globalizzazione

  • Cina all’opera per evitare la deglobalizzazione e porsi come polo d’attrazione degli investimenti

    La Cina opera per attrarre sempre più investimenti, nonostante la crisi ucraina e quella, paventata, per Taiwan inducano a riflettere se non si sia all’alba di una fase di deglobalizzazione o, secondo altri, di una globalizzazione polarizzata, democrazie da un lato e non-democrazie dall’altro. Su Il Transatlantico di Andrew Spannaus, Paolo Balmas riferisce quanto segue:

    «Tencent, la casa madre di WeChat, ha concluso un accordo con i fornitori di carte di credito straniere, Visa, MasterCard e JCB, al fine di permettere a turisti e businessmen in visita in Cina di utilizzare il sistema di pagamento Weixin Pay, interno all’app di WeChat. Ciò incentiva l’uso dell’app che rende alcuni servizi più efficaci. Ad esempio, si può fare una fila senza dover rimanere in piedi o in prossimità del luogo di servizio. Soprattutto senza l’erogazione di un numeretto su un talloncino di carta, pratica che in molti luoghi della Cina è ormai semplicemente primitiva. Si possono prenotare ristoranti sul momento (i QR code si trovano all’ingresso degli stessi ristoranti) e sapere quanto tempo si ha prima che il tavolo sia pronto per voi, con un messaggio automatico che vi avverte quando il cameriere o cameriera vi attendono. Alipay di Ant Group aveva già aperto i suoi servizi alle carte di credito straniere nel 2022, in un momento in cui la Cina stava cominciando a riaprirsi dopo quasi tre anni di chiusura dovuta al Covid-19. La notizia non aveva avuto un grande effetto perché non si attendeva un grande ritorno di turisti in Cina, ma ora con gli Asian Games a settembre sono attesi molti arrivi e il numero di attività commerciali che non accettano più contanti e carte sono in aumento. Tuttavia, prima era possibile aprire un account e usufruire in parte di questi servizi, ma ora è possibile accedere a nuovi mondi, come ai sistemi per lo shopping online. Non è detto però che i rivenditori spediscano i prodotti fuori dalla Cina se si prova a utilizzarli dall’esterno. Se questo è il futuro, arriverà presto il giorno in cui Amazon scoprirà di avere competitor interessanti.
    Il governo cinese ha emanato nuove regole per l’industria dei fondi di investimento, private equity (PE) e venture capital (VC), che entreranno in vigore dal primo settembre 2023. Secondo le testate che hanno riportato la notizia (fra cui Bloomberg e Caixin), le preoccupazioni maggiori delle agenzie che si occupano del settore finanziario cinese, riguardavano i servizi di custodia. Come per le azioni e le obbligazioni, chi lancia un fondo di investimento lo deve mettere sotto la custodia di entità che garantiscono la sicurezza per gli investitori (solitamente a farlo sono le grandi banche di investimento – nel mondo nordatlantico le grandi banche statunitensi come, ad esempio, State Street hanno più o meno il monopolio, in Cina ci sono le grandi banche di stato come la CCB). La preoccupazione principale riguardava la definizione delle responsabilità di tali custodi. Inoltre, un altro punto riguardava il ruolo dei manager dei fondi. Gli osservatori spiegano che se il testo di legge lascia alcuni punti con una sorta di vaghezza, è perché specifiche agenzie aggiungeranno nel corso dei prossimi mesi varie regole aggiuntive sul piano legale, che andranno nei dettagli. L’industria cinese dei fondi PE e VC ha raggiunto un valore equivalente di circa tremila miliardi di dollari e attrae sempre di più gli investitori occidentali che negli ultimi anni hanno aperto sedi in Cina, come JPMorgan e altri grandi nomi di Wall Street.
    L’Ufficio delle Finanze della provincia di Qinghai ha rilevato circa il 20% (che apparteneva a un’altra agenzia statale) della Banca di Qinghai, dopo che le agenzie di rating cinesi l’avevano declassata. Nel 2022, la Banca di Qinghai aveva registrato un declino nei profitti di oltre il 60%, dovuto alle sofferenze in aumento nell’ambito dei prestiti alle famiglie e dei mercati delle proprietà e dell’energia. Il malessere della banca riflette il diffuso problema del real estate che si estende su buona parte della Cina. Il declino del mercato immobiliare ha fatto registrare una crescita inferiore alla media nazionale in ben 15 giurisdizioni (su un totale di 28). La Cina nel primo trimestre del 2023 è cresciuta del 6,3% e del 5,5% nei primi sei mesi. Mentre tre giurisdizioni erano in linea con la crescita nazionale, nei primi sei mesi del 2023, dieci l’hanno ampiamente superata, con il record di Shanghai in crescita del 9,7%. Su base trimestrale, il record è stato della provincia di Hainan, con il 10,3%, grazie anche a un forte aumento delle attività turistiche sull’isola. I dati segnalano anche un calo di export e produzione, dovuto a un calo generale della domanda internazionale. Emerge un quadro insolito, con province, da un lato, che hanno registrato una crescita del solo 2%, con chiari segni di crisi del settore delle costruzioni e difficoltà per le banche a elargire il credito di cui l’economia e le statistiche hanno bisogno. Dall’altro, ci sono province e distretti con crescite oltre le aspettative, capaci di attrarre investimenti anche esteri, malgrado il continuo attacco mediatico contro la Cina».

