, commentando le parole del Ministro sostiene, tra i molti, anche Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale: uno dei massimi esponenti contemporanei di questa branca del diritto.

    Naturalmente, le critiche sono arricchite dalla considerazione che in l’attuale Ministro della Giustizia non abbia prodotto nulla in termini di utili ed intelligenti riforme mentre la Cartabia…ah, la Cartabia, quella sì!

    Basta vedere l’ultima creatura delle sue commissioni, volta ad efficientare il sistema, che ha visto la luce ad inizio mese: il Portale attraverso il quale si potranno e dovranno depositare ben 103 diversi atti giudiziari, dalla nomina di un difensore agli atti di appello. Un pachidermico prodigio delle più moderne tecnologie operativo già nei prossimi giorni (destinato, chissà perché solo agli avvocati e non ai magistrati) ma si impalla con inquietante frequenza, è ancora incompleto, lento, complicato e per non farsi mancare nulla alcuni riferimenti agli articoli del codice sono sbagliati. Si consideri, infine, che i Funzionari amministrativi dei Tribunali non sono stati formati per l’utilizzo e – soprattutto – se l’atto che si deve inoltrare prevede più di una copia le altre bisogna andarle a depositare cartacee, a mano, in cancelleria. E perché mai? Suvvia! Perché non si possono sprecare troppo toner e carta, non ci sono i fondi, e quelli del PNRR, faticosamente guadagnati con questo cretino meccanico non sono sacrificabili e servono altrove. Avanti così, la Giustizia può attendere.

  • In attesa di Giustizia: carnevale di Rio

    Accingendomi a commentare alcuni eventi, una premessa è d’obbligo: se un giornalista riceve una notizia ha il dovere di pubblicarla. E se riguarda un personaggio pubblico ancora di più.

    Il problema è che certe notizie non dovrebbero mai essere fatte esfiltrare: nè dagli inquirenti e nemmeno dai vari altri soggetti coinvolti nell’accertamento dei fatti e la violazione di questi obblighi non dovrebbe essere sanzionata alla stregua di un parcheggio abusivo perché l’indagine di per sé intacca l’onorabilità e neppure un’assoluzione contribuisce a diradare completamente le zone d’ombra lasciate dallo schizzo di fango.

    Le indagini per certi reati la cui verifica si basa sulle sole dichiarazioni della parte offesa dovrebbero essere secretate e rimanere tali almeno fino al giudizio di primo grado.

    Emblematico è quanto sta accadendo riguardo alla vicenda della presunta violenza sessuale attribuita ad uno dei figli di Ignazio La Russa: in questo caso è stato l’avvocato che assiste la ragazza a distribuire a piene mani notizie in favor di microfoni ed intervistatori, salvo ritirare la mano subito dopo aver gettato il sasso sostenendo che vi è e vi deve essere un riserbo massimo mentre le indagini sono in corso. Nella stretta osservanza di questa regola del silenzio da monaco benedettino ha preannunciato l’intenzione di citare lo stesso Ignazio La Russa che, con le sue affermazioni, sarebbe diventato testimone contro il suo stesso figlio: se anche così fosse, evidentemente gli sfugge la circostanza che i prossimi congiunti possono avvalersi (loro sì) del diritto al silenzio. Ma tutto quanto fa spettacolo e c’è già chi avanza la richiesta di dimissioni dalla sua carica del Presidente del Senato, bissando quelle invocate per Daniela Garnero meglio nota come Santanchè.

    Quest’ultima, invece, sta passando la sua gogna mediatica (e non solo) grazie al tradizionale impiego, sin dal novembre scorso, della redazione del Corriere della Sera come casella delle lettere della Procura di Milano; il tutto non senza l’abituale confusione (un po’ ignorante e un po’ creata ad hoc ): ha ricevuto l’informazione di garanzia, anzi no, non è iscritta nel registro delle notizie di reato, anzi si e non ultima la bufala più potente secondo la quale sarebbe indagata per bancarotta che come crimine, in effetti, è bruttarello, fa certo “meno fine” del falso in bilancio che evoca una frode fiscale che non scandalizza quasi nessuno piuttosto che l’appropriazione e sperpero di denaro in danno dei creditori, dipendenti inclusi. Peccato che questo reato possa contestarsi solo ad avvenuta dichiarazione di fallimento di una società e non consta che “Visibilia” sia stata dichiarata fallita, anzi stia negoziando un concordato.

