Giustizia

  • In attesa di Giustizia: giustizia vista mare

    Trani è una città meravigliosa, affacciata su un mare cristallino, ricca di storia, di cultura, di bellezze architettoniche: tra queste vi è Palazzo Torres, edificio del XVI secolo, dirimpettaio della Cattedrale romanica, adibito agli Uffici Giudiziari ed ospita una delle Procure più fantasiose della Repubblica specializzata in quella giustizia creativa di cui questa rubrica si è interessata alcune settimane fa. Creativa non meno che birichina, per usare un garbato eufemismo.

    Chi scrive ha sperimentato quasi tutte queste caratteristiche nel corso di oltre un lustro destinato prima alle indagini e poi alla celebrazione di un processo la cui impalcatura accusatoria era altrettanto eufemistico definire strampalata: proveniva conforto dalla vista dell’Adriatico dai finestroni dell’Aula dove si celebrano i processi penali e da un collegio difensivo di grande competenza e simpatia.

    Tra noi difensori diventati grandi amici, al piacere di condividere quella trasferta si aggiungeva però la preoccupazione per il destino del giudizio ma non tanto perché si dubitasse dell’esito favorevole quanto per le voci che si rincorrevano sistematicamente circa l’imminente arresto di alcuni magistrati locali e quello che ne sarebbe potuto derivare. Alla fine furono in tre: due P.M. ed il loro Capo, nel frattempo transitato a dirigere la Procura di Taranto (dove, pure, sembra abbia fatto danni) ma il nostro processo, sia pure tra molte difficoltà, era nel frattempo approdato alla scontata assoluzione di tutti gli imputati.

    Come si è anticipato, la fantasia non era mancata nemmeno nel formulare quelle imputazioni, nel solco di una tradizione dei Procuratori tranesi che sembra  privilegiare  l’estro del momento più che un coscienzioso studio del codice penale: dall’indagine sulle agenzie di rating, a quella nei confronti di Deutsche Bank per la vendita di titoli di Stato italiani, per proseguire con l’inchiesta sulle presunte pressioni di Silvio Berlusconi per la chiusura della trasmissione Annozero, passando per le investigazioni a carico di dirigenti dell’American Express per truffa e usura; ciliegina finale sulla torta, un’ultima sul legame tra vaccino e autismo. Cosa c’entrasse Trani in tutto questo non è neppure ben chiaro.

    Procedimenti, uno per l’altro, terminati con un nulla di fatto e tutti a firma del medesimo magistrato: uno score da fare impallidire persino Gigino De Magistris, meglio noto, ai tempi della sua esperienza catanzarese da P.M., come “Gigi Flop” o anche il Pubblico Mistero (senza la n!) in ragione della miserevole sorte delle sue elefantiache indagini.

    A Trani, però, come si è già annotato, sono anche birichini e altri due P.M. (uno è proprio l’eccentrico inquirente le cui gesta sono state poco sopra celebrate) sono stati recentemente condannati in via definitiva a severissime pene – quattro mesi uno e sei mesi l’altro – per avere interrogato alcuni testimoni cercando di ottenere la confessione di avere pagato delle tangenti con la moral suasion all’altezza di una caserma della gendarmeria di Ouagadougu e sollecitazioni a liberarsi la coscienza con frasi del tipo: “dal carcere c’è una visuale sul mare stupenda e, secondo me, col problema che ha le farebbe pure bene…”. A Trani sono vista mare anche le patrie galere.

    Delicatissimo, come direbbe Christian De Sica, se non altro in confronto ai metodi inquisitori dei domenicani.

    I lettori vorranno, a questo punto, sapere che destino attenda ora questi due: in galera non andranno perché la pena è con la condizionale e nel frattempo sono rimasti a svolgere le loro funzioni. D’altronde, c’è scritto in tutti i Tribunali che “La legge è uguale per tutti” …perché avrebbero dovuto essere discriminati rispetto ai colleghi di Milano che, peraltro, sembra si siano in tempi recenti “limitati” a nascondere le prove a discarico degli imputati e non ad estorcere confessioni? E sono rimati al loro posto.

    Riflettendo su usi e costumi “milanesi”, anche all’epoca di Mani Pulite si usavano metodi intransigenti per ottenere confessioni ma, se non altro, erano un po’ meno grossier.

    Ebbene, l’autorevole e rigoroso Organo di autogoverno della magistratura si è pronunciato da qualche giorno ed i due P.M. di Trani sono stati sospesi per un po’ a riflettere sulle loro birichinate e poi, via! A Torino a fare i Giudici Civili, quasi evocando con la nuova funzione una virtù dimenticata e da coltivare: la civiltà. Questa volta, tuttavia, non nella veste di parte processuale che può solo avanzare richieste ma di decisori delle cause loro assegnate in un settore del diritto che non hanno mai praticato e per il quale si può solo sperare che abbiano attitudini migliori sconfessando l’antico adagio: studia, studia, altrimenti finirai a fare il pubblico ministero.

  • In attesa di Giustizia: la dolce vita

    Lo stupore non è mai troppo e non ha mai fine: con il passare del tempo ed il succedersi degli eventi che, all’atto pratico, ne svelano le caratteristiche, la Riforma della Giustizia “Cartabia” si propone come una delle più “bizzarre” (diciamo così) tra quelle cui una legislazione sistematicamente sciatta ed approssimativa ci ha abituato da decenni. Queste le ultime due perle.

    Il Ministro brasiliano della Cultura, una distinta signora, si è recata in visita ufficiale alla biennale di architettura di Venezia: volendo visitare la città, apprezzandone da vicino tutte le caratteristiche, ha scelto di muoversi a piedi ed in vaporetto come una turista qualsiasi. E come una turista qualsiasi è stata borseggiata.

    Recatasi in Questura per fare la denuncia si è sentita rispondere che non era possibile poiché è una cittadina straniera non residente in Italia: come tale, non in grado di assicurare la sua presenza all’eventuale processo a carico dei presunti colpevoli se mai verranno individuati. Dunque niente denuncia, niente indagini neppure di facciata tra le centinaia di borseggi che ogni giorno vengono commessi. Evviva! La Patria è salva, l’Unione ha plaudito alla riforma e versato i fondi del PNNR; gioiscono soprattutto i borseggiatori che – da sempre – si garantiscono la maggiore fonte di guadagno proprio nelle città più apprezzate dai turisti stranieri come Venezia, Firenze e Roma mentre tanto tempo viene risparmiato da Questure e Procure tra scartoffie ed indagini evitate e udienze non celebrate.

