guerra

  • L’Eritrea rivendica territori in Etiopia

    Il governo dell’Eritrea sostiene che le sue truppe ancora presenti in Etiopia occupino in realtà “territori sovrani eritrei”, tornando a rivendicare una porzione di territorio contesa con Addis Abeba ai sensi dell’accordo di Algeri del 2000. Lo riferisce “The Reporter Etiopia”, precisando che Asmara fa riferimento in particolare alla città frontaliera di Badem e ad altri territori contesi sulla punta più settentrionale dell’Etiopia, zone che il governo del presidente Isaias Afwerki rivendica come eritrei. “Le truppe eritree si trovano all’interno dei territori sovrani eritrei senza alcuna presenza nella terra sovrana etiope”, si legge in una dichiarazione pubblicata lo scorso 28 febbraio dall’ambasciata eritrea nel Regno Unito ed in Irlanda, nella quale si afferma che le aree di confine sono sotto il controllo delle truppe eritree sin dal conflitto del Tigrè, durato due anni e concluso a novembre del 2022. Si tratta, si legge ancora, di “territori sovrani eritrei che il Tplf (il Fronte di liberazione popolare del Tigrè) ha occupato illegalmente ed impunemente per due decenni”.

    I termini dell’accordo di pace di Pretoria, che ha messo fine al conflitto tigrino, prevedevano il ritiro dal nord etiope delle forze alleate con il governo federale del premier Abiy Ahmed: fra queste le milizie regionali amhara, note come Fano; e le stesse truppe eritree, sebbene né le une né le altre fossero esplicitamente citate nel testo. È da questa assenza dell’Eritrea dalle trattative per l’accordo di pace, siglato a Pretoria il 2 novembre 2021, che il già precario equilibrio esistente fra Etiopia ed Eritrea dopo l’accordo di riconciliazione del 2018 si è sgretolato, portando le truppe eritree a mantenere le loro posizioni al confine ed impedendo agli abitanti di quelle zone di rientrare a casa dopo la fine del conflitto. Durante la guerra il governo etiope ha negato a lungo che le forze eritree fossero implicate nei combattimenti, nonostante ripetute denunce internazionali a questo proposito. I funzionari dell’amministrazione provvisoria del Tigrè e il suo presidente Getachew Reda denunciano da tempo al governo federale etiope quella che di fatto vivono come un’occupazione del loro territorio da parte delle forze eritree, che dopo la guerra non si sono mai ritirate oltre il confine.

    Lo scorso 28 febbraio, nel suo intervento al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite il vicesegretario generale Onu per i diritti umani Ilze Brands Kehris ha dichiarato che il suo ufficio “ha informazioni credibili che la Forza di difesa eritrea (l’esercito) rimane nel Tigrè e continua a commettere violazioni transfrontaliere, vale a dire rapimenti, stupri, saccheggi di proprietà, arresti arbitrari e altre violazioni dell’integrità fisica”. Secondo l’amministrazione tigrina, peraltro, il 52 per cento delle terre della regione etiope non è ad oggi coltivabile proprio a causa della presenza delle forze eritree ed amhara, esponendo la zona ad un altissimo rischio di carestia. Come sottolineato a “Ethiopian Reporter” dal vice capo dell’Ufficio regionale dell’agricoltura del Tigrè, Adolom Berhan Harifyo, il governo federale etiope non ha pienamente attuato l’accordo di Pretoria e la maggior parte delle aree che producono alti rendimenti nella regione sono state catturate dalle forze eritree. L’effetto finale è che su una previsione di raccolto di circa 15 milioni di quintali di grano a metà dell’anno fiscale in corso è stato possibile ottenerne solo 5 milioni, ovvero il 33 per cento del totale. Nella regione tigrina ci sono complessivamente 1,3 milioni di ettari di terreno coltivabile, di cui 640mila sono stati coltivati. In tutto, nel Tigré è coltivabile il 48 per cento del territorio.