  • Contro la colonizzazione globalizzata, per una globalizzazione della civiltà

    Riceviamo e pubblichiamo la prima dell’intervento che l’On. Vitaliano Gemelli, già deputato europeo, ha tenuto durante l’Assemblea Annuale dell’Associazione degli ex parlamentari europei (FMA) a Bruxelles lo scorso 6 dicembre.  Il prossimo capitolo sarà pubblicato dopo l’8 gennaio 2023.

    All’indomani della seconda guerra mondiale e con l’affermazione politica dei blocchi, da una parte il mondo comunista con le sue articolazioni (URSS (Stalin, Krusciov e successivi) – Maoismo – Titoismo – Hoxhaismo – Castrismo – Guevarismo – e le varianti asiatiche della Corea del Nord, Laos, Vietnam e quelle africane) e dall’altra il blocco occidentale, con l’inclusione del Giappone e con l’attenzione verso l’India come “la più grande democrazia del mondo” dopo l’indipendenza e, dopo il 1960, e l’inclusione di molti Paesi dell’Africa, il confronto non si misurava soltanto sulla politica o sull’economia o sulla ricerca scientifica o sulla potenza militare, ma anche sulla cultura della democrazia o sulle due culture della democrazia, che comunque esercitavano una influenza reciproca in un regime di competizione perenne.

    Sul piano della reciproca influenza culturale, l’attenzione si focalizzava sicuramente sull’esercizio delle libertà e della partecipazione democratica, con l’obiettivo di risollevare le condizioni sociali ed economiche dei popoli, che avevano tutti subìto la guerra mondiale.

    Tale attenzione si manifestava – prevalentemente nell’Europa Occidentale e negli altri Paesi a sistema democratico – nell’enfatizzare l’impegno con il principio di solidarietà verso le classi meno abbienti, per dimostrare che la condizione sociale ed economica, oltre che civile, di tali classi fosse migliore di quella delle classi popolari degli Stati a regime comunista.

    Il progresso dei popoli retti da sistemi democratici era evidente e il susseguirsi dei piani quinquennali degli Stati comunisti non sarebbe riuscito a raggiungere i livelli sociali ed economici dei primi.

    La motivazione ideologica del comunismo si infranse sulla mancanza di risultati rispetto ai livelli di benessere dei cittadini (benessere non solo economico, ma sociale, civile, diffusamente scientifico, culturale per evidente carenza di confronto a causa  dell’imposizione di una monocultura) e quindi il 1989 è la data storica del fallimento del comunismo con la caduta del Muro di Berlino e la successiva liquidazione dell’Unione Sovietica, per merito di uno dei più grandi politici della storia, Mikhail Gorbaciov.

    Mikhail Gorbaciov era insieme a Ronald Reagan quello che teneva in equilibrio il sistema mondiale dei blocchi e in quella fase la grande responsabilità dei due e dei rispettivi governi evitò che si innescasse uno sbilanciamento, che avrebbe messo in serio pericolo la pace e l’esistenza di milioni di cittadini nel mondo, nell’eventualità di una guerra atomica.

    La sconfitta ideologica del comunismo reale, nonostante il permanere in abbrivio in Cina e in qualche altro Paese, ma con modalità diverse, lascia al mondo l’altra ideologia, che aveva dimostrato di poter raggiungere risultati migliori e ne fa acriticamente un totem, dal quale prendeva il via la globalizzazione dei mercati (secondo la definizione economica) ma in effetti la globalizzazione dell’informazione, della cultura, della tecnologia, della ricerca, della “scienza ufficiale”, affermando di fatto una monocultura, all’inizio accettata trionfalisticamente, me che alla luce dei fatti rivela tutti suoi limiti economici, sociali, civili, umani.

    La cultura liberista

    A trent’anni dalla fine del comunismo e dall’inizio della globalizzazione i danni della monocultura liberista sono evidenti e anche i più grandi economisti non riescono a trovare una indicazione chiara per correggere tutto il disequilibrio creato e voluto.

    La soddisfazione dei bisogni (prima) e dei desideri dei cittadini diventa l’obiettivo di ogni manifestazione e di ogni attività intellettuale, economica, civile, sociale e la dimensione gradualmente si modifica da sociale ad individuale, incoraggiando la valorizzazione delle capacità dell’individuo, offrendo dei modelli che incitano alla conquista di posizioni sempre più evidenti nel contesto sociale di riferimento.

    Viene invertita la logica cristiana che gli ultimi saranno i primi; nel contesto terreno è sempre meglio essere primi, perché “il primo è primo, il secondo non è nessuno”, recita un adagio comune.

    Proprio in tale logica si costruisce un percorso sociale nel quale la competizione, che di per sé non è negativa, viene praticata a tutti i livelli e ad ogni costo, senza tenere in considerazione le condizioni di contesto e quindi la relativizzazione delle varie situazioni.

    In effetti si mutua la logica fisiocratica e liberista del “laissez faire, laissez passer”, anche nella società e quindi l’individualità prevale sulla socialità, annichilendo i rapporti interpersonali e piegandoli al conseguimento degli obiettivi personali in termini prioritari e alcune volte esclusivi.

