guerra

  • La Germania chiede sanzioni per chi infrange l’embargo in Libia

    Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha affermato che le Nazioni Unite dovrebbero approvare una risoluzione che sanzioni qualsiasi paese che contravvenga all’embargo sulle armi in Libia.

    All’inizio del mese, i ministri degli esteri hanno deciso di rilanciare la missione di controllo dell’UE lungo la costa del Mediterraneo libico, chiamata Operazione Sophia, con l’obiettivo di far rispettare un potenziale cessate il fuoco e un embargo sulle armi delle Nazioni Unite nel paese. Tuttavia, l’embargo concordato sta già fallendo. Secondo Maas il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite dovrebbe ribadire che la violazione dell’embargo non può rimanere senza conseguenze.

    La Libia è divisa in due governi rivali: il governo di accordo nazionale, riconosciuto dalle Nazioni Unite, che è sostenuto dalla Turchia, è in conflitto con l’Esercito nazionale libico di Haftar, sostenuto da Russia, Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti. Haftar ha respinto il cessate il fuoco. Le sue forze di recente sono avanzate fino a 120 chilometri a est della città di Misurata e hanno conquistato la città di Abugrein, che era sotto il controllo del Governo di accordo nazionale la cui sede si trova nella capitale, Tripoli.

    Di recente, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha avvertito che la guerra civile in Libia è diventata un parco giochi per le forze straniere in Nord Africa e rischia di estendersi alle regioni del Sahel e del Lago Ciad.

  • Le origini storiche del conflitto tra curdi e turchi

    Il Kurdistan è stato affidato alla Turchia, sotto protettorato della Francia, al termine della Prima Guerra Mondiale con lo smembramento dell’Impero Ottomano, ma quando nell’area di Mosul venne scoperto il petrolio buona parte del Kurdistan sotto protettorato francese fu accorpata all’Iraq. I curdi, peraltro, sono di ascendenza iranica e non araba mentre l’Iraq è costituito per la più parte da arabi-sunniti. Fatto sta che buona parte dei curdi passarono dal protettorato francese a quello inglese (sull’Iraq), mentre la Francia venne compensata dello scorporo delle aree petrolifere del Kurdistan con una partecipazione in due compagnie petrolifere. I curdi peraltro non hanno accettato di buon grado di essere divisi e sparsi in Stati diversi, solidarizzando ovviamente tra di loro al di là dei confini che li separavano. La Turchia, di contro, non ha mai accettato di buon grado di vedere circoscritto il proprio raggio d’azione su un’area ben più piccola di quella dell’Impero Ottomano e ancor meno ha accettato la solidarietà sviluppatasi tra curdi al di qua e al di là dei propri confini nazionali. La guerra che la Turchia ha mosso ora ai curdi in Siria trae origine proprio dalle ambizioni egemonica dalla nostalgia del passato di Tayyp Erdogan e parimenti dalla volontà di spezzare quella solidarietà etnica tra componenti del Kurdistan che si vedono separati dal confine tra Turchia e Siria e separati all’interno di due diversi Stati.

  • Guerra e Natura II^ puntata

    L’Asia e forse ancor più l’Africa, sono continenti che racchiudono meravigliosi tesori naturalistici ma anche quelli più massacrati da guerre e guerriglie che ne mettono in pericolo la sopravvivenza.

    Alcuni conservazionisti hanno dato la vita per la  loro missione: ricordiamo personaggi come Diane Fossey, uccisa a colpi di machete nel 1985 per proteggere gli ultimi gorilla di  montagna in Rwanda (D. Fossey “Gorilla in the mist”); o come George Adamson (ex marito di Joy Adamson autrice del best-seller ”Nata libera-storia della leonessa Elsa”), che visse per anni insieme a leoni e leopardi che lui stesso aveva reinserito in natura. Predisse che la sua morte non sarebbe avvenuta ad opera di questi pur pericolosi carnivori selvaggi: fu ucciso infatti nel 1989 da un gruppo di guerriglieri o banditi somali armati, che scorrazzava nel Kenya settentrionale. (G. Bellani “Felines of the World” Elsevier, USA)

    ASIA (16 stati e 169 tra gruppi di guerriglieri, di terroristi, di separatisti, ecc)

