guerra

  • Incubi e pretese irredentistiche

    La violenza non risolve mai i conflitti, e nemmeno
    diminuisce le loro drammatiche conseguenze.

    Papa Giovanni Paolo II

    Giovedì scorso, 8 novembre, una cerimonia religiosa ortodossa di sepoltura, in un villaggio in cui vive in pace una minoranza greca in Albania, è stata trasformata in una manifestazione violenta antialbanese. Tutto dovuto ad interventi offensivi, intollerabili e legalmente condannabili di gruppi organizzati paramilitari di estremisti ultranazionalisti greci, venuti appositamente dalla Grecia. Espressione arrogante di pretese, incubi e richiami di irredentismo covati e mai nascosti, da più di un secolo. Mentre le frontiere tra l’Albania e la Grecia sono state definitivamente delineate dal Protocollo di Firenze delle grandi potenze del 27 gennaio 1925 e in seguito sancite, il 30 luglio 1926 a Parigi, dalla Conferenza degli Ambasciatori delle grandi potenze (Patto Sociale n.330). Ciò nonostante, le pretese greche su determinati territori albanesi continuano e si manifestano, come una costante, di volta in volta. Si tratta però, di pretese che non solo non hanno credibili fondamenta storiche, ma che, purtroppo, non di rado sono state appoggiate anche da coperture e manipolazioni religiose.

    Da più di settanta anni, un fatto storico ha offerto un cavillo alla diplomazia greca e non solo, per sancire le loro rivendicazioni irredentistiche. Ai greci sono venuti in aiuto gli scontri militari tra loro e l’esercito italiano. Il 28 ottobre 1940 cominciò quella che è stata riconosciuta come la campagna italiana in Grecia. Nel frattempo l’Italia aveva invaso l’Albania nell’aprile 1939. Da allora, Vittorio Emanuele III, oltre ad essere Re d’Italia e Imperatore d’Etiopia si proclamò anche il Re dell’Albania. Dal territorio albanese il Regio Esercito italiano cominciò l’offensiva contro la regione greca dell’Epiro. Ma la campagna italiana contro la Grecia risultò subito un totale fallimento. Le forze greche, in poco tempo, cominciarono un vasto contrattacco, respingendo le truppe italiane oltre frontiera. Ma non si fermarono lì. Per i greci era rappresentata una ghiotta occasione per entrare e occupare dei territori albanesi. Territori che, per i greci, facevano parte di quella regione per la quale avevano coniato il nome “l’Epiro del Nord”. L’esercito italiano comunque riuscì, a fine febbraio 1941, a tener testa all’avanzata greca. Poi tentarono una massiccia controffensiva per respingere i greci dall’Albania, che purtroppo si concluse con un altro sanguinoso fallimento. Nel frattempo la Germania, con degli interventi ben organizzati e attuati, riuscì ad invadere sia la Jugoslavia che la Grecia. Paesi che subito sono stati costretti ad accettare la capitolazione. Soltanto grazie all’intervento tedesco, la campagna italiana in Grecia si concluse il 23 aprile 1941 come vittoriosa nel finale, nonostante sia stata considerata come un grave insuccesso politico e militare.

    Per la Grecia l’importanza storica del conflitto armato con l’Italia è talmente grande che come Festa Nazionale è stata proclamata non la fine della Seconda Guerra Mondiale, bensì l’inizio del conflitto con l’Italia, cioè il 28 ottobre. Una data questa che, da un anno a questa parte, è entrata ufficialmente anche nei rapporti tra l’Albania e la Grecia. In seguito anche il perché.

    Stranamente però, la Grecia mantiene tuttora lo “stato di guerra” con l’Albania, mentre da tempo non lo ha più con l’Italia! E questo perché la sopracitata campagna greca cominciò dal territorio albanese! Un ragionamento questo che fa acqua da tutte le parti, ma che la diplomazia greca porta ancora avanti. Nonostante l’Albania e la Grecia abbiano anche ratificato un Trattato di Amicizia tra di loro, che è entrato in vigore il 5 febbraio 1998. Tutti questi sopramenzionati fatti storici e ufficiali non bastano però a placare, una volta per sempre, i piani irredentistici della Grecia verso determinati territori albanesi.