    In tale contesto decadono quelle che vengono definite “sovrastrutture morali” e quindi si afferma la logica che è consentito tutto quello che può soddisfare i desideri dell’individuo, con la sola eccezione del rispetto dei “diritti umani” (e non sempre), sanciti dalle Carte ONU.

    Il modello di riferimento per costruire la società degli uomini è identico a quello economico liberista, per il quale si affermano le imprese più forti  sulle più deboli; nella società le classi meno abbienti, le persone affette da patologie congenite o croniche e con una ridotta capacità lavorativa, gli anziani, generano costi sociali, che la logica in voga subisce e tenta in ogni modo di ridurre – un esempio e la richiesta reiterata in tempi diversi della riduzione del “cuneo fiscale”, o la concentrazione di una categoria di cittadini nelle RSA per evitare l’assistenza domiciliare, che avrebbe effetti psicologicamente migliori – per affermare il principio che ognuno deve vivere del proprio lavoro secondo le proprie capacità; e se tali capacità sono insufficienti cosa fare ?

    Il principio della solidarietà e la dimensione sociale vengono quasi completamente estromessi dalla logica del vivere, senza che tale esclusione crei scandalo (l’Obamacare, che assicurava l’assistenza agli indigenti, in una parte non trascurabile del popolo statunitense ha suscitato scandalo e si è tentato di abrogarla).

    L’economia sociale di mercato di Wilhelm Ropke, fatta propria dai partiti ad ispirazione cristiana in Europa, invocata in Germania durante la Repubblica di Weimar, è stata applicata in Europa e in altri Paesi fino agli anni Novanta ed è stata soppiantata dalla pratica capitalistica dopo la caduta del Muro di Berlino, creando la situazione mondiale attuale.

    Negli USA si applicavano le teorie Keynesiane e John Kenneth Galbraith, dalla presidenza di Kennedy e successivamente per alcuni decenni, era uno degli economisti più ascoltati.

    Quando nella società cadono le protezioni sociali dei più deboli si compromette uno dei principi fondamentali della convivenza civile e democratica, perché si infrangono principi costituzionali non solo in Italia, ma anche in altri Paesi, nell’Unione Europea e si violano le Carte dell’ONU, che prevedono che in ogni Paese non è ammessa la discriminazione di cittadini, privi della capacità autonoma di provvedere a sé stessi.

    Quindi, sarebbe opportuno constatare che applicare il modello economico liberista nella società del mondo a sistema democratico ha creato disparità intollerabili e ha bloccato società in evoluzione, compromettendo il consolidato “ascensore sociale”, che portava i figli a creare condizioni migliori di quelle dei padri.

    Il blocco della dinamica sociale ha generato enormi sacche di inoccupazione e anche un grande impedimento all’adeguamento complessivo della società alla contemporaneità, perché ha lasciato senza sostegno coloro che avrebbero voluto e potuto contestualizzare la propria esistenza con i traguardi che costantemente vengono raggiunti.

    La pandemia ha evidenziato la situazione mondiale e anche le economie più forti o quelle che ritengono di avere le risorse per affrontare ogni problema si trovano in difficoltà, come effetto della politica liberista che gli Stati hanno lasciato che si realizzasse, espandesse e proliferasse senza alcun limite o condizione.

    La situazione attuale della società in ogni parte del mondo registra lo schiacciamento dei ceti medi e di quelli alto-borghesi verso il basso, allargando di fatto la fascia dei ceti poveri e incrementando, oltre la soglia fisiologica, la classe degli emarginati.

    Anche i sistemi fiscali sono condizionati dalla politica liberista, che lascia le grandi aziende multinazionali fuori dal sistema fiscale nazionale, consentendo di localizzare le sedi fiscali in Paesi a fiscalità favorevole o trattando di volta in volta la percentuale della contribuzione fiscale da corrispondere.

  • La globalizzazione della distruzione

    Mentre la guerra della Russia contro l’Ucraina continua in modo sempre più devastante, e vecchi e nuovi focolai restano accesi in troppe parti del mondo, le potenti esercitazioni che la Cina sta facendo alle porte  di Taiwan e del Giappone non solo rendono sempre più insicure vaste aree ma creano una rinnovata distruzione dell’ambiente.

    Missili, bombe, anche ufficialmente proibite, residui bellici abbandonati, mine nel terreno, uranio impoverito che si diffonde nell’aria insieme alle particelle d’amianto, ancora troppo presente ovunque, stanno distruggendo l’habitat di troppi territori, l’aria che respiriamo e rendono sempre più a rischio, anche per le conseguenze future, gran parte della popolazione.

    La guerra è un crimine verso le persone e contro l’ecosistema già duramente provato come dimostra il cambiamento climatico che sta portando devastante siccità ed altrettanto devastanti incendi ed allagamenti. Questo crimine avrà conseguenze per molti anni sia sulla salute di persone ed animali sia sulla fertilità del terreno e sulla salubrità dell’aria con uno spropositato aumento di carestie.

    L’incapacità di comprendere l’enormità del danno che stanno provocando coloro che fomentano, iniziano, proseguono guerre e gigantesche esercitazioni, con i più sofisticati e letali armamenti, è un rischio enorme per l’intera umanità e invano aspettiamo che voci autorevoli, se ancora ne esistano oltre Papa Francesco, prendano posizioni nette e trovino una strada comune per fermare quella che sta diventando la globalizzazione della distruzione.

