Giustizia

  • In attesa di Giustizia: cenacoli delle bestialità, tra malafede ed ignoranza

    Prima di iniziare la lettura dell’articolo di questa settimana può essere utile farsi delle domande e darsi delle risposte; per esempio, se si volesse commentare ed avere chiarimenti sulla trama che regge “2001 Odissea nello spazio” sarebbe preferibile come interlocutore un docente di fisica capace di illustrare con semplicità i fondamenti della teoria della relatività o affidarsi ad un direttore di banca il cui corso di studi si è bastato sull’approfondimento di temi prevalentemente economici? E se si dovesse affrontare una fastidiosa carie affidarsi alle cure un amico veterinario equivarrebbe a rivolgersi ad uno specialista in odontostomatologia?

    Ed infine: volendo un confronto autorevole su argomenti di diritto costituzionale la scelta migliore potrebbe essere Marta Cartabia o un sedicente drammaturgo che ha conseguito la laurea in lettere moderne con una tesi sui cantautori dal titolo “Amici fragili”?

    Anche no, vero? Invece al Fatto Quotidiano la pensano diversamente e ad uno così, tal Andrea Scanzi, oltre a farlo interessare di sport e musica, hanno affidato anche il commento a recenti affermazioni del Ministro della Giustizia.

    Ex editorialista di “Grazia” e “Donna Moderna”, Andrea Scanzi dopo aver sostenuto che Carlo Nordio sarebbe atterrito all’idea di confrontarsi con Marco Travaglio poiché ne teme tanto la capacità dialettica quanto la preparazione in diritto, ha sferrato a sua volta un temibile attacco al Guardasigilli sostenendo  che sia una sorta di pericoloso eversore, nemico della Costituzione (e quindi della democrazia e dei diritti fondamentali) avendo affermato che quest’ultima è in contrasto con il nostro sistema giuridico e, pertanto, sarebbe opportuna qualche modifica volta ad aggiornarla.

    Carlo Nordio, invero, ha detto una cosa un po’ diversa ed assolutamente corretta e cioè che è il codice che regola il processo penale a soffrire di incoerenza con la Costituzione e ciò per un motivo molto semplice: il codice vigente, di impostazione anglosassone e tendenzialmente accusatoria, è stato promulgato nel 1989 mentre la Carta fondamentale dello Stato è stata definitivamente approvata nel dicembre 1947 e – quanto alle garanzie processuali – si riferiva al codice del 1930, tipicamente inquisitorio.

    Certo, se uno ha nel curriculum il ruolo di Direttore Artistico del Premio Pigro ed una serie di comparsate a Tiki Taka – la Repubblica del pallone è, forse, meglio che continui ad occuparsi, come del resto ha fatto, del Processo del Lunedì con Enrico Varriale e non di processi penali.

    Certamente, con queste referenze non gli si può fare una colpa se ignora la circostanza che – proprio per le ragioni illustrate da Nordio – la Corte Costituzionale, a far tempo dal 1990 ha demolito pezzo dopo pezzo il codice di procedura penale facendogli perdere completamente l’assetto iniziale e lo spirito che avevano inteso infondergli gli ottimi giuristi che lo avevano scritto.

    Appare anche ovvio che se uno, quanto ad esperienza di giurie, ha trascorsi personali  al Club Tenco ed al Festival di Sanremo può non essere al corrente del fatto che nel 1999 (per la verità è passato un po’ di tempo: forse bastava chiedere ad Alexa al fine di aggiornarsi) per porre fine al martirio del codice è stata modificata proprio la Costituzione all’articolo 111 che oggi richiama pedissequamente l’articolo 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Qualcosa d’altro, come ha suggerito Nordio, ci sarebbe da fare volendo allinearla ai principi cardine che regolano il processo “alla Perry Mason” e come avviene nelle principali democrazie occidentali: facoltatività dell’azione penale e separazione delle carriere tra Pubblici Ministeri e Giudici.

    Concludendo, se uno è ignorante, nel senso letterale della parola, e cioè a dire ignora completamente l’argomento di cui sta trattando, rispeditelo a condurre Futbol su La 7 insieme ad Alessia Reato che, oltre ad essere una bella ragazza, nonostante il cognome con i crimini non c’entra nulla come i vaneggiamenti di Scanzi.

    Ma se uno è ignorante e pretende ugualmente di dire la sua  – seppur riferendosi ad un pubblico, quello dei lettori de Il Fatto Quotidiano che non si danno pace persino perché il Commissario Basettoni non è ancora riuscito a far prendere l’ergastolo alla Banda Bassotti – calando sugli ascoltatori il proprio verbo che è più storpiato dei congiuntivi di Antonio Di Pietro allora al peccato originale se ne aggiungono  altri:  si tratta di arroganza miscelata con mala fede.

  • In attesa di Giustizia: inimicizia con Dio

    E’ Natale e siamo – o  dovremmo essere – tutti più buoni. Invece no: il Ministro della Giustizia, con la illustrazione della sua agenda per la riforma della giustizia ha portato Travaglio ben oltre lo sbocco di bile, alle soglie del colpo apoplettico.