    Dolce la vita per i taccheggiatori: impunità per tutti, per legge. Fare di peggio era molto difficile.

    Il secondo “capitolo” riguarda la riforma che, nella parte dedicata all’Ordinamento Giudiziario, contrasta con autentico calvinismo il fenomeno delle “porte girevoli”: con ciò intendendosi la transumanza dei magistrati dall’Ordine Giudiziario alla politica e ritorno.

    Il primo a sperimentare il rigore della “Cartabia” è stato, proprio in questi giorni, Cosimo Ferri: uno che negli ultimi diciassette anni ha fatto il magistrato solo per tre passando dalla poltrona al CSM a una di deputato e da qui a quella di sottosegretario alla Giustizia, poi ancora alla Camera (attraversando anche quasi tutto l’arco costituzionale: dal PdL a Forza Italia, da qui al PD e infine a Italia Viva) per poi dimettersi all’improvviso circa un anno fa e candidarsi come sindaco a Carrara (amoreggiando con la Lega). Nel frattempo era assurto agli onori della cronaca per il coinvolgimento nell’affaire Palamara che gli è già costato una (modesta) sanzione disciplinare.

    La carica di primo cittadino è stata mancata ma un seggio come consigliere comunale è sufficiente per rientrare nel nuovo regime perché l’elezione è stata successiva alla entrata in vigore del nuovo Ordinamento Giudiziario: ora il Dott. Ferri si è dimesso anche dal Consiglio Comunale facendo richiesta di rientrare in ruolo ma – come se non lo sapesse – il Consiglio Superiore gli ha opposto il divieto previsto dalla “Cartabia”.

    Perché mai, e ora cosa farà? In questi casi la riforma prevede che il magistrato ex politico venga messo fuori ruolo per il resto della sua vita (!) con assegnazione al Ministero di appartenenza, mantenendo il trattamento economico maturato in base al grado a cui si aggiunge un piccolo contributo di 5.000 euro netti al mese come argent de poche per la nuova e prestigiosa funzione assunta.

    Già, ma quale funzione andrà a ricoprire un magistrato destinato a restare tutta la vita all’interno del Ministero? Non c’è che l’imbarazzo della scelta: da Capo di Gabinetto del Ministro a Direttore Generale degli Affari Penali (posto che fu di Giovanni Falcone), oppure Capo Dipartimento dell’Ufficio Legislativo…. ma ci sono anche posticini come Vice capo Dipartimento o semplice componente.

    Il posto più ambito (e per un condannato all’ “ergastolo del Ministero” prima o poi può arrivare) è quello di Capo Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria il quale, in quanto Capo anche di una Forza di Polizia (la Penitenziaria, appunto), e pur non sapendo nulla della gestione di una struttura militarizzata, ha un trattamento aggiuntivo equiparato a quello degli altri Comandanti di Forze dell’Ordine: 320.000 euro all’anno che una generosa normativa gli fa conservare una volta cessata la funzione ed incidendo sul trattamento pensionistico finchè morte non li separi ma con garanzia di reversibilità.

    Dolce la vita anche per i magistrati eternamente fuori ruolo.

  • In attesa di Giustizia: il giorno della civetta

    “Civetta” è il nome dato a quelle locandine posizionate fuori dalle edicole con la più sensazionale delle notizie disponibili in evidenza così da sollecitare l’acquisto del giornale. Una di queste, richiamando l’articolo di un quotidiano locale veneto (non importa di dove e quale sia la testata), qualche giorno fa strillava: “LEGGE CARTABIA – IMPUTATI ASSOLTI”.

    “Quattro gravi incidenti per i quali non ci sarà una verità giudiziaria” veniva precisato nell’articolo.

    La clamorosa notizia si riferiva a processi per lesioni stradali in realtà non definiti con irragionevoli assoluzioni ma con sentenze di non doversi procedere per mancanza di querela.

    Ovviamente, mancava una spiegazione per i non addetti ai lavori perchè l’esigenza degli organi d’informazione è piuttosto quella di assecondare una subcultura affamata di processo penale e vendetta.

    Per ogni fatto, anche il più modesto e banale, anche di fronte all’incuranza della persona offesa, dev’esserci una “verità giudiziaria” e una condanna dell’imputato, preferibilmente “esemplare”.

    Sarebbe stato, invece, opportuno spiegare che quelle non erano assoluzioni e tantomeno ingiuste ma che, da quest’anno, per le lesioni stradali non aggravante da guida in stato di ebrezza, velocità superiore al doppio di quella consentita, passaggio con il rosso ecc… si procederà soltanto se la vittima ne ha fatto richiesta: esattamente come avveniva prima della legge del 2016 sull’omicidio stradale.

    Sarebbe stata l’occasione per informare che, per i fatti precedenti alla entrata in vigore della riforma Cartabia”, era stato previsto un termine di tre mesi a decorrere dal 1° gennaio 2023 per presentare la querela, se mancante.

    Quali e quanti articoli sono stati scritti per comunicare, in tempo utile e termini comprensibili, queste notizie che per i cittadini potevano rivestire interesse?

    Sarebbe stato corretto anche precisare che il semplice ritorno al precedente sistema è stato frutto di una scelta normativa una volta tanto sensata e come tale accolta dall’unanime favore dai giuristi.

    Negli ultimi sei anni bastava un banale tamponamento per avviare un processo e sopportare lunghe sospensioni della patente di guida: numerosissimi erano i procedimenti, che – oltretutto – assorbivano risorse ed energie, magari a fronte dell’incuria della persona offesa la quale, lievemente danneggiata e probabilmente già risarcita dall’assicurazione, non aveva alcun interesse alla persecuzione penale del colpevole.

    Dove sono, allora, lo scandalo e l’allarme?

    La “Riforma Cartabia” – tra luci e ombre – ha introdotto alcune novità di rilievo e tra queste vi è proprio l’estensione dei reati procedibili a querela di parte: se la persona offesa non si attiva perché carente di interesse il processo non si fa. Macchinoso, per fare un altro esempio, ma non privo di senso l’istituto che prevede la sentenza di non doversi procedere per gli irreperibili: che senso ha giudicare dei fantasmi? Ferma restando la possibilità di riaprire il procedimento se la persona viene successivamente trovata e identificata.