  • E’ tempo di riscrivere le regole

    La guerra della Russia all’Ucraina ha messo in luce vari aspetti negativi della globalizzazione, che non ha tenuto conto delle realtà geopolitiche, ed evidenziato gli errori di coloro che hanno anteposto a tutto i loro momentanei interessi aziendali.
    Per comprendere meglio le scelte che dovremo fare, come Stati e come imprese, in uno scenario che ci mette di fronte ad una imminente catastrofe alimentare, con tutte le ovvie tragiche conseguenze, è bene ripartire dall’ingresso, nel 2001, della Cina nel WTO.
    La Cina infatti non è soltanto un colosso mondiale o lo Stato che minaccia di invadere Taiwan ma anche il nuovo potente alleato di Mosca, l’altra super potenza che, come la Cina, calpesta, con la stessa indifferenza, diritti umani e regole di mercato.
    Dall’ingresso del Dragone nell’Organizzazione Mondiale del Commercio avrebbero potuto anche scaturire vantaggi per tutti se le regole fossero state rispettate e se l’Occidente avesse avuto più attenzione nel valutare le effettive realtà degli altri Paesi e le imprese meno brama di arricchirsi, anche  a scapito di consumatori e lavoratori. Ormai è noto che per troppi anni la delocalizzazione non ha portato significativi vantaggi né alle popolazioni occidentali né, in gran parte, a quelli dei Paesi emergenti o in via di sviluppo ma certamente vantaggi  ai  governi autocratici  di quei paesi ed agli oligarchi loro legati.
    Nel 2001 il Pil della Cina era di 1339 miliardi di dollari, l’anno scorso, dopo 20 anni di WTO, è diventato di più di 15 mila miliardi di dollari grazie anche ai dazi minori per il suo import e alle tariffe migliori per le sue esportazioni. L’ingresso della Cina nel WTO, sponsorizzato da Clinton e accettato o condiviso più o meno da tutti, UE compresa, ha portato una serie di problemi proprio nel settore del commercio e della libera e corretta concorrenza e non ha risolto i problemi legati ad un maggior rispetto dei diritti umani o ad un miglioramento del sistema politico verso una, anche minima, democrazia, certamente invece in larga parte è migliorato il tenore di vita della popolazione cinese.
    Se per i cinesi il WTO è stato un grande vantaggio altri Paesi hanno subito gravi conseguenze con perdite enormi nell’occupazione ed ingenti danni a causa delle merci illegali, di quelle contraffatte e del dumping attuato dal governo di Pechino.

    Quando la Cina entrò nel WTO si impegnò a rispettare le regole commerciali degli altri Paesi membri dell’Organizzazione Mondiale ma questo non è avvenuto.  La Cina non tratta le imprese estere come quelle domestiche, le imprese di Stato non hanno ridotto il loro peso nell’economia, continuano gli aiuti di Stato alle imprese cinesi,i cinesi  vendono all’estero prodotti ad un prezzo inferiore del loro valore(dumping), le imprese straniere che aprono un’attività in Cina devono cedere ai partner cinesi, che devono avere obbligatoriamente, la loro tecnologia, continuano i furti di proprietà intellettuale, in Cina vi è discriminazione nell’applicazione delle regole di concorrenza, le aziende straniere non vincono appalti pubblici, non è liberalizzata la distribuzione di audiovisivi, le banche straniere non hanno lo stesso trattamento di quelle nazionali. Inoltre la Cina ha superato, anche attraverso la triangolazione, l’esportazione di materie e prodotti, come l’acciaio, per i quali esistono quote fissate e questi sono solo alcuni esempi. Tutto questo senza tenere conto che molti dei prodotti esportati sono fatti nei campi di lavoro forzato!

    Diversi sono stati i contenziosi aperti dal WTO contro la Cina: per aver superato il limite di esportazione di terre rare, per non aver adempiuti agli obblighi di trasferimento di tecnologia, per la violazione della proprietà intellettuale, per i sussidi dati ai suoi produttori di alluminio. Altri contenziosi sono stati aperti  in diverse occasioni dalla UE.

    Oggi, mentre infuria la battaglia del grano bloccato per colpa di Putin e una gran parte del mondo è sull’orlo della fame, sarebbe necessario anche affrontare i problemi che la Cina, alleatasi proprio con lo Zar alla vigilia dell’invasione dell’Ucraina, sta causando con la sua indifferenza alle regole che lei stessa aveva accettato nel 2001.
    La globalizzazione come è stata impostata non funziona più, il WTO deve essere rivisto: dall’organizzazione interna alle regole per i suoi componenti.

    Il mondo dall’inizio della guerra contro l’Ucraina, dopo le atrocità commesse dall’esercito russo e le dichiarazioni di molti esponenti del regime, a partire proprio da Putin, non è più lo stesso e dobbiamo cominciare a capirlo e ad agire di conseguenza, senza improvvisazioni e pressappochismi ma con lucidità e competenza sapendo che ogni scelta porta conseguenze, che la pace deve essere un costante obiettivo ma che non possiamo tramutarla in una resa di fronte alla violenza militare o economica.

