guerra

  • Azerbaijan, Armenia reject talks as Karabakh conflict widens

    Armenia and Azerbaijan accused one another on Tuesday of firing directly into each other’s territory and rejected urges to hold peace talks as their conflict over the Nagorno-Karabakh region continued.

    Both countries were part of the Soviet Union and have been involved in a territorial conflict since gaining independence within the 1990s. The main issue is the disputed Nagorno-Karabakh region, internationally recognised as part of Azerbaijan but controlled by ethnic Armenians.

    Armenian Prime Minister Nikol Pashinyan said on Tuesday that the atmosphere was not right for talks with Azerbaijan. Azerbaijan’s president Ilham Aliyev has also rejected any possibility of talks with Armenia.

    On Tuesday, Armenia’s foreign ministry said a civilian was killed in the Armenian town of Vardenis after it was shelled by Azeri artillery and targeted in a drone attack. Azerbaijan’s defence ministry said that from Vardenis the Armenian army had shelled the Dashkesan region inside Azerbaijan. Armenia denied those reports.

    Armenia, which earlier accused Turkey of sending mercenaries to back Azerbaijani forces, said a Turkish fighter jet had shot down one of its warplanes over Armenian airspace, killing the pilot. Turkey has denied the claim.

    On Tuesday, the United Nations’ Security Council expressed concern about the clashes, condemned the use of force and backed a call by UN chief Antonio Guterres for an immediate halt to fighting.

    Nagorno-Karabakh has reported the loss of at least 84 soldiers. The current incident is the most serious spike in hostilities since 2016, the when the nations fought for 4 days in the region. The violence resulted in the deaths of over 90 troops on each side and over a dozen civilians.

  • La Libia cerca una tregua e pensa a elezioni a marzo ma Haftar non accetta

    La cautela è d’obbligo dopo nove anni di guerra civile alternati da periodi di tregua più o meno
    lunghi. Ma nel cammino accidentato della Libia post-Gheddafi torna ad affacciarsi la possibilità di una svolta: le autorità rivali del governo di Tripoli e del parlamento di Tobruk hanno annunciato un cessate il fuoco duraturo e, soprattutto, la convocazione di elezioni a marzo. Con il plauso della comunità internazionale. Anche se per il momento l’uomo forte dell’Est, il generale Khalifa Haftar, tace.

    La notizia di una cessazione delle ostilità è arrivata dopo settimane di intensi negoziati tra le parti, sotto la regia dell’Onu. Favoriti dallo stallo prolungato sulla linea del fronte Sirte-Jufra, dove a giugno la controffensiva delle truppe fedeli al premier Fayez al Sarraj si era fermata per la
    resistenza delle milizie di Haftar.  A rompere gli indugi è stata Tripoli in una nota in cui Sarraj “ha ordinato a tutte le forze militari di osservare un cessate il fuoco immediato in tutti i territori libici”. Come atto di “responsabilità politica e nazionale”, ma anche in considerazione “dell’emergenza coronavirus”. Sarraj ha inoltre formalizzato la “richiesta di elezioni presidenziali e parlamentari a marzo sulla base di un’adeguata base costituzionale su cui – ha affermato – le parti concordano”. In un comunicato distinto anche le autorità della Cirenaica hanno dichiarato il cessate il fuoco e previsto elezioni “prossimamente”. “Cerchiamo di voltare pagina”, ha detto Aguila Saleh, il leader del parlamento di Tobruk che ha costituito il braccio politico di Haftar nella sua lunga e infruttuosa campagna per prendere il controllo di Tripoli.  L’accordo, se dovesse essere finalizzato, porterebbe finalmente alla piena ripresa dell’attività petrolifera, vitale per l’economia libica. Ripresa già in qualche modo avviata nei giorni scorsi da Haftar, che ha riaperto i pozzi della Mezzaluna dopo 7 mesi. Nel frattempo i ricavi dell’export di greggio saranno congelati nella banca dell’ente nazionale, la Noc.