  • 17 marzo, elezioni in Russia, chiediamo una manifestazione per difendere la libertà e la giustizia

    Ricorda Antonio Polito, ripreso anche da Gramellini, che in Italia ci sono state, dall’inizio dell’anno, 2538 manifestazioni ma, al momento, e temiamo neppure in futuro, vi è stata una manifestazione per dare solidarietà a Oleg Orlov, il premio Nobel settantenne mandato in galera da Putin.

    Circa 9000 artisti e presunti intellettuali hanno firmato un manifesto per non fare partecipare Israele alla biennale di Venezia, mentre molto minori sono state le adesioni per contestare la presenza dell’Iran, noto in tutto il mondo per un governo che sistematicamente uccide e tortura i dissidenti, con particolare piacere se sono donne.

    Non abbiamo visto manifestazioni con numerosi partecipanti per chiedere che Putin si ritiri dall’Ucraina  dopo le decine di migliaia di morti, ucraini e russi, che ha fatto la sua sciagurata ambizione di potere. Le manifestazioni per la pace chiedono, di fatto, un cessate il fuoco agli ucraini, una pace che significa resa a chi li ha invasi sterminando villaggi e città.

    Non abbiamo visto, mentre giustamente si chiede il rispetto della vita dei civili palestinesi, folle manifestanti e decise a condannare Hamas colpevole della strage del 7 ottobre in Israele, degli ostaggi israeliani, di tanti palestinesi usati come scudo umano mettendo armi e tunnel sotto case, ospedali, moschee, scuole.

    E non abbiamo visto nessun partito politico avere il coraggio di indire una manifestazione per il 17 marzo, quando Putin, in elezioni farsa, sarà nuovamente proclamato signore indiscusso e autorizzato a continuare ad imprigionare, ad uccidere.

    Noi crediamo che Il 17 marzo debba esserci, in Italia, una grande manifestazione per la libertà, i diritti umani e la democrazia, nel ricordo di Navalny, ultimo martire dello zar.

    Se la società cosiddetta civile, le forze politiche, gli intellettuali, gli artisti, i comunicatori dei media volessero si sarebbe ancora in tempo per organizzarla ma ho il solito presentimento, questo appello non sarà ascoltato e l’ambiguità continuerà a regnare sovrana.

  • Gli Usa sventano una fornitura d’armi agli Houthi dalla Somalia. Ma è allarme per ambiente e pirateria

    Le autorità statunitensi hanno incriminato quattro cittadini stranieri accusati dell’invio di armi di fabbricazione iraniana alle milizie yemenite Houthi, responsabili degli attacchi sferrati in questi mesi contro le navi commerciali che attraversano il Mar Rosso. Il dipartimento di Giustizia ha divulgato ieri i capi d’accusa a carico di Muhammad Pahlawan, Mohammad Mazhar, Ghufran Ullah and Izhar Muhammad: i quattro sarebbero responsabili del carico di armi sequestrato dai Navy Seals al largo delle coste della Somalia il mese scorso, e sono anche accusati di aver fornito informazioni false alla Guardia costiera statunitense dopo il loro arresto.

    Pahlawan è stato inoltre accusato di aver trasportato illegalmente una testata esplosiva, pur sapendo che gli Houthi avrebbero potuto utilizzarla per attaccare navi commerciali. L’arresto dei quatro contrabbandieri e il sequestro di un piccolo carico di componenti per missili sono stati effettuati l’11 gennaio scorso durante un controverso raid al largo delle coste della Somalia, che ha portato alla morte di due militari statunitensi. Secondo indiscrezioni della stampa Usa, il raid venne ordinato dai vertici della Marina Usa a dispetto di condizioni proibitive sul piano operativo, a causa del mare molto mosso.

