guerra

  • Adesso è tutto chiaro

    Dopo le dichiarazioni del segretario delle Nazioni Unite Guterres è chiaro il motivo per il quale le Nazioni Unite da tempo non contano più nulla e non ottengono risultati, anzi aggravano i problemi.

    Se da un lato è giusto e doveroso preoccuparsi per i civili palestinesi, quelli che non sono complici e correi di Hamas, è improvvido, sbagliato, pericoloso, è una negazione di quanto Israele ha subito, pronunciare le parole che Guterres ha detto alle Nazioni Unite, parole che di fatto giustificano gli eccidi, le torture, le violenze perpetrate da Hamas il 7 ottobre.

    La richiesta di dimissioni di un uomo che di fatto ha reso le Nazioni Unite un organismo inutile ed imbelle e che, con le ultime dichiarazioni, fa da sponda al terrorismo non solo è legittima ma necessaria.

  • Due più due

    Putin si reca dal presidente cinese lanciando un messaggio criptico: ”Il piano cinese per la pace può essere un buon punto di partenza”, peccato che nessun altro, oltre a loro due, lo conosca e che tutti invece conosciamo molti degli interessi comuni che legano i due paesi, interessi che ovviamente non corrispondono ai diritti del popolo ucraino.

    Dopo le stragi di Hamas Il presidente cinese ha annunciato al mondo arabo la sua vicinanza ed il suo sostegno alla causa palestinese.

    Abu Mazen proclama che i palestinesi non sono Hamas, ma i palestinesi di Gaza hanno scelto Hamas già dal lontano 2007.

    Hamas ha usato i soldi della cooperazione internazionale per armarsi sempre di più senza migliorare di un millimetro la vita degli abitanti della striscia di Gaza, ha come obiettivo principale la distruzione di Israele, ha condotto in modo militare un’operazione terrorista di violenza inaudita, che ha portato alle morte, per ora accertata, di più di 1300 cittadini israeliani, migliaia di feriti, almeno 200 ostaggi, e ben sapendo che ci sarebbe stata una violenta e legittima reazione da parte di Israele.

    L’Isis ha proclamato la Jihad, il che non è una novità visto che non l’aveva mai ritirata, e nei paesi occidentali stanno ricominciando gli attentati, documenti e volantini del cosiddetto stato islamico sono stati ritrovati dai soldati israeliani nei luoghi delle stragi.

    Gli hezbollah si uniscono alla guerra contro Israele mentre i paesi musulmani più moderati, anche se carenti di democrazia sostanziale, rischiano rivolte interne da parte dei fratelli musulmani.

    L’Iran gioca le sue carte per ottenere via libera per l’atomica e ancor maggiore peso nell’area o per scatenare una guerra non solo contro Israele o altri paesi musulmani nemici da sempre, ma anche per dare una svolta alle proteste interne che continuano e l’amicizia, la collaborazione tra Iran e Hamas è nota da sempre.

    Non ci sarebbe da stupirsi se ricominciassero, con più violenza, anche le azioni degli al Shabaab non solo nel corno d’Africa ma in tutti quei paesi africani nei quali i governi sono impegnati a combattere  il terrorismo.

    Molti paesi africani hanno al loro interno guerre e sommosse nelle quali la mano della Russia è presente, anche dopo la scomparsa di Prigozhin, mentre la Cina tiene in pugno altri paesi del continente africano per gli enormi prestiti fatti e che questi non avranno mai modo di restituire, i gravi problemi del continente africano rientrano nello scenario di un conflitto che rischia di essere sempre più esteso.

    La Russia con la battaglia del grano sta portando alla fame paesi africani musulmani le cui democrazie agli albori si sono dimostrare  troppo fragili.

    L’attenzione dei media da alcuni giorni si è spostata quasi completamente dalla guerra in Ucraina con il rischio che l’opinione pubblica se ne disinteressi e che possano crescere le più o meno palesi simpatie di alcuni per Putin e per il suo progetto, condiviso con il presidente cinese e non solo, di un nuovo ordine mondiale.

    Non è un mistero la convinzione, che troppi hanno, che i sistemi autoritari funzionino meglio delle democrazie, democrazie che rischiano quando metà della popolazione non si reca al voto.

    La reazione di Israele, se sarà portata avanti fino alla distruzione, almeno di gran parte di Hamas, rischia di scatenare un altro conflitto senza precedenti, se si fermerà Israele rischia la propria esistenza e il rischio è anche del mondo occidentale che non potrà più pensare di vivere in pace come negli anni seguiti al secondo conflitto mondiale.

    Sono solo alcune considerazioni, molte altre se ne potrebbero fare, esaminando gli errori degli uni e degli altri e la debolezza, la quasi inesistenza, da tempo, delle Nazioni Unite ma lasciamo questo lavoro ai tanti che in televisione parlano, spesso a ruota libera, mentre abbiamo, anche in questi giorni, visto bruciare in piazza le bandiere di Israele e gridare morte ai sionisti.