    La possibile svolta nel conflitto libico è stata accolta con unanime sollievo. Dall’Onu alla Lega Araba, dagli Stati Uniti all’Italia.  I nodi nel percorso di pace, tuttavia, restano. Almeno a leggere per esteso le dichiarazioni dei due schieramenti. Tobruk, ad esempio, non ha esplicitato una data delle elezioni, al contrario di Tripoli. C’è poi la questione Sirte, che Sarraj vorrebbe “smilitarizzata”. Mentre Saleh a questo non ha fatto accenno, anzi ha rilanciato proponendo che la città natale di Muammar Gheddafi, a metà strada fra Tripoli e Bengasi, diventi la capitale di un nuovo governo. Entrambi hanno fatto riferimento alla necessità dell’uscita dal paese di “forze straniere e mercenari”, ma Tobruk ha insistito anche sullo “smantellamento delle milizie”. Che di fatto sono state la rete protettiva di Sarraj. Dopo 48 ore di silenzio, però lo stato maggiore di Khalifa Haftar ha messo in chiaro che i giochi in Libia sono tutt’altro che chiusi. Il suo portavoce ha liquidato l’annuncio del cessate il fuoco proclamato da Tripoli come “marketing mediatico” per nascondere un attacco a Sirte con il sostegno turco.

    Il portavoce di Haftar, Ahmed al Mismari, ha affermato che “la Turchia con le sue navi e fregate si prepara ad attaccare Sirte e Jufra”, dove le milizie dell’est sono asserragliate dopo aver arrestato la controffensiva dei governativi. Mismari ha aggiunto che “delle forze sono state trasferite da Misurata alle zone di Al Hicha, a sud est della città, dopo una riunione tra il capo di stato maggiore turco e un numero di ufficiali e capi milizia di Misurata”. Ossia il gruppo di combattenti più preziosi per Tripoli, che grazie al decisivo sostegno di mezzi militari turchi e dei combattenti siriano filo-Ankara sono riusciti a riconquistare il nord-ovest del Paese. Secondo Mismari, “è prevedibile che le forze e le milizie che avanzano ora si preparino ad attaccare le nostre unità a Sirte e Jufra, per avanzare poi verso la zona della Mezzaluna petrolifera, a Brega e Ras Lanuf”. E se ciò avvenisse, ha avvertito, “le nostre forze armate sono pronte a fronteggiare il nemico”.

    Haftar attraverso i suoi ha fatto sapere di respingere una “iniziativa” di pace “scritta da un’altra capitale”. Un’iniziativa che rischia di far tramontare definitivamente la sua stella, tanto più se lo stesso Saleh dovesse scaricarlo, prendendo atto che la sua campagna per cacciare Sarraj da Tripoli debba essere archiviata una volta per tutte. Sarraj, del resto, ha più volte ripetuto che nel futuro della Libia “non c’è posto per chi ha le mani sporche di sangue”. Ossia Haftar.

    Gli sponsor dei vari contendenti, nel frattempo, restano alla finestra. E non è detto che, bizze di Haftar a parte, Paesi come Turchia, Egitto o Russia siano pronti a rinunciare alla loro influenza sulla Libia. Nonostante gli auspici di Tripoli e Tobruk “sull’uscita delle forze straniere e dei mercenari”.

  • Ucraina, raggiunto un accordo per il cessate il fuoco

    Funzionari del governo ucraino, separatisti filo-russi e negoziatori dell’OSCE hanno concordato i termini per un cessate il fuoco nell’Ucraina orientale a partire dal 27 luglio.

    “Il regime del cessate il fuoco, se osservato dall’altra parte, è un presupposto fondamentale per l’attuazione degli accordi di Minsk e apre la strada all’attuazione di altre disposizioni di tali accordi. La svolta è il risultato del lavoro efficace della delegazione ucraina con il sostegno dei nostri partner internazionali a Berlino e Parigi”, fanno sapere dalla segreteria del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, eletto l’anno scorso con la promessa di porre fine al conflitto nelle regioni orientali di Donetsk e Luhansk.

    I leader europei avevano chiesto di raggiungere l’accordo come prerequisito per tenere un nuovo vertice sulla crisi ucraina.

