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  • In attesa di Giustizia: prossima fermata Rebibbia

    L’ala del Falcon bianco senza insegne dei servizi segreti si inclinò quasi a fare un inchino mentre l’aereo iniziava la virata verso il litorale laziale dopo un lungo volo dalla Bolivia: Cesare Battisti stava ritornando a casa.

    Ne avevamo trattato alcune settimane fa, formulando l’auspicio che le difficoltà connesse alle ricerche su un territorio molto esteso non estenuassero gli investigatori alla ricerca dell’assassino fuggiasco: i nostri agenti si sono dimostrati ancora una volta all’altezza della situazione con un’indagine tecnica di meticolosa e mirata intercettazione accompagnata da un lavoro tipico da “piedipiatti” battendo palmo la zona dove avevano tracciato la presenza del latitante e mostrandone la foto a negozianti, baristi, passanti.

    Rapidissima è stata la consegna da parte delle Autorità Boliviane, che hanno deluso le aspettative di un nuovo asilo politico, e questa tempistica richiede qualche spiegazione per rispondere a immaginabili domande che i lettori si saranno fatti in proposito.

    Molto semplicemente, la Bolivia  potendo scegliere tra dare corso a una doppia richiesta di estradizione pendente sul capo di Battisti (una, storica, dell’Italia e una più recente legata al mandato di arresto emesso dal Brasile) ha optato per una terza via possibile: l’espulsione come persona non grata dal territorio nazionale dopo averne eseguito la cattura che è avvenuta ad opera di una squadra mista di operanti boliviani dell’Interpol e italiani.

    Come conseguenza, non diversamente da quanto accade quando da noi viene espulso un extracomunitario, Battisti è stato imbarcato sul primo volo diretto al Paese di origine: con la differenza che non si trattava di un semplice cittadino straniero privo del permesso di soggiorno ma di un latitante in stato di arresto e – dunque – consegnato agli agenti incaricati della sua cattura.

    Questa scelta, tra l’altro, oltre che a velocizzare l’iter (diversamente si sarebbe dovuti passare da una procedura di estradizione prima nei confronti del Brasile e poi a quella verso l’Italia con tutte le immaginabili conseguenze sotto il profilo dei ritardi a causa di appelli e ricorsi) ha garantito che la pena che verrà eseguita sarà quella dell’ergastolo. Anche questo profilo va spiegato.

    Invero il Brasile, come molti Paesi di ispirazione giuridica iberica, non conosce nel proprio ordinamento il carcere a vita, dunque l’estradizione avviene solo con il patto che al condannato verrà fatta scontare una pena massima non perpetua: come dire, trent’anni al massimo. Si immagini che proprio per questa ragione la Spagna era diventata negli anni ‘70/’80 il buen retiro di molti catturandi italiani che rischiavano o avevano già avuto irrogato l’ergastolo e si dovette arrivare ad un trattato apposito ad inizio millennio per facilitarne arresto e consegna. Del resto, anche noi, per analoghe ragioni, non estradiamo verso gli Stati Uniti soggetti a rischio di pena capitale se non viene assicurato che soggiaceranno – al più – all’ergastolo.

    Tutto questo in base a norme del diritto internazionale, trattati di cooperazione giudiziaria ed estradizione. Ma l’espulsione è un’altra cosa, è istituto giuridico ben diverso ed ha segnato, infine, il destino di un uomo sfuggito per fin troppo tempo alle sue responsabilità.

    Qualcuno dirà: ma dopo quarant’anni ha ancora senso una sanzione che, per dettato costituzionale, dovrebbe essere con finalità rieducative? Certo che sì, perché la pena assolve anche a scopi diversi, di natura retributiva: diversamente l’illecito penale resterebbe privo di conseguenze per decorso del tempo (e già, in parte, è così per reati meno gravi dell’omicidio).

    Comunque, un po’ di rieducazione non farà male nemmeno a Cesare Battisti, ammesso che riesca: unico tra una cinquantina di latitanti in condizioni analoghe alla sua che aveva il vezzo di farsi beffe della giustizia, delle sue vittime, del nostro Paese, facendosi ritrarre sorridente a brindare alla libertà e alla fortuna che ne accompagnava la fuga ogni volta che segnava una nuova tappa.

    All’aeroporto di Ciampino gli sarà stato consegnato un ordine di esecuzione con la dicitura “fine pena: mai” e da lì sarà stato condotto, come vuole la legge, nel carcere più vicino: quindi Rebibbia. E tutto questo, probabilmente, gli avrà spento il sorriso. L’attesa di Giustizia è durata quasi otto lustri ma, alla fine, è stata soddisfatta.

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