    La sofferenza dei civili palestinesi sotto le bombe, che doveva portare a più tempestivi aiuti umanitari, non deve lasciare indifferenti ma non può farci dimenticare che Hamas usa i civili come scudi umani mentre continua a lanciare missili su Israele, due errori non fanno mai una ragione, ciascuno si prenda  responsabilità e conseguenze
    Vogliamo solo ricordare che 1) è difficile fare i fluire maggiormente la diplomazia dopo che la si è ignorata per anni basandoci invece su qualche  improvvido Twitter, 2) se si vuole salvare Gaza bisogna eliminare Hamas, 3) se si vuole fermare la guerra Abu Mazen e i paesi arabi devono subito riconoscere Israele, solo con il pieno riconoscimento di Israele, e a seguire dello stato palestinese, si potrà sperare di costruire un Medio Oriente che guardi al futuro e continuare nelle azioni necessarie a distruggere il terrorismo. Resta fermo il fatto che Gerusalemme è la culla delle tre religioni monoteiste.

    In sintesi due più due non fanno quattro se chi conta ha obiettivi diversi dalla pace.

  • Hamas e Israele: chi ha davvero interesse alla pace?

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Dario Rivolta apparso su notiziegeopolitiche.net

    Dopo la sanguinosa carneficina perpetrata da Hamas dentro il territorio di Israele, gli israeliani sono assetati di sangue e nessun governo, né quello al potere prima dell’attacco né quello attuale di unità nazionale, potrà permettersi di tornare alla situazione precedente o limitarsi a una vittoria di facciata contro Hamas.

    Tuttavia, una invasione di terra con l’obiettivo di “eliminare del tutto” Hamas prospetta danni molto più gravi di quanto la rabbia dei primi momenti avrebbe suggerito. Si verificherà una catastrofe umanitaria, morale e strategica. La striscia di Gaza è un’entità con la densità di popolazione tra le più alte al mondo e Gaza city è abitata da più di un milione di persone. Anche chi volesse andarsene prima dell’invasione non saprebbe realmente dove recarsi (il valico di Rafah con l’Egitto resta chiuso e gli ospedali e le maggiori infrastrutture si trovano solo nella capitale). Di certo l’ingresso di migliaia di soldati israeliani non sarà accolto con giubilo dalla popolazione locale e ciò che sarà più probabile è un combattimento casa per casa.  Ci saranno cecchini, attentatori suicidi e esplosivi improvvisati. Le vittime non potranno che essere migliaia e, se pur tra loro ci saranno militanti del gruppo terrorista, la maggior parte dei morti sarà tra i cittadini inermi. Ciò rafforzerà ancora di più i sentimenti anti israeliani in tutte le popolazioni arabe del medio oriente e nessun governo locale, nemmeno il più moderato, avrà il coraggio di ostacolare o di scoraggiare le manifestazioni.

    In un mio altro articolo del maggio 2021 sostenevo che lo status quo di allora fosse l’unica soluzione possibile anche se non l’ottimale. Purtroppo oggi anche quell’ipotesi non sembra più percorribile e Hamas è il primo a non volerlo sperando che un possibile allargamento del conflitto porti veramente alla distruzione (o al drastico ridimensionamento) di Israele.

    La situazione e le conseguenze che potrebbero derivarne è molto delicata e pericolosa, non solo per gli israeliani ma anche per tutto il mondo occidentale. Ciò nonostante, io non ho alcun dubbio: voglio che Israele esista e prosperi e trovo che noi europei non abbiamo scelta alternativa. Io sto con Israele.

    *Già deputato è analista politico ed esperto di relazioni e commercio internazionali

  • L’unica soluzione? Il riconoscimento dei due Stati, Israele e Palestina

    Lo si dice da anni, lo si ripete in ogni occasione di conflitto o di azioni terroriste, una litania che rischierebbe di diventare patetica se non esprimesse una sacrosanta verità negata, nei fatti, da molti di quelli che la pronunciano.