    Più di 13.000 persone, tra truppe ucraine e ribelli sostenuti dalla Russia, hanno perso la vita nel conflitto cominciato nel 2014, quando Mosca ha annesso con la forza la penisola di Crimea in Ucraina e ha sostenuto la ribellione ad est. I combattimenti più importanti si sono conclusi con un cessate il fuoco del 2015 mediato da Germania e Francia, ma gli sforzi per l’attuazione si sono ridotti, con la Russia che nega di avere truppe nell’Ucraina orientale.

  • Russia e Cina pongono il veto alla risoluzione ONU per gli aiuti umanitari in Siria ma l’UE tira dritto

    L’UE contro Russia e Cina dopo che i due Paesi hanno ripetutamente posto il veto ad una risoluzione delle Nazioni Unite per la fornitura di aiuti umanitari in Siria. Il responsabile della politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, non ha usato mezzi termini per commentare la decisione: “L’approccio non costruttivo di alcuni membri del Consiglio di sicurezza è tanto più deplorevole in un momento in cui i bisogni non sono mai stati così grandi e nel contesto della pandemia di coronavirus”.

    La risoluzione è stata infine approvata sabato scorso, dopo cinque tentativi, e solo dopo l’astensione di Russia e Cina. Alle Nazioni Unite è consentito solo un punto di attraversamento dalla Turchia, il cosiddetto Bab al-Hawa, rispetto ai due precedentemente disponibili. Il limitato accesso per la fornitura di assistenza umanitaria d’emergenza penalizzerà migliaia di persone bisognose nella Siria nordoccidentale poiché ostacolerà la consegna di forniture salvavita.

    L’UE continuerà comunque a sostenere la popolazione siriana in difficoltà, nonostante le circostanze sfavorevoli. Borrell ha anche sottolineato che il conflitto richiede una soluzione politica e non militare, citando i risultati di una conferenza sul futuro della Siria, tenutasi a giugno a Bruxelles.

     

  • L’UE chiede un cessate il fuoco immediato in Libia

    I ministri degli Esteri di Francia, Germania e Italia con l’Alto rappresentante diplomatico dell’UE Josep Borrell hanno chiamato tutte le parti in conflitto in Libia per un immediato cessate il fuoco.

    In una dichiarazione congiunta rilasciata martedì, Jean-Yves Le Drian, Heiko Maas e Luigi Di Maio hanno esortato “tutte le parti libiche e internazionali a fermare in modo efficace e immediato tutte le operazioni militari e ad impegnarsi costruttivamente nei negoziati 5 + 5, sulla base del progetto di accordo del 23 febbraio”. Nel documento si legge inoltre che le parti in conflitto dovrebbero “impegnarsi in modo costruttivo” nel dialogo intra-libico guidato dalle Nazioni Unite al fine di raggiungere un accordo politico.

    La dichiarazione congiunta ha fatto seguito alla telefonata tra Angela Merkel e Abdel Fattah el-Sisi in cui la cancelliera tedesca ha fatto sapere al presidente egiziano che i negoziati sostenuti dall’ONU devono rimanere la chiave per raggiungere una tregua in Libia. Preoccupazione per l’escalation di violenze nel Paese è stata espressa dalla Merkel anche nella telefonata che è seguita con il presidente russo Vladimir Putin.

    Il governo di accordo nazionale (GNA), riconosciuto a livello internazionale, guidato da Fayez al-Sarraj, si oppone alle forze dell’esercito nazionale libico (LNA) sotto il comando del generale Khalifa Haftar. Il 6 giugno el-Sisi con la “Dichiarazione e l’Iniziativa del Cairo” ha chiesto una serie di misure, tra cui un cessate il fuoco l’8 giugno, le elezioni per un consiglio presidenziale del popolo libico sotto l’egida delle Nazioni Unite, la partenza di tutti i mercenari dalla Libia e la ripresa dei colloqui militari 5 + 5

  • Quarto Reich? La Germania fa dell’anniversario della resa la via per l’europeismo