    In Italia si celebrano troppi processi inutili (spesso dedicati a fatti di poco o nullo allarme sociale) e si deve aggiornare il sistema con la previsione di pene diverse dalla reclusione: ciò per evitare il sovraffollamento carcerario, sia perché tutti gli studi statistici dimostrano che chi sconta la pena con una misura alternativa alla detenzione ha un rischio di recidiva inferiore.

    E’ l’Europa che lo richiede la riduzione dei tempi di durata del processo penale è cruciale per accedere ai fondi del piano Next Generation EU.

    Ma tutto ciò ci è prima ancora richiesto da elementari principi di civiltà giuridica, che vedono nel processo penale il luogo di accertamento della responsabilità per i fatti più gravi e che ritengono che la sanzione carceraria sia una extrema ratio.

    Scrivere queste cose può avere meno appeal in una certa fascia dell’opinione pubblica che invoca la gogna sempre e comunque: ma qui siamo su Il Patto Sociale, non allochiamo “civette” sensazionalistiche dinanzi alle edicole e cerchiamo di offrire una comunicazione corretta e chiara che, se mai, stimoli il lettore alla riflessione.

    In questa rubrica continueremo a invocare i principi del diritto penale liberale perché siamo certi che la cultura dei diritti, per quanto a volte controintuitiva, sia l’unica possibile in uno Stato autenticamente democratico.

  • In attesa di Giustizia: giustizia creativa

    Nello scorso numero, commentando la sentenza definitiva nel processo c.d. “Trattativa Stato-Mafia” si è parlato di reato inesistente: con quel termine si intendeva alludere ad una imputazione talmente campata in aria che per disperdere tutta l’aria fritta su cui si poggiavano i teoremi accusatori ci sono voluti una dozzina di anni ed un discreto dispendio di energie e risorse economiche.

    E’uno di quei casi in cui si parla di giustizia creativa, senza che a quella creatività debba essere riconosciuto alcun pregio artistico e che si ha quando vengono applicate regole che non ci sono oppure non applicano quelle esistenti. A Milano si è, addirittura, coniato un termine omnicomprensivo delle “licenze poetiche” concesse (non si sa da chi) in sede giudiziaria: rito Ambrosiano, come la Messa.

    Un paio di esempi possono contribuire a comprendere meglio; prendiamo come spunto il furto in abitazione: uno sgradevole evento i cui contorni ognuno conosce e che nel codice penale è descritto come il fatto di “chiunque si impossessa della cosa altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora“. Privata dimora: se la lingua italiana non è un’opinione è un luogo in cui qualcuno svolge attività proprie della sua vita privata, appunto, e nel quale altri non possono accedere senza il suo consenso.

    Ebbene: la Corte di Cassazione, non il Giudice di Pace di Capracotta, ha considerato “privata dimora” anche una farmacia durante l’orario di apertura, il ripostiglio di un esercizio commerciale, l’interno di un bar ed altri fantasiosi luoghi così da imporre l’intervento regolatore delle Sezioni Unite, nel 2017. Quasi spassoso è un altro esempio e riguarda il reato di sostituzione di persona, che è commesso da “chiunque, al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a sé o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici, è punito, se il fatto non costituisce un altro delitto contro la fede pubblica, con la reclusione fino ad un anno“. Ebbene, tutto ci si aspetterebbe tranne che questo crimine venga attribuito al “marito fedifrago che si finge divorziato per carpire nuove conquiste“.

    Per la Cassazione, nell’anno del Signore 2016, quella non è una menzogna da balera ma un reato caratterizzato dal dolo di profitto. L’elenco potrebbe continuare a lungo ma fermiamoci qui.

    Per concludere con una nota di colore che richiama sia quello che abbiamo chiamato “rito Ambrosiano” sia profili di cosiddetta giustizia domestica dei magistrati (più o meno creativi): sappiano i lettori di questa rubrica che  il Consiglio Giudiziario di Milano – una istituzione locale, del cui apporto il C.S.M poi si avvale nel valutare i progressi in carriera e la professionalità dei magistrati – ha gratificato con “eccellente” l’operato del Procuratore Aggiunto Fabio De Pasquale: proprio quello che è sotto processo a Brescia, sospettato di avere occultato le prove a favore degli imputati (comunque tutti assolti nonostante gli sforzi nel truccare le carte) del processo denominato “ENI – Nigeria”, un’indagine di presunte ed inesistenti tangenti massacrata dalle fondamenta prima in Tribunale e poi in Corte d’Appello. L’uomo, tuttavia, sembra essere pronto per assumere incarichi ancor più di rilievo e prestigio.

    A fronte di un simile esempio di eccellenza non servono parole di commento ma viene da domandarsi chi siano – se mai ve ne sono – ed in quale abisso di inettitudine siano relegati quelli scarsi.

  • In attesa di Giustizia: Nessun dorma

    Nessun dorma! Nemmeno le motivazioni della sentenza della Cassazione costituiranno i titoli di coda del b-movie giudiziario noto come “trattativa Stato-mafia” costruito con un canovaccio scadente intorno ad un reato esistente solo nella fantasia dei suoi approssimativi sceneggiatori.

    Uno tra questi – il celebre fallito Antonio Ingroia – ha subito alzato la voce lamentando il mancato lieto fine non pago che per oltre dieci anni sono finite nel tritacarne mediatico-legale la  dignità, onorabilità, salute psicofisica di protagonisti della lotta (quella vera) alla criminalità organizzata, additati come traditori e dati in pasto alle milizie dei professionisti di quell’antimafia che con la lotta alla mafia non ha nulla a che fare, ma vale a costruire carriere, fortune editoriali ed economiche, successi politici (sempre con l’eccezione di Ingroia passato all’avvocatura, dopo disastrosi tentativi in altri settori, e recentemente colpito dalla irreparabile perdita di Gina Lollobrigida, sua unica cliente).

    I professionisti dell’antimafia, normalmente, danno il meglio di sé nel distruggere carriere, fortune politiche e patrimoni altrui… e la vecchia guardia muore ma non si arrende.

    C’è tutto un mondo che prospera grazie alla narrazione di sponde, collusioni e complicità istituzionali delle quali si avvantaggia la mafia: una verità che viene poi sviluppata in termini iperbolici, quasi maniacali, nella convinzione che nessuna lotta alla mafia sarà degna di questo nome se non sarà rivolta agli intrecci istituzionali anche quando l’inchiesta giudiziaria non ne coglie traccia. E se non ne coglie è una inchiesta marginale oppure è essa stessa contaminata da correità oscure.