    Parte integrante di questi piani, sembrerebbe sia anche la presenza di alcuni cimiteri militari dei caduti greci in territorio albanese durante la controffensiva del 1941. Cimiteri distribuiti nel sud e sud-est dell’Albania, in seguito a lunghe trattative tra l’Albania e la Grecia. Ma secondo credibili testimonianze storiche e/o di anziani abitanti, spesso nei luoghi scelti per i cimiteri non è stato mai combattuto! In questo ambito non sono mancati neanche gli scandali. Scandali condannabili non soltanto legalmente, ma soprattutto moralmente. Si è trattato di consapevoli riempimenti di bare non con le ossa dei soldati greci, bensì con scheletri di bambini e donne. Scandali che sono diventati ancora più clamorosi perché sono stati coinvolti anche alcuni preti ortodossi, sia albanesi che greci, e altri rappresentanti delle due chiese. Fatti gravi, evidenziati e resi pubblici in diverse parti del territorio albanese, sempre nell’ambito della costruzione dei cimiteri militari per i caduti greci. Da una delibera del 13 dicembre 2017 del governo albanese è stata stabilita anche la data della ricorrenza: ogni 28 ottobre. Tutto questo e altro ancora è storia vissuta.

    Tornando alla realtà di queste ultime settimane, il 28 ottobre scorso, durante la ricorrenza per i caduti greci del 1941, in un villaggio della minoranza greca nel sud dell’Albania, un abitante ha provocato e ha sparato con un mitra, prima in aria e poi verso una macchina della polizia. Dopo alcune ore, continuando a non consegnarsi e sparando contro i poliziotti, l’aggressore è stato ucciso dalla polizia albanese. Si è saputo in seguito, secondo fonti mediatiche, che la vittima era un estremista e ben addestrato per l’uso delle armi e non solo. Tutto ciò è diventato subito un caso diplomatico tra i due paesi. A gettar benzina sul fuoco è servita anche una irresponsabile dichiarazione del Primo Ministro albanese. E, guarda caso, un giorno dopo le tante discusse dimissioni del ministro degli Interni. Un’ottima opportunità per spostare l’attenzione pubblica e mediatica.

    Dopo le dovute verifiche e le procedure legali, è stato dato anche il nulla osta per la sepoltura. La cerimonia ha avuto luogo nel villaggio natale della vittima, l’8 novembre scorso. Un villaggio di pochi abitanti ormai. Ma durante la cerimonia, oltre ai familiari, i parenti e i compaesani erano in tanti, alcune migliaia, quelli venuti dalla Grecia. E, purtroppo, si trattava di persone con degli obiettivi ben definiti e che poco avevano a che fare con la pacificità e la sacralità della cerimonia di sepoltura. I manifestanti, tenendo delle gigantesche bandiere della Grecia, gridavano “ascia e fuoco contro i cani albanesi”. Altri tenevano dei grandi manifesti offensivi nei quali, tra l’altro, era scritto “Qui è Grecia”. Inequivocabili incitamenti dell’odio nazionale e testimonianze dell’offesa nazionale. In seguito sono arrivate le dovute reazioni diplomatiche da entrambe le parti. La faccenda non è chiusa ancora, almeno mediaticamente.

    Chi scrive queste righe, riferendosi a quanto sopra e ad altri precedenti avvenimimenti, considera quanto è accaduto una grave e aggressiva offesa fatta alla dignità nazionale albanese sul proprio territorio. Egli è convinto anche dell’incapacità dei politici albanesi, e soprattutto del primo ministro, di affrontare come si deve situazioni del genere. Essendo altresì convinto che, come diceva Papa Giovanni Paolo II, la violenza non risolve mai i conflitti, e nemmeno diminuisce le loro drammatiche conseguenze.