  • Quale globalizzazione?

    A margine della tragedia della guerra e dei successivi approfondimenti relativi alle terribili conseguenze, molti commentatori, tra i quali anche il Ceo di Blackrock, un fondo privato con una dotazione finanziaria pari a tre volte il PIL italiano, concordano nell’affermare come il conflitto ponga la parola fine all’interno del vorticoso processo di ampliamento dei mercati definito “globalizzazione”.

    Tutte queste legittime analisi, tuttavia, esprimono un approccio francamente superficiale e soprattutto generato dalle nuove ed inattese difficoltà di approvvigionamento energetico, ma anche del settore primario, per la prima volta dal dopoguerra ad oggi, nella vecchia Europa in quanto la Cina ha già firmato un accordo con la Russia per assicurarsi la fornitura di gas mentre gli Stati Uniti, viceversa, avendo raggiunto l’autonomia energetica diventano adesso esportatori di energia.

    A queste difficoltà di approvvigionamento energetico si somma la problematica gestione delle filiere produttive le quali, negli ultimi decenni, hanno avuto uno sviluppo tentacolare ma disarticolato.

    Questo mercato globale nasce sostanzialmente con l’ingresso della Cina nel WTO innescando un processo di migrazioni produttive verso i paesi a basso costo di manodopera che molti hanno confuso con un nuovo modello economico strutturato e definito con il termine di “globalizzazione”.

    La mediazione dal mondo finanziario dei semplici approcci speculativi, il cui unico obiettivo rimane ieri come oggi la massima remunerazione del capitale, è stata applicata al complesso settore industriale forte di una totale assenza di regole condivise relativa ai flussi commerciali generati, contando quindi anche sulla mancanza di normative e di protocolli stringenti nella realizzare dei prodotti uniti ad una adozione minima di standard qualitativi a tutela dei consumatori e degli addetti alla produzione.

    Questa mia miope illusione speculativa ha determinato la possibilità per gli operatori finanziari, e soprattutto per quelli industriali, di avviare un processo di delocalizzazione produttiva verso Paesi con costi di manodopera irrisori.

    Tale migrazione “industriale” ha comportato l’azzeramento del vantaggio culturale ma per taluni settori manifatturieri si potevano definire come una vera supremazia industriale, quindi espressione culturale di know how professionale ed industriale espressi dall’Occidente come sintesi di un progresso di quasi 200 anni di storia industriale.

    Questo processo di annullamento del vantaggio culturale occidentale ovviamente è stato favorito da una delle classi politiche più miopi che la storia umana possa ricordare la quale, in preda ad un delirio ideologico, individuava, decennio dopo decennio, prima nello sviluppo della new economy, successivamente in una economia definita “post industriale” e recentemente nell’app e gig economy la via allo sviluppo delle nostre comunità. Senza dimenticare le responsabilità gigantesche del mondo accademico il quale, per puro snobismo e presunzione intellettuali, ha sempre definito il settore industriale come la Old Economy quando, viceversa, finalmente la crisi ne ridefinisce il ruolo sempre più centrale nelle politiche di sviluppo e di sostegno alla filiera.

    Il terribile combinato tra delirio ideologico-politico espresso anche attraverso politiche fiscali penalizzanti per i settori industriali unito a quello, anche più ridicolo, accademico e sempre supportati entrambi da una precisa volontà speculativa ha determinato i connotati di questo mercato globale il quale si è rivelato semplicemente come la semplice opportunità di azioni speculative sia finanziarie che produttive entrambe finalizzate a sfruttare il semplice fattore dei minori costi  nei paesi in via di sviluppo. Andrebbe ricordato, infatti, come all’interno di una globalizzazione reale (una sorta di Mec degli anni 70) sarebbe stato fondamentale prevedere l’adozione di una base normativa comune adottata da tutti i membri e fondamentale nella definizione del principio della concorrenza basato così su principi e fattori qualitativi e non semplicemente come è avvenuto negli ultimi 20 anni sulla ricerca del minor costo possibile nella realizzazione di un prodotto.

    La globalizzazione alla quale abbiamo assistito non ha generato ricchezza e benessere diffusi nei paesi all’interno dei quali le produzioni sono state spostate, in più ha reso più poveri i paesi dai quali queste delocalizzazioni sono partite.

    Emerge perciò evidente come, anche in seguito alle conseguenze del confronto bellico attuale, non si possa affermare che sia morta la globalizzazione ma la semplice deregolamentazione di un mercato globale e forse verrà meno una opportunità di speculazioni basata sulla ricerca del minor costo di produzione.

    L’occasione che si presenta ora è quella della nascita di un nuovo modello economico il quale, defunta questa visione di falsa globalizzazione rivelatasi solo come una zona franca globale, possa prosperare dalla ottimizzazione dei costi grazie all’innovazione tecnologica ed anche attraverso filiere più brevi e elastiche al fluttuare della domanda e gestibili all’interno di macroaree geografiche composte da stati con regole comuni non solo economiche ma anche democratiche.

    Non comprendere questa sostanziale differenza ma anche l’opportunità che si presenta dopo due anni di pandemia ed ora in piena economia di guerra definisce il declino culturale della nostra civiltà.