    Allineato perfettamente ai maitre à pensèr  pentastellati, delle cui fonti di intelletto si abbevera, ha chiarito in un editoriale la sua contraria opinione con la classica formula che prevede l’odio e l’insulto mescolati al nulla: “non vogliamo credere ad un amico avvocato, secondo il quale il P.M. Carlo Nordio era simpaticamente noto negli ambienti giudiziari veneziani come el Mona. Ma sappiamo che è molto spiritoso. Infatti le sue riforme fanno scompisciare dal ridere”.

    Il riferimento era non solo al tema della separazione delle carriere ma anche a quello delle intercettazioni telefoniche sul quale il Guardasigilli ha già iniziato a muoversi lamentandone l’eccessivo impiego ed, in particolare, la diffusione arbitraria e pilotata (spesso di stralci decontestualizzati e perciò insidiosamente equivoci).

    Parlando di imbecilli (che è la traduzione dal veneto di “mona” o, almeno, una delle due) Il Direttore de Il Fatto Quotidiano sembra dimenticare che tra i suoi “editori” vi sono personalità dello standing di Toninelli e Bonafede e suggeritori di impiego dei banchi a rotelle, delle primule e dei monopattini per contrastare la diffusione del covid: un esemplare di ognuno dei quali andrebbe esposto in tutti i musei a perenne memento di quanto sia rischioso affidare il potere ad una combriccola di politici improvvisati e cervelli disabitati scelti su una piattaforma online.

    Per fortuna, ad elevare il tono del dibattito ci ha pensato uno dei suoi più autorevoli sodali:  Piercamillo Davigo.

    L’ex P.M. di Mani Pulite – in maniera meno volgare ma comprensibile ha dato dell’ignorante a Carlo Nordio che farebbe uso di parole errate vaghe e strumentali – ospite di una ospitale rete televisiva ha esordito ricordando che la National Security Agency fa molte più intercettazioni delle nostre Procure e per di più non necessita nemmeno di autorizzazione dell’autorità giudiziaria.

    Esempio non del tutto calzante ma andiamo oltre: ha in seguito sostenuto che il segreto investigativo tutela le indagini ma non la reputazione degli intercettati. Bene ma non benissimo perché se è vera la prima affermazione la seconda non può costituirne un corollario: in due parole, seppure un’intercettazione sia lecita perché autorizzata nel rispetto dei presupposti di legge non è conseguente il farne impiego con possibile pregiudizio della onorabilità anche di persone estranee all’indagine ovvero coinvolte ma non indagate né tantomeno ancora condannate. A tacer del fatto che ciò costituisce un reato, per quanto quasi mai genetico di avvio di accertamenti giudiziari e ancor meno di sanzioni.

    Gli esempi di vittime della propalazione indebita di conversazioni captate con effetti devastanti sono innumerevoli; Nordio in un suo intervento recente in Commissione Giustizia della Camera ne ha ricordati due significativi: quello del Consigliere del Presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio e della Ministra Guidi che tutti ricorderanno. Secondo Davigo la loro tutela risiederebbe nella possibilità di proporre querela per diffamazione: non è neppure così per la verità e sarebbe in ogni caso come evocare la classica chiusura della stalla dopo che i buoi sono scappati.

    Siano il lettori di questa rubrica a trarre le conclusioni: una potrebbe essere che se Travaglio e Davigo hanno oltrepassato il confine della crisi di nervi, forse, con le ipotesi di riforma siamo sulla buona strada; l’altra è che l’attuale Ministro della Giustizia sia colpevole di inimicizia con Dio se si è messo dialetticamente e concettualmente in conflitto con una delle divinità pagane di Mani Pulite, nume protettore di Marco Travaglio e della redazione del suo quotidiano.

  • In attesa di Giustizia: comici involontari

    Uno dei più subdoli principi su cui fondare la responsabilità degli accusati fu teorizzato ai tempi di Mani Pulite e da allora largamente condiviso e applicato: soprattutto in presenza di qualcuno da condannare a tutti i costi pur senza avere uno straccio di prova.

    Qualcosa, tuttavia, sembra stia cambiando: la Procura di Latina indaga sulle presunte malefatte di una cooperativa i cui amministratori avrebbero malversato fondi pubblici, golosamente intascati invece di distribuirli come salario ai dipendenti ed impiegarli a vario titolo per la corretta gestione della attività. Del dovuto riserbo e del rispetto del segreto istruttorio neanche a parlarne, e fin qui niente di nuovo: di questo aspetto dovremo riparlare.

    La grande novità cui si deve plaudire è  proprio il superamento in questo caso del principio del “non poteva non sapere” a vantaggio di uno stivalato difensore dei braccianti, dei poveri e degli oppressi sebbene sia legato da strettissimi vincoli con le indagate principali che, non solo lo lascia indenne da informazioni di garanzia (e di ciò, nel rispetto delle regole, vi è da compiacersi), ma provoca alternati sussulti di inatteso garantismo da parte di quella sinistra che vi aveva abdicato ab immemorabile. Bene ma non benissimo posto che l’autodifesa – di avvocati per ora sembra non esserci bisogno – non si è basata sulla strenua negazione dell’illegalità ma sulla assoluta inconsapevolezza di quanto pare accadesse all’interno dei componenti dello stato di famiglia ed è culminata con la illustrazione di un diritto che, sino ad ora, non risulta canonizzato né da codici né da pensatori illuminati e progressisti come – tanto per citarne uno –  Martin Luther King: il diritto all’eleganza. Insomma, la moglie di Cesare è un modello al di sopra di ogni sospetto che non conosce oblio e c’è chi tra lacrimevoli sfoghi riesce a regalare momenti di involontaria comicità.