    E’ il mondo arabo, o almeno la maggior parte di esso, nel suo complesso e nelle sue diverse forme organizzative, che ha negato ai palestinesi il loro diritto a vivere in uno stato indipendente e riconosciuto nel momento nel quale, per decenni, si è rifiutato di riconoscere Israele.
    Anche l’Occidente ha le sue colpe nel non avere fatto comprendere al mondo arabo moderato i pericoli di lasciare nel limbo del non riconoscimento sia Israele che i palestinesi, nel non aver controllato come si usavano i molti soldi inviati come aiuti umanitari, nel non avere portato fino in fondo la guerra al terrorismo, nel non avere approntato in Europa regole comuni per l’immigrazione e per il rispetto delle regole e delle leggi europee.
    I più o meno recenti accordi di Abramo, i quali seguono altri tentativi di accordi siglati e disattesi, che sembravano aprire finalmente la strada per arrivare al riconoscimento di Israele e di conseguenza della Palestina, sono stati sabotati nel sangue che Hamas ha scientemente, e con inaudita ferocia, versato in Israele nel tentativo di fare imboccare a tutti una strada senza ritorno.
    Hamas pur avendo usato i soldi degli aiuti umanitari, che arrivavano da gran parte del mondo, Europa in testa, per dotarsi di nuove armi e di fabbriche per incrementare il suo arsenale di  guerra, invece che per dare migliori condizioni di vita ai palestinesi, non avrebbe potuto preparare un piano così efferato e preciso se non avesse avuto a monte il fattivo sostegno di altre potenti realtà, non soltanto dell’Iran.
    L’Iran, messo in difficoltà dalle proteste interne, nell’ultimo anno diventate più evidenti e ormai all’attenzione mondiale, non poteva aspettare oltre visti i colloqui e le intese che si andavano costruendo anche  tra Arabia Saudita ed Israele.
    Stabilizzare il Medio Oriente creando condizioni di civile convivenza, di sicurezza per Israele e di maggiore benessere per i palestinesi, non era e non è un obiettivo né degli islamisti radicali, né del terrorismo islamista, sia esso al Qaeda o  Isis, ma neppure di quelle  potenze che, negli ultimi anni, stanno cercando di creare sinergie per dare vita ad un nuovo sistema mondiale sia politico che economico.
    Gli incontri tra Putin e il presidente cinese, la guerra che lo zar ha scatenato contro l’Ucraina, la sempre più forte penetrazione in vari paesi africani sia da parte cinese che russa, anche se con metodi diversi, fanno parte di un ampio disegno che vede nell’attacco ad Israele, senza pari per violenza ed capacità organizzativa, un nuovo spaventoso scenario nel quale tutti possono restare coinvolti ma solo alcuni hanno l’arma, che potrebbe diventare vincente, del ricatto e del terrore.
    Siamo tutti consapevoli che nei bombardamenti su Gaza soffriranno migliaia di civili che perderanno la casa se non la vita, ma dobbiamo essere altrettanto consapevoli che da Gaza continuano a piovere missili su Israele, assediata anche dagli Hezbollah e non solo.
    Siamo consapevoli che Israele non può, come nessuno stato può, che reagire con estrema fermezza alla mattanza fatta dai terroristi di Hamas perché non può ignorare il disegno, che esiste da sempre, di distruggerla e che la chiamata alla jihad è un pericolo per tutto il mondo, non lo può ignorare Israele e non lo possiamo ignorare noi.

    Né si possono ignorare le manifestazioni che sono state tenute in vari paesi, Italia compresa, a favore dei palestinesi, di Hamas ed inneggianti la distruzione di Israele. Legittimo, anzi giusto chiedere attenzione per i civili palestinesi, per la loro salvezza, barbaro non avere pietà e rispetto per le persone, i bambini trucidati da Hamas.

    I tanti, Cina compresa, che chiedono, con più o meno arroganza e mistificando le realtà, che gli israeliani non entrino a Gaza perché non chiedono ad Hamas di cessare il lancio di razzi contro Israele? Perché non condannano, senza se e senza ma, quello che Hamas ha fatto ad Israele e contro gli stessi palestinesi?

    Chiedere pace bruciando le bandiere di Israele e non condannando il terrorismo è la strada per ancora più odio e guerra.

    La doppia verità è sempre menzogna e l’arma del terrore deve essere distrutta perché tutti possano aspirare ad un mondo nel quale diritti umani, libertà e sicurezza non siano soltanto parole.

  • Un altro e preoccupante conflitto in corso

    La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri.

    Hannah Arendt

    Circa tre mila anni fa era una regione popolata da tribù nomadi. Ma anche da diverse popolazioni che si sono stabilizzate in una vasta area, parte della quale era desertica. Popolazioni che erano ben organizzate dal punto di vista sociale e della gestione del potere. In quella vasta regione c’erano però anche degli insediamenti urbani molto più antichi. Dati storici affermano comunque che circa 3200 anni fa in quel territorio si stabilirono, altresì, dei coloni che arrivarono dalla vicina isola di Creta. In quel periodo tutta la regione era controllata dagli egizi. Poi è stata occupata e dominata da diversi invasori durante l’antichità. Sempre dati storici alla mano, risulta che i primi sono stati gli assiri dall’830 a.C.. In seguito, nel 597 a.C., la regione è stata occupata dai babilonesi fino al 332 a.C., quando sono arrivati i macedoni di Alessandro Magno. Nei secoli successivi parte della regione entrò sotto il controllo di alcuni sovrani della Grecia antica. Poi, nel 63 a.C., arrivarono i romani. Circa sette secoli dopo la regione cadde nel dominio degli arabi. Un dominio, quello arabo, che è stato interrotto dall’arrivo degli eserciti del Impero ottomano nel 1517. All’inizio del ventesimo secolo, quando l’Impero ottomano cominciò a indebolirsi, la regione entrò sotto il controllo del Regno Unito. Ed è proprio quella regione dove si svolgono tutte le storie, dove vivono ed operano tutti i personaggi, profeti e santi, compreso anche Gesù Cristo, che sono state molto bene testimoniate nelle Sacre Scritture. Una regione, nota anche come la Terra Santa dalle tre maggiori religioni monoteiste, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, dove, per circa tre mila anni, hanno vissuto gli ebrei ed i palestinesi.