    Questo genere di narrazione ha una straordinaria forza comunicativa ed affascina la pubblica opinione, avvantaggiandosene e criminalizzando chi osi metterla in dubbio. Ecco allora che nessuna indagine su fatti di criminalità mafiosa risulta immeritevole di considerazione senza il coinvolgimento di qualche insospettabile di alto rango ed il preteso disvelamento di combutte istituzionali: più forte, allora, sarà la ricaduta mediatica e la fortuna dell’inchiesta: quella sulla “Trattativa” ha rappresentato l’acme di questo fenomeno perché giunta di fatto ad “inventare” – attraverso una forzatura giuridica da subito evidentissima – l’inesistente reato di “trattativa”, per poter affermare che proprio coloro ai quali erano affidati ruoli di vertice nel contrasto al crimine organizzato erano in realtà corrivi con esso nel ricattare il potere statuale e con ciò alimentando il consenso della opinione pubblica.

    Anche ora, dopo una decisione che dovrebbe solo comportare scuse nei confronti delle vite spezzate, infangate ed umiliate di innocenti servitori dello Stato, è dato leggere commentatori che scrivono di mafia che “tratta da sola”, ed altre imbecillità assortite del genere. Come al solito, ne abbiamo parlato di recente, a fare scandalo sono le assoluzioni ed è maturo il tempo per raccogliere interviste contrite, ma più probabilmente aggressive ed avvelenate, dei responsabili di questa bufala giudiziaria che invece di essere chiamati a rispondere del male che hanno seminato a piene mani, saranno gli eroi dolenti ma indomiti di quella vera e propria casta invincibile cui appartengono, tra gli altri, amministratori giudiziari degli immensi patrimoni di aziende sequestrate, spolpate e poi restituite come stracci bagnati, solo perché gli  incolpevoli proprietari, solo perché sono stati sospettati di inesistenti prossimità mafiose. Per non parlare di quelli che rubano persino l’origano alle mense scolastiche ma vengono insigniti del cavalierato per l’impegno nella difesa della legalità.

    C’è pertanto, tristemente, da temere che nemmeno una sentenza della Cassazione (oltre una precedente della Corte d’Appello di Palermo), varrà a ristabilire la verità.

    Nessun dorma! E c’è chi si è già messo alacremente all’opera: per la quinta volta la Procura di Firenze tenta di far decollare l’inchiesta sulle stragi con Berlusconi e Dell’Utri come mandanti sebbene il teorema su cui si regge confligga proprio con gli esiti del processo “Trattativa” oltre che difettare completamente di logica, ed è smentito pure dagli ascolti delle intercettazioni di Totò Riina che definì l’ex Premier “un inutile palazzinaro” e dalla subitanea caduta del Governo nel 1994.

    Questa è un’altra storia di cui dovremo riparlare, un sequel evitabile per il finale scontato, messo in scena dalla narrativa dell’antimafia militante preconizzata da Sciascia che non intende cedere il suo potere, il più grande che si possa esercitare: dividere il mondo in buoni e cattivi a proprio piacimento ed impunemente traendone, infine, insperate ed imperdibili fortune.

  • In attesa di Giustizia: un medley triste

    Chi ricorda i medley, favolosi mix – su dischi rigorosamente in vinile – di musiche da hit parade anni 80?

    Ecco, questa volta ci sarebbero tante di quelle notizie da commentare che la rubrica ne proporrà una sorta di medley che, però, non mette certo allegria e non è neppure esaustivo: solo il peggio del peggio (forse).

    Proprio al termine di una settimana in cui vi sono stati tre giorni di astensione degli avvocati per protestare contro i ritardi delle annunciate – ed indispensabili – riforme ed il Ministro Nordio che sembra avere il freno a mano tirato dalla sua stessa maggioranza, possiamo cominciare accennando ad alcune iniziative di legge che, invece, bollono in pentola nel settore della giustizia.

    Nel pensiero liberale è fondamentale l’idea che la sanzione penale sia la “extrema ratio” di fronte a comportamenti che attentano all’ordine sociale ed alle regole del buon vivere comune: l’esatto contrario, dunque, di quanto si è invece da tempo radicato nella linea di pensiero prevalente quale che sia la forza politica al timone del Paese; ed ecco che alcuni parlamentari oggi in carica propongono di introdurre, per esempio, il reato di istigazione alla anoressia e quello di omicidio colposo nautico mentre prende corpo l’idea di istituire la Procura nazionale anti-stragi, qualunque cosa possa mai significare.

    Invece che documenti parlamentari sembra di sfogliare le pagine di quel leggendario giornale satirico che era Il Male. In un indimenticabile e preveggente fumetto aveva rappresentato un magistrato con l’obiettivo di immaginare nuovi, possibili, reati da contestare ai movimenti politici extraparlamentari, tra i quali, in un crescente delirio punizionista, finiva per proporre l’onnicomprensivo crimine di “torto marcio”. Siamo ormai ad un passo: la satira politica è diventata cronaca della realtà.

    La matrice di questi grotteschi spropositi è sempre la stessa: la cronaca di fatti che colpiscono la pubblica opinione e, dunque, chissà se alla prossima sciagura -per dire- causata da un trattore, non dovremo attenderci la introduzione dell’omicidio colposo agricolo mentre ancora più misterioso è il percorso logico che ha alimentato l’idea del reato di istigazione alla anoressia.

    Andiamo avanti: in quel di Roma, il Tribunale nega il rinvio di un’udienza sostenendo che per una madre-avvocato non costituisca legittimo impedimento dover accompagnare il figlioletto ad una delicata visita medica. Motivazione: “poteva pensarci il padre” …. Nel frattempo, a pochi chilometri di distanza, a Latina, finisce in manette per corruzione un giudice (donna anche questa) che pare distribuisse – non gratuitamente –  ricchi incarichi nell’ambito delle procedure di amministrazione dei beni sequestrati a diversi professionisti della zona, compreso il proprio compagno: perché la famiglia è un’istituzione da sostenere; nel provvedimento di cattura il quadro probatorio è definito “granitico”.