    In un’intervista al Financial Times, Arsenio Dominguez, segretario generale dell’Organizzazione marittima internazionale, ha paventato un corto circuito tra gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso e la pirateria africana.

    Costrette dallo scorso dicembre a deviare le loro rotte e circumnavigare l’Africa per evitare gli attacchi Houthi, le principali compagnie navali hanno determinato un aumento della navigazione nelle acque dell’Oceano Indiano e al largo dell’Africa occidentale, un’area marittima dove notoriamente avvengono degli attacchi di pirateria. Non a caso, da anni, in quella sezione di mare è operativa la missione Ue Atalanta. Dominguez ha affermato di aver parlato con le autorità della Somalia, dell’Africa orientale e dei Paesi attorno al Golfo di Guinea, nella parte occidentale del continente, per discutere degli sforzi da mettere in atto per garantire che la pirateria non diventi nuovamente un grave problema.

    Last but not least, gli attacchi degli Houthi rappresentano una minaccia anche all’ambiente. Il Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom) ha segnalato nei giorni scorsi che una nave mercantile abbandonata nel Golfo di Aden dopo un attacco dei ribelli sciiti yemeniti sta imbarcando acqua e ha lasciato un’enorme chiazza di petrolio, provocando un disastro ambientale. La Rubymar, una nave mercantile battente bandiera del Belize, registrata in Regno Unito e gestita dal Libano, è stata colpita da un missile sulla fiancata della nave, con conseguente allagamento della sala macchine e abbassamento della poppa, ha affermato il suo operatore, il Blue Fleet Group. “Quando è stata attaccata la M/V Rubymar trasportava oltre 41mila tonnellate di fertilizzanti che potrebbero riversarsi nel Mar Rosso e peggiorare questo disastro ambientale”, ha affermato Centcom in un post su X. L’attacco alla Rubymar rappresenta il danno più significativo mai inflitto a una nave commerciale da quando gli Houthi hanno iniziato a sparare sulle navi a novembre come forma do rappresaglia contro l’offensiva israeliana a Gaza. Gli attacchi degli Houthi hanno spinto alcune compagnie di navigazione ad allungare la rotta intorno all’Africa meridionale per evitare il Mar Rosso, dove normalmente transita circa il 12% del commercio marittimo globale.

  • Russia e Cina consolidano la loro presenza in Libia

    Russia e Cina rafforzano la loro presenza in Libia con l’apertura dell’ambasciata russa a Tripoli, al capitale sotto il controllo del Governo di unità nazionale (Gun), e le crescenti attività di un misterioso consorzio di Pechino in Cirenaica, la regione orientale dominata dall’Esercito nazional libico (Lna) del generale Khalifa Haftar.

    Il 22 febbraio, Mosca ha compiuto un passo significativo nel consolidamento delle sue relazioni con la Libia riaprendo la sua ambasciata nella capitale, sette mesi dopo la presentazione delle lettere credenziali dell’ambasciatore russo, Haider Aghanin, al Consiglio presidenziale libico, organo tripartito che svolge le funzioni di capo di Stato. Mosca aveva da tempo avviato le procedure per il pieno ripristino della sua missione diplomatica a Tripoli, chiusa nel 2014, e rafforzato le relazioni con il Gun, l’organo esecutivo libico riconosciuto dalle Nazioni Unite. L’apertura della sede diplomatica concretizza ora questo avvicinamento tra Mosca e l’amministrazione della Libia occidentale. Non solo. Mosca ha fissato l’apertura entro l’anno in corso di un consolato generale a Bengasi, il capoluogo della Libia orientale dove la Russia mantiene una presenza militare nella Libia tramite i combattenti dell’ex gruppo Wagner, oggi contrattualizzati con il ministero della Difesa russo.