  • Il tram milanese durante la Prima Guerra Mondiale

    Si intitola Il tram e la Grande Guerra la mostra, gratuita, organizzata dal Gruppo storico ATM in programmazione il 15, giornata inaugurale, e il 16 novembre presso la Fondazione ATM, via Farini 9 – Sala convegni 2° piano. In occasione delle celebrazioni a ricordo del conflitto mondiale 1915 – 1918 e del centenario della Vittoria dell’Italia si ricorda il contributo dei tramvieri milanesi in quegli anni attraverso un’inedita mostra con documenti e fotografie.

  • La vittoria italiana nella I Guerra Mondiale

    Sabato 3 novembre, alle ore 11, alla sala Umberto in via della Mercede 50 a Roma, si svolgerà il convegno Fino a Trieste, fino a Trento… per parlare della vittoria Italiana nella I Guerra Mondiale, nel centesimo anniversario del compimento dell’Unità Nazionale. Saranno presenti  S.A.R. il Principe Aimone di Savoia Aosta e il presidente dell’UMI Alessandro Sacchi.

     

  • Martiri di carta, il racconto dei giornalisti caduti durante la Grande Guerra

    Sarà presentato mercoledì 31 ottobre alle ore 11 in Piazza Adriana 3 a Roma, nell’auditorium dell’Anmig – Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi di guerra il volume Martiri di carta. I giornalisti caduti nella grande guerra a cura di Pierluigi Roesler Franz e di Enrico Serventi Longhi, edito da Gaspari, Udine, 2018, per conto della Fondazione sul giornalismo “Paolo Murialdi”. In 448 pagine, frutto di 7 anni di ricerche, si racconta la storia – finora mai scritta – di 264 intellettuali di tutte le Regioni italiane e in gran parte decorati al valor militare (fra i quali Battisti, Serra, Gallardi, Niccolai, Umerini, Stuparich e Timeus Fauro) morti nel conflitto mondiale 1914-1918. La maggior parte dei caduti erano giovani ventenni che, provenienti da tutte le parti d’Italia ed alcuni tornati appositamente dall’estero, avevano cominciato a scrivere su grandi e piccoli giornali e riviste. Si tratta in gran parte di personaggi di assoluto rilievo storico e di notevole importanza, rimasti purtroppo fino ad oggi del tutto sconosciuti.  Tra “i martiri di carta” che hanno perso la vita combattendo eroicamente per la patria, vi figurano cattolici ed ebrei, patrioti, politici, sindacalisti, nazionalisti, interventisti, neutralisti, massoni, socialisti, radicali, democratici, liberali, repubblicani, mazziniani, irredenti (trentini, giuliani, dalmati e istriani), garibaldini e nipoti di garibaldini della spedizione dei Mille, ex combattenti in Libia, Benadir, Eritrea e a Rodi. Alcuni giornalisti erano stati chiamati alle armi, mentre altri erano andati volontari al fronte quasi tutti come ufficiali in rappresentanza dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica. Ma sono poi finiti ingiustamente da oltre un secolo nel dimenticatoio. Martiri di carta è un contributo capace di interessare storici, giornalisti, appassionati e semplici lettori, anche in virtù della categoria scelta, quella dei giornalisti: storie vere, di uomini in carne in ossa, restituite grazie a una sistematica ricerca storica basata su un’ampia bibliografia, su centinaia di articoli di giornali e su documenti d’archivio.

  • Noi siamo sempre nel giusto

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Dario Rivolta *

    La storica belga di origine italiana Anne Morelli pubblicò nel 2010 un interessante libro: “Principi elementari della propaganda di guerra” (nella precedente versione del 2001 il sottotitolo era: “Utili in caso di guerra fredda, calda o tiepida”).