    AFGANISTAN

    Prima della spaventosa situazione nella quale si è trovato l’Afganistan in questi ultimi decenni, lo zoo di Kabul fu inaugurato nel 1967, quando l’economia del paese era fiorente. Si trattava di un’istituzione importante che, come molti altri moderni zoo, faceva parte di Programmi Internazionali di Conservazione e allevamento di specie in pericolo. Accoglieva circa 400 animali con gruppi riproduttori di specie rare; nello zoo si sperimentava la riproduzione di quelle specie che stavano per estinguersi in Afganistan o in altri paesi del medioriente quali: il Cervo di Bukhara o battriano (Cervus (elaphus?) bactrianus) e altri rari ruminanti selvatici di montagna, come alcune specie di capre e pecore selvatiche vale a dire Stambecchi, Markor, Egagro, Mufloni e Argali, e anche specie del deserto, come la Gazzella persiana (Gazella subgutturosa). Fase successiva era la messa in atto di progetti di reintroduzione di queste specie nei loro luoghi di origine.  Oggi in questo zoo, trasformatosi in un ”lager per animali”, gran parte di quegli esemplari sono scomparsi dai loro recinti e non sappiamo che fine abbiano fatto; né conosciamo l’attuale situazione degli ultimi contingenti afgani delle 75 specie di piante e animali selvatici a rischio, originarie di questo paese, compreso il raro Leopardo delle nevi o Irbis (Panthera uncia) delle zone montuose più elevate del paese. Interessante a questo proposito sarebbe la lettura del libro “The Snow Leopard project and other Adventures in Warzone Conservation” di Alex Dehgan, direttore della Wildlife Conservation Society, che nel 2006, viaggiando alla ricerca di animali superstiti nelle zone più remote del Nuristan, si è ritrovato in un campo ancora minato e non ancora bonificato.

    AFRICA (29 Stati e 220 tra gruppi di guerriglieri, di terroristi, di separatisti, ecc)

    CORNO D’AFRICA (SOMALIA, ETIOPIA , ERITREA, SUD SUDAN ecc…)

    Nel ”Manifesto sulla conservazione e sulle risorse naturali” stilato a Mogadiscio, capitale della Somalia, si legge: ”La Repubblica somala riconosce che la conservazione della natura (…) costituisce un fondamento per il consolidamento e l’armonico sviluppo del paese (…) e si impegna (…) con la costituzione di Parchi nazionali, riserve naturali e l’insegnamento della conservazione della natura nelle scuole. Purtroppo il manifesto risale al 1968; oggi quasta nazione, devastata da guerriglie tribali e mancante di un governo stabile e riconosciuto, è nelle mani dei cosiddetti ‘signori della guerra’.

    Attualmente la parte settentrionale della penisola somala che guarda sul Golfo di Aden si è resa indipendente dal resto del paese col nome di Somaliland, e versa in condizioni politiche e economiche migliori, tanto che la Dott.ssa Laurie Marker a capo del CCF (Cheetah Conservation Fund)  è riuscita ad organizzare e allestire un centro di recupero per i piccoli ghepardi che vengono sequestrati alle frontiere e nei porti del paese dove, bracconieri senza scrupoli, dopo averli sottratti giovanissimi alle cure della madre (spesso uccisa per prendere i cuccioli indifesi) tentano di esportare i giovanissimi ghepardi vendendoli nella penisola arabica; qui infatti è diventato di gran moda, come vero Status Symbol,  passeggiare con un ghepardo addomesticato al guinzaglio o esibirlo sulla propria auto (fonte CCF Italia).

    In Somalia sono state censite ben 158 specie rare: tutti i grossi carnivori, gli ultimi elefanti, ecc ma molte delle specie rappresentano ‘endemismi’ tipici del Corno d’Africa, si tratta quindi di animali che vivono solo in questa regione. L’Italia ha sempre mantenuto rapporti di collaborazione anche in campo naturalistico con questa sua storica ex colonia (Africa Orientale Italiana), tanto che negli anni ’70 diede il suo contributo per l’istituzione di un grande parco nazionale di oltre 30.000 Km², denominato dell’Oltre Giuba, dotato di strutture per la ricerca e l’accoglienza. Oggi non si hanno notizie di questa area protetta e delle sue infrastrutture, nè si conosce la sorte di molte specie rarissime tipiche della fauna somala, come due piccole antilopi: il Beira (Dorcatragus megalotis), delle montagne settentrionali e il Dibatag  (Ammodorcas clarkei), delle zone aride centro-meridonali; il Dibatag sopravvive in un particolare ambiente semi-arido con varie specie di Acacia e Commiphora, denominato ”gedguwa” poco conosciuto ed ormai degradato dal pascolo del bestiame e dalla caccia eccessiva. In una ristrettissima porzione costiera di questo stesso ambiente vive anche la più piccola delle specie di Dik dik, il Dik-dik argentato o di Piacentini (Madoqua piacentinii), che secondo la ‘Red-list’ delle specie rare, redatta dall’IUCN, viene classificata come DD, Deficient Data, vale a dire che mancano dati sulla sua situazione numerica, ma si teme l’estinzione sicura entro pochissimi anni, se gli ultimi esemplari non verranno inseriti in un serio programma di salvaguardia (Bellani G.G. 2013 Gnusletter Vol 31); sempre la ‘Red-list’ liquida anche la situazione della quasi sconosciuta Genetta abyssinica con uno scofortante DD (Deficient data). Non spetta una sorte migliore nemmeno a tre specie di gazzelle: quella di Pelzeln (Gazella dorcas pelzelnii) e di Soemmering (G. soemmerringii berberana) e la gazzella naso o di Speke (Gazella spekei) nè alla popolazione degli ultimi Asini selvatici somali (Equus africanus somalicus) massacrati, forse anche per fame, dalle tribù locali nonostante la protezione nel parco di Yangudi Rassa.