    La cerimonia di apertura dell’ambasciata russa ha visto la partecipazione del ministro del Petrolio e del gas del Governo di unità nazionale, Mohamed Aoun, e del ministro della Cultura e dello sviluppo della conoscenza, Mabrouka Toghi. Citato dal quotidiano libico “Al Wasat”, Aoun ha sottolineato che la riapertura dell’ambasciata russa a Tripoli rappresenta un “passo importante” che rafforzerà le relazioni bilaterali e promuoverà la cooperazione tra i 2 Paesi, inviando alla comunità internazionale il “messaggio forte” che la Libia sta consolidando la sua stabilità e sicurezza. Il ministro ha evidenziato inoltre l’importanza della collaborazione nel settore energetico, sottolineando che la cooperazione nel campo dell’energia, del petrolio e del gas rappresenta uno degli aspetti più vitali delle relazioni tra Russia e Libia. Durante un discorso tenuto in arabo, l’ambasciatore russo Haider Aghanin ha annunciato anche l’imminente apertura del consolato generale a Bengasi, confermando l’impegno verso una presenza più attiva e una cooperazione duratura nella regione. Il diplomatico russo ha detto che le relazioni tra la Federazione Russa e la Libia stanno entrando in una “nuova era di cooperazione e comprensione reciproca”. L’ambasciatore ha inoltre annunciato che l’ambasciata russa celebrerà il 70esimo anniversario delle relazioni bilaterali il prossimo 25 settembre 2025, evidenziando il significato profondo di questo impegno.

    Nella stessa giornata del 22 febbraio, il presidente della Camera dei rappresentanti della Libia, Aguila Saleh, ha ricevuto il responsabile del consorzio cinese Bfi, Saleh Attia, alleanza tra imprese guidata dalla China Railways International Group Company, e il ministro dell’Economia del cosiddetto Governo di stabilità nazionale (Gsn) non riconosciuto dall’Onu con sede nell’est del Paese, Ali al Saidi. Al centro dei colloqui, riferisce l’ufficio stampa del Parlamento libico con sede nell’est, gli ultimi sviluppi relativi ai progetti nel campo delle fonti rinnovabili di energia, come la costruzione di centrali di energia solare a Kufra, Al Makhlili e Tamanhint, ma anche delle infrastrutture, come il progetto ferroviario per collegare il capoluogo cirenaico Bengasi alla città mediterranea di Marsa Matrouh, in Egitto, passando per la municipalità di Musaed al confine tra libico-egiziano. Un memorandum d’intesa su questo progetto è stato firmato il 9 febbraio. Vale la pena ricordare che 2 mesi fa circa, alcune aziende cinesi avevano stretto un accordo con il capo del cosiddetto Fondo per la ricostruzione della Libia, Belkacem Haftar, figlio del comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl), Khalifa Haftar, per la ricostruzione della città di Derna e delle zone colpite dalle devastanti inondazioni che hanno colpito la regione orientale della Libia lo scorso mese di settembre. A fine ottobre, il ministro “orientale” Al Sidi aveva dichiarato a “Radio France International” che “la Cina è oggi la potenza effettiva che potrebbe costruire ponti, infrastrutture e strade in brevissimo tempo”. Secondo il ministro, la Cina starebbe finanziando in Libia un progetto da 30 miliardi di dollari (28 miliardi di euro) per costruire metropolitane proprio attraverso il consorzio Bfi. “In realtà si tratta di informazioni esclusive che nessuno conosce tranne il mio ministero e le parti coinvolte nell’accordo”, aveva aggiunto Al Sidi.