  • Globalizzazione: non solo mercato

    Mentre forze politiche e sindacali discutono, più o meno con cognizione di causa, su quali siano gli strumenti per garantire maggiore occupazione vale per tutti ricordare che molte importanti imprese italiane sono passate in mano estera e che, in un mondo globalizzato, questo passaggio dovrebbe essere legittimo solo se a monte esistono regole per garantire che la vendita non si tramuti, dopo un po’, in una marea di licenziamenti. La Bianchi, storica fabbrica di biciclette, è diventata di proprietà svedese, mentre la Atala, altro marchio storico, è diventata olandese come ricorda Mario Giordano in un articolo su Panorama. La Ducati è diventata della Wolkswagen, che ha anche la Lamborghini, la Ferretti, barche di lusso, è diventata cinese, la carta di Fabriano è di un fondo americano, la Riello anche, parte della De Longhi è giapponese, la Parmalat francese, i vini Gancia dei russi, gli oli Sasso e Bertelli degli spagnoli, le fattorie Osella e i biscotti Saiwa di una multinazionale americana, la Peroni è giapponese. La Stock di Trieste, comprata da fondi americani, è stata trasferita nella Repubblica Ceca, la Ideal Standard è stata chiusa dagli americani, e ricordiamo la recente chiusura della Gianetti ruote e della Gkn, diventate di proprietà di fondi britannici che hanno poi provveduto al licenziamento di centinaia di dipendenti.

    Globalizzazione significa maggiore mercato ed opportunità ma solo con regole comuni rispettate e nessun mercato etico, come si suol tanto dire oggi, può prescindere dai diritti dei lavoratori che a loro volta hanno doveri reciproci con l’azienda e il paese. La mancanza di regole comuni e rispettate ci ha portato al caos e all’eterno conflitto, speriamo che la pandemia in concomitanza con la questione ambientale possano diventare, dopo tanta sofferenza, anche l’occasione per creare una terza via di sviluppo.

  • Un mondo che non si pone mete

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 13 ottobre 2020.

    La recente enciclica Fratelli tutti aprirà inevitabilmente un profondo e vivace dibattito, in tutti i settori della società, non solo all’interno delle gerarchie vaticane. Ben venga, ce n’era bisogno. È una sfida forte al pensiero unico che la globalizzazione, economica, finanziaria e culturale, ha silenziosamente imposto nel mondo in questi ultimi decenni.

    Senza sottovalutare il suo richiamo etico, morale, oltre che religioso, noi laicamente ne vorremmo evidenziare alcuni aspetti che toccano l’economia e l’organizzazione sociale. La pandemia, ha detto Papa Francesco, ha evidenziato la frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che toccano tutti, nonostante l’iper-connessione.

    Tale frammentazione sembra in contraddizione con la globalizzazione. In realtà, il Papa dice che l’espressione “aprirsi al mondo” è stata fatta propria dall’economia e dalla finanza. Essa, però, «si riferisce esclusivamente all’apertura agli interessi stranieri e alla libertà dei poteri economici di investire senza vincoli né complicazioni in tutti i Paesi».

    Il pensiero unico sembra unificare il mondo ma in realtà divide le persone, le nazioni e i continenti. Mentre nella società umana si indebolisce la dimensione comunitaria, «aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o di spettatori». Dove il più forte s’impone e protegge i propri interessi a discapito dei più deboli e poveri. Ovviamente, «in tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il divide et impera».

    L’aspirazione al dominio dei più forti, dei mercati, mira a «demolire l’autostima» degli altri. «Da ciò traggono vantaggio l’opportunismo della speculazione finanziaria e lo sfruttamento, dove i poveri sono sempre quelli che perdono», ammonisce Papa Francesco. L’enciclica è una forte e precisa critica al liberismo economico, quale proiezione dell’individualismo più radicale. Tanto che nel testo si dice che «la mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità». Ci si ingannerebbe se pensassimo che «accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune.»

    Secondo noi, questa falsità è la base dell’ideologia e della cosiddetta teoria del liberismo economico radicale. È stata elaborata già all’inizio del 1700 nel libro La favola delle api: ovvero, vizi privati, pubbliche virtù di Bernard de Mandeville. L’autore descrive la vita dell’alveare. «Essendo così ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità, era adulata in pace, temuta in guerra. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica». Ma, scriveva Mandeville, quando le api vollero diffondere per tutto l’alveare l’onestà e la giustizia, allora la vanità e il lusso, che davano lavoro e commercio, diminuirono e con essi anche la prosperità dell’alveare.

    «Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa.», sentenziava Mandeville. Non si tratta evidentemente di una semplice favola per grandi. È, invece, la giustificazione di una società ingiusta che ha avuto, però, una grande influenza su molti studiosi di economia, a partire da Adam Smith, del quale la «mano invisibile» regolerebbe in modo autonomo e automatico l’andamento dei mercati.

    In merito Papa Francesco fa sentire la sua voce. «Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del «traboccamento» o del «gocciolamento», senza nominarla, «come unica via per risolvere i problemi sociali. Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’iniquità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale», afferma, «alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato», ricorda ancora l’enciclica, denunciando che «la speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage».

    Come anche noi più modestamente abbiamo spesso scritto, il Papa ripete che «la crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale».