    Nessuno dubita che per la sensibilità della carica ricoperta sia stato corretto chiedere che il Ministro del Turismo riferisse nella sua Camera di appartenenza su tali accadimenti. Magari poteva prepararsi un filo meglio nel chiarire certi aspetti tecnici piuttosto che dare ancora più fiato alle trombe di chi sta preparando una mozione di sfiducia. Sarà quale, la sesta, la settima da inizio legislatura? Tutte andate a vuoto. L’opposizione dovrebbe sapere tre cose: che il suo ruolo è proporre alternative all’azione della maggioranza con critica costruttiva, che una richiesta di dimissioni non si fa se non si hanno i numeri (ma se si fa significa che non si hanno idee) ed è un fuor d’opera alimentare questa sorta di Carnevale di Rio ogni volta che – in mancanza d’altro – c’è la possibilità di ricorrere allo sputtanamento dell’avversario invece di dire o fare “qualcosa di sinistra”. Attenzione, poi, ad operazioni “politiche” di bassa macelleria perché il “banco del taglio” è lo stesso che un domani può ospitare chi ama frequentarlo da primattore e non da vittima.

    Per concludere, una nota quasi di buonumore con una carnevalata giudiziaria: la Procura di Genova ha contestato anche il tentato omicidio ad un avvocato che, in base a quanto ricostruito dalla Guardia di Finanza, avrebbe sottratto i soldi all’anziana di cui era amministratore di sostegno e, secondo gli inquirenti, avrebbe pure commissionato ad un’amica maga un rito vudoo con delle candele nere, proprio per sbarazzarsi della signora che accudiva. Un simile reato è definito “impossibile” dallo stesso codice ma secondo il P.M. serve a valutare la personalità.

    Contestazione quanto meno insolita, anche per offrire prova di pericolosità di un soggetto; chiaramente non è punibile avere fatto ricorso a candele e magia nera per intentare un omicidio e però viene da chiedersi, a questo punto, perché non sia indagata anche la fattucchiera.

    Con le carnevalate più o meno divertenti per questa settimana è tutto: la Giustizia può attendere, magari la settimana prossima andrà meglio: ma non è affatto certo.

  • In attesa di Giustizia: l’arte di strisciare

    Paul d’Holbach è considerato uno dei massimi esponenti del materialismo francese, collaborò all’Enciclopedia e si adoperò alla diffusione delle idee e dello spirito dell’Illuminismo. Tra i suoi tanti scritti vi è un interessante ”Saggio sull’arte di strisciare ad uso dei Cortigiani”.

    Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale ma solamente quella del padrone o del ministro: è uno degli insegnamenti cardine che il Barone d’Holbach dispensa agli aspiranti cortigiani di successo e la sua lettura deve avere ispirato il duo Padellaro – Travaglio, intenti febbrilmente a mettere il servo ossequio a servizio del decadente potentato, Piercamillo Davigo e della sua visione malata della giustizia.

    L’uomo è in rotta come le truppe austriache descritte da Armando Diaz nel bollettino della Vittoria: dopo la condanna a Brescia per rivelazione di atti di ufficio è risultato soccombente in un altro processo dove, invece, si presentava come parte lesa di diffamazione messa in atto – secondo lui – da Paolo Mieli con un editoriale sul Corsera di te anni fa. Querela sparata a salve: il Tribunale ha ritenuto che vi sia stato solo esercizio del diritto di critica e non diffamazione, assolvendo il giornalista. Sarà, forse, l’ennesimo colpevole che la fa franca?

    I Cortigiani di area M5S, allora, per dare sollievo ai malumori del loro alfiere, con insolito afflato garantista, nonostante la condanna ed in spregio ai loro proverbiali rigori pseudo moralisti, lo hanno prescelto per un’audizione alla Camera a proposito della  ri – modifica della disciplina della prescrizione.