    Questa settimana, poi, il Ministro della Giustizia ha osato preannunciare lo stimolo ad alcune riforme di matrice apertamente liberale subito intese come una dichiarazione di guerra alla magistratura, risultando in particolare intollerabili le affermazioni a proposito di separazione delle carriere tra giudicanti ed inquirenti e buon governo dello strumento delle intercettazioni.

    L’indomita reazione è stata affidata – tra i primi – al Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati il quale ha pianto per le bestemmie alla Costituzione uscite dalla bocca del Guardasigilli, dimenticando che – sia pure timidamente ma in maniera chiara – la nostra Carta fondamentale all’articolo 107 già delinea la netta distinzione tra Giudici e P.M.;  per non farsi mancare nulla, a proposito di intercettazioni, ha ricordato che una legge intesa a regolarne la pubblicità e punire chi ne fa oggetto di indebita divulgazione. Peccato che abbia omesso di rilevare che i casi di indagine e condanna per questo illecito uso di materiale investigativo siano statisticamente irrilevanti: un’altra pièce comica che si risolve in straordinario assist per un finale da avanspettacolo con Macario affidato al Direttore del quotidiano che, non a caso, ha come azionisti di riferimento proprio un comico in pensione oltra ad un impomatato leguleio.

    Tuona Marco Travaglio, dalle colonne de Il Fatto Quotidiano, chiama alle armi il popolo dei giusti e degli onesti per fronteggiare con adeguata durezza e la proverbiale profondità di pensiero qualsivoglia iniziativa intesa a stravolgere le riforme volute dal migliore Ministro della Giustizia degli ultimi trent’anni nei cui confronti si è consumato l’estremo oltraggio…e chi sarà mai? Claudio Martelli, Giovanni Conso? Nossignori: Alfonsino Bonafede, e non siamo su scherzi a parte.

    Con ciò, il buonumore accompagnerà tutti nelle prossime Festività.

  • In attesa di Giustizia: un popolo di farabutti, evasori, di mercanti infedeli e riciclatori

    Giustizia, economia e politica si intrecciano nel commento di questa settimana ed il titolo potrebbe suggerire il testo di un nuovo bassorilievo, “modello EUR”, da scolpire, magari, sul portone di ingresso di Palazzo Chigi a perenne memento del Governo delle più retrive caratteristiche degli italiani e di cui tenere conto nell’amministrarli.

    Lo spunto è offerto dalla polemica sull’impiego del contante, che si è rinfocolata dopo la proposta di elevare nientemeno che a 60 euro la soglia fino alla quale quei malvissuti di baristi, tabaccai, norcini e fruttaroli possono evitare il pagamento cashless (che detto così fa anche molto fine) accettando – pensate che vergogna – banconote e spicci che non sono quelli del Monopoli bensì vili denari emessi dalla Banca d’Italia. E sempre sia lodato Romano Prodi per il tasso di cambio della lira negoziato a suo tempo.

    E’ questo un dettaglio che sembra sfuggire agli ayatollah del bancomat dimentichi del fatto che sulle banconote della compianta liretta campeggiava la scritta “pagabili al portatore” seguita dalla firma del Governatore ad imperituro ricordo del valore e della validità per gli scambi commerciali della moneta circolante che, molto semplicemente, non può essere rifiutata a pareggio di una transazione, perlomeno nei limiti della ragionevolezza.

    Ora sembra che la panacea di tutti i mali che affliggono il sistema economico di questo Paese risieda nell’impedire di spendere più di mille euro in contanti e di costringere all’acquisto di cappuccino e cornetto con l’American Express così debellando criminali piaghe bibliche quali il riciclaggio, l’evasione e – mai sia che ci si dimentichi – la corruzione.

    Gli epigoni di questa soluzione sembrano – tra le tante cose – dimenticare che una delle principali risorse dell’economia nazionale è il turismo e che il turismo alto spendente è in massima parte quello straniero: e francamente,  per fare un esempio, non è un problema nostro se il russo (di tempi andati) a casa sua paga le imposte o se si guadagna da vivere vendendo casse di Kalashnikov sottobanco, quello che conta è che vengano correttamente scontrinate le bottiglie di Cristal che prosciuga al Quisisana a Capri non tanto la corresponsione del prezzo estraendone il controvalore da un fascio di banconote. Basta avere un minimo di conoscenza dei principi contabili per sapere che quelle bottiglie non possono essere state acquistate altrimenti che contro fattura e bolla di accompagnamento, caricate a magazzino e, per avere una quadra di bilancio deve esserci corrispondenza tra acquisto e successiva vendita ricavabile proprio dall’incrocio tra prezzo di carico, listino prezzi ufficiale dell’esercizio e scontrinatura. Questo, almeno, nelle grandi strutture commerciali, nei negozi delle grandi firme, nei ristoranti stellati e nelle catene alberghiere dove circolano cifre sostanziose: forse, nei chiringuiti di Capalbio le cose vanno diversamente.

    Il rischio di evasione, quella che fa la differenza anche per il singolo contribuente, pertanto, rimane sostanzialmente invariato ed il contrasto al fenomeno passa attraverso ben altri strumenti che non mortificano il libero commercio; altrettanto deve dirsi del riciclaggio che – a regola – riguarda ben altri e milionari importi il cui “lavaggio” viene operato tramite complesse triangolazioni bancarie (sovente estero su estero) a monte e reimpiego in attività produttive lecite a valle.