    Fonti libiche di “Agenzia Nova” a Tripoli hanno riferito che allo stato attuale non risultano avviati investimenti cinesi nel comparto delle infrastrutture nordafricane. Però, sarebbe sbagliato sottovalutare il ruolo che la Cina ha giocato e sta ancora giocando in Libia. Prima della guerra civile del 2011, la cinese China National Petroleum Corp disponeva di una forza lavoro in Libia di ben 30 mila operai e tecnici cinesi, riuscendo ad incanalare oltre il 10 per cento delle esportazioni di greggio “dolce” libico. Ma è soprattutto nel settore delle infrastrutture, marchio di fabbrica dei progetti di Pechino “chiavi in mano”, che la Cina ha puntellato la sua presenza in Libia. Ai tempi dell’ex Jamahiriya del colonello Muammar Gheddafi, China Railway aveva avviato in Libia 3 importanti progetti del valore totale di 4,24 miliardi di dollari. Il caos della guerra civile ha bloccato tutto, ma una possibile stabilizzazione (o partizione) del Paese potrebbe far ripartire i progetti.

  • Muscardini: “Senza l’integrità territoriale dell’Ucraina non vi può essere pace giusta e sicurezza per la democrazia anche nella stessa Europa”

    Nonostante il tempo, tornato freddo e qualche scroscio di pioggia, la manifestazione a sostegno dell’Ucraina, organizzata dall’Associazione NADIYA, a Piacenza sabato 24 febbraio a due anni dall’invasione russa, ha avuto una folta partecipazione non solo di ucraini ma anche di molti cittadini italiani.

    L’inno ucraino e poi l’inno italiano, cantati dal vivo da una cantante lirica ucraina, la preghiera e le strofe cantate dai bambini e indirizzate ai soldati al fronte sono stati momenti commuoventi tra lo sventolio di bandiere e le foto di soldati caduti e di città distrutte dalla furia di Putin.

    Dopo gli interventi della presidente dell’Associazione, di un consigliere della giunta piacentina e di una esponente di Fratelli d’Italia, l’On. Cristiana Muscardini ha sottolineato come il mondo si divida tra male e bene e che il male si manifesta con le azioni di uomini: “Il male è la negazione della pietà e del rispetto dei diritti umani, la voglia di sopraffazione, di annientare quanto non si riesce a possedere, di distruggere ogni oppositore, di calpestare le leggi internazionali, di uccidere gli ucraini e di condannare a morte i propri cittadini in una guerra  sanguinosa, il male è Putin“.

    Cristiana Muscardini ha invitato i presenti a raccontare ovunque quello che sta accadendo in Ucraina per sconfiggere l’indifferenza di troppi o l’acquiescenza o la connivenza di alcuni: “Nella bandiera ucraina ci sono i colori della bandiera europea, il blu del drappo ed il giallo delle nostre stelle, vogliamo che al più presto l’Ucraina faccia parte dell’Europa, chiediamo ai prossimi deputati europei di farsi carico della difesa della libertà e della giustizia, dell’integrità territoriale dell’Ucraina senza la quale non vi può essere pace giusta e sicurezza per la democrazia anche nella stessa Europa”.

  • In piazza a Piacenza per l’Ucraina

    Sabato 24 febbraio, a due anni dall’invasione dell’Ucraina e della guerra scatenata dalla crudeltà dello zar russo, in Piazza Duomo a Piacenza, alle ore 15,30, si svolgerà la manifestazione per la libertà e la pace indetta dall’organizzazione ucraina di volontariato NADIYA, per essere vicini alla valorosa resistenza del popolo.

    Per Il Patto Sociale, da sempre solidale con l’Ucraina, sarà presente Cristiana Muscardini.

  • L’Occidente seduto sul bordo del precipizio?

    Ormai siamo abituati a tutto, guerre, massacri, satanismi, violenti di ogni età, ordine e grado, che ammazzano e violentano donne, distruggono scuole, picchiano i professori, sproloquiano sui social, devastano gli stadi e mettono a testa in giù il Presidente del Consiglio o qualche altro avversario.

    Siamo abituati alle leggi presentate, ritirate, non applicate, alle carceri strapiene, alle cure mediche rimandate di mesi per la mancanza di personale sanitario o per l’incapacità di gestirlo e di fare funzionare i macchinari, ai cavalcavia pericolanti e non sistemati, alle esondazioni dei fiumi, per altro mai ripuliti nei lunghi momenti di siccità.