    Quest’anno perOgg la prima volta, e per ora è previsto che sia anche l’unica, l’8 maggio il Land di Berlino si è fermato per festeggiare la capitolazione della Germania nella Seconda guerra mondiale. La resa incondizionata della Wehrmacht nel 1945 decretò la liberazione dal nazionalsocialismo in un Paese che, dopo aver provocato il conflitto, finì in ginocchio. “Non esiste la fine della memoria, e non c’è possibilità di redenzione dalla storia”, ha detto il capo dello Stato Frank-Walter Steinmeier, con parole come sempre inequivocabili. “La storia tedesca è una storia rotta. A questa appartiene la responsabilità di milioni di assassinii e di altrettanta sofferenza. Questo ci fa il cuore a pezzi. Per questo, si può amare questo Paese soltanto con il cuore a pezzi”.

    Steinmeier ha colto questa occasione anche per riaffermare lo spirito europeista della Germania, lanciando un appello all’unità europea, che vacilla proprio nel tempo della pandemia, e alla difesa della democrazia. “Mai più – ha affermato – significa mai più soli! Dobbiamo tenere l’Europa insieme. Come europei dobbiamo pensare, sentire ed agire. Se noi in Europa, anche dentro e dopo questa pandemia, non restiamo insieme, non rendiamo onore a questo 8 maggio”, ha incalzato il presidente socialdemocratico. “All’epoca fummo liberati – la chiosa -. Oggi dobbiamo liberare noi stessi. Dall’odio, dalla xenofobia e dal disprezzo della democrazia”. Al suo fianco, nel monumento alle vittime della guerra della ‘Neue Wache’ di Berlino dove sono state poste delle corone di fiori – l’atto di Stato previsto inizialmente con 1.600 ospiti è stato disdetto a causa del coronavirus – c’era la cancelliera Angela Merkel, che ha telefonato al presidente russo Vladimir Putin, a quello francese Emmanuel Macron e all’americano Donald Trump per ricordare “i milioni di vittime e la sofferenza incommensurabile” provocata dalla Germania nazista con la guerra. Alla commemorazione erano inoltre presenti i rappresentanti degli organi dello Stato: il presidente del Bundestag, Wolfgang Schaeuble, il presidente del Senato, Dietmar Woidke e il presidente della Corte costituzionale Andreas Vosskuhle.

    Tornando al conflitto provocato da Adolf Hitler, che provocò la morte di circa 60 milioni di persone nel mondo uccise 6 milioni di ebrei europei nell’orrore dei campi di sterminio, Steinmeier ha ribadito che non è possibile tirare una linea col passato: “Chi lo fa toglie valore a tutto quello che abbiamo conquistato da allora e rinnega il seme essenziale della nostra democrazia”. Questa festa una tantum ha riguardato soltanto il calendario del Land di Berlino. “Che debba diventare un giorno di festa nazionale, oppure no, lo deciderà il Parlamento – ha affermato il ministro degli Esteri Heiko Maas -. La cosa che conta è che, anche in Germania, l’8 maggio venga considerato nel modo giusto. Come giornata della liberazione. Come una giornata che si possa davvero festeggiare. E che ci rammenti quanta sofferenza abbiamo portato al mondo e quale responsabilità viene da questo per noi tutti”.

  • US tells Tehran-backed Houthis to stop oppressing Yemen’s Baha’i community

    The United States issued a warning to Yemen’s Iranian-backed Houthi rebels to drop a series of trumped-up charges against members of the country’s Baha’i community

    Sam Brownback, the US Ambassador for International Religious Freedoms, expressed concern about reports that a court in the Houthi-controlled capital Sanaa is summoning members of the Baha’i faith to stand trial on charges of apostasy and espionage.

    “We urge them to drop these allegations, release those arbitrarily detained, and respect religious freedom for all,” Brownback wrote on Twitter.

    The international Baha’i community has denounced the court cases as “religiously-motivated sham trials” and accused the Houthi court of prosecuting the Baha’i community under “directives from the Iranian authorities.”

    “The Baha’is that are held in Sanaa are innocent and the physical and mental torture they are experiencing is designed to force them to admit to crimes they have not committed,” Bani Dugal, the principal representative of the Baha’i International Community, said in a statement.