    LIBERIA, SIERRA LEONE, NIGERIA ECC.

    In Liberia, il regime di terrore di Charles Taylor (fortunatamente cacciato nel 2003 ed oggi in carcere per crimini di guerra), ha finanziato i ribelli della Sierra Leone (RUF), desideroso di impossessarsi delle ricchissime miniere di diamanti di cui è ricco il paese. Nazioni come la Liberia e la Sierra Leone (di quest’ultima l’ONU dichiara: ”é il peggior posto al mondo in cui vivere”) non praticano nessun rispetto per i diritti umani; uccisioni e torture degli avversari politici, arruolamento di bambini nell’esercito e 30.000 persone condannate ad amputazioni punitive, sono attività tollerate. Da quando è iniziato il conflitto si contano oltre 100.000 morti e 2 milioni e mezzo di profughi. E’ penoso anche solo elencare le brutture sopportate dalle popolazioni dei paesi dell’Africa occidentale che si affacciano sul Golfo di Guinea, una regione ricchissima di risorse naturali; un tempo era ricoperta da splendide foreste tropicali, oggi in gran parte distrutte insieme alla ricchissima biodiversità che custodivano. Nel 2000 è stata dichiarata estinta una bellissima scimmia, il Colobo di Waldron (Colobus badius waldronae), mentre non si conoscono ancora i contingenti superstiti di molte specie quasi sconosciute, alcune delle quali scoperte solo pochi anni fa, come la Mangusta della Liberia (Liberiictis kuhni) conosciuta e classificata nel 1958 e oggi già sull’orlo dell’estinzione. Molto vulnerabili sono anche l’ippopotamo pigmeo (Hexaprotodon liberiensis) tipico delle foreste umide, varie specie di scimmie come alcuni Colobi e Cercopitechi, piccoli carnivori come due Genette (Genetta thierryi e G. johnstoni),  ed alcune piccoli antilopi di foresta come l’antilope reale o pigmea (Neotragus pigmaeus) e il cefalofo zebra (Cephalophus zebra); queste ultime fanno parte della cosiddetta “bushmeat” o carne da selvaggina, e sono l’unico apporto proteico possibile per alcune popolazioni ridotte alla fame.

    EPILOGO

    Non esiste un epilogo molto confortante e non si pensi che dove la guerra è durata molti anni, la cessazione dei conflitti possa risolvere da un giorno all’altro la situazione del patrimonio naturalistico. Gran parte delle aree dove sopravvive il rarissimo Stambecco del Simien (Capra walie), dell’Etiopia, sono disseminate di campi minati, pericolosissimi per le innumerevoli mine ancora inesplose. Durante il Genocidio Rwandese dei Tutsi (forse un milione di perone massacrate) il centro di Karisoke, fondato da Diane Fossey per i Gorilla venne completamente distrutto nel 1994 e migliaia di profughi in fuga invasero le foreste dei gorilla uccidendo un gran numero dei grossi e pacifici Primati.

    Armi e combattimenti lasciano conseguenze disastrose: per esempio durante la guerra del Viet-Nam si fece largo uso di defolianti che causarono l’estrema rarefazione di molte specie di scimmie le quali, come i Langur (Presbytis), si nutrono esclusivamente di foglie; ma i danni maggiori alla biodiversità del paese avvennero al termine del dissidio, quando il governo vietnamita cominciò un selvaggio taglio del patrimonio boschivo sopravvissuto, per poter ottenere il legname indispensabile alla ricostruzione post bellica. In alcuni casi persino la cessazione dei conflitti e i tentativi di ripristino delle condizioni di normalità economica e sociale, purtroppo ricadono ancora sugli abitanti più indifesi degli ambienti naturali, tra i quali certamente gli animali.