    Poiché mi sembra che il contenuto sia tuttora di attualità, credo sia molto interessante leggere cosa scriveva la studiosa. Ecco riassunti i punti principali.

    1. Noi non volevamo la guerra e non siamo noi ad averla cominciata. Solo il nostro avversario/nemico è responsabile del conflitto. Questo è ciò che chiamerò la fase della prosecuzione. (corsivo dell’autrice)
    2. I capi e i seguaci del nemico sono disumani e sono il diavolo. Qui comincia la diffamazione.
    3. Noi stiamo difendendo una nobile causa mentre l’avversario difende i suoi propri interessi o, peggio, il suo interesse nazionale. La causa dell’avversario è abominevole, senza valore, egoistica, mentre noi difendiamo un ideale, i diritti umani, la democrazia, la libertà, la libera iniziativa. Noi rappresentiamo il bene, loro personificano il male. Questa è la fase moralizzatrice.
    4. Il nemico commette sistematicamente delle atrocità. Se noi manchiamo o facciamo errori, è involontario e perché il nemico ci inganna o ci provoca. Nella sua lotta il nemico è pronto a qualunque cosa, compreso l’uso di armi illegittime (gas, uccisione di civili, abbattimento di aerei di linea, assassini su commissione. NDA) Lui è anche il solo ad usare notizie false (fake news), attacchi informatici e interferenze via internet nelle elezioni altrui. Noi, al contrario, rispettiamo le leggi di guerra, la convenzione di Ginevra, l’etica giornalistica e lo sforzo di essere imparziali. Noi non saremmo mai capaci di prendere parte a una “guerra dell’informazione” o fare propaganda. Questa è la fase del lavaggio del cervello e del condizionamento dell’opinione pubblic
    5. Noi non soffriamo perdite e, quando ci sono, sono piccole. Le perdite dell’avversario, tuttavia, sono enormi. Fase della minimizzazione.
    6. Artisti, scienziati, accademici, esperti, intellettuali e filosofi, ONG e la società civile ci supportano mentre il nemico è isolato nella sua torre d’avorio e slegato dalla sua società. Fase espansiva nella sfera della guerra nobile.
    7. La nostra causa è sacrosanta e quelli che la mettono in discussione sono pagati dal nemico. Fase del sacrificio.

    Chi sa a chi, e a cosa, si possono applicare oggi le parole della Morelli?

    P.S. La “democratica” Atene obbligò il “traditore” Socrate al suicidio perché svolgeva “propaganda nefasta” verso i giovani della città, cioè non aveva sposato le verità “ufficiali”.

    *Già deputato dal 1996 al 2008

  • Iran, Israele e Russia: il ‘grande gioco’ in corso in Siria

    L’Iran in Siria determina i combattimenti sul campo da parte della coalizione pro-Assad, controlla i valichi di frontiera Siria-Iraq e Siria-Libano e conduce la riorganizzazione di aree e comunità basate su un elemento etnico. L’influenza spesso decisiva che Teheran esercita sul ritmo dei combattimenti ha luogo in consultazione con la Russia e Assad. Israele, che gode della supremazia dell’intelligence in Siria, attualmente sta ignorando la presenza dei delegati iraniani e delle altre forze sotto il comando iraniano nel sud della Siria, sembra infatti ritenere che queste forze non costituiscano una minaccia imminente, almeno nel prossimo futuro, e si sta concentrando sulla prevenzione del consolidamento di notevoli capacità militari iraniane in Siria, ovvero missili, razzi, veicoli aerei senza equipaggio, sistemi di difesa aerea e armi avanzate. In questa fase, Israele fa affidamento sulla Russia e sul regime di Assad per mantenere le forze iraniane e i suoi delegati lontani dal confine. È altamente discutibile, tuttavia, se la Russia e Assad abbiano la volontà o la capacità di liberarsi della presenza iraniana sul territorio siriano, specialmente in vista dell’integrazione dei comandanti iraniani e dei combattenti sciiti nelle forze locali.