    La medesima Procura, quella di Perugia che è competente per i reati attribuiti ai magistrati laziali, nelle stesse ore ha modificato l’imputazione a Palamara da corruzione ad un reato meno grave che gli consentirà di patteggiare. A pensar male si fa peccato ma non si sbaglia e la sensazione è che si sia preferito “silenziare” Luca Palamara che quando apre bocca fa sfracelli: ed in un dibattimento pubblico non sarebbe proprio il caso dopo essere già passato due volte dal confessionale del Direttore Sallusti. Meglio un rapido e riservato accordo sulla pena che – tra l’altro – gli evita il carcere e lo stress del processo.

    Più a nord, intanto, l’Orsa JJ4 pare avere già imboccato “il miglio verde” ed in questo caso non sembra proprio che il Governatore sia intenzionato a concedere la grazia. A sua difesa si è mosso, tra  gli altri,  l’Ordine Provinciale dei Veterinari che –  riunitosi d’urgenza e richiamando le norme del codice deontologico della categoria – ha invitato tutti i colleghi a non assumere iniziative che possano provocare la morte dell’animale per eutanasia che non è giustificata né dalle sue condizioni di salute, né da pericoli per la popolazione perché già “in custodia”, senza contare che l’orso è specie protetta tutelata con legge dello Stato ed alcune associazioni si sono offerte di provvedere al trasporto in altri spazi, anche al di fuori del territorio nazionale e senza aggravio di spese pubbliche.

    A giorni, comunque, vi sarà udienza al TAR per deciderne il destino e JJ4 sembra avere fiducia nella magistratura. Beata lei.

    Anche questa vicenda è emblematica del fatto che siamo ormai precipitati in un gorgo di cultura autoritaria, dove il diritto penale e l’ossessione retributiva del dolore delle vittime sono diventati terreno di pascolo privilegiato della politica, mentre si ha un bisogno disperato di ben altro: conoscenza e comprensione del pensiero liberale. E l’attesa di Giustizia continua…

  • A cinquanta anni dal rogo di Primavalle far conoscere la vera verità sugli anni bui e le violenze atroci

    Sono d’accordo con l’on Walter Verini, del Partito Democratico, quando dice che la pacificazione, necessaria più che mai per l’Italia, non è un indistinto vogliamoci bene.

    Oso dire di più, non è affatto necessario volersi bene, quello che è necessario è rispettarsi, rispettare le persone e le idee, contrastare la violenza verbale che, prima poi, ingenera disprezzo e poi odio e violenza fisica, e su questo punto molta sinistra ha molta strada da fare ancora.

    Il rogo di Primavalle, la tragedia dei fratelli Mattei, bruciati vivi, e di tutta lo loro famiglia, che non ha mai avuto giustizia, rimangono un monito per ciascuno di noi sia che apparteniamo alla generazione che vide tanta feroce violenza per le strade o che siamo nati dopo, in anni più tranquilli.

    Il nostro passato più buio deve essere definitivamente affrontato se vogliamo costruire un futuro senza altre tragedie, se vogliamo che la giustizia come la pietà non restino parole sulla carta.

    Non occorre volersi bene, ognuno si sceglie amici e compagni di strada, chi ha fede sa di dover guardare al suo prossimo come guarda se stesso.

    Chi fa politica ha il dovere di bandire certe parole dal proprio vocabolario, di considerare avversari politici, e non nemici, coloro che militano in altri schieramenti e che la democrazia è tale solo quando governo ed opposizione sanno lavorare per il bene comune dei propri cittadini e non solo per il proprio tornaconto elettorale.

    Pacificazione è anche avere il coraggio di riconoscere i propri errori, non solo di enunciare quelli altrui, è volere fare chiarezza sul passato arrivando a quelle verità giudiziarie, che spesso sono mancate, ed effettuando vere indagini senza veli.

    Bisognerà andare nelle scuole a spiegare ai giovani cosa significa pacifica convivenza e rispetto reciproco mentre, purtroppo, atti di intolleranza e violenza sono sempre più diffusi e molti esponenti politici dovrebbero assumersi la responsabilità delle conseguenze negative che sono derivate dalle loro violente affermazioni.

     

  • In attesa di Giustizia: elegant dinners

    La culla del diritto (che sarebbe, poi, l’Italia: si può dire perché il 1°aprile è trascorso da poco) ha esportato oltreoceano uno dei suoi più recenti – rispetto ad immarcescibili istituti del diritto romano, come l’usucapione – prodotti giuridici: la giustizia di scopo ovvero ad orologeria.

    Ecco, ci mancava questo in un Paese che ritiene conseguito un traguardo di civiltà perché ai condannati a morte, invece che friggerli sulla sedia elettrica, viene iniettato un farmaco miscelato con dei sedativi (quando ci sono e quando se ne ricordano) che arresta il cuore mentre si apre il sipario davanti al boia ed un selezionato pubblico di invitati può assistere al supplizio come se fossero al Telegatto.

    Il riferimento è, chiaramente, al processone a carico di Donald Trump, rispetto al quale si è detto molto e molto confusamente, lasciando intendere che riguardi torbide storie di corruzione ma, in realtà non è così.

    Pagare una porno star (o, forse, due) per tacere a proposito di una trascorsa intimità, foss’anche prezzolata, non è un reato, soprattutto se il silenzio non è stato opposto in veste di testimone ad un’Autorità ma rispetto ai tabloid.

    Si dirà che, se di cotanta infedeltà coniugale si fosse subito saputo, la corsa per la Presidenza degli Stati Uniti poteva andare diversamente ed a favore di Hilary Clinton (una, tra l’altro, che ha esperienza in materia): ma se questo è il punto critico, il vero problema è che la prova di un ipotetico e bizzarro crimine di turbativa elettorale, conseguenza di inconfessati peccati contra sextum, risulta diabolica.

    Il tutto a tacer del fatto che non risulta che prima di allora “The Donald” sia stato un esempio di virtù maritali e non solo quelle: siamo, allora, al cospetto di un eccesso di puritanesimo tipico di una cultura rigorosamente calvinista, peraltro non nuovo su quelle sponde dell’Atlantico, verosimilmente valso a “colorire” un po’ l’iniziativa della Procura.

    Infatti neppure l’adulterio, probabilmente, è da considerarsi illecito penale ma non siamo così esperti nel diritto nordamericano (diverso per ogni Stato, più una normativa Federale) per escluderlo completamente se si tiene conto che, solo dopo la sentenza della Corte Suprema Lawrence vs. Texas del 2003 sono stati decriminalizzati una serie di atti sessuali (i lettori comprenderanno il riserbo nel declinarne dettagliatamente le caratteristiche in questa pagina) che ancora costituivano reato in ben quattordici Stati dell’Unione, eredità di norme coloniali britanniche con radici nella religione cristiana più risalente nel tempo.