    Siamo abituati a tutto ma che la più grande potenza occidentale, gli Stati Uniti, abbia un ex presidente che aspira a tornare alla Casa Bianca, anche se pieno di processi e primo attore di vari scandali, il quale, in un comizio elettorale e con dichiarazioni varie, di fatto afferma che lascerebbe carta bianca a Putin per fare quello che gli pare, minacciando anche di uscire dalla Nato e che l’America non si dovrà occupare se uno dei suoi alleati europei sarà invaso credo sia un drammatico segnale dell’abisso sul quale è seduto l’Occidente.

    Quando un leader politico non è in grado di comprendere la gravità delle sue affermazioni, per i risvolti interni ed esterni, ed anzi si compiace di alzare i toni e la violenza del linguaggio fino al parossismo, o c’è modo di intervenire per riportarlo alla ragione o bisogna bandirlo dalla vita pubblica.

    Tutti sappiamo come migliaia, purtroppo milioni di persone possono essere contagiate proprio dal machismo esasperato dei capi popolo che, alla caccia esasperata di voti, non realizzano che il loro esempio porta a conseguenze molto pericolose.

    Vale per gli Stati Uniti come per l’Italia, Giorgio Pisanò scrisse un importante libro sul primo dopoguerra in Italia “Sangue chiama sangue”, e ormai dovremmo sapere che violenza verbale chiama violenza anche fisica così, vale per tutti, se i toni non tornano ad un civile confronto la responsabilità peserà su coloro che hanno dato il cattivo esempio.

  • Le forze russe ‘costruiscono’ una barriera di 30 km nel Donetsk e gli hacker filorussi attaccano i siti italiani

    L’Istituto per lo studio della guerra (Isw) ha affermato, citando immagini satellitari e canali Telegram ucraini, che le forze russe stanno assemblando una barriera di vagoni ferroviari che si estende per 30 chilometri nell’oblast di Donetsk. La barriera, soprannominata il «treno dello zar» e costruita con oltre 2.100 vagoni merci, servirebbe come linea difensiva contro futuri assalti ucraini. Dalle immagini satellitari la linea di vagoni ferroviari si estende da Olenivka, a sud della città di Donetsk, a Volnovakha, a nord di Mariupol.

    La barriera che, secondo una fonte ucraina – come riporta l’Isw -, sarebbe stata assemblata a partire da luglio 2023, sembrerebbe essere una nuova linea difensiva russa, ma per l’Istituto le forze di occupazione potrebbero avere in mente «altri scopi».

    La mire russe non si fermano però solo al territorio ucraino.  E’ di questi giorni la notizia di cyberattacchi da parte del gruppo filorusso Noname contro siti italiani “in supporto agli agricoltori che stanno protestando”.

    Ad aiutare i Noname altre tre gruppi: Folk’s CyberArmy, 22C e CyberDragon. Si tratta di attacchi di tipo Ddos (Distributed denial of service) che consistono nell’inviare un’enorme quantità di richieste al sito web obiettivo che, non potendo gestirle, non è in grado di funzionare correttamente. L’Agenzia per la cybersicurezza nazionale sta monitorando la situazione che al momento sembrerebbe gestibile. Sul canale Telegram di Noname si legge: “Gli agricoltori sono stanchi delle politiche sbagliate delle autorità italiane, che sponsorizzano con tutte le loro forze il regime criminale di Zelenskyj e non cercano nemmeno di risolvere i problemi interni del Paese, fregandosi dei propri cittadini. Gloria alla Russia!”. Tra gli obiettivi che gli hacker sostengono di aver colpito, ci sono l’Agenzia del demanio, Credem, Bper, le aziende del trasporto pubblico di Siena, Torino, Palermo Cagliari e Trento. La Polizia postale sta lavorando con l’Agenzia per ripristinare la funzionalità dei siti colpiti, tra i quali quelli dell’Esercito, del Sistema centralizzato di identificazione automatizzata Siac della Difesa, dell’azienda A2A, della fatturazione elettronica verso l’Amministrazione dello Stato, del servizio di pagamento delle tasse on line dell’Agenzia delle entrate.