     

  • Lo scontro di civiltà del mondo d’oggi raccontato a fumetti

    Presentata a Milano, nella sede del museo del fumetto, una significativa iniziativa editoriale della Signs Publisherg: la collana reportage graphic journalism. Tre volumi a fumetti con il testo scritto da tre famosi giornalisti di guerra, Tony Capuozzo, Fausto Biloslavo, Giancarlo Micalessin, e con le illustrazioni grafiche di Armando Miron Polacco. Coordinamento redazionale di Federico Goglio, lettere e impaginazione di Luca Bertolli, progetto grafico di copertina di Daniele Kirchmayer e cartina introduttiva di Emanuele Mastrangelo.

    Il primo volume presentato è «La culla del terrore, l’odio in nome di Allah diventa Stato», dai reportage di Capuozzo.

    L’obiettivo editoriale è restituire ad alcune vicende ormai storiche quella verità e conoscenza divulgativa che in troppe occasioni sembra mancare alla memoria del nostro Paese. La nascita dell’Isis, la vicenda di Quattrocchi, troppo spesso passata in secondo piano, i cristiani uccisi in Siria e la fine di Gheddafi in Libia trovano, nella storia raccontata a fumetti, insieme ad altri importanti e tragici avvenimenti degli ultimi anni, una capacità di sintesi e di possibilità di tornare all’attenzione e alla conoscenza anche dei più giovani, o dei più adulti disattenti.

    Durante la presentazione è stato evidenziato come, finché il mondo musulmano non ammetterà che al suo interno c’è un terribile filone che apre continue strade all’islamismo radicale e violento, non potrà esserci una vera soluzione, così come in Italia non si risolse il problema delle Brigate Rosse finché non si volle ammettere la presenza, in un mondo di sinistra, di omertà e complicità. Anche il silenzio è complicità, anche il non voler vedere è complicità. Alcune vicende, come quella di Quattrocchi, che una meschinità amministrativa del nostro Paese non ha voluto riconoscere come un segno importante, dimostra come sia difficile far crescere gli anticorpi per difenderci dalla cultura della morte e della violenza fine a se stessa. Durante la presentazione della nuova collana sono stati anche ricordati Almerigo Grilz, drammaticamente morto in Mozambico, e la sua idea, rimasta utile per tanti altri inviati di guerra, non solo di sostenere la necessità di avere immagini e foto sui luoghi dei reportage ma anche di disegnare precise mappe.

    Vi è una tradizione nel fumetto di guerra, basta ricordare ‘Supereroica’, e Biloslavo, noto anche per essere stato uno dei pochi a incontrare e intervistare il comandante Massoud e narrare le vicende afghane, ha ricordato, nel parlare di Corto Maltese, di avere scelto la vita che ha fatto per cercare non solo l’avventura ma anche di spiegare al pubblico fatti e persone senza conoscere i quali è ormai impossibile comprendere quanto sta avvenendo e trovare gli antidoti.

  • Altro pacchetto d’aiuti della Ue per lo Yemen

    La Commissione europea ha promesso aiuti per 107,5 milioni di euro alle vittime della carestia in corso nello Yemen devastato dalla guerra. Col nuovo pacchetto di aiuti, l’Ue porterà i suoi contribuiti al Paese della penisola araba a 438,2 milioni di euro. Quasi un terzo del pacchetto di aiuti è stato destinato all’assistenza umanitaria d’urgenza, compresa la fornitura di servizi sanitari di base, nutrizione, alloggi, acqua e servizi igienico-sanitari. Altri 66 milioni di euro sono destinati agli aiuti allo sviluppo per sostenere le misure di resilienza e ripristino tempestivo.