    Insomma, a guardare bene tra i capi d’imputazione, si scopre che il problema non sono cene eleganti ed, ancor più, dopocena brillanti bensì il fatto di aver registrato come spese legali una trentina di fatture ad un legale per sistemare le Olgettine di laggiù e piuttosto che la mercede corrisposta alle signorine per i loro servigi ed il riserbo mantenuto in proposito.

    E qui ci sarebbe da discutere se una minuziosa fatturazione per prestazioni effettivamente svolte da un consulente, pur atipico, e pagate con soldi propri sia un reato tributario: ma si sa, a quelle latitudini con il fisco non si scherza e la storia di Al Capone lo insegna.

    Da qui a dire che elevare una montagna di incriminazioni per le quali l’accusato rischia – come pare – oltre un secolo e mezzo di carcere appare, sotto qualsiasi profilo, francamente eccessivo.

    Il vero problema che il caso Trump pone è, però, un altro: se sia solida una democrazia che per difendere se stessa dalla minaccia di un candidato ritenuto indegno e pericoloso debba ricorrere alla “giustizia di scopo”.

    Qui ne sappiamo qualcosa e l’esempio non sembra il migliore da seguire…saranno effetti della globalizzazione. Se qualcuno fosse punto da vaghezza di conoscere nel dettaglio l’indictement, il New York Times lo ha pubblicato per intero, battendo sul tempo Chi l’ha visto, Report e Quarto Grado:  basta collegarsi al sito per scaricarlo.

    Tra le imputazioni c’è anche la conspiracy che corrisponde più o meno alla nostra associazione a delinquere e sarebbe interessante capire perché nessuno degli altri presunti cospiratori sia stato chiamato alla sbarra – magari trascinato in catene come Amatore Sciesa – insieme all’ex Presidente cui, invece, è stato evitato l’oltraggio delle manette sebbene formalmente in arresto per una manciata di minuti.

    In conclusione, all’ombra dell’Empire State Building con perfetto tempismo rispetto alla imminente campagna elettorale, non si sono fatti mancare nulla o quasi di una coreografia che dai tempi di Mani Pulite ci è ben nota e di quello che non pare essere un modello di Giustizia da emulare.

  • In attesa di Giustizia: E tre!

    Per la terza settimana di fila questa rubrica si occupa di processi per gravissimi disastri in cui sono contestati reati colposi: e cosa ciò significhi, per il profano, si è tentato di spiegarlo con parole semplici proprio nel numero precedente. Questa volta è di scena il giudizio per crollo del Ponte Morandi con la cronaca – ed il commento – di una delle ultime udienze.

    Cronaca che staglia la distanza sempre più profonda che si va creando tra ciò che un processo penale dovrebbe essere, nel rispetto delle regole costituzionali ed ordinarie che lo istituiscono e lo governano, e ciò che si vorrebbe invece che diventi. E’ una cronaca che fa capire quale sia l’unica garanzia rispetto ad una montante deriva illiberale: e cioè l’indipendenza, la libertà morale e l’autorevolezza del Giudice.

    In aula vi è stata tensione altissima ed un durissimo botta e risposta tra la pubblica accusa ed il Tribunale, scaturita da una intemerata del P.M. il quale, azzardando un po’ di calcoli sul numero dei testimoni ancora da esaminare ed il ritmo delle udienze, prevede che l’istruttoria dibattimentale possa concludersi non prima del dicembre 2025, quando “alcuni dei reati più gravi” potrebbero essere già prescritti, sollecitando perciò un aumento del ritmo di celebrazione del processo, cambio di passo: un boccone ghiotto su cui la stampa si  è buttata a pesce, gridando a giustizia negata, alla prescrizione strumento di salvezza dei ricchi e dei potenti, eccetera. Il Presidente del Collegio si limita a giudicare troppo allarmistiche le previsioni del P.M. ma la mattina successiva ritorna sulla questione e definisce quello del PM un “proclama offensivo nei confronti del Tribunale” (che ha sospeso la trattazione di gran parte degli altri processi, per celebrare questo), e tocca il punto, che in questa, come in altre analoghe vicende processuali, viene sistematicamente ignorato. Se si ha a cuore l’aspettativa di una tempestiva risposta giudiziaria ad una simile tragedia “magari bisognava effettuare scelte processuali diverse e non contestare, ad esempio, un milione di falsi che devono essere accertati uno per uno” e conclude: “Se poi in quest’aula c’è qualcuno che ritiene che le sentenze si facciano senza processo, sbaglia”.

    Non può sfuggire il valore di questo accadimento, che va ben oltre la singola vicenda processuale, la quale ha peraltro tutti i crismi della parabola. Gli ingredienti ci sono tutti: processo di enorme impatto mediatico, aspettativa di condanne esemplari, diritti delle vittime dei reati rappresentati come incondizionatamente prevalenti sui diritti di difesa e sulla presunzione di non colpevolezza. Sullo sfondo, la fosca ed un po’ prematura previsione di una prescrizione salvifica. Sono già pronti i forconi, insomma. Ma ecco, diciamoci la verità, inatteso, un Giudice che – pur in un processo ad altissima esposizione mediatica – fa, imperterrito, il Giudice e sposta l’asse di quella lamentela del PM, come sempre occorrerebbe fare ma nessuno mai fa. Cominciamo a ragionare piuttosto – dice – su quanto siano durate le indagini, e se le scelte operate dalla Procura nell’esercizio dell’azione penale abbiano considerato la dimensione e l’impatto dell’accusa anche sui tempi del conseguente processo. Se si individuano 60 imputati e decine e decine di imputazioni, protraendo le indagini per anni, poi non si pretenda che gli imputati non si difendano con tutta la pienezza dei propri diritti. Ma è la seconda affermazione che merita ancora più ammirazione: questo Tribunale non è disposto a pronunciare sentenze senza processo. Nessuno si illuda – sostiene quel Giudice – di fare pressioni indebite, paventando populisticamente scenari drammatici che si vorrebbe addossare, alla fin fine, alla responsabilità del Tribunale da un lato, e del diritto di difesa degli imputati dall’altro. Parole dure che danno la esatta dimensione della solennità di ciò che il Giudice può e deve saper rappresentare nel giudizio penale, della indispensabilità della sua indipendenza da ogni forma di condizionamento, da ogni riflesso conformistico, da ogni sudditanza nei confronti di tutte le parti processuali. Ciò che, peraltro, deriva in termini di disillusone per chi è in attesa di giustizia è quando un accadimento come questo ci appare come una notizia straordinaria, quando invece dovrebbe essere una noiosa e scontata ovvietà. Ma il destino delle parabole è proprio questo: farti comprendere, quasi raccontandoti una favola, l’amara durezza della realtà nella quale ti trovi a vivere.