  • Guerra e natura – I^ Puntata

    La Guerra e i disordini sociali creano enormi problemi alle attività di conservazione della biodiversità in tutti i ‘punti caldi’ dei paesi del mondo. In una inchiesta in due puntate faremo partecipi i nostri lettori delle problematiche che gli addetti ai lavori incontrano nell’organizzazione delle attività di protezione ‘in situ’, cioè nei luoghi stessi che vedono la coesistenza fra disordini bellici e bisogno di conservazione della natura; vedremo i luoghi più caldi di Europa Asia e Africa e i pericoli che i conservazionisti devono correre per salvare gli ultimi contingenti di specie in via di estinzione.”Per conservare gli ambienti naturali (…) è necessario trovare soluzioni ai problemi sociali delle popolazioni: alleviare la povertà, alleggerire il debito, e creare condizioni per rallentare la crescita demografica e il raggiungimento di un’armonia duratura tra uomo e  natura.-  M.W. Holdgate, Direttore Generale della I.U.C.N.

    Le guerre, scatenate per validi motivi di difesa, per motivi umanitari o con pretesti che nascondono fini puramente economici, inevitabili o meno che siano, portano sofferenza non solo direttamente alle popolazioni umane che vi restano coinvolte, ma anche all’ambiente: l’aria, il suolo, le piante e soprattutto la vita degli animali selvatici dei paesi devastati da conflitti bellici subiscono danni spesso irreversibili e quindi quasi irrecuperabili anche dopo la cessazione dei conflitti. E’ stato straziante vedere le fatiche che i profughi afgani, vittime dal 1978 di tremende guerre civili, hanno affrontato per raggiungere paesi meno dilaniati da guerriglie e inumane leggi fondamentaliste. Da anni ormai giungono in Europa, attraverso il Mediterraneo o attraverso la cosiddetta rotta Balcanica, migliaia di profughi, specialmente mediorientali e africani che, rischiando la vita propria e quella della loro famiglia, lasciano i paesi nativi oppressi da guerre religiose e  civili, guerriglie e bande armate. Eppure una quindicina di anni fa il mondo si commosse anche per  le tristi immagini di Marjan, il vecchio leone trovato morente nel fatiscente zoo di Kabul, la capitale dell’Afganistan; il malandato maschio era sopravvissuto ai bombardamenti della città e dello zoo stesso. Marjan era sfigurato e reso cieco dalla bomba di un talebano folle che voleva vendicare l’aggressione e il ferimento mortale di un amico il quale, per provare scioccamente il proprio coraggio, si era introdotto nella gabbia del leone. Dopo essere comparso su tutti i media del mondo, il povero animale è poi morto a causa di una grave infezione. L’A.Z.A. (American Zoo and Aquarium Association) aveva inviato a Kabul i farmaci per curare Marjan insieme a qualche fondo per soccorrere e nutrire gli ultimi affamati ospiti dello zoo (un tempo importante Istituzione scientifica) ridotti ora alla fame dai continui bombardamenti della città: sei orsi e alcuni piccoli carnivori, alcuni cervi, gazzelle, mufloni, ecc. Ci si potrebbe allora chiedere se sia giusto commuoversi per la sorte di un vecchio leone o che un’associazione come l’A.Z.A. invii aiuti agli sfortunati ospiti di uno zoo, in un paese dove la popolazione umana versa nelle condizioni che tutti conosciamo. L’interrogativo può sembrare legittimo, ma pensiamo ad alcune situazioni analoghe in paesi come il nostro: cambiano i soggetti ma il dubbio è lo stesso; per esempio sappiamo che ogni anno si trovano bambini appena nati e subito abbandonati, persino nei cassonetti dell’immondizia: non per questo, crediamo, si debba tacciare di cinismo anche chi finanzia “Pubblicità Progresso” contro la cattiva abitudine di abbandonare il proprio cane per strada quando si parte per le vacanze estive.

    Se è dunque giusto che le associazioni umanitarie quali Croce Rossa, Medici Senza Frontiere ed Emergency (con l’eroico Gino Strada) abbiano tutti i fondi necessari per alleviare le sofferenze umane causate da conflitti bellici e guerre civili, è coerente e ragionevole che le associazioni naturalistiche e protezionistiche si preoccupino ”anche” per la sorte delle ultime popolazioni di animali selvatici o per quelle allevate negli zoo, e che sopravvivono nei paesi sconvolti da situazioni politico-economiche catastrofiche. Si potrebbe anzi affermare che le operazioni di monitoraggio e salvaguardia della biodiversità assolte da associazioni ambientaliste quali l’ I.U.C.N. (International Union for Conservation Nature and Natural Resources) ed il W.C.N. (World Conservation Union), possano essere considerate un aiuto, aggiungendo un motivo in più, se mai ce ne fosse bisogno, per un serrato ritorno di pace e normalità nelle zone più devastate del nostro pianeta.