    Davigo non si è lasciato sfuggire l’occasione per suonare la grancassa ribadendo trite castronerie sulla responsabilità degli avvocati, che sono troppi ed in mancanza di lavoro moltiplicano appelli e ricorsi per garantirsi laute parcelle a colpi di prescrizioni. Per Davigo finisce anche qui a mazzate, zittito dall’On. Costa che, statistiche ufficiali alla mano, ha dimostrato come la percentuale preponderante delle prescrizioni matura nel corso delle indagini preliminari quando gli avvocati nemmeno “toccano palla”.

    Quanti dispiaceri…ecco, allora entrare in scena il tandem di attacco de Il Fatto Quotidiano, sciorinando una lingua adulatoria ai limiti del pecoresco con un paragone di Padellaro, a dir poco oltraggioso, tra Davigo e Giovanni Falcone. Noli miscere sacra profanis: eppure, se non fosse una bestemmia, sarebbe solo un meschino tentativo di salvare il soldato Piercamillo dopo l’onta della condanna per reati contro l’amministrazione della giustizia. Basti pensare che Falcone, poiché controcorrente, è stato vittima di odio politico della sinistra che con il contributo degli scudieri eletti al C.S.M.  gli ha impedito di andare a dirigere la Procura di Palermo prima e la Nazionale Antimafia, che era una sua creatura, poi; la carriera di Davigo, invece, non è stata ostacolata da nessuno e – ne siamo lieti – si gode la sua ricca pensione in vita mentre Falcone non ne ha nemmeno raggiunto l’età; il massimo del rischio a cui è esposto l’ex P.M. di Mani Pulite resta quello di incontrare qualcuno che gli faccia il pernacchio come Totò all’ufficiale tedesco nel film “I due marescialli”.

    Travaglio, dal canto suo, ne ha intentato la difesa da impavido lacchè con un editoriale degno dell’Asilo Mariuccia nel quale lamenta che, al momento, sono indagati per omessa denuncia della diffusione da parte di Davigo di verbali secretati solo gli ex consiglieri dei C.S.M. Cascini e Marra. Siamo al “chi lo dice sa di esserlo mille volte più di me”: omette, peraltro, di ricordare il clima che,  grazie a Davigo, in quel periodo si era creato, all’interno del Consiglio e che è stato descritto in aula, a Brescia, da Nino Di Matteo che ha riferito di un’aggressione verbale subita proprio ad opera del Piercamillo nazionale il quale, a dispetto del nome che evoca un tenero gelatino al biscotto non è un mite e gli inveì, ingiustificatamente e con violenza, contro nel corso di una riunione per discutere chi votare come Procuratore Capo di Roma.

    E’ un teatro dell’assurdo: Davigo – che pure ha ammesso la materialità dei quanto commesso – meglio avrebbe fatto a riconoscere i propri errori invece che pervicacemente sostenere una ragione che non c’è e che non può essere supportata neppure sforzandosi di mitizzarlo e giustificarlo sulle colonne del quotidiano che è il più pericoloso concorrente dei Rotoloni Regina.

  • In attesa di Giustizia: contrappasso

    C’è qualcosa di allegorico, cabalistico, nella parabola professionale e di vita di Piercamillo Davigo che da magistrato del Pubblico Ministero aveva promesso di “rivoltare l’Italia come un calzino” magnificando lo standing dei suoi colleghi di funzione: “i magistrati sono il meglio della società civile ed i pubblici ministeri sono il meglio del meglio del meglio”, poi da giudicante aveva presieduto i Collegi di Corte d’Appello e di Cassazione  trasformandoli in altrettanti Comitati di Salute Pubblica; del resto, ipse dixit, non ci sono innocenti ma solo colpevoli che non sono ancora stati scoperti. Anche lui, viene ora da chiedersi?

    L’inesorabile trascorrere degli anni gli ha fatto terminare anzitempo la consiliatura al C.S.M. e da pensionato ha intrapreso quella di editorialista per un quotidiano giacobino che, nella versione cartacea, può essere destinato solo agli scopi meno nobili. Ma la parabola non si era ancora conclusa: l’ultima delle esperienze nel mondo della giustizia l’ha fatta in un ruolo che mai avrebbe immaginato, a stretto contatto – orrore! – con un avvocato cui ha affidato il compito di difenderlo smentendo se stesso a proposito del giudizio di appello, ritenuto superfluo e causa di malfunzione del sistema, ma che ha già preannunziato dopo la sua condanna.