  • Ipocrisia e irresponsabilità di alcuni rappresentanti europei

    L’ipocrisia è un vizio alla moda, e tutti i vizi alla moda passano per virtù.
    Molière, da “Don Giovanni o Il convitato di pietra”

    Giovedì scorso, 16 marzo, a Tirana si è tenuto un altro vertice del Consiglio di Stabilizzazione ed Associazione tra l’Unione europea e l’Albania. Dopo il vertice è stata prevista e si è svolta anche una conferenza congiunta con i giornalisti del primo ministro albanese e delle due massime autorità della Commissione europea: l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, allo stesso tempo vicepresidente della Commissione europea, ed il Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di Vicinato. Si è ripetuto però e purtroppo lo stesso scenario. Come in tante altre precedenti occasioni durante questi ultimi anni, anche giovedì scorso, nonostante la vera, vissuta, sofferta e scandalosa realtà albanese, gli illustri ospiti europei hanno parlato di “successi” (Sic!). Ma a quali “successi” si riferivano? Forse a quelli attuati dalla criminalità organizzata, in stretta connivenza con il potere politico e con il primo ministro? O forse dei “successi” conseguiti dai rappresentanti istituzionali di tutta la gerarchia dell’amministrazione pubblica, centrale e locale, che hanno fatto della corruzione il loro principale obiettivo da raggiungere? Si riferivano, chissà, ai “successi” dei massimi rappresentanti politici, primo ministro in testa, che sono convinti e hanno da tempo dimostrato che l’abuso del potere a loro conferito, oltre ad essere un diritto, è anche un dovere da “onorare”? I due massimi rappresentanti della Commissione europea si riferivano anche ai “successi” raggiunti dalle istituzioni del sistema “riformato” della giustizia che niente hanno fatto e stanno facendo per far rispettare le leggi. Istituzioni che, fatti accaduti e che stanno tuttora accadendo, fatti documentati e testimoniati, fatti pubblicamente denunciati alla mano, sono sotto il controllo personale del primo ministro e/o di chi per lui. O forse avevano in mente i continui “successi” dell’economia del Paese, grazie ai quali la povertà sta diventando sempre più diffusa e sta colpendo sempre più cittadini? “Successi” che sono talmente tanti ed eclatanti che, da anni, stanno costringendo gli albanesi a scappare e chiedere asilo altrove, in altri paesi dell’Europa. E nonostante quei “successi eclatanti”, chissà perché, solo in questi ultimi anni hanno lasciato il Paese circa un terzo di tutta la popolazione residente in Albania?! Un simile spopolamento non si è verificato in nessun altro paese da dove partono dei profughi: paesi che da anni sono afflitti da guerre e da conflitti armati tra varie fazioni. Oppure, giovedì scorso, 16 marzo, i due massimi rappresentanti della Commissione europea, elogiando l’operato del primo ministro e del governo albanese, si riferivano ai “successi” dei massimi rappresentanti istituzionali, governativi e locali, che in questi ultimi anni hanno fatto dell’Albania un “porto franco” dove si riciclano dei miliardi del mondo della criminalità e dei raggruppamenti occulti locali ed internazionali e altri miliardi, prodotti dalla diffusa corruzione? Basta riferirsi però ai rapporti ufficiali del Moneyval (Comitato di Esperti per la valutazione delle misure anti riciclaggio e il finanziamento del terrorismo, struttura del Consiglio d’Europa; n.d.a.). oppure ai rapporti ufficiali di un’altra struttura specializzata, il FATF (Financial Action Task Force on Money Laundering, nota anche come il Gruppo di Azione Finanziaria (GAFI); specializzato  nella lotta al riciclaggio dei capitali di origine illecita e nella prevenzione del finanziamento al terrorismo; n.d.a.). Ebbene da alcuni anni l’Albania è uno dei Paesi osservati continuamente per il riciclaggio del denaro sporco. O forse i due massimi rappresentanti della Commissione europea avevano in mente i “successi” ottenuti dal primo ministro e dai suoi “consiglieri informali privati” a corrompere alti funzionari delle istituzioni, sia oltreoceano che delle istituzioni dell’Unione europea? Uno scandalo tuttora in corso negli Stati Uniti d’America, sul quale stanno indagando due procure e due commissioni parlamentari, vede proprio coinvolto anche il primo ministro albanese. Il nostro lettore è stato informato nelle precedenti settimane di questo scandalo (Collaborazioni occulte, accuse pesanti e attese conseguenze, 30 gennaio 2023; Un regime corrotto e che corrompe, 13 febbraio 2023; Angosce di un autocrate corrotto e che corrompe, 20 febbraio 2023; Un autocrate corrotto e che corrompe, ormai in preda al panico, 27 febbraio 2023 ecc…). Oppure i due alti rappresentanti della Commissione europea, quando parlavano di “successi”, si riferivano ai “successi” del primo ministro e/o di chi per lui a “convincere” i rappresentanti internazionali in Albania e soprattutto quei diplomatici statunitensi e dell’Unione europea della serietà e del massimo impegno del governo? Rappresentanti che, a loro volta, chissà perché, violano anche quanto previsto dalla Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche, una realtà quella, ormai nota da anni per il nostro lettore.