    Molto altro potrebbe considerarsi in argomento, lo spazio è tiranno ma consente un’ultima riflessione. Manca solo l’esortazione implicita al ricorso al diritto penale, magari con la creazione di nuove figure di reato, o ad elevare le pene per quelli già previsti e fors’anche – ciliegina sulla torta – affiancare alla Guardia di Finanza una nuova Forza dell’Ordine: la Polizia Morale.

  • In attesa di Giustizia: la certezza della pena ai tempi del diritto illiberale

    Qualcosa si muove sul piano delle riforme della Giustizia, almeno così pare, sebbene il fallimento annunciato degli elaborati della Commissione Cartabia conosca per il momento solo un poco utile rinvio a fine anno e le prime iniziative del Governo appaiano meno che convincenti, costringendo la Corte Costituzionale ad evitare di decidere sull’ergastolo ostativo rinviando alla Cassazione il compito di interpretare “gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni di legittimità sollevate”; nel frattempo sono già iniziate le audizioni dei tecnici per rimediare – in sede di conversione – allo sconclusionato decreto di contrasto ai rave parties.

    Il Ministro Nordio, tuttavia, tenendo fede ad una promessa frutto di una sua antica (e condivisibile) convinzione, incontrerà tra pochi giorni i rappresentanti dei Sindaci per dare avvio ai lavori di modifica dell’abuso di ufficio: un reato che negli anni è stato modificato almeno quattro volte senza mai pervenire ad una formulazione che non consista in vaghe fumisterie da cui origina quella che è stata definita “burocrazia difensiva” e cioè a dire un immobilismo operativo degli enti locali volto ad evitare facili incriminazioni, sebbene assai raramente seguite da condanne ma accompagnate da blocco di lavori pubblici e dispersione di fondi. Sarebbe un piccolo passo ma foriero di effetti positivi.

    Ed è proprio il timore di Sindaci ed Assessori di essere prima indagati e poi sottoposti, prima di una condanna, al maglio della “Severino” che paralizza anche l’impiego di risorse del PNRR destinati ad importanti opere sul territorio; come se non bastasse il TAR della Puglia che ha fermato i lavori locali per l’alta velocità – finanziati con denari europei – accogliendo un ricorso di associazioni ambientaliste che invocano la salvaguardia di alcuni mandorli e carrubi presenti sul tracciato. Degni del massimo rispetto, però…

    Quello che manca nel nostro sistema e l’abuso d’ufficio è un esempio eclatante – prima ancora degli operatori in numero adeguato che lo facciano funzionare – sono la certezza del diritto e della pena venuti meno negli anni per la marginalità culturale del legislatore e la debolezza della politica quali concause della destituzione dello Stato di diritto cannibalizzato da una magistratura intesa a dilatare e mantenere la propria acquisita posizione di potere sul presupposto di una supposta superiorità morale che – come si è visto ed accertato oltre ogni ragionevole dubbio – non c’è.

    Ben venga, allora, per dare inizio ad una stagione di autentiche riforme quella dell’abuso di ufficio che avrebbe anche il merito di proporsi come una normativa bandiera finalizzata a porre un primo argine al tempo del terrore giudiziario, fondato sulla brutalità proterva della cultura del sospetto.

    Certezza del diritto, dunque: principio giuridico cardine in base al quale una norma deve essere formulata in modo chiaro ed essere soggetta ad una interpretazione univoca, un obiettivo cui il legislatore deve tendere in fase di produzione delle leggi e certezza della pena da intendersi non come certezza del carcere quanto prossimità della sua espiazione il più vicino possibile al delitto commesso ed attribuito: solo così sarà giusta ed utile.

    Come si nota, risalendo al pensiero illuminista alle teorizzazioni di Beccaria e Cattaneo, tali concetti risultano assai diversi e lontani dalle opzioni di politica sanzionatoria illustrate, da ultimo nel c.d. Contratto del “Governo del Cambiamento”: un  autentico manifesto del diritto illiberale che poteva essere partorito solo da cervelli disabitati come quelli dell’azzimato damerino di Volturara Appula e del buffo Muppet travestito da Guardasigilli

    Ora ad un cambiamento vero bisogna credere, anzi, più che crederci  bisogna pretenderlo.

  • In attesa di Giustizia: contraddittorio cartolare a battute asincrone

    Questa definizione, che intimorisce solo a pronunciarla, è quella che maschera la effettiva mancanza di contraddittorio tipica del giudizio di Cassazione riservato a quei ricorsi nel settore penale che, in base ad un primo sommario esame, sono stati ritenuti inammissibili e – quindi – destinati ad una sezione, la Settima,  addetta a funzioni di bassa macelleria giudiziaria. Alla Settima non si va a discutere, si possono tutt’al più mandare delle memorie scritte per contestare una requisitoria scritta con richiesta di inammissibilità: quest’ultima, di regola, consiste in un pre stampato a risposta multipla con la crocetta apposta su una voce dal Sostituto Procuratore Generale di turno. Quanto alle memorie difensive, salvo casi statisticamente irrilevanti, nessuno le leggerà neppure: in una sola giornata di udienza la Settima mette a ruolo decine di ricorsi, figurarsi se ci può essere il tempo anche di studiare le contro deduzioni degli avvocati.