    Il commissario europeo per gli aiuti umanitari e la gestione delle crisi, Christos Stylianides, ha sottolineato l’impegno dell’UE a prestare assistenza alle vittime della guerra civile yemenita, sottolineando altresì che tutte le parti in conflitto devono garantire «un accesso umanitario sicuro e senza ostacoli a tutte le comunità colpite nello Yemen». «Una soluzione politica è urgente per porre fine a questo conflitto, che ha causato milioni di vittime», ha detto Stylianides.

    I finanziamenti dell’Unione nello Yemen hanno contribuito a contrastare un’epidemia di colera che ha devastato un Paese che ha già visto 14.000 morti e quasi 3 milioni e mezzo sfollati a causa della guerra di tre anni. L’Ue ha collaborato col Programma alimentare mondiale e ha sostenuto fortemente la capacità logistica e di trasporto umanitaria da parte del Servizio aereo umanitario delle Nazioni Unite nel tentativo di raggiungere i quasi 18 milioni di persone, più della metà della popolazione yemenita, che hanno bisogno di regolare accesso al cibo e acqua. Si stima che fino a 8,4 milioni di yemeniti, compresi tre milioni di bambini e giovani madri, soffrano di malnutrizione e malattie a causa della catastrofe umanitaria provocata dalla guerra – il quarto maggiore conflitto interno nel paese dopo che lo Yemen del Nord, sostenuto dall’Arabia Saudita e giordano nel 1990, si unì con lo Yemen del Sud – che affonda le sue radici nella primavera araba del 2011 (la rivolta costrinse il presidente, Ali Abdullah Saleh, a cedere il potere, al suo vice Abdrabbuh Mansour Hadi, dopo 22 anni di governo dittatoriale, e la minoranza sciita dello Yemen, gli Houthi, ha sfruttato il vuoto di potere fino ad arrivare a conquistare la capitale yemenita Sanaa all’inizio del 2015, inducendo a quel punto l’Arabia Saudita a dar vita a una coalizione di tribù sunnite dello Yemen fedeli a Hadi).

  • Un secolo tra caos, delusioni e aspettative

    Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita,
    incontrerai tante maschere e pochi volti.

    Luigi Pirandello

    I Balcani, trovandosi posizionati dove si incrociano l’Occidente e l’Oriente, dall’antichità ad oggi rappresentano un territorio dove si intrecciano e si scontrano interessi economici, perciò anche geostrategici.

    Dopo la caduta dell’impero bizantino, nel 1453, in seguito all’invasione ottomana, una nuova pagina si aprì nella storia dei Balcani. Un nuovo impero, quello ottomano, si impossessò della penisola, invadendo tutto il territorio. Un impero militare, tra i più vasti come superficie e che durò più a lungo, ebbe il suo massimo splendore nel 17o secolo, per poi cominciare il suo declino. Non bastarono neanche tante riforme (1839 – 1876), note come Tanzimat, per salvarlo. Un duro colpo per l’impero fu la sconfitta inferta dalla Russia conclusa con la pace di Santo Stefano, sancita finalmente dal Trattato di Berlino (1878). Il Trattato prevedeva, tra l’altro, l’indipendenza dall’impero ottomano dei principati della Serbia, del Montenegro e della Romania. Mentre l’Albania rimaneva di nuovo sotto l’impero. All’occasione sembra che il cancelliere Bismarck abbia detto in quel periodo che “…l’Albania è semplicemente un’espressione geografica”.

    Cominciarono allora a organizzarsi e intensificarsi anche in Albania vari movimenti che avevano come obiettivo la costituzione di uno Stato albanese. A onor del vero, i movimenti e le organizzazioni create e attive in quel periodo e per quello scopo, avevano diversi approci ad un simile obiettivo. In base a noti documenti storici, relativi a quel periodo, risulterebbe che c’era una confusione e diversità nella formulazione delle richieste (indipendenza, autonomia o altro).  Lo stesso anche per le alleanze da fare per raggiungere tale obiettivo.