    The mainly Shiite Houthis are financed, trained, and armed by the Islamic Republic of Iran, which restricts the rights of Baha’is, despite the fact that it allows freedom of religion for Christians, Jews, and Zoroastrians in Iran.

    Dozens of Baha’i leaders and followers have been arrested and imprisoned by the Houthi movement in recent years, according to religious discrimination advocacy groups.

    The current estimates indicate that several thousand Baha’is still live in Yemen despite years of civil war and instability in the country. Hamed bin Haydara, the head of a Baha’i group in Yemen was sentenced to death in 2018 for the same charges of espionage and apostasy.

    The international Baha’i community said he was arrested in 2013 and later beaten and tortured. Haydara was later forced to sign, while blindfolded, documents that admitted his guilt.

     

  • Accordo USA-talebani: valeva la pena tutto quello che è accaduto?

    19 anni fa, dopo i tragici attentati negli Stati Uniti, iniziò la lunga odissea in Afghanistan, la guerra voluta dagli Stati Uniti nella quale sono stati coinvolti soldati di molte nazioni tra le quali l’Italia. Gli attentati dell’11 settembre seguivano l’omicidio, avvenuto a tradimento in Afghanistan, del comandante Massoud il 9 settembre per mano di terroristi islamici provenienti dal Belgio. Massoud era stato pochi mesi prima in Europa per incontrare governi e forze politiche nella speranza di trovare aiuto per sconfiggere i talebani del mullah Omar, alleati con Osama Bid Laden, che si stavano impadronendo del paese. Al Qaeda si era già insediata in Somalia ed il progetto era di espandere la jihad nel mondo ed il regime del terrore con attentati sanguinari  Nel suo viaggio in Europa l’eroe afgano, che aveva combattuto vittorioso contro il potente esercito russo, aveva cercato ascolto anche al Parlamento europeo, ma i governi occidentali non gli fornirono le armi che gli servivano per sconfiggere i talebani e Osama Bin Laden e rimasero inascoltati i suoi avvertimenti su imminenti attacchi terroristici nel mondo. Da allora la guerra del terrore si è estesa in tutto il mondo con innumerevoli attentati che hanno segnato la vita di quasi tutte le nazioni e massacrato migliaia di innocenti mentre agli orrori di Al Qaeda si sono aggiunti quelli dell’Isis, ancor oggi non completamente sconfitto.

    Ora, dopo 19 anni di conflitti, morti e stragi in Afghanistan i talebani, che ancora si rifiutano di riconoscere il governo frutto di un minimo di democrazia elettorale e continuano a rendere impossibile una vita normale a chi, uomini, bambini e in special modo donne, vorrebbe avere la libertà di studiare e di vivere serenamente, diventano interlocutori degli americani. Certo non c’è più il mullah Omar e Bin Laden è stato ucciso e sono morti migliaia di soldati e di civili e il presidente americano ha bisogno di presentarsi alle elezioni portando a casa dall’Afghanistan i soldati americani. Valeva la pena tutto quello che è accaduto? Non sarebbe bastato uccidere Bid Laden? Cosa ha significato continuare per 19 anni una guerra per fare un trattato proprio con i talebani? Dobbiamo aspettarci presto anche un accordo con gli al Shabaab somali?

    Che gli Stati Uniti abbiano ormai da tempo dimostrato di non essere in grado di vincere le guerre che iniziano sotto la spinta delle case produttrici di armi e dell’irrazionalità di chi governa è noto come è purtroppo noto che la loro reazione al terrorismo è spesso inefficace e non porta risultati positivi ed è altrettanto noto il caos che hanno generato nel mondo con gli interventi in Iraq e in Libia, con la complicità francese. Noi rimaniamo dell’idea che le guerre si fanno per difendere libertà e giustizia, per sopprimere i terroristi e per difendere i civili ma il dio denaro e l’orgoglio spropositato portano invece ad errori devastanti per tutti e si traducono in vere sconfitte come l’accordo siglato in questi giorni il cui prezzo sono state le morti inutili di chi ha combattuto In Afghanistan per un mondo diverso.