    Quest’ultimo segmento di vita è stato scandito anche da correlazioni enigmaticamente realizzatesi: Davigo è stato rinviato a giudizio proprio nel giorno in cui ricorreva il trentennale dell’arresto di Mario Chiesa che diede inizio alla macelleria giudiziaria di “Mani Pulite” di cui è stato indiscusso protagonista e la sua sentenza di condanna è stata pronunciata mentre si celebrava la memoria di Silvio Berlusconi che, praticamente da solo, ha dato per decenni motivo di esistere alla Procura di Milano ed alla “casella delle lettere” messa a disposizione dal Corsera: se si vuole sapere il perché e gli si vuole dare credito, basta leggere il primo libro intervista di Luca Palamara con Sallusti.

    Torniamo a Brescia: il momento della lettura di una sentenza è un passaggio di grande solennità che si ascolta in piedi e le prime parole sono sempre “In nome del Popolo Italiano…” dando corpo al canone 101 della Costituzione; in nome di quel Popolo, a rappresentarlo durante la pronuncia di condanna, vi era anche Francesco Prete, che è il Procuratore Capo di Brescia, a fianco dei suoi sostituti che avevano condotto le indagini ed il dibattimento: un gesto volto a dimostrare che in quell’Ufficio ci si era mossi con iniziative condivise e probabilmente anche sofferte perché rivolte nei confronti di un ex collega.

    Francesco Prete, ai tempi di Mani Pulite, era un giovane P.M. in forza proprio a Milano e la sua stanza era vicina a quella di Davigo ma non ha mai fatto parte del famoso (o famigerato) pool: lavoratore, equilibrato, studioso, il suo tragitto professionale lo ha portato a dirigere tre Procure (Vasto, Velletri ed infine Brescia) senza mai cercare il “colpo di teatro”, l’inchiesta sensazionalistica che aiuta la carriera o – comunque – offre notorietà e non l’ha perseguita nemmeno ora che le regole di competenza per i processi ai magistrati assegnano a Brescia i procedimenti a carico di quelli milanesi e proprio la sua Procura di un tempo rivela l’esistenza di un verminaio di prassi opache, per usare un termine garbato, di cui si è sempre avuto il sospetto: Francesco Prete ha mantenuto un basso profilo con interviste ridotte al minimo, riserbo e parole misurate che dovrebbero essere patrimonio di chi svolge ruoli sensibili come il suo.

    Contrappasso anche in quest’ultima immagine che raffigura due uomini divenuti inaspettatamente avversari e due modi diversi di interpretare la funzione giurisdizionale mentre un comunicato della Giunta dell’Unione Camere Penali, senza (troppo) sarcasmo, auspica che nel futuro di Davigo, ora che ha scoperto il diritto all’appello, vi siano Giudici con una concezione delle impugnazioni diversa dalla sua.

    Ci mancava la solidarietà, obiettivamente un po’ di maniera, del nemico di sempre per trasformare in fiele il contenuto del calice già amarissimo toccato in sorte all’ultimo (speriamo) dei grandi inquisitori.

    Un augurio di buona sorte, nel rispetto della presunzione di innocenza non si nega a nessuno e lo formuliamo anche noi ma quello in cui è inscritta la parabola discendente di Piercamillo Davigo è come un arazzo che, attraverso ironie e contrappassi, sembra intessuto di una Giustizia quasi poetica.

  • In attesa di Giustizia: delitti contro la pietà dei defunti

    Il nostro Codice Penale prevede la categoria dei delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti: datato agli anni ’30 del secolo scorso, è stato aggiornato estendendo la tutela da quella che – secondo lo Statuto Albertino – era la religione di Stato a tutte le confessioni e ne meriterebbe una sanzionando chi, in occasione di eventi luttuosi, invece di mantenere un decoroso silenzio, apra la bocca togliendo ogni dubbio sul fatto di avere un Q.I. inferiore al numero di scarpe indossate o una malafede congenita.