    Per dei motivi ben noti, testimoniati dalle Sacre Scritture e legati alla vita, alla crocifissione e alla risurrezione di Gesù Cristo, gli ebrei sono stati perseguitati e costretti a lasciare i territori in cui hanno vissuto per molti secoli. Mentre i palestinesi sono rimesti in quei territori che condividevano anche con gli ebrei. Molti degli ebrei sono arrivati in Europa ed in Russia. In molte città dove si sono insediati hanno vissuto quasi sempre confinati in quelli che sono noti come i ghetti degli ebrei. Ma dalla seconda metà del diciannovesimo secolo cominciò un ritorno degli ebrei nelle terre dei loro antenati. Tutto è dovuto ad una proposta, fatta nel 1840, dall’allora primo ministro del Regno Unito, Lord Palmerson. Egli lanciò l’idea di istituire un insediamento permanente per gli ebrei nel territorio della Palestina. Secondo il proponente, quel rientro degli ebrei nei territori da loro lasciati sulla costa orientale del mare Mediterraneo doveva permettere al Regno Unito di mantenere sempre aperta “la Porta d’Oriente per i commerci e le truppe inglesi”. Passarono non più di una ventina di anni e si verificarono i primi flussi di rientro degli ebrei, molti dei quali partiti dalla Russia, nei territori dove la maggior parte della popolazione era quella arabo palestinese. Loro, una volta arrivati, compravano dei territori e lì si stabilivano. All’inizio tutto progrediva tranquillamente, ma i palestinesi, con il passare del tempo, cominciarono a preoccuparsi di un simile e crescente flusso di rientro degli ebrei. Era il 1891 quando ebbero inizio le prime proteste dei palestinesi contro la vendita dei terreni agli ebrei. Tre anni dopo in Francia scoppiò uno scontro politico e sociale, noto come Affaire Dreyfys (Affare Dreyfus). Uno scontro che continuò dal 1894 al 1906. Tutto era legato ad un processo giudiziario contro un capitano dell’esercito, di origine ebrea, Alfred Dreyfus, condannato con l’accusa di tradimento e spionaggio a favore della Germania, il nemico storico della Francia. Già dall’inizio del processo erano non pochi coloro che difendevano e proclamavano innocente il capitano ebreo Alfred Dreyfus. Tra loro anche Émile Zola, che il 13 gennaio 1898 scrisse una lettera aperta nel giornale L’Aurore, intitolata J’accuse (Io accuso). Con quella lettera aperta il noto scrittore francese difendeva l’innocenza di Dreyfus. Ebbene dovevano passare ben dodici anni prima che venisse riconosciuta finalmente l’innocenza di Dreyfus. Prendendo spunto dall’Affare Dreyfus, un altro scrittore, l’ungherese Theodor Herlz, scrisse e pubblicò nel 1896 un libro intitolato “Lo Stato degli ebrei”. Un libro con il quale l’autore si metteva contro un crescente movimento antisemita in Europa e auspicava che gli ebrei potessero avere uno Stato indipendente nella loro “Terra dei padri”. Nel frattempo in diversi Stati europei  era nato il sionismo, un movimento politico e religioso che chiedeva la costituzione di “uno Stato ebraico sovrano ed indipendente” in cui potevano ritornare per ricongiungersi tutti gli ebrei che si trovavano in vari Paesi europei, in Russia ed altrove. Ebbene, soltanto un anno dopo la morte di Theodor Herlz, il settimo congresso internazionale sionista decise che lo Stato indipendente degli ebrei doveva essere costituito in Palestina. In quel periodo Israel Zangwill, uno dei dirigenti del movimento sionista affermava che “La Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Mentre David Ben Gurion, il fondatore, il 14 maggio 1948, dello Stato d’Israele ed il suo primo ministro, affermava circa all’inizio delle attività del movimento sionista, che la Palestina era “primitiva, abbandonata e derelitta”. Da dati ufficiali risultava che nel 1906 in Palestina si trovavano circa 645.000 arabi palestinesi e 55.000 ebrei. Bisogna sottolineare che per gli ebrei la “Terra dei padri” era proprio la “Terra promessa” di cui si fa ampiamente riferimento nelle Sacre Scritture. Gli ebrei rientrati nel territorio della Palestina nel 1909 istituirono il primo villaggio in cui gli abitanti condividevano la terra che lavoravano insieme. Quel tipo di villaggio è stato nominato kibbutz (parola ebraica che significa comune, riunione; n.d.a). Da dati storici risulta che tra il 1908 ed il 1913 sono state istituite nel territorio palestinese undici nuove colonie di ebrei. Il che suscitò delle forti reazioni dei palestinesi che erano diventati convintamente contrari alla vendita dei terreni agli ebrei. Ragion per cui, sempre dati storici alla mano, i rapporti tra gli arabi palestinesi e gli ebrei, che prima convivevano pacificamente, con il passare del tempo, diventarono sempre più agguerriti. E la storia ci insegna che dall’inizio del secolo scorso ad oggi i rapporti tra le due popolazioni sono tutt’altro che pacifici.