    I paesi stremati da guerre militari o civili non hanno certo la possibilità (e alcuni dei regimi totalitari giunti al potere, nemmeno la volontà) di impiegare tempo, denaro o risorse umane adeguate, per politiche di conservazione della natura; in epoca di globalizzazione (ma la natura, e soprattutto gli animali, non riconoscono confini politici), sono quindi le associazioni internazionali per la conservazione della natura e delle specie in via di estinzione, nate in paesi economicamente più sviluppati, che si accollano questo impegno. Purtroppo non sempre ciò è possibile dato che in alcuni paesi la situazione è talmente difficile e pericolosa che a volte non si può fare altro che denunciare l’impossibilità di intervento.

    Secondo il rapporto annuale del Global Trends dell’UNHCR (l’organizzazione dell’ONU per i rifugiati) e del suo sito Wars in the World, nel 2016 nel mondo sarebbero almeno 47 i paesi coinvolti in azioni belligeranti di vario tipo che vanno da una vera e propria guerra tra Stati a guerre civili tra gruppi armati. Riportiamo solo alcuni degli infiniti dati sul coinvolgimento degli stati in guerre e guerriglie sanguinose che sconvolgono l’assetto politico-economico di un paese e i danni causati alla conservazione della biodiversità da questi fenomeni.

    Soffermiamoci per ora solo su Europa e Medio Oriente, vedremo nel prossimo numero alcune situazioni in Asia e Africa.

    EUROPA (9 stati e 81 tra gruppi di guerriglieri, di terroristi, di separatisti, ecc)

    Negli ultimi decenni la fauna delle regioni del Caucaso e dei Carpazi ha subito perdite che ancora stiamo valutando a causa, per esempio, delle guerre di separazione della Cecenia e dell’Ucraina dall’ex Unione Sovietica. La fauna della catena montuosa del Caucaso annovera specie rare e poco conosciute come il leopardo persiano (Panthera pardus tulliana=saxicolor), il gatto selvatico del Caucaso e due specie endemiche di capre selvatiche: il Tur o stambecco del Caucaso occidentale (Capra caucasica) e quello orientale (Capra cilindricornis). Nei Carpazi sopravvive dispersa l’unica popolazione veramente selvatica dell’ormai rarissimo Bisonte europeo (Bison bonasus).

    MEDIO ORIENTE (7 Stati e 248 tra gruppi di guerriglieri, di terroristi, di separatisti, ecc)

    IRAN (EX PERSIA)

    L’Iran è un paese che dagli anni ‘70 , quando la rivoluzione del 1978 fece cadere il regime dello Scià, ha visto anni di guerre contro l’Iraq di Saddham Hussein ed è stato coinvolto nell’aiuto a molte guerre in paesi arabi del Medio oriente (Siria, Libano ecc). La fine dei conflitti si è chiusa con una pesante dittatura di forze fondamentaliste islamiche contro cui la popolazione per anni ha cercato di opporsi con rivolte soffocate nel sangue (“repressione del dissenso”) dal Corpo delle guardie della rivoluzione Islamica o Pasdaran. In questo clima di forte e pericolosa sospensione dei diritti civili e umani, nel 2018 lavoravano alcuni conservazionisti per monitorare la presenza degli ultimi ghepardi asiatici (Acinonyx jubatus venaticus), sottospecie che sopravvive ormai solo in alcune aree protette dell’Iran, con circa 70-110 esemplari (G. Bellani “Felines of the World” Elsevier, USA)

    Nei primi mesi del 2018 un tribunale di Tehran ha emanato un verdetto di colpevolezza per otto ricercatori-conservazionisti che studiano i ghepardi, tra cui due donne, con l’accusa di spionaggio e sentenze che vanno dai sei, ai dieci anni di reclusione, solo per aver utilizzato, come si fa in tutto il resto del mondo, macchine fotografiche e telecamere che entrano in funzione per mezzo di trappole a raggi infrarossi, unico mezzo possibile per monitorare la presenza di questi rarissimi e timidissimi felini. Il ramo locale di intelligence del Corpo delle guardie della rivoluzione islamica, li ha accusati di essere spie assoldate da paesi nemici per monitorare l’Iran e quattro di loro  rischiano la pena di morte poiché accusati di “Portare la corruzione sulla Terra”……

    Questi scienziati lavorano tutti per la Persian Wildlife Heritage Foundation (PWHF), una organizzazione no-profit con sede a Tehran che si occupa di tutelare il ghepardo asiatico e altre specie rare in Iran; i ricercatori hanno già trascorso quasi due anni in carcere ma Kavous Seyed-Emami, professore iraniano-canadese e amministratore delegato della Persian Wildlife Heritage Foundation (PWHF), dopo essere stato imprigionato è poi morto nelle carceri di Evin e secondi i suoi carcerieri si sarebbe ufficialmente suicidato.