    Gli esempi non mancano mai ed anche questa settimana si fatica a selezionare il peggio; il gradino più alto del podio spetta ai protagonisti del tragico incidente di Casal Palocco, costato la vita ad un bimbo: i genitori degli youtubers (ma che ca…spita di lavoro sarà mai?!) dicono che è stata una bravata e si risolverà tutto per il meglio. Ditelo ai genitori ed alla sorellina del piccolo Manuel. Vogliamo parlare degli idioti a bordo del SUV che continuavano a filmare, senza una lacrima, anche l’intervento dei mezzi di soccorso per aumentare il numero dei followers (anche questi…) e del concessionario che si condoleva per la Lamborghini sfasciata precisando che lui, però, non c’entra niente? Gran finale con il difensore: “la Lamborghini aveva la precedenza”. Gioco, partita, incontro: con pezzenti morali di questo livello non c’è gara.

    Passiamo alla nobiltà della editoria, Il Corriere della Sera ha dato spazio ad una delle sue firme più prestigiose, Luigi Ferrarella, che da sempre si occupa di cronaca giudiziaria, per spiegare che Silvio Berlusconi non è stato affatto un perseguitato dalla giustizia perché non era una brava persona, diligentemente enumerando i processi (non molti tra gli oltre trenta in cui è stato coinvolto) in cui si è avvantaggiato della prescrizione, dimenticando che i rinvii delle udienze per legittimo impedimento ne interrompono il corso e solo l’inerzia, l’inefficienza, l’incuria degli uffici giudiziari ne è causa. Grande enfasi, invece, all’unica condanna riportata, quella per reati fiscali su cui gravano tutt’ora consistenti ombre. Medaglia d’argento.

    Bronzo per gli haters del Cavaliere sbizzarritisi sui social media a pari merito con i grevi vignettisti de Il Fatto Quotidiano, Charlie Hebdo e compagnia assortita: la satira è un’altra cosa.

    Offre, invece sollievo, quanto dichiarato in un’intervista al Foglio da Renato Bricchetti, Magistrato e giurista di altissimo profilo, ora in pensione: “La parola accanimento non mi piace, ma una particolare attenzione politico-giudiziaria verso Berlusconi da parte della magistratura indubbiamente c’è stata”. Alla domanda se Berlusconi abbia fatto parte della storia della giustizia italiana ha, in seguito, risposto: “Bisogna chiedersi se più che farla l’ha subita”.

    “Personalmente – ha aggiunto – sono rimasto molto perplesso, dal punto di vista giuridico, sulla condanna per frode fiscale”. E’ stata l’unica condanna subita da Berlusconi, che è stato imputato in trentasei procedimenti penali”. Renato Bricchetti ha anche precisato che nella sua carriera ha visto solo i truffatori seriali oggetto di tanta attenzione e numero di processi perché fanno tante truffe e quando finalmente vengono giudicati da un Tribunale cambiano zona e vanno a farle in un altro territorio”.

    Proseguendo, ha anche rimarcato che la giustizia, in Italia, non sono i processi ma le indagini: questa è l’immagine della giustizia che ha il cittadino medio e l’indagine determina la condanna all’ignominia. Infatti Berlusconi è stato condannato più volte dall’opinione pubblica. Bricchetti ha, infine ricordato che nel 1994, il giorno dopo che Berlusconi vinse le elezioni, in tribunale vide facce da funerale: era evidentemente un giudizio politico che molti magistrati danno. Pochi mesi dopo la Procura di Milano fece recapitare a Berlusconi il famoso invito a comparire, non senza preavvisare il Corriere della Sera, in aperta violazione del segreto istruttorio.

    L’intervista si conclude con questa amara riflessione: “Io ho sempre sperato che l’ANM si occupasse dei problemi reali della giustizia, soprattutto delle carenze di organico, non della politica giudiziaria o addirittura della politica tout court, ma le mie speranze sono sempre andate deluse”.  E se lo dice lui dopo quarant’anni di magistratura, noi possiamo restare a lungo in attesa di giustizia.

  • In attesa di Giustizia: avanti arditi!

    L’omicidio di Giulia Tramontano è stato raccontato sui media in ogni minimo particolare: gli inquirenti sono apparsi a reti unificate nelle trasmissioni di prima serata, dopo aver convocato una conferenza stampa.

    Spopolano la confessione dell’indagato, l’interrogatorio, le modalità dell’azione omicidiaria, i frames dei video catturati dalle telecamere di sorveglianza, i primi dettagli emersi dall’autopsia e c’è una corsa frenetica alle interviste: la madre di Impagnatiello, i genitori dei suoi amici, prima ancora dei parenti della vittima, con domande che, per la banalità, superano persino quelle fatte in passato ai terremotati davanti al crollo della propria abitazione.