    L’inizio del 20o secolo trovò l’Albania sempre sotto l’impero ottomano che, da parte sua, stava vivendo un periodo difficile. La rivoluzione dei “Giovani turchi” del 1908 ne era un esempio eloquente. Quel movimento ebbe ripercussioni anche in Albania, allora ed in seguito. Anche perché alcuni dei dirigenti del movimento erano molto attivi nei Balcani e in Albania. Quattro anni dopo cominciarono le due guerre balcaniche (1912 – 1913). Guerre che iniziarono come scontri belici tra l’impero ottomano e la Lega balcanica per poi trasformarsi come scontri tra i membri della Lega per la spartizione dei territori.

    Preoccupati seriamente della situazione, soprattutto dopo l’inizio della prima guerra balcanica (8 agosto 1912), alcuni rappresentanti politici albanesi riuscirono finalmente, con l’appoggio soprattutto dell’Austria e dell’Italia, a proclamare, il 28 novembre 1912, l’indipendenza dell’Albania. Dopo di che, il 4 dicembre 1912 si costituì anche un governo albanese provvisorio. Governo che non ebbe per niente vita facile e lunga. Soprattutto perché i disaccordi, i contrasti e le inimicizie tra le diverse fazioni locali erano reali e forti. L’Albania era, in quel periodo, divisa e controllata da vari clan. E i capi clan erano legati e appoggiati da singoli e/o più governi dei paesi confinanti e non. Da sottolineare che molti tra i politici albanesi attivi in quel periodo erano anche parenti, spesso stretti, e/o legati da matrimoni. Nonostante ciò, spesso erano avversari.

    Un vero caos regnava in quel periodo in Albania. Un paese molto povero, dove la popolazione era divisa tra musulmani (la maggiorparte sunniti e il resto una derivante sciita), che costituivano la maggioranza, e cristiani (ortodossi e cattolici). In più la popolazione veniva spesso divisa e classificata come turchi (cioè musulmani) e greci (cioè cristiani ortodossi). Il che era chiaramente a scapito della loro vera nazionalità: essere albanesi. Tutto concepito ed attuato, per tanti decenni, da politiche maligne di dominanza etnica.

    Le tensioni interne in Albania, nonché le pressioni e le varie influenze straniere, appesantivano la situazione e aumentavano il caos nel Paese. La perdita di alcuni territori, in seguito al Trattato di Londra (1913) gettò benzina sul fuoco. Le Grandi Potenze, tramite la Conferenza degli Ambasciatori a Londra, cercando di minimizzare quel crescente caos, proclamarono l’Albania uno Stato indipendente, organizzato sotto forma di un Principato ereditario neutrale. La Conferenza scelse anche il sovrano. Era un principe prussiano, nonostante le altre preferenze, di altrettanto altri fattori e attori politici, locali e stranieri, attivi in quel periodo. Purtroppo risultò una scelta non appropriata. Il nuovo sovrano arrivò in Albania il 7 marzo 2014 e fu costretto a lasciare il Paese il 3 settembre 1914. Il “Principato”, ideato e costituito con tanta pompa dalle potenze europee, fallì quasi subito e non poteva essere altrimenti. Perché non avevano scelto bene la persona giusta e perché non avevano capito e gestito bene gli interessi e le ambizioni delle varie fazioni in lotta in Albania. Il caos e le delusioni continuarono in Albania, mentre le aspettative svanirono.

    L’allora console italiano a Durazzo (1914), buon conoscitore della realtà albanese di quel periodo, scriveva che “….l’Albania è un paese dove la storia non si creava intorno agli ideali o ai grandi interessi, bensì intorno ad una infinita serie di intrighi, scontri e passioni improvise tra i clan albanesi del nord, del centro e del sud [del Paese], i quali si accordavano pochissimo tra di loro per qualsiasi cosa…”. Mentre la popolazione, nella maggior parte contadina e povera, si lasciava condizionare dai proprietari terrieri e/o dalle propagande religiose. Un giornalista francese scriveva nel 1915 che “…in Albania l’unica preoccupazione dei contadini è quella di rimanere liberi da [gli obblighi ad] ogni governo. Ma, sfortunatamente, in quell’odio contro il potere essi inserivano anche l’odio degli uni contro gli altri. È proprio questo che crea la “Questione Albania”.