    Non dissimile appare il destino riservato dalla “riforma Cartabia” per il giudizio di appello che avrà come regola non più la trattazione orale – se non tempestivamente richiesta – bensì un garbato scambio di mail tra il difensore, la Corte e la Procura Generale: anche la sentenza verrà graziosamente spedita via pec.

    In nome di una ritrovata efficienza del sistema – che è cosa ben diversa dalla efficacia – e del conseguimento degli agognati  fondi del PNRR, la mortificazione del secondo grado di giudizio è servita: non senza intercettare il compiacimento di quella componente della magistratura che lo considera un inutile orpello nonostante la percentuale elevata di riforme che lo caratterizza. O, forse, proprio per quello.

    Tutto ciò ammesso che si arrivi alla fissazione di un’udienza perché la riforma – già contestatissima per altri e condivisibili motivi e rinviata di due mesi con poca utilità, salvo quella di incassare ugualmente le risorse europee – fissa anche altri paletti rigidi per poter chiedere l’appello e tra questi ne spicca uno che riesce nella non facile impresa di risultare incoerente con almeno due diversi canoni costituzionali: stiamo parlando della necessità che l’imputato che sia rimasto assente (come, tra l’altro, è suo diritto) durante il giudizio di primo grado munisca il proprio difensore di un mandato specifico per impugnare la sentenza. La regola colpisce, soprattutto e massicciamente,  tutti coloro che hanno sottovalutato i rischi di un processo e sono rimasti affidati ad un difensore di ufficio con il quale non si sono mai messi in contatto sebbene sollecitati, magari a causa di indisponibilità economiche: perché anche il difensore d’ufficio deve essere remunerato. Ecco, tutti costoro resteranno privati della possibilità di ricorrere in appello e con ciò la geniale disposizione viola l’articolo 3 della Costituzione creando una disparità di trattamento davanti alla legge tra chi ha coltivato un rapporto con il difensore e chi (talvolta incolpevolmente) no e l’articolo 24 che riconosce la difesa come diritto inviolabile in ogni stato e grado di giudizio.

    Complimenti vivissimi a tutti: alla ex Ministra – con trascorsi alla Corte Costituzionale – agli estensori della riforma, al legislatore delegante e, perché no, al Garante della Costituzione che l’ha promulgata ed alla Commissione Europea che nella Relazione sullo Stato di Diritto 2022 ha rivolto diverse critiche sia alla riforma italiana del processo penale che dell’ordinamento giudiziario ma, infine, ha concluso che può andar bene così.

    E così ci avviciniamo sempre di più ad un modello americano che non ci piace: un sistema classista nel quale Perry Mason non si occupa del cliente povero e quest’ultimo rischia di finire assistito da un difensore che può essere poco motivato e fors’anche poco preparato, un sistema cervellotico e irto di trappole processuali nel quale – proprio come dicono negli USA – è meglio essere ricchi, bianchi e colpevoli piuttosto che neri, poveri e innocenti.

    Siete in attesa di Giustizia? No? Meglio per voi ma se la risposta è sì, il giudizio vi attende con strutture inadeguate, organico di personale amministrativo e magistrati insufficiente e norme confuse e contraddittorio cartolare a battute asincrone: è ciò che si verifica quando anche le riforme strutturali sono ragionate in ossequio ad idee fisse come quella, non potendolo eliminare tout court,  di ridurre il giudizio di appello ad un simulacro.

    E come scriveva Emile Chartier –   nulla è più pericoloso di  un’idea quando se ne ha una soltanto.

  • In attesa di Giustizia: il giudizio del TVibunale

    Il suicidio di un ragazzo è già, di per sé, un evento altamente drammatico quali che ne siano le ragioni e  non si è ancora compreso perché si sia suicidato – ormai più di un anno fa – il giovane innamoratosi perdutamente “on line” di un falso profilo femminile messo, viceversa, in rete da un uomo di sessantaquattro anni, né perché costui lo abbia fatto: forse un  cervellotico gioco d’amore, un tentativo di truffa finito male, un passatempo  idiota? Sta di fatto che, al di là dello squallore di fondo ed in mancanza di altri elementi da cui dedurre la prova di un’istigazione a togliersi la vita (che, esaminata tutta la “corrispondenza” tra i due) pare non vi siano, quell’uomo avrebbe dovuto rispondere di un reato minore: sostituzione di persona.

    Ma è stato proprio quello squallore di fondo a suscitare morbose curiosità  mettendo in moto la macchina della giustizia mediatica, pronta ad enfatizzare la vicenda per offrire un tributo alla divinità pagana dello share. Ore ed ore al giorno a chattare, oltre ottomila struggenti messaggi con una sedicente Irene Martini conclusi dalla impiccagione di un giovanotto, la cui rete sociale era evidentemente molto debole, non possono liquidarsi con l’incriminazione per un reatuccio…e allora parte la caccia volta ad infiorettare il tutto mettendo alla gogna e citando in giudizio davanti al tribunale della TV il reprobo di turno. Che certamente nascondeva qualcosa di oscuro nella sua personalità, ma non è dato accertare se quella morte fosse il fine che si proponeva.