    La storia, questa grande maestra, ci insegna che le scelte fatte e le decisioni prese, soprattutto dagli Stati grandi ed importanti nell’arena internazionale, nel bene e nel male, sono sempre motivate e/o condizionate da ragioni geopolitiche e geostrategiche. E proprio per garantire una significativa e continua presenza del Regno Unito nel territorio palestinese, il 2 novembre 1917, l’allora ministro degli Affari esteri Arthur James Balfour scrisse una lettera ad uno dei fondatori del movimento sionista, Lord Rotschield. Quella lettera, nota anche come la Dichiarazione Balfour, ormai viene considerata anche come l’avvio dei rapporti di collaborazione tra il Regno Unito ed il movimento sionista. In quella lettera si confermava che “Il governo di Sua Maestà vede favorevolmente la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”. Bisogna evidenziare che il territorio dove si doveva costituire quel “focolare nazionale per il popolo ebraico” era ancora sotto il dominio dell’Impero ottomano che, in quel periodo, si stava però sgretolando. Era un territorio dove si trovavano quella che ormai è nota come la Cisgiordania, la parte meridionale dell’attuale Libano, la Striscia di Gaza e le alture del Golan. La dichiarazione Balfour è stata una breve lettera, ma molto apprezzata dal movimento sionista. Nel frattempo, più di un anno prima, visto il continuo e vistoso indebolimento dell’Impero ottomano, si sono incontrati i rappresentanti della Francia e del Regno Unito, con il pieno consenso  della Russia. Dovelano prendere delle decisioni geostrategiche, in base alle quali stabilire e sancire anche le zone di influenza nel Medio Oriente. Il 16 maggio 1916 sono stati firmati segretamente quegli che ormai sono noti come gli Accordi Sykes-Picot (dai nomi dei rappresentanti del Regno Unito e della Francia; n.d.a.). Secondo quegli Accordi, il territorio della Palestina viene messo sotto il controllo del Regno Unito. La dichiarazione Balfour è diventata parte integrante anche del Trattato di Sèvres. Con quel trattato, firmato a Sèvres (cittadina francese; n.d.a.) il 10 agosto 1920, si ufficializzava la resa dell’Impero ottomano e si stabilivano i rapporti tra la Turchia e i vincitori della prima guerra mondiale. Anche nel Trattato di Sèvres il territorio della Palestina veniva assegnato e messo sotto il controllo del Regno Unito. Dal primo censimento ufficiale della popolazione, svolto nel 1919, risultava che lì abitavano circa 700.000 arabi e 70.000 ebrei. In seguito, nel luglio 1922 la Società delle Nazioni riconosceva il diritto al Regno Unito, assegnandogli anche un apposito mandato ufficiale, di preparare la costituzione di uno Stato nazionale ebraico. Sempre dati alla mano, tra il 1924 ed il 1928 risulta che più di 60.000 altri ebrei sono rientrati nei territori della Palestina. La storia ci testimonia che da allora si sono accentuati gli attriti tra i palestinesi e gli ebrei. I palestinesi consideravano gli ebrei come degli intrusi ed invasori. Mentre gli ebrei finalmente si ritrovavano nella “Terra dei padri”, nella Terra promessa da Dio.