    Tutto ciò, come sempre capita, ha prodotto una deflagrazione di odio totale invocando feroce e sommaria giustizia per l’autore di questo atroce delitto; dai bar ai social, si invoca la pena di morte: deve bruciare all’inferno prima ancora di affrontare il processo e si critica aspramente il gip di Milano che ha avuto il torto di applicare la legge escludendo (per ora) l’aggravante della premeditazione. Offese e minacce si sprecano nei confronti di chi oserà difendere un “personaggio simile” anziché vergognarsene.

    Pazienza finchè il dibattito rimane nel perimetro di Tik Tok o Instagram miscelato tra la preoccupazione per la presunta crisi coniugale del Ferragnez ed il sollievo per l’affidamento condiviso dei Rolex tra il Pupone e Hilary Blasi, ma quando interviene un magistrato, già componente del C.S.M., e straparla, qualche riflessione si impone.

    Il riferimento è a Sebastiano Ardita, ex sodale di Piercamillo Davigo, al quale – se fosse possibile – dovrebbe essere revocata la laurea in giurisprudenza e con essa la funzione giurisdizionale con un’alternativa sulle ragioni: crassa ignoranza o malafede. E di magistrati ignoranti o in malafede non ne sentiamo proprio il bisogno.

    Costui, intervenendo a proposito del destino di Impagnatiello ha vaticinato che, tra attenuanti generiche per la confessione, benefici penitenziari e possibile riconciliazione con i parenti della vittima, tra una decina d’anni al massimo tornerà libero in tal modo alimentando l’ira e l’indignazione di un’opinione pubblica già esasperata ed orfana di Madame La Guillotine. Disinformazione tanto ardita quanto becera.

    Cerchiamo di fare chiarezza: a prescindere che la confessione, in questo caso, è apparsa più che altro strumentale a minimizzare (scioccamente) la propria responsabilità e come tutt’altro che meritevole di favorevole considerazione, per ottenere le attenuanti generiche, con la legislazione attuale, ci vuole ben altro che un’ammissione scontata ancorchè genuina e l’omicida della giovane donna, già con l’aggravante che gli viene contestata ha come previsione di pena l’ergastolo senza bisogno che vi si aggiunga la premeditazione. Con l’ergastolo dopo dieci anni non si esce: tutt’al più si può avere la semilibertà dopo venti…e non è affatto scontato né automatico e coloro che potrebbero indignarsi anche per questo guardino a sistemi penali come quello spagnolo o il norvegese (giusto per citarne un paio) che il “fine pena mai” neppure lo prevedono.

    Viene allora da chiedersi il perchè di questa uscita fuorviante, anzi dannosa in quanto disorienta l’opinione pubblica cui compete – per disposto costituzionale – il controllo sull’operato della magistratura: la risposta, francamente, è da rinvenirsi di più nella malafede che non nell’ignoranza ma non è motivo di conforto come non lo sarebbe nessun’altra spiegazione; ed il fine ultimo quale sarà?

    Viene però da chiedersi come mai, già che c’era, questo ardito censore, non ha inserito nella sua lectio magistralis di diritto penale e penitenziario anche dei riferimenti a cosa rischiano i suoi incliti colleghi recentemente arrestati (una a Latina e l’altro a Bologna ma proveniente da Lecce) che vendevano la funzione giudiziaria al miglior offerente, o meglio facevano commercio di remunerativi incarichi destinati a commercialisti ed avvocati amici con i quali si spartivano poi la cagnotte. Poverelli! In fondo non hanno ucciso nessuno e poi tenevano famiglia: se per uno spietato assassino dieci anni sono il rischio massimo, per un po’ di mercimonio sulle curatele fallimentari e l’amministrazione di aziende sequestrate quale potrà mai essere la pena?

    Ora c’è solo da attendersi che i populisti e i forcaioli in servizio permanente effettivo affiancati da cialtroneschi pseudo giuristi ne seguano l’esempio strumentalizzando un atroce fatto di cronaca: avanti arditi, sentiamo chi la spara più grossa.