    Braccato e linciato in favore di telecamera dai giornalisti de “Le Iene” (è il caso di dire: tanto nomine nullum paret  ossequium) il successivo suicidio anche di quest’uomo dovrebbe, più che porre interrogativi, segnare semplicemente un punto di non ritorno. Dovrebbe, perché questo non accadrà. Se ne parla, sì, con qualche sommessa riflessione, tanto sarà uno sporcaccione, un di meno: il massimo che si è ottenuto è un intervento dell’editore che naturalmente difende il modo di fare giornalismo della sua trasmissione concludendo che il suicidio disperato della preda dei cronisti è qualcosa che “non deve più succedere”, che  è successa perché “capita di andare oltre ciò che è editorialmente giusto”. Conclude, infine, con un autorevole monito: “dire basta ad un certo tipo di giornalismo sarebbe come tornare indietro invece che andare avanti. Ma il punto è come viene fatto, servono attenzione e sensibilità, non è facile …dico che quella cosa lì non mi è piaciuta”.

    “Quella cosa lì”, come la chiama Piersilvio Berlusconi, è invece la cifra e la ragione stessa di quel giornalismo e se qualcuno che viene esposto al linciaggio si suicida è questione eventuale. C’è chi riesce a sopravvivere e chi no, presunto responsabile o innocente che sia.

    E in cosa consiste questo “certo tipo di giornalismo”, rinunciando al quale cadremmo nelle tenebre più profonde della inciviltà? Va bene la prima parte: raccogliere notizie, riscontrarle, rendere pubbliche le testimonianze raccolte, sollecitare l’attenzione dell’autorità giudiziaria, ma il veleno è in coda e arriva dopo, ed è la presa al laccio del presunto colpevole per offrire quella spettacolarizzazione che alimenta l’interesse per l’inchiesta. E quel momento è lo sputtanamento: chi sia un colpevole, quanto sia colpevole, come e perché sia colpevole, lo decide una redazione e ne demanda il giudizio al TVibunale.

    Inchieste che si alimentano di rimproverabilità solo ipotizzata: sono la riprovazione, la indignazione popolare tossica, che funzionano nel senso di  creare ascolti, il tutto alimentato dalla cultura della intolleranza e del sospetto. Che inchiesta sarebbe, del resto, se si dovesse stanare un colpevole vero, cioè accertato come tale in un giudizio? È il sospetto che ci inferocisce, è l’idea di avere stanato e dato in pasto ai guardoni un bastardo. Mostratelo, si celebrino tutti i rituali di degradazione proponendo in diretta in che modo si giustifica, balbetta, e suda un po’ come Arnaldo Forlani, trent’anni fa al processo “ENIMONT”: in fondo Mani Pulite fu la madre di qualsiasi sovversione dei parametri costituzionali e di elementari  sentimenti di umanità e, le sentenze non sono in nome del popolo italiano ma a furor di popolo, schiumando rabbia e sbavando.

    Il Tribunale mediatico esercita così la sua giustizia ed infligge le sue sanzioni senza tanti inutili orpelli come quell’altra, celebrata da giudici e avvocati, che è una legalità soporifera, formalistica.

    Panem et circenses, gladiatori contro leoni, questi sono gli spettacoli graditi e l’unica giustizia che funziona, quella – appunto – a furor di popolo. Ci scappa il morto? Pazienza, “quella cosa lì non ci è piaciuta”: tutto sommato è solo  la fine della vita di un essere umano.

  • In attesa di Giustizia: No Martini, No Party

    Bisogna ammettere che, come esordio del Governo in materia di giustizia, c’era da aspettarsi di meglio: trascurando per questioni di spazio oltre che di complessità tecnico giuridica quanto deciso circa il rinvio della entrata in vigore della “Riforma Cartabia”, stretta nella morsa tra impreparazione degli Uffici Giudiziari a mandarla a regime ed il rispetto dei tempi per conseguire i fondi del PNRR, ed i limiti da porre all’ergastolo ostativo, è il decreto anti rave party che merita commento fatta la premessa maggiore che, curiosamente ma non troppo, proviene dal Ministero dell’Interno e non da quello della Giustizia e sembra proprio scritto da uno di quei questurini di altri tempi che facevano carriera nell’Ufficio Affari Riservati.

    Tecnica redazionale ed impiego della lingua italiana a parte, una norma che preveda come reato «l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica e la salute pubblica consiste nella invasione arbitraria di terreni … allo scopo di organizzare un raduno quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica» è il trionfo delle ovvietà inutili. Inutili anche perché esistono già altre figure di reato applicabili ed aderenti all’ipotesi concreta di un rave party e soprattutto per il motivo che così come descritte le condotte rimproverabili sono pericolosamente generiche e sottratte al principio costituzionale di tassatività della norma. Tanto è vero che si è dovuti subito intervenire offrendo una prima interpretazione (il decreto è legge in vigore fino ad avvenuta conversione o mancata tale nel termine previsto) che tranquillizzi gli organizzatori di addii al celibato, autorizzi contests di barbecue all’aperto, consenta la celebrazione delle sagre di paese con somministrazione di vini sfusi e salamelle artigianali. Chissà, poi, a chi e come spetterà il compito di attestare il numero dei partecipanti (che, per integrare il nuovo crimine, non devono essere inferiori a 50) da cui, pure, dipende l’illegalità degli eventi verbalizzando il conteggio e distinguendoli da eventuali passanti o curiosi, umarell, come si dice a Milano,…o magari agenti sotto copertura della narcotici.