    Nel periodo tra le due guerre mondiali, gli ebrei  sono continuati a ritornare nel territorio a loro assegnato. Nel 1936 i palestinesi cominciarono quella che è nota come la Grande rivolta contro il sionismo ed il controllo del territorio da parte del Regno Unito. La reazione britannica è stata molto dura. Nel frattempo però, in Germania prima e poi in altri Paesi europei, dopo l’approvazione nel settembre 1935 delle due leggi di Norimberga, comincia la persecuzione degli ebrei. Purtroppo durante la seconda guerra mondiale gli ebrei hanno subito delle ineffabili atrocità nei campi di sterminio di massa. Ragion per cui in seguito tutti quelli che sono riusciti a sopravvivere, ma anche gli altri che erano riusciti a mettersi in salvo, sentivano il bisogno di avere un loro Paese dove vivere in pace. Ragion per cui, nell’aprile del 1947 l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha nominato una apposita commissione d’inchiesta internazionale, il cui rapporto, in seguito, ha raccomandato la creazione di uno Stato ebraico e uno Stato arabo in Palestina. Il 14 maggio 1948, si costituisce lo Stato d’Israele. Ma da allora molti scontri armati si sono svolti tra gli ebrei e gli arabi, sia quelli palestinesi che di altri Paesi con loro confinanti.

    L’ultimo conflitto armato è stato avviato sabato scorso, 8 ottobre. Un conflitto che è cominciato dopo l’attacco con razzi da parte dei militanti dell’organizzazione Hamas (l’acronimo di Harakat al-Muqawwama al-Islamiyya – Movimento Islamico di Resistenza; n.d.a.). Sono stati centinaia i morti già dopo le prime ore dell’attacco. Soprattutto cittadini israeliani, ma sono stati presi in ostaggio più di cento altri cittadini ebrei e altri con doppia nazionalità. In seguito è stata durissima anche la risposta dell’esercito israeliano che ha causato centinaia di morti nella Striscia di Gaza. Oggi, al quinto giorno di quella che il primo ministro d’Israele ha considerato come una guerra, il numero delle vittime purtroppo sta aumentando, sia israeliani che palestinesi. Ieri, 10 ottobre sono stati trovati morti in un kibbutz anche circa 40 bambini, alcuni di essi decapitati. Orrori della guerra che continua e che, dall’inizio, ha attirando tutta l’attenzione pubblica, politica e mediatica.

    Chi scrive queste righe ha scelto di non riportare le tante e continue notizie che ora dopo ora molte agenzie stanno diffondendo in tempo reale di quest’altro e preoccupante conflitto in corso. Egli, continuerà a seguire gli sviluppi e riferire ai nostri lettori. Chi scrive queste righe, come la storia ci insegna e come affermava Hannah Arendt, è convinto che, purtroppo, la guerra non restaura diritti ma ridefinisce poteri.

  • Difendere Israele e l’Ucraina imperativo per tentare di garantire il futuro di chi crede nella civiltà

    Dopo gli orrori di Bucha  e dei troppi luoghi ove si è accanita la crudeltà e l’efferatezza di alcuni reparti russi, nella criminale guerra di Putin, ecco ora gli orrori che gli islamisti hanno commesso in Israele, trucidando persone inermi e decine e decine di bambini, alcuni di questi, secondo le notizie apparse su diversi media, sono stati sgozzati e decapitati.

    Difficile trovare parole idonee per condannare questo orrore, difficile pensare in modo razionale, non farsi prendere dall’odio.

    Chiedere giustizia sembra ormai inutile perché di fronte al terrore, ad uomini che non hanno remore del dichiararsi terroristi o di comportarsi come tali, di farsi saltare in aria o di mandare a sicura morte altri uomini incuranti di ogni principio comune, di ogni pietà e rispetto, le leggi, le associazioni internazionali sembrano non avere più capacità di intervento, oltre alle solite dichiarazioni.

    Gli antichi dicevano “se vuoi la pace prepara la guerra” e tutto il nostro difficile tentativo, protrattosi nei secoli, per arrivare a una società che riconoscesse la civiltà come bene comune deve riportarci a considerare quella frase, purtroppo, ancora attuale.

    Difendere Israele come difendere l’Ucraina sono imperativi per tentare di garantire il nostro futuro di italiani, di europei, di donne e uomini che credono nella civiltà.

    Il terrore non ci deve impaurire e piegare, non ci sono né se né quando la stessa civiltà è messa in serio pericolo: in poche ore siamo tornati indietro nel tempo prima in Ucraina ed ora in Israele.

    Le risposte, anche le più cruente, al terrorismo ed alla violenza contro civili, contro bambini, non sono solo giustificate ma necessarie perché le belve umane sono le più sanguinarie e pericolose che esistono e solo rendendole inoffensive, definitivamente, il mondo ritroverà quella civiltà che loro stanno tentando di sopprimere.