  • La violenza sulle donne è anche un arma di guerra

    Il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale per eliminare la violenza contro le donne eppure in alcune Paesi del mondo afflitti da conflitti locali e guerre la violenza sulle donne, perpetrata da gruppi militari armati, è considerata un arma per punire i civili delle fazioni contrastanti. Un prezzo troppo alto, pagato da bambine, ragazze e donne, come nella  Repubblica Centrafricana dove, dati UNICEF alla mano, l’80% delle donne ha subito violenza. Lesioni fisiche e psicologiche, ma non solo. Molte sono state costrette al matrimonio con uomini delle bande armate e sono state respinte dalle famiglie e dalla comunità di appartenenza, subendo così traumi, in solitudine, che è assai difficile superare.

  • Dalla Ue due milioni di euro alle vittime di violenze sessuali di guerra

    Il 24 settembre, il commissario europeo per la cooperazione internazionale e lo sviluppo europeo Neven Mimica, ha annunciato un contributo di 2 milioni di euro da parte dell’Unione Europea al Fondo internazionale per i sopravvissuti alla violenza sessuale legata ai conflitti. La donazione è stata annunciata durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, dove il Commissario Mimica ha incontrato i premi Nobel per la pace, Denis Mukwege e Nadia Murad ai quali è stato dedicato il fondo. Il dottor Denis Mukwege è un ginecologo congolese che ha fondato e lavora nell’Ospedale Panzi a Bukavu, in Congo, specializzato nella cura di donne vittime di violenza sessuale da parte di gruppi di ribelli armati. Nadia Murad, invece, è un membro della minoranza Yazidi nel nord dell’Iraq sopravvissuta a un terribile attacco nel 2014 al suo villaggio da parte dello Stato Islamico. Entrambi sono stati premiati con il Nobel per la Pace per il loro impegno a porre fine a ogni tipo di violenza sessuale.

    Si tratta di una collaborazione tra più partner per fornire ai sopravvissuti l’accesso a cure e ad altre forme di sostegno per aiutarle a reintegrarsi pienamente nelle loro comunità. Nadia Murad ha messo in luce l’importanza e la consapevolezza per le vittime di individuare le responsabilità dei crimini subiti, in quanto ciò può sostenere notevolmente il processo di guarigione. Il dottor Mimica ha invece voluto sottolineare come questo fondo sia un contributo importantissimo per l’umanità, poiché è destinato a dare un sostegno alle donne che hanno dovuto affrontare il dolore indicibile della violenza sessuale in situazioni di guerra e devono ricostruire le loro vite.

    Il lancio ufficiale del fondo avrà luogo il 30 ottobre 2019 alle Nazioni Unite a New York. Anche Paesi come la Francia e la Germania hanno annunciato il loro sostegno al Fondo.

  • Lo sbarco in Normandia di 75 anni fa

    Il 6 giugno ricorreva il settantacinquesimo anniversario dello sbarco degli Alleati in Normandia, il leggendario e storico D-day. A Portsmouth, nel sud del Regno Unito, c’era tutto l’Occidente per i festeggiamenti.  Ed accanto ai leader politici c’era una rappresentanza  degli  ultimi veterani rimasti di quel fatidico giorno, tutti ultranovantenni con negli occhi e nel cuore le immagini della più grande operazione di sbarco della storia, iniziata alle 6.30 del mattino del 6 giugno 1944. Nel primo giorno i caduti  furono 4.400 e quasi 8.000 i feriti  fra le forze alleate. Per i tedeschi la stima è di 4-9mila vittime, fra morti e feriti. Fino all’arrivo in agosto dei liberatori a Parigi vi furono 70mila morti fra gli alleati e 200mila fra i tedeschi. In Normandia i combattimenti dello sbarco causarono 20mila morti fra i civili. Nell’operazione gli alleati impegnarono 150mila soldati: americani, britannici, canadesi, francesi e polacchi. Per lo sbarco furono impiegati 3.100 mezzi, provenienti da 1200 navi da guerra. Nel D-day furono anche impiegati 7.500 aerei. I tedeschi  erano dislocati sulle coste della Normandia con 50mila fanti della marina e pochi aerei. Essi erano convinti che lo sbarco sarebbe avvenuto a Calais dove avevano concentrato il grosso delle loro forze.