    Purtroppo non c’è stato un ripensamento delle politiche economiche e sociali che governano il mondo!

    L’enciclica, giustamente, vuole proporre una riforma nei rapporti economici e politici a livello globale. Poiché «la società mondiale non è il risultato della somma dei vari Paesi, ma piuttosto è la comunione stessa che esiste tra essi», serve «una nuova rete nelle relazioni internazionali». Pertanto nel testo si afferma: «È necessaria una riforma sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni».

    Secondo Papa Bergoglio un’iniziativa urgente riguarda il debito dei paesi più poveri. Egli chiede che «si assicuri il fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza e al progresso, che a volte risulta fortemente ostacolato dalla pressione derivante dal debito estero. Il pagamento del debito in molti casi non solo non favorisce lo sviluppo bensì lo limita e lo condiziona fortemente».

    Il secolo XXI registra un’evidente perdita di potere degli Stati nazionali a causa dei caratteri transnazionali che oggettivamente ha l’odierna attività finanziaria, limitando così il ruolo della politica e le stesse scelte dei singoli governi. In questo contesto, l’enciclica afferma che «diventa indispensabile lo sviluppo di istituzioni internazionali più forti ed efficacemente organizzate, con autorità designate in maniera imparziale mediante accordi tra i governi nazionali e dotate del potere di sanzionare.»

    Il testo è d’indubbio valore, per molti versi rivoluzionario, sicuramente stimolante per quei governanti che hanno ancora a cuore il destino non solo de proprio Paese ma anche quello del mondo in questo terzo millennio.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La produttività da fattore economico a mito predigitale

    Da oltre vent’anni il  nostro Paese non esprime una politica industriale in quanto ministri, accademici ed economisti periodicamente si sono innamoratoli della New Economy prima e di app, gig and sharing economy successivamente.

    Ora, come d’incanto, dal lessico quotidiano queste “innovative definizione di economie” sono assolutamente sparite.

    Contemporaneamente la domanda internazionale che aveva illuso i governi Renzi e Gentiloni di aver trovato la quadra per lo sviluppo del nostro Paese si ferma portando la nostra crescita allo 0.0%. Ecco, allora, riemergere le convinzioni e soprattutto le dottrine economiche obsolete precedenti la creazione del mercato globale. In questo senso, in considerazione del profilo della politica economica perseguita, l’attuale compagine governativa, dopo aver negato ostinatamente le difficoltà internazionali, si ritrova a gestire l’emergenza senza possedere alcuna competenza. Basti pensare alle previsioni dell’ottobre 2018 con una maggioranza di governo che si ostinava ad affermare la propria sicurezza in una crescita del +2% ed addirittura del + 3% per il 2019 e il 2020.

    L’ultima rilevazione statistica relativa al PIL dell’anno in corso vede amaramente una “crescita” zero, mentre per il 2020 la crescita è stata calcolata probabilmente in un misero +0,3%, “solamente” -2,7 punti percentuali in meno rispetto alle previsioni governative.

    A completare, tuttavia, il quadro disarmante relativo all’analisi economica assistiamo alle dichiarazioni dell’opposizione rispetto a questo governo e alla sua politica economica attraverso anche i  loro economisti “di riferimento” che parlano della diminuzione della produttività come causa della nostra mancata   crescita. Addirittura alcuni analisti si sono spinti persino ad affermare che se fossero stati mantenuti i livelli di produttività espressi nel 2018 oggi assisteremmo ad una crescita del +1%. Una analisi decisamente risibile e che comprende due errori clamorosi relativi al nuovo mercato globale.

    Per evidenziare tali ingiustificabili analisi  basta prendere ad esempio la Brembo. L’azienda lombarda si caratterizza per un alto tasso di produttività, frutto di continui investimenti in produttività e in digitalizzazione tanto da renderla una delle prime aziende al mondo nei sistemi frenanti. Eppure nel primo trimestre 2019 l’azienda di Bergamo ha registrato un calo del fatturato del -1,2%, con una diminuzione degli utili del 11,9% (prima evidenza dell’errore di valutazione).

    Passando ai quattordici distretti industriali del nord-est, come  quello della Calzatura della Riviera del Brenta, si nota che nel primo trimestre ha aumentato la cassa integrazione di oltre il 22% . Contemporaneamente, sempre nei distretti del Nord Est, solamente due, occhialerie e agroalimentare, risultano in crescita mentre tutti gli altri presentano flessioni e comunque arretramenti.

    Tornando alle analisi che si sono lette in questi giorni sia Brembo che i distretti industriali del Nord-Est rappresentano modelli di realtà industriali che più hanno investito nella digitalizzazione e, di conseguenza, nell’aumento della produttività: tuttavia registrano riduzioni di fatturati e soprattutto di ordinativi.

    La ragione di questa pericolosa inversione di tendenza rispetto al 2018 è identificabile nella diminuzione della domanda internazionale e, di conseguenza, le nostre aziende che fanno parte per la loro forte capacità innovativa delle filiere internazionali pagano una diminuzione del fatturato e degli ordini. Una cosa talmente evidente, essendo l’economia italiana Export Oriented ( primo errore di valutazione).