  • Putin dà l’ordine di ricostruire la Wagner. Incarico a Troshev

    Il presidente russo Vladimir Putin ha chiesto al colonnello in pensione Andrej Troshev di addestrare i volontari che si sono arruolati per combattere in Ucraina. Nel corso di un incontro al Cremlino, cui ha partecipato anche il viceministro della Difesa della Federazione Russa Yunus-Bek Yevkurov, Putin ha sottolineato che nell’ultimo incontro con Troshev, ad agosto, si era parlato del suo impegno “nella formazione di unità di volontari in grado di svolgere varie missioni di combattimento, principalmente, ovviamente, nella zona di un’operazione militare speciale”. Il presidente ha osservato che lo stesso Troshev ha preso parte alle battaglie per più di un anno e conosce quali siano i problemi da affrontare affinché le operazioni di combattimento procedano nel miglior modo possibile. “A questo proposito, vorrei parlarvi di questioni di natura sociale”, ha detto Putin, sottolineando che Troshev intrattiene rapporti con i compagni con i quali ha combattuto. Dopo quest’incontro, diversi media russi hanno indicato il colonnello Troshev è considerato il successore del fondatore del gruppo Wagner, Evgenij Prigozhin. L’addetto stampa presidenziale Dmitrij Peskov, commentando tali notizie lo scorso agosto, non ha fornito una risposta, affermando che la questione non è di sua competenza.

    Come ricostruisce Agenzia Nova, Andrej Troshev, detto “Sedoi” (capelli grigi in russo), è un colonnello in pensione. Nativo di San Pietroburgo, il 61enne ufficiale russo, oltre alla sua carriera nelle Forze armate è anche un ex agente del ministero dell’Interno e veterano della guerra sovietico-afgana, della Seconda guerra cecena e dell’intervento militare russo in Siria. La sua anzianità di servizio, oltre che i successi per cui si è distinto sul campo, gli hanno consentito di essere insignito come Eroe della Federazione Russa, il più alto titolo onorifico della Russia. Troshev ha iniziato a “collezionare” medaglie dalla guerra in Afghanistan, dove comandò una batteria di artiglieria semovente: in quell’occasione il coraggio dimostrato in battaglia gli valsero due Ordini della Stella Rossa. Dopo la dissoluzione dell’Unione sovietica ha continuato a prestare servizio nelle Forze armate russe e ha partecipato alla Seconda guerra cecena, ricevendo per meriti militari due onorificenze dell’Ordine del coraggio e una medaglia dell’Ordine “Per il merito della Patria” di secondo grado. Successivamente ha prestato servizio nelle unità del Distretto militare di Pietrogrado. Dopo un periodo come riservista, Troshev ha continuato a prestare servizio presso il ministero dell’Interno, nell’Unità mobile per scopi speciali (Omon) e nell’Unità speciale di risposta rapida (Sobr), di cui è stato anche il comandante. Licenziato dalla Direzione principale del ministero dell’Interno per abuso di alcolici nel 2012 è andato in pensione con il grado di colonnello.

    All’inizio dell’intervento militare russo in Siria, Troshev decise di recarsi nel Paese mediorientale. Pur non partecipando direttamente alle ostilità, il colonnello ha lavorato fra le fila del gruppo paramilitare Wagner, un legame che mantiene tutt’ora, avendo coordinato sul campo per oltre un anno le operazioni della compagnia in Ucraina. Lo scorso luglio è stato proprio il presidente russo Vladimir Putin a indicarlo come potenziale successore di Prigozhin dopo l’ammutinamento del gruppo Wagner avvenuto fra il 23 e 24 giugno. In un’intervista al quotidiano “Kommersant”, Putin ha affermato che Troshev “è la persona sotto il cui comando i combattenti Wagner hanno prestato servizio negli ultimi 16 mesi” e, per questo motivo, questi uomini “potrebbero riunirsi e continuare a operare. E per loro non cambierebbe nulla. Sarebbero stati guidati dalla stessa persona che era stata il loro vero comandante sin dall’inizio”. Tale posizione sarebbe stata espressa dal presidente russo ai vertici del gruppo Wagner e al loro leader Evgenij Prigozhin nel corso di un incontro avvenuto il 29 giugno: in quell’occasione, secondo Putin, gli ufficiali della compagnia si sarebbero mostrati favorevoli alla scelta di Troshev, mentre sarebbe stato Prigozhin a opporre un categorico rifiuto. Con la morte di Prigozhin avvenuta il successivo 23 agosto in un incidente aereo le cui cause sono ancora da chiarire, tuttavia, non ci dovrebbe essere più alcuna opposizione a una potenziale nomina di Troshev alla guida del gruppo Wagner.

  • Israele, Ucraina, le guerre del terrore e nessuno si salva da solo

    La nuova guerra alla quale è chiamato Israele, dopo gli attacchi terroristici di questi giorni, mette in evidenza una serie di aspetti.

    I sistemi di sicurezza, benché ultramoderni e sofisticati, non mettono al riparo da incursioni di terroristi che non hanno alcuna considerazione della propria vita e perciò sono pronti a tutto, come già in altre occasioni avevamo visto.