    “Non dobbiamo dimenticare” – ripetevano i veterani e la regina Elisabetta, anch’essa ultranovantenne, ha detto: “Con umiltà e piacere, dico a nome di tutto il Paese, anzi a nome di tutto il mondo libero: grazie!”. Trump, il leader del mondo libero, ha letto la preghiera rivolta nel 1944 dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt ai soldati in partenza. Era il mondo libero riunito contro il nazionalsocialismo. Era una alleanza che dopo la guerra riunì anche la Germania e l’Italia per la difesa e la sicurezza dell’Occidente, contro un’altra terribile dittatura che era rappresentata da Stalin e dal mondo sovietico, al quale si unì quella cinese con Mao Tse.Tung. A Portsmouth c’erano gli eredi politici e militari di quell’avvenimento, che è stato l’espressione di una volontà comune contro la barbarie della dittatura e dei campi di concentramento, che annientavano gli ebrei e gli avversari del regime nazionalsocialista. Era, doveva essere, un giorno di festa. Ma c’era amarezza nell’aria. Era una festa che strideva con quanto era accaduto nei due giorni precedenti a Londra, in occasione della visita ufficiale del presidente americano. Scanzonato e senza tener conto degli elementari principi della diplomazia, ha invitato gli inglesi ad abbandonare senza accordo (no deal) l’Unione europea e offrendo un ipotetico e ottimistico avvenire commerciale al Regno Unito, mettendo zizzania non solo tra le forze politiche britanniche, che con la zizzania convivono da tre anni, ma anche tra i membri e le istituzioni dell’Unione europea, che di zizzania ne divora a josa, da quando ha a che fare con i populismi sovranisti. Seminar zizzania alla vigilia dei festeggiamenti del D day è un modo, non tanto indiretto, di venir meno al riconoscimento della positività rappresentata dal governo americano nell’impegnarsi in una guerra e in un sbarco costato moltissime vite di giovani americani per liberare l’Europa dal giogo nazionalsocialista. Non è tempo di zizzania tra gli Stati Uniti e l’Europa. Libero Trump di sentirsi solo presidente americano e non leader del mondo libero, come lo sono stati i presidenti americani dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Il “First America” non dovrebbe diventare anche “Indietro Europa”. Qual è il vantaggio che gli Usa potrebbero ricavare dall’inimicarsi gli europei? La solitudine nel mondo di oggi non gioverebbe nemmeno agli Stati Uniti, come non giova all’Europea e, ancor meno, all’Italia. Nessuno può impedire agli Usa di giocare da soli nel mondo globalizzato. Ci sembra, però, inspiegabile un atteggiamento non amichevole nei confronti dell’Europa. Se tale atteggiamento fosse stato assunto anche negli anni quaranta, non ci sarebbe stato un “D day” e la storia avrebbe preso un’altra piega, certamente meno felice per i popoli europei e meno profittevole e gloriosa per il popolo americano. In fin dei conti, per Trump, essere solo presidente degli Usa e non dell’Occidente, significa una diminutio  che i suoi predecessori non hanno conosciuto. Lasciare che l’Europa se la sbrighi da sola in fatto di difesa e sicurezza è una visione “trumpiana” che non giova a una geopolitica ragionevole e affidabile. Che l’Europa si dia una difesa comune è un’esigenza avvertita ormai da molti leader politici. Ma un conto è provvedere a questo compito, nel quadro delle tradizionali alleanze politiche e militari, e un conto è sentirselo gridare scompostamente dal capo di quella che fino ad ora è ancora una alleanza militare. Questa alleanza è l’Occidente. I tempi cambiano, è vero! Ma la sicurezza è un’esigenza che si manifesta anche nei cambiamenti, i quali più sono razionalmente condotti, più offriranno giovamento agli attori che ne sono i protagonisti.

    Il 6 giugno 1944 è lontano, quel mondo non c’è più. Facciamo in modo che quello di oggi non diventi peggiore di quello d’allora e garantisca uno sviluppo democratico adatto ai tempi nuovi e alle nuove esigenze di sicurezza.

  • Taliban’s treatment of prisoners worries UN mission in Afghanistan

    After face-to-face interviews with 13 detainees who were freed from a Taliban detention facility by Afghan special forces troops on 25 April, the United Nations Assistance Mission in Afghanistan expressed deep concerns that the Islamist insurgent group is using its prisoners as slave labourers and bomb makers.

    The UN mission said the freed prisoners were held underground and forced to work at seven hours a day, including “making improvised explosive devices” for the Taliban that were used against Afghan and international coalition forces. Their report also said that the detainees were regularly held in sub-zero temperatures during winter and were forced to live on single rations of beans or bread and were repeatedly denied medical assistance or access to international aid groups, including the Red Crescent.