  • In attesa di Giustizia: Cantonate

    Si sa, la giustizia degli uomini è per sua natura imperfetta: tuttavia è motivo di riflessione che questa rubrica non sia mai a corto di argomenti e, talvolta, sia necessario farne una selezione e qualcun’altra – come questa settimana – una sia pur sintetica rassegna.

    Abbiamo un triplete di notevoli cantonate (ogni riferimento a fatti o persone realmente esistite NON è puramente casuale) che rende difficile la scelta da quale partire: la Procura di Milano, però, dà sempre soddisfazioni e merita la citazione d’esordio.

    Andrea Padalino è un magistrato che ha esercitato le sue funzioni anche a Milano, oltre vent’anni fa come giudice per le indagini preliminari impegnato in delicate indagini del filone “Mani Pulite”, per quanto “delicato” non sia il termine che meglio si adattava ai metodi di quella Autorità Giudiziaria.

    Alla gogna mediatica per quattro anni mentre era in servizio a Torino ed essendo finito sotto processo proprio a Milano, che è competente per i reati attribuiti ai magistrati piemontesi, il Dott. Padalino è stato assolto con una motivazione ampiamente esaustiva della pochezza delle accuse mossegli principalmente fondate sulle cosiddette “intercettazioni a strascico”. Cioè non quelle riferibili direttamente l’indagato ma di altri.

    Non paga, la Procura di Milano ha proposto appello contro l’assoluzione di Padalino (qui le assoluzioni danno i mal di pancia) ma, pervenuto il processo in Corte d’Appello, il rappresentante della Procura Generale vi ha rinunciato: né più né meno che quello che era successo con l’opaca indagine ENI – NIGERIA di cui questa rubrica si è occupata ed ancora con la Procura Generale a mettere un argine alle cantonate dei P.M..

    Nel frattempo, a Palermo, qualcuno si è accorto, dopo due anni, che un uomo che era stato assolto non è mai stato scarcerato, sia pure dagli arresti domiciliari ove si trovava. Un destino beffardo, per un signore per di più affetto da problemi psichici, ha voluto che il suo difensore morisse subito dopo la sentenza ma l’onere di disporre la scarcerazione non competeva certamente a lui, che poteva solo comunicare la buona notizia, bensì all’Ufficio Giudiziario che lo aveva giudicato, avvisando all’Autorità di Polizia addetta ai controlli perché venisse formalmente notificata. Invece, niente! Poco male, penserà qualcuno, tanto c’era il covid ed era meglio stare a casa anche quando non si era obbligati: quasi, quasi questa cantonata è stata un bene.

    Insomma, non proprio: tecnicamente è un reato che si chiama sequestro di persona e qualcuno (o più di uno) ne dovrà rispondere partendo dagli accertamenti sulla possibile mancanza di comunicazione tra la cancelleria del tribunale e le Forze dell’Ordine destinatarie dell’ordine di scarcerazione.

    Per finire (ma potrebbe non finire qui, è solo questione di spazio): a Perugia si chiude, anzitempo ed a sorpresa con un patteggiamento, il processo a carico di Luca Palamara.

    Dopo anni di indagini, la contestazione di reati gravi ed infamanti che autorizzarono  l’inserimento del captatore informatico (il famigerato trojan) nel cellulare dell’indagato con un costo investigativo elevatissimo, proprio alla vigilia del dibattimento la Procura ci ripensa e presta il consenso alla richiesta di accordo sulla pena avanzata dalla difesa dell’ex dominus dell’ANM previa modifica dell’imputazione in traffico di influenze: che altro non sarebbe che il vecchio millantato credito, cioè un reato da imbroglioncelli di periferia che può dirsi adeguatamente punito con un anno di reclusione e la condizionale che il Tribunale ha ratificato. Per Palamara, così ha dichiarato, è solo un modo per liberarsi dal peso dei processi senza ammettere alcuna responsabilità. Un po’ come la Juve, sostanzialmente.

    I malpensanti hanno già sospettato che sia soluzione gradita un po’ a tutti perchè argina l’estrazione di ulteriori sassolini dalle scarpe che Palamara avrebbe potuto far culminare in una terza puntata, dopo quelle andate in onda nel salotto di Sallusti, durante pubbliche udienze. O, forse, a Perugia avevano semplicemente preso una Cantonata dall’inizio ed era ora di porvi rimedio.

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