  • Egitto pronto ad aiutare l’Italia nella missione per mantenere l’ordine nel Mar Rosso

    Secondo quanto apprende l’agenzia di stampa Nova, Giorgia Meloni e il presidente dell’Egitto, Abdel Fattah al Sisi, si sono sentiti almeno un paio di volte tra l’ultima settimana di gennaio e la prima di febbraio, per discutere della delicata situazione del Medio Oriente, incluso il fascicolo relativo al Mar Rosso. L’Italia, infatti, avrà il comando tattico della missione militare aeronavale europea Aspides (“scudo” in greco) volta a proteggere il traffico marittimo dalle incursioni dei ribelli yemeniti Houthi, che attaccano le navi commerciali occidentali nel tentativo di esercitare pressione su Israele per porre fine al conflitto a Gaza. Situato strategicamente sulle coste del Mar Rosso, l’Egitto ha oggettivamente un interesse nel porre fine agli attacchi alle navi che attraversano il vitale Canale di Suez, fonte di entrate valutarie annue per il Cairo stimabili intorno ai 10 miliardi di dollari. Nonostante il Cairo non abbia ancora annunciato ufficialmente la propria partecipazione alle operazioni militari contro gli Houthi, temendo di essere trascinato in conflitti prolungati nella regione e di urtare la sensibilità dell’opinione pubblica, fonti di “Agenzia Nova” suggeriscono che l’Egitto potrebbe fornire supporto logistico o consulenza ai suoi alleati. Negli ultimi anni, il Paese delle piramidi ha investito 1,2 miliardi di dollari per acquistare due fregate Fremm dell’ex Marina italiana, Ems Bernees (ex Emilio Bianchi) e Ens Al Galala (ex Spartaco Schergat) rispettivamente nell’aprile 2021 e nel dicembre 2020, per rafforzare la sicurezza delle proprie acque territoriali, contrastare l’emigrazione clandestina e proteggere le risorse energetiche offshore dove opera, tra gli altri, anche Eni.

  • L’industria militare tedesca punta ad aumentare la produzione

    L’industria della difesa tedesca vuole aumentare le capacità di produzione nei prossimi anni: dai mezzi corazzati alle munizioni e ai sistemi di difesa aerea. È quanto riferisce il quotidiano “Handelsblatt”, secondo cui i gruppi Krauss-Maffei Wegmann (Kmw) e Rheinmetall intendono fabbricare 100 carri armati Leopard 2 all’anno. A sua volta, l’azienda Diehl punta a triplicare il numero dei sistemi di difesa aerea Iris-T. Inoltre, Rheinmetall e Diehl mirano a portare la produzione di proiettili di artiglieria dalle attuali 100mila a circa 250mila unità all’anno.

    Questa espansione fa seguito alla guerra mossa dalla Russia contro l’Ucraina. I nuovi prodotti verranno forniti principalmente alle Forze armate della Germania e degli altri Stati della Nato, per esempio Norvegia e Slovacchia. Alcuni di questi Paesi devono, infatti, sostituire armi e materiali che hanno trasferito all’ex repubblica sovietica, a cui andrà la maggior parte delle munizioni prodotte in Germania. Tuttavia, l’ampliamento delle capacità del settore della difesa tedesco non sarà sufficiente a soddisfare la domanda. Soltanto per i proiettili di artiglieria, il fabbisogno dei Paesi europei e dell’Ucraina è di 5,5 milioni di pezzi. Considerate le difficoltà soprattutto nella produzione di granate e razzi, questo totale sembra difficilmente raggiungibile.

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