    The head of UN mission in Afghanistan, Tadamichi Yamamoto, who is also the UN Special Representative in Kabul, reiterated the mission’s concerns, saying, “I am gravely concerned about these serious allegations of ill-treatment, torture and unlawful killing of civilians and security personnel, as well as the deplorable conditions of detention”.

    The mission’s human rights chief, Richard Bennett, reminded Taliban leaders that “international humanitarian law, which is applicable to international and non-international armed conflicts, provides that every individual who does not take direct part in hostilities, or who have ceased to do so, must always be treated humanely”.

    The UN’s statement also included quoted the detainees as saying that the Taliban killed some of their captives “permanently shackled” all of those who were held in captivity.

    “They provided consistent accounts of the poor conditions in which they were held and credible claims of ill-treatment and torture, as well as the murder of civilians and security personnel. Multiple detainees reported the murder of at least 11 others by the Taliban,” the UN’s mission in Afghanistan said.

    The Taliban are a mostly ethnic Pashtun, Sunni fundamentalist movement that ruled Afghanistan from 1996-2001 following the decade-long Soviet occupation of the 1980s. After emerging as the main power base in most of the country following the devasting 1992-1996 Afghan Civil War, the Taliban, which was backed heavily by neighbouring Pakistan’s intelligence service – the ISI – ruled over most of the country through a radical form of Sharia law that was condemned internationally and resulted in the brutal treatment of many Afghans, especially women, as well as Afghanistan’s numerous sectarian and ethnic minorities.

    During their rule, the Taliban and their allies committed dozens of massacres against Afghan civilians, regularly impounded UN food supplies that were intended for starving communities and conducted scorched earth policy that included burning vast areas of fertile land and destroying tens of thousands of homes while at the same time cultivating the world’s largest opium trade.

    The Taliban became infamous for giving sanctuary to Salafist terror groups and provided shelter to Osama bin Laden and al-Qaeda, who later played a major role in the Taliban’s domestic policies while also planning dozens of terror attacks around the world.

    In 2001, only months before the 11 September attacks in the United States, the Taliban outraged the international community when it engaged in one of the worst acts of cultural genocide when it destroyed the famous 1500-year-old Buddhas of Bamiyan.

    Since being ousted by an American-led military coalition shortly after 11 September,  the Taliban has slowly regained control over large swathes of Afghanistan and is now in a position to force the Afghan government into peace talks. The group’s leaders, however, refuse to negotiate directly with the internationally-recognised and democratically-elected Afghan Government of Ashraf Ghani.

     

  • Iran in guerra cibernetica con gli Usa, per creare tensioni tra gli americani

    Negli ultimi 6 mesi, secondo la rivista INSS Insight, le società di sicurezza informatica e le società tecnologiche hanno rilevato un’ampia attività cognitiva iraniana nel cyberspazio rivolta principalmente al pubblico americano, con l’Iran che cerca di esacerbare i dibattiti interni degli Stati Uniti tra diversi gruppi sociali. Gli sforzi di influenza dell’Iran nel cyberspazio riflettono l’importanza che Teheran attribuisce alla lotta ideologica in patria e contro i suoi nemici esterni, in primo luogo gli Stati Uniti. Agli occhi del regime, gli Stati Uniti, oltre alla sua guerra politica ed economica, stanno conducendo una lotta ideologica per i cuori e le menti del pubblico iraniano contro i valori della rivoluzione islamica. Pertanto, la campagna di influenza cibernetica dell’Iran non è solo una contromisura per le mosse degli Stati Uniti (reali e immaginari), ma anche un altro passo nel desiderio di vecchia data dell’Iran di destabilizzare gli Stati Uniti indebolendo la sua robustezza interna. Israele, allo stesso modo un obiettivo degli sforzi di influenza cibernetica iraniana, farebbe bene a monitorare le capacità di attacco cibernetico in via di sviluppo dell’Iran, insieme alle capacità minacciose dell’Iran nelle armi convenzionali e non convenzionali.

     

  • A Piacenza il convegno ‘Giuseppe Manfredi e la fine della Grande Guerra’

    Sabato 17 novembre 2018 dalle ore 9, presso la Sala Panini di Palazzo Galli, sede della Banca di Piacenza, si svolgerà il Convegno Giuseppe Manfredi e la fine della Grande guerra. L’evento sarà preceduto, alle 8,30, da un omaggio alla tomba di Giuseppe Manfredi, nella chiesa di San Francesco in cui interverrà il Vicepresidente del Comitato di Piacenza dell’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Gen. Eugenio Gentile.

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