    Giovedì scorso, dopo il vertice del Consiglio di Stabilizzazione ed Associazione tra l’Unione europea e l’Albania, il primo ministro albanese, durante la congiunta conferenza con i giornalisti ha detto senza batter ciglio: “…noi siamo molto felici oggi mentre constatiamo che le cose sono andate come previsto […] e possiamo riconstatare l’andamento [positivo] della riforma di giustizia”. Affermando, sempre senza batter ciglio, perché è abituato a mentire, che: “La riforma di giustizia ha cominciato a dare dei frutti significativi” (Sic!). Per poi aggiungere, sempre riferendosi alla riforma di giustizia e sempre senza batter ciglio: “…sono fiero che l’Albania è l’unico Paese in tutta la regione che ha fatto questo passo. Ѐ l’unico paese che ha fatto questa riforma…”. L’unica frase dove ha detto una parte della verità. Perché la vera ed intera verità è che sono state proprio le istituzioni specializzate dell’Unione europea a sconsigliare fermamente altri Paesi balcanici, Macedonia del Nord compresa, a non intraprendere e attuare una riforma del sistema di giustizia come quella attuata in Albania! Una riforma che è stata ideata, programmata ed attuata in modo tale da garantire il controllo di tutte le istituzioni del sistema direttamente dal primo ministro. Ed è proprio quello che è successo in Albania. La saggezza popolare ci insegna che la lingua batte dove il dente duole. Mentre gli psicologi ci insegnano che il subconscio svela proprio ciò che si vuole nascondere. Si, perché il primo ministro albanese vuole proprio nascondere quello che ormai è pubblicamente noto non solo in Albania. E cioè il voluto ed ottenuto fallimento della riforma del sistema di giustizia.

    Durante la stessa conferenza con i giornalisti l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza, allo stesso tempo vicepresidente della Commissione europea, ha detto all’inizio del suo intervento: “Sono veramente felice di essere qui in Albania”. Poi, riferendosi al processo di integrazione europea dell’Albania, ha affermato: “…Noi vediamo e diamo il nostro benvenuto al chiaro orientamento strategico dell’Albania verso l’Unione europea”. Nel seguito del suo intervento davanti ai giornalisti l’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza ha detto: “Voglio ammettere e valutare chiaramente che questo Paese (Albania; n.d.a.) ha dimostrato un poderoso impegno nell’ambito delle riforme necessarie ed ha raggiunto risultati importanti, soprattutto nel campo della giustizia. L’Albania ha applicato una riforma radicale di giustizia che ha fatto passi in avanti in maniera sostenibile”. Poi, riferendosi alla presa di posizione dell’Albania in difesa dell’ordine basandosi al regolamento internazionale e alla Carta delle Nazioni Unite, ha dichiarato che quel posizionamento “…ha dimostrato chiaramente la qualità dell’Albania come un partner affidabile per la sicurezza”. Si, proprio così. Mentre sempre più spesso e senza ambiguità l’Albania viene considerato dai rapporti ufficiali delle più note istituzioni specializzate internazionali, comprese quelle dell’Unione europea, come un Paese che è diventato centro del traffico e dello smistamento delle droghe che arrivano sia dall’America Latina che dai paesi orientali. Dagli stessi rapporti l’Albania risulta essere un Paese dove la criminalità organizzata collabora con il potere politico. Ma risulta altresì che la criminalità organizzata albanese ormai sta diventando molto attiva e pericolosa anche in molti altri Paesi europei ed in America Latina. Alla fine del suo intervento davanti ai giornalisti, durante la sopracitata conferenza stampa, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza ha dichiarato che era una cosa buona di sapere che “…possiamo appoggiarsi ai nostri partner, soprattutto a quelli dei Paesi candidati (all’adesione nell’Unione europea; n.d.a.) come l’Albania.”. Si tratta di paesi come l’Albania, con i quali l’Unione europea condivide “…a 100% un posizionamento comune nel campo della politica degli esteri, che è un chiaro segnale della vostra volontà europea”. Chissà che informazioni gli hanno preparato i suoi collaboratori all’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la Politica di Sicurezza prima di venire in Albania il 16 marzo scorso? Ma una cosa è certa; dalle sue dichiarazioni risulta che lui ha fatto riferimento non alla vera, vissuta e sofferta realtà albanese, bensì ad una realtà virtuale, molto simile a quella che presenta sempre il primo ministro albanese e la sua potente propaganda governativa. Chissà perché?!

    Durante la stessa conferenza stampa con i giornalisti è intervenuto anche il Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di Vicinato. Lui ha cominciato dicendo: “Sembra che Tirana è un posto come si deve. Tirana è un posto come si deve per far venire gli europei.”. Ed era certo, dopo aver sentito il primo ministro albanese, che “…per l’Albania è proprio l’Europa la sua priorità geopolitica.”. Poi convinto il Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di Vicinato ha affermato, riferendosi all’Albania, che “abbiamo naturalmente visto quello che abbiamo raggiunto, quello che abbiamo raggiunto l’anno scorso. E l’anno scorso è stato un anno con tanti successi per l’Albania.”! Si, proprio così. E poi ha aggiunto impressionato: “quello che vediamo è che il progresso generale nel paese è ottimo”. E anche lui ha fatto riferimento alla riforma di giustizia. Ma nonostante tutti, non solo in Albania, si stiano convincendo sempre più, fatti accaduti e che stanno accadendo alla mano, che si tratta di un ideato, voluto ed attuato fallimento, lui, il Commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di Vicinato ha detto: “La riforma di giustizia sta dando dei risultati come lo vediamo […] ed incoraggiamo che l’Albania continui in questa direzione”. E rispondendo ad un giornalista, ha detto che in Albania ormai “…ogni cosa è al posto giusto.” (Sic!).

    Lo stesso giorno, il 16 marzo scorso, solo poche ore dopo la sopracitata conferenza stampa, durante un’altra conferenza stampa, i rappresentanti della Commissione per le rivendicazioni e le sanzioni presso la Commissione Centrale Elettorale hanno negato al maggior partito dell’opposizione di presentarsi come tale alle elezioni amministrative previste per il 14 maggio prossimo. Una decisione in palese violazione della Costituzione albanese e delle leggi in vigore. Un altro passo però “nella giusta direzione”, quella tanto voluta dal primo ministro albanese.

    Chi scrive queste righe pensa che cosa avrebbero detto i Padri Fondatori dell’Unione europea di tanta ipocrisia e irresponsabilità di alcuni rappresentanti europei, come quelli “illustri ospiti” che erano a Tirana il 16 marzo scorso. Di certo però i Padri Fondatori rispettavano i veri valori morali dell’umanità. Essi non avrebbero mai e poi mai pensato di basare la fondazione dell’Europa unita sull’ipocrisia e l’irresponsabilità dei suoi rappresentanti istituzionali e sulla “vendita d’anima” in cambio a chissà quali benefici. Purtroppo, anche adesso, dopo più di tre secoli, dobbiamo dare ragione a Molière, il quale era convinto che l’ipocrisia è un vizio alla moda e tutti i vizi alla moda passano per virtù. Come cercano di fare anche certi rappresentanti dell’Unione europea.

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