    Non è finita: questo nuovo reato viene addirittura fatto rientrare nel catalogo di quelli previsti nel codice antimafia ai fini della applicabilità di misure di prevenzione personale: il che, tradotto, significa che ad un rave party è riconosciuto il potenziale genetico dello stesso allarme sociale di una cosca mafiosa, di una associazione finalizzata alla tratta di esseri umani o di un sequestro di persona a scopo di estorsione.

    Vedremo che destino avrà il decreto in sede di dibattito parlamentare mentre già si levano i primi mea culpa insieme ad auspici e promesse che venga migliorato in Aula. Non sarebbe male se ciò avvenisse metabolizzando il canone costituzionale che all’articolo 17 sancisce la libertà di riunione dei cittadini, e che limita il potere di veto da parte dello Stato, previo avviso dell’evento all’Autorità, esclusivamente a “comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica” che sono cosa ben diversa dai motivi di “ordine pubblico”: categoria giuridicamente molto più ampia della “sicurezza pubblica”.

    Detta tutta, quei raduni, di cui generalmente si ha notizia anticipata, sono l’apoteosi della illegalità, durante i quali accade di tutto a prescindere dalla occupazione abusiva di terreni e luoghi: spaccio di droga, mescita di alcolici ai minorenni, violenze di varia natura. Cose che succedono – tra l’altro e quotidianamente – nelle zone della “movida” di città grandi e piccole e rispetto alle quali è necessaria innanzitutto la prevenzione, questa sì affidata alle Forze dell’Ordine con gli strumenti di cui già dispongono e quale che sia il contesto in cui si registrano situazioni simili.

    Iniziare meglio era sicuramente più facile che partorire un esempio di muscolare sciatteria normativa insensibile ai limiti costituzionali: e quanto all’arsenale punitivo è più che bastevole quello già esistente, nel caso con qualche minimo ritocco evitando di arricchire il codice penale con un reato da sbirri da operetta alla cui formula manca solo la causa di non punibilità per chi si presenti senza una bottiglia di spumante da condividere: no Martini? No rave party.

  • In attesa di Giustizia: cahiers de doleances

    Non c’è pace tra gli ulivi: tutti si lamentano di qualcosa che non funziona nella amministrazione della Giustizia; d’altronde, anche questa rubrica costituisce, in un certo senso, il bollettino settimanale delle storture che caratterizzano quel settore e, proprio nel numero precedente, si è occupata di una vicenda paradigmatica trattando il caso di un processo per gravi reati in corso a Roma nel corso del quale il Tribunale ha cambiato composizione ad ogni udienza, con buona pace della conoscenza effettiva dei fatti da giudicare da parte di chi è stato, infine, chiamato a decidere.

    Dopo, ma solo dopo “Il Patto Sociale”, ne hanno parlato anche i quotidiani e la Camera Penale della Capitale è scesa in campo, lamentando l’incredibile accaduto e proclamando un’astensione di protesta per il 2 novembre. Giustissimo: peccato essersi dimenticati di fare la dovuta comunicazione all’Autorità Garante con la conseguenza che è stato necessario annullare l’iniziativa per quella data e rinviarla al  giorno 9…peccato anche che, nel frattempo, gli avvocati – fiduciosi del buon governo della protesta da parte dei propri rappresentanti – abbiano annullato le citazioni di testimoni e non si siano preparati per udienze che non si sarebbero dovute celebrare e invece si faranno. E lo stesso vale per i Pubblici Ministeri e i Giudici impegnati nel medesimo giorno. Il tentativo di far apparire il rinvio come giustificato dalla esigenza di rendere più articolata la giornata di protesta è stata la classica pezza peggiore del buco.

    Si lamentano anche i Procuratori Generali scrivendo al Guardasigilli Carlo Nordio chiedendo di rinviare  l’entrata in vigore quantomeno di una parte della “Riforma Cartabia” che dovrebbe entrare in vigore il 1° novembre creando significativi disagi organizzativi agli Uffici con la conseguenza di un ulteriore, catastrofico, aggravamento della gestione del carico di lavoro. Non hanno tutti i torti, va detto con chiarezza, tanto è vero che quando questo articolo verrà pubblicato sembra che lo sarà – in Gazzetta Ufficiale – anche un decreto d’urgenza volto ad accogliere le richieste della Magistratura.

    Certo, potevano anche accorgersene prima di una manciata di giorni dal “via”: la “Riforma Cartabia” tra luci ed ombre (forse queste ultime sono in numero maggiore) soffre del fatto che il lavoro è frutto di equilibrismi e compromessi per soddisfare quella componente della allora maggioranza che l’ha approvata e faceva rimpiangere i tempi in cui in Senato sedeva il cavallo di Caligola  e che rispondeva alle linee guida sulla giustizia dettate da un comico che non fa più ridere e di un disc jockey che è stato molto meglio rimandare alla consolle.

    Infine anche Antonio Ingroia si lamenta e proprio del fatto che sia Carlo Nordio  il nuovo Ministro della Giustizia affermando che “sa di muffa e di regolamento di conti”: un giudizio durissimo la cui opportunità e fondatezza dovrebbero essere posticipate ad un vaglio dell’operato del Governo e dei suoi Ministri e non espresso prima ancora che abbiano iniziato a lavorare.