    In questo contesto di difficoltà internazionale, Volkswagen, in controtendenza, aumenta la redditività del 10% grazie al grandissimo successo della T-roc che dimostra, ancora una volta, come l’innovazione per risultare fondamentale e soprattutto vincente fino ad essere decisiva deve diventare innanzitutto espressione di una “innovazione di prodotto” e successivamente” di processo” (ed ecco chiarito il secondo errore di queste analisi  che si dichiarano in contrapposizione con la politica economica del governo).

    In questo contesto globale, anche se i distretti industriali hanno acquisito sempre nuova produttività grazie agli investimenti nell’innovazione tecnologica e di prodotto soffrono le dinamiche internazionali.

    Sembra invece incredibile come, ancora oggi, la produttività, che rappresenta sicuramente un fattore economico importante (espressione semplicemente della innovazione di processo), non sia così determinante in un mercato le cui dinamiche generali vengono  determinato dalla domanda (in quanto i nostri mercati sono saturi) e non certo dall’offerta come qualcuno sembra dimenticare.

    Si rimane basiti e senza parole nell’ascoltare dottrine economiche del governo ma al tempo stesso le posizioni espressione del fronte politico opposto, entrambe dimostrazione inequivocabile di un declino culturale che impedisce a questi soggetti di adattarsi alla nuova realtà ma soprattutto ai nuovi fattori del mercato globale. Sarà sempre troppo tardi quando queste dottrine toglieranno peso ai singoli fattori economici per capire che al mercato globale si reagisce con strategie globali e non attraverso il mantenimento di un parametro economico inteso come il mito predigitale della produttività.

     

     

  • Chi ritiene negativa la globalizzazione si goda lo spettacolo della Turchia

    Di seguito l’analisi che il giurista Sabino Cassese ha pubblicato sul Corriere della Sera alcuni giorni fa per spiegare perché il sovranismo non possa pretendere di sconfiggere la globalizzazione e possa solo rappresentare un problema, come dimostra la Turchia, non solo per i Paesi i cui governi scelgono quella via ma anche per chi a quei governi non soggiace e non li ha eletti.

    ‘Perché Erdogan è messo in difficoltà dalla crisi che ha quasi dimezzato il valore di scambio della lira turca? A quale titolo l’Unione Europea ha stabilito nel 2014, e successivamente ampliato, sanzioni contro la Russia? Perché Polonia e Ungheria debbono dar conto all’Unione Europea delle loro leggi sull’ordinamento giudiziario? Perché l’Italia deve sottostare ai criteri dell’Unione Europea sul deficit e sul debito pubblico? Questi vincoli hanno origini e ragioni diverse e discendono da fonti diverse, da regole del diritto internazionale, da accordi tra Stati, dai mercati.

    L’Unione Europea ha un accordo di associazione e uno di libero scambio con l’Ucraina e ha introdotto sanzioni (restrizioni economiche e individuali) contro la Russia, colpevole di aver annesso illegalmente la Crimea e di aver destabilizzato l’Ucraina. Vuole, quindi, punire una evidente violazione del diritto internazionale. I mercati (risparmiatori e investitori, possessori di lire turche) hanno scarsa fiducia sia nei programmi politici ed economici del governo turco, sia nella qualità dell’«équipe» che li gestisce. Chi possiede una valuta vuole aver assicurazioni sull’affidamento che dà l’emittente.

    I Paesi membri dell’Unione hanno sottoscritto trattati in cui si impegnano a rispettare alcuni principi giuridici (indipendenza dei giudici) ed economici (equilibrio di finanza pubblica.

    Essi debbono quindi dar conto all’Unione del rispetto di tali principi, se limitano l’indipendenza dei giudici o hanno un alto debito pubblico con bassa crescita economica (lo spread sale e la borsa scende).

    Pur provenendo da fonti diverse, questi vincoli hanno un tratto in comune. Discendono dalla interdipendenza che lega gli Stati nel mondo. Essi non sono più isole separate. Si influenzano reciprocamente. Le sorti dell’uno sono legate alle sorti dell’altro. Un vicino aggressivo può domani essere un pericolo. La politica economica allegra di un «partner» deve preoccupare gli Stati che sono associati ad esso. A dispetto dei «sovranisti», quindi, gli Stati non sono interamente sovrani, devono godere anche della fiducia dei propri vicini e dei mercati. Quelli che chiamiamo mercati sono anche loro, in ultima istanza, composti di risparmiatori-investitori, quindi di «popolo». Se, per un verso, gli Stati controllano i mercati, per altro verso sono i mercati a controllare gli Stati. Tra gli studiosi della globalizzazione, questa viene chiamata «horizontal accountability», per dire che i governi non debbono rispondere solo ai propri elettorati, ma anche, orizzontalmente, ad altri governi e ad altri popoli. Non basta godere della fiducia dei propri elettorati, bisogna anche rassicurare i mercati e dare affidamento ai propri vicini. È bene che questo accada? Se le sorti sono comuni, se la crisi di un Paese può trascinare altri nella caduta, è certamente utile che tutti vengano richiamati al rispetto delle regole condivise. I «sovranisti» lamenteranno l’invasione di altri protagonisti nella vita degli Stati, una diminuzione dei poteri del popolo. Ma questo perché hanno un concetto troppo elementare della democrazia, intesa come un rapporto esclusivo, stretto soltanto tra un popolo e il suo governo’.

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