    Quel caos continuò, seppure diversamente, anche nel periodo tra le due guerre mondiali. In seguito alle decisioni della Conferenza di pace di Parigi, sancite dal Trattato di Versailles (28 giugno 1919), vasti territori albanesi sono stati dati ai Paesi confinanti. Ragion per cui diventò priorità la difesa dell’integrità nazionale. Compito dei diversi governi dello Stato albanese, spesso di vita molto breve, dal 1920 in poi. Stato che fino al 1928 era una Repubblica parlamentare e che diventò un Regno parlamentare fino all’invasione italiana, il 7 aprile 1939. Per poi, proseguire, dal 1945 fino al 1991, con una delle più feroci dittature.

    Purtroppo, anche un secolo dopo, la situazione in Albania non è tra le migliori. Anzi! Sono tante le similitudini, in sostanza, con il passato. Cambiano soltanto i tempi e le persone. L’autore di queste righe poteva e voleva elencare non poche di esse ma lo spazio a disposizione non glielo permette. Comunque egli è convinto che adesso, come allora, i politici, mentono senza pudore e rimorsi, e sempre nel nome del popolo e dell’Albania. Continuando a fare, però, soltanto i loro giochi d’interesse, compresi degli affari sporchi e occulti, accordandosi dietro le quinte, spesso anche con “appoggi internazionali”. Come un secolo fa. Tante maschere e pochi volti. Chi subisce è sempre, e purtroppo, l’Albania e gli albanesi.

  • 750,000 children in Mosul struggling to access basic health services

    Emma Claybrook – New Europe

    Violence has subsided in Mosul, but less than 10 percent of health facilities in the Nineveh Governorate are functioning at full capacity according to UNICEF, which is calling for $17 million to support children and to rebuild health facilities for children in Iraq in 2018.

    Three years of violence in Iraq has destroyed the country’s health facilities. Over 60 facilities have come under attack since the latest round of violence began in 2014, disrupting access to basic health services for children and families.

    “The state of Iraq’s healthcare system is alarming. For pregnant women, newborn babies, and children, preventable and treatable conditions can quickly escalate into a matter of life and death,” said Peter Hawkins, a UNICEF Representative in Iraq, who has just completed a visit to the Al Khansa Hospital in Mosul, Iraq’s second-largest city.

    “Medical facilities are strained beyond capacity and there are critical shortages of life-saving medicines.”

    UNICEF has pledged its support to healthcare facilities in an effort to assist the Iraqi Government. In Mosul, UNICEF has restored the pediatric and nutritional wards of two hospitals, provided 160 refrigerators for life-saving vaccines for more than 250,000 children and started campaigns to vaccinate all children in the city under five years of age.

    Approximately half a million children in Nineveh have been vaccinated against Polio and Measles, and around 180,000 received Vitamin A supplementation as part of emergency nutritional care.

    “As people start to return to their homes, it is essential that basic services like health, education, and specialized support for children impacted by violence are available,” said Hawkins.

    The Reconstruction Conference for Iraq will be held in Kuwait City from February12-14. The conference will allow the Government of Iraq and the international community to come together and discuss the reconstruction of the destroyed parts of the country. The goal is to put children at the heart of reconstruction, which UNICEF has pledged to do by allocating more of the budget for children’s services.

    “What I saw in the hospitals in Mosul is both heartbreaking and inspiring. The ingenuity and dedication of health workers who are committed to giving newborn children the best possible start in life in the most challenging of circumstances are remarkable. They too deserve support so that they can continue to save lives,” added Hawkins.

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