    Da Ingroia, peraltro, non c’era da aspettarsi di meglio essendo un uomo facile al pregiudizio e – viceversa –  impermeabile a tutte le evidenze: come quelle che attestano i suoi personali fallimenti da quello come Pubblico Ministero, il cui ricordo è legato essenzialmente al ruolo di coordinatore dell’indagine per la cosiddetta “Trattativa Stato – Mafia”, finita come è noto in una bolla di sapone, a quello come politico di indiscutibile insuccesso, per finire con la professione di avvocato esercitata principalmente “correndo dietro alle ambulanze” nel tentativo di accaparrarsi la difesa delle vittime di qualche disastro, anche in questo caso senza molta fortuna: un triplete di cui non andare fieri e che suggerirebbe un più dignitoso silenzio abbandonandosi a quell’oblio che il destino ha già inesorabilmente segnato.

    Sipario.

  • In attesa di Giustizia: Circo Medrano a tre piste

    Habemus! Il Governo (per una volta) è frutto del voto dei cittadini e Carlo Nordio è Ministro della Giustizia come era negli auspici per tentare la via di riforme che diano slancio ad un sistema ormai più agonizzante che imballato…

    …come dimostra l’argomento di questa settimana affrontando il tema di una fondamentale quanto stravolta regola del processo penale che si chiama “immediatezza della deliberazione” secondo la quale il giudice che pronuncia la sentenza deve essere il medesimo che ha partecipato all’intero dibattimento,  ascoltando ed interrogando imputati,  testimoni e periti, ed  acquisendo documenti. In due parole, quello che ha raccolto le prove: quindi, se cambia occorre ripetere l’istruttoria.

    Si tratta di un elementare principio di civiltà e di buon senso prima ancora che di una regola sancita  dall’art. 525 del codice del processo penale che è stato letteralmente sovvertito da una interpretazione creativa della legge.  Di fatto, ora la situazione è l’opposto: se cambia il giudice, pazienza. Il giudice nuovo si legga i verbali (se ne ha voglia), si faccia un’idea – anche vaga – di quello che è successo, e pronunci la sentenza.  Inaccettabile è la logica che sorregge questa interpretazione: sono gli avvocati a pretendere che il giudizio non sia di un giudice diverso da quello che ha raccolto le prove, e così si attenta alla ragionevole durata del processo. Tutti zitti, invece, sulle ragioni per le quali il giudice cambia: una per l’altra considerate nobilissime ed insindacabili…sebbene nel 90% dei casi, siano legate a ragioni di carriera: cambio di sezione, funzioni, sede.  E coloro che attendono giustizia? Si arrangino.

    Complici anche le croniche carenze di organico – di cui la rubrica si è interessata la settimana scorsa – si assiste, pertanto, a sarabande indecorose; si inizia il processo con un giudice (o tre, se il giudizio è collegiale) e da quel momento  può accadere di tutto.

    Un esempio attuale, per quanto estremo, viene offerto dal Tribunale di Roma e riguarda un processo a carico di numerosi imputati per reati gravi aggravati dal metodo mafioso.

    Ebbene, è accaduto che in nessuna udienza il collegio fosse il medesimo di quella precedente ed almeno un giudice, ma a volte anche due su tre, erano nuovi. Eccone la cronaca fedele e sgomentevole: il Collegio che inizia a raccogliere le prove è già diverso da quello che le ha ammesse (o negata l’ammissione), si prosegue con  l’interrogatorio delle persone offese: due udienze, ed alla seconda cambia un giudice; segue l’esame degli agenti della Polizia Giudiziaria che hanno svolto le indagini e degli altri testi dell’accusa divisi in cinque udienze. Dopo la prima udienza, a quella successiva ne cambiano due; alla terza altri due; alla quarta altri due, alla quinta uno. Udienze per esame testi della difesa: quattro, e ad ognuna è cambiato uno dei tre giudici.

    In qualche modo si arriva alla discussione finale: il P.M. parla alla presenza di due giudici nuovi su tre (quindi, che non avevano mai partecipato nemmeno ad una delle udienze precedenti ed è inutile dire che da un’udienza all’altra passano settimane se non mesi, agevolando l’indiavolato turn over). Giunto il momento delle arringhe difensive, cambia nuovamente uno dei tre giudici, che però si rende conto di versare in una condizione di incompatibilità; quindi l’udienza viene sospesa, e si va alla ricerca di un qualsivoglia altro magistrato che possa comporre il collegio. Quando infine si è trovato un malcapitato (che non sa nulla di nulla del processo, ovviamente, e non ha nemmeno sentito la requisitoria del P.M.), i difensori hanno sollevato tutte le eccezioni possibili, peraltro superate ineffabilmente dal Tribunale: ad oggi il processo non è ancora finito e c’è spazio per altre sorprese.

    Detto fuori dai denti: la sacralità del giudizio non può confondersi con questo che sembra lo spettacolo messo in scena dal circo Medrano a tre piste dove domatori, nani e ballerine si alternano ed intersecano tra di loro per il diletto del pubblico.

    Facendo buon governo della onestà intellettuale, cosa provereste ad essere giudicati in queste  condizioni, ma anche a fronte di un cambio, seppur più contenuto, dell’organo giudicante durante il processo? Pensereste che l’attesa di Giustizia sia davvero una chimera, e non avreste torto.

Pulsante per tornare all'inizio