  • 1945 – 2020: le Foibe, settantacinque anni di inutile storia

    Settantacinque sono gli anni passati dalla fine della guerra fino ai tempi odierni. Anni che hanno permesso al nostro Paese di crescere come democrazia e rientrare nel novero delle società evolute e secolarizzate occidentali. In questo contesto evolutivo, tuttavia, la cultura massimalista comunista rimane semplicemente ed assolutamente fedele a se stessa anche se vestita di un falso progressismo targato Pd. Una dottrina politica che trova nella censura l’espressione di una presunta superiorità ideologica.

    In settantacinque anni di storia democratica del nostro Paese ancora oggi non si intendono comprendere e tanto meno assimilare i valori della Libertà e della tolleranza, soprattutto quando questi risultino espressione di posizioni politiche ed ideologiche contrarie e magari opposte alla propria. Ulteriore dimostrazione di come questa “latitudine” politica non meriti la libertà che il sistema occidentale le ha prima regalato e successivamente permesso di mantenere.

    Ancora oggi nostalgici di una superiorità della ragione statale rispetto alle single opinioni dei cittadini non sono riusciti a raggiungere quel grado di consapevolezza che permetta di apprezzare il piacere di vivere in una società occidentale della quale ogni espressione di pensiero risulti libera quanto tutelata. Quindi, come tale, anche la satira è una libera espressione, alle volte anche estrema e detestabile, della medesima libertà di pensiero.

    Viceversa nulla è cambiato nell’impianto ideologico che include l’utilizzo di una censura la quale invece non potrà mai trovare giustificazione in nome di una qualche ideologia o superiorità delle prerogative statali. La regressione che queste ideologie massimaliste impongono non permettono neppure di comprendere come il ricordo delle Foibe non vada a togliere ma a creare ulteriore spazio alla storia della Seconda Guerra Mondiale e conseguentemente offre il giusto valore ad un dramma per decenni negato. Riconoscimento di un giusto ricordo di un dramma che permetta di completare una visione dei disastri, come dei drammi umani, che la Seconda Guerra Mondiale ha provocato lasciando in eredità un dolore che ancora oggi con difficoltà viene riconosciuto.

    Nonostante qualche timido tentativo di porre rimedio al negazionismo ideologico che ha contraddistinto tutta la sinistra nel suo complesso fino a qualche anno addietro, ancora oggi la censura viene finalizzata ed utilizzata come uno strumento politico. In questo con l’appoggio vergognoso di quei ‘miserabili’ dell’Anpi che finanziano i negazionisti delle Foibe.

    Tutto questo dimostra ancora una volta quanto sia manifesto ma soprattutto presente un massimalismo ideologico negazionista relativamente ai drammi legati alle Foibe. Una  regressione culturale ed ideologica di cui la censura odierna ne rappresenta uno strumento e dimostra come questi ultimi settantacinque anni siano passati inutilmente.

    Francesco Pontelli

    Orgoglioso figlio di Antonio Pontelli, un altrettanto orgoglioso esule Zaratino

     

  • Il capo della politica estera dell’UE visiterà il Donbas

    L’Alto rappresentante dell’UE per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, ha dichiarato, durante una conferenza stampa tenutasi a Bruxelles con Oleksiy Honcharuk, primo ministro ucraino, che nelle prossime settimane vorrebbe visitare il Donbas, la zona di guerra dell’Ucraina orientale. Il diplomatico spagnolo ha espresso il suo sostegno all’“ambizioso programma di riforme” dell’Ucraina, aggiungendo che anche il Commissario per il vicinato e l’allargamento, Olivér Várhelyi, condivide l’intenzione di visitare il regione devastata dalla guerra. “L’Ucraina è un partner chiave per l’Unione Europea. Non è solo un vicino, ma è anche un partner chiave”, ha affermato Borrell, aggiungendo che l’UE continuerà a sostenere l’indipendenza e l’integrità territoriale del paese. Borrell ha anche sottolineato che l’UE deve lavorare su più fronti  come l’assistenza umanitaria e lo sminamento, senza dimenticare la ricostruzione e la progettazione di infrastrutture che possano creare opportunità economiche future.

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