    Le guerre oggi si avvalgono contemporaneamente di sistemi altamente tecnologici come di quelli  tradizionali mentre strumenti che, normalmente, sono utilizzati per divertimento e sport diventano armi di distruzione come i deltaplani ed i droni.

    Le armi possono essere di diversa efficacia letale ma dietro di esse devono esserci uomini disposti a morire per raggiungere lo scopo, o costretti a morire perché i loro capi lo raggiungano, quanto sta avvenendo in Ucraina, in Israele o in alcuni paesi africani, quanto è avvenuto in Afganistan, dimostra chiaramente che l’arma più letale resta l’uomo, sia quando si fa esplodere sia quando impone agli altri di marciare verso la morte.

    Queste guerre hanno dimostrato e dimostrano che se non si è capaci di preparare la propria difesa ogni paese può essere attaccato e la sua sopravvivenza è messa a rischio.

    Alcuni capi di stato e di governo preferiscono usare ogni disponibilità economica per migliorare sempre più gli armamenti, reclutare disperati, spendere per gli addestramenti piuttosto che dare alle proprie popolazioni i mezzi per vivere più dignitosamente, in questo modo ottengono il duplice risultato di avere sempre persone disperate da reclutare e da aizzare contro fantomatici avversari esterni.

    Il recente tentativo di trovare finalmente un accordo, come quello a suo tempo raggiunto con l’Egitto, tra Israele e l’Arabia Saudita ha scatenato, specie da parte dell’Iran, la decisione di attaccare, tramite i palestinesi, Israele ritenendo, erroneamente, che in questo momento fosse più debole per alcune spaccature interne.

    Certamente i servizi di sicurezza, spionaggio e controspionaggio, di Israele hanno dimostrato di non essere all’altezza della loro fama, infatti l’attacco che Israele ha subito è stato programmato con dovizia di mezzi e ha dimostrato grande capacità di penetrazione frutto di studi meticolosi e di organizzazione precisa.
    Non è sicuramente stata all’oscuro di tutto Mosca che importa dall’Iran armi e droni e che spera che l’Occidente, specie gli Stati Uniti, si distragga dalla guerra criminale che Putin ha portato in Ucraina per occuparsi invece di quanto sta avvenendo in Medio Oriente.

    Non è da escludere che si possa avere anche un ritorno alla strategia degli attentati in vari altri paesi, la stessa uccisione in Egitto di due turisti israeliani può essere l’inizio, da parte dei terroristi che si annidano ovunque, di una nuova stagione del terrore.

    Le guerre che sono ormai, dichiarate o meno, in mezzo mondo ci sembrano spesso lontane e a volte guardiamo le notizie che arrivano da vari fronti con occhi distaccati, poi ci si trova in mezzo e capiamo cosa  vuol dire doversi  rifugiare sotto terra e sentire le bombe che ci esplodono sulla testa, come è successo ai molti turisti italiani che sono in questi giorni in Israele.

    Quando qualcuno pensa di lasciare che gli ucraini se la sbrighino senza il nostro aiuto, perché noi vogliamo la pace o non vogliamo fare nuovi sacrifici per altri, pensiamo a come potrebbe cambiare la nostra vita se fossimo lasciati soli sotto il fuoco nemico, sotto le bombe o sotto il ricatto economico di un altro paese.

    La pace è un obiettivo che va raggiunto per il bene comune ma ricordiamo tutti che non vi può essere pace, civile convivenza, se non si rispettano le leggi internazionali, se chi inizia una guerra ha come obiettivo la pulizia etnica o culturale, l’annientamento di ogni diritto, l’uccisione indiscriminata di civili.

    Nessuno si salva da solo, nessuno si salva se il terrore vince, nessuno si salva senza la capacità di prevedere e di conseguenza di prepararsi.

  • La Commissione propone di prorogare la protezione temporanea per le persone in fuga dall’Ucraina fino a marzo 2025

    La Commissione europea propone di prorogare ulteriormente la protezione temporanea per le persone in fuga dall’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina dal 4 marzo 2024 al 3 marzo 2025.

    Ciò fornirà certezza e sostegno a oltre 4 milioni di persone che godono di protezione in tutta l’UE.

    Con decisione unanime degli Stati membri, il 4 marzo 2022 l’UE ha attivato la direttiva sulla protezione temporanea, che è stata automaticamente prorogata di un anno. La Commissione ritiene che i motivi per la concessione della protezione temporanea persistono e che la protezione dovrebbe pertanto essere prorogata in quanto risposta necessaria e opportuna all’attuale situazione di instabilità, che ancora non permette il rimpatrio sicuro e duraturo di coloro che beneficiano della protezione temporanea nell’UE.

  • Esperti italiani per restaurare la Cattedrale a Odessa

    L’Italia scende in campo per la ricostruzione dell’Ucraina, a partire dai suoi beni culturali. E in particolare per Odessa, dove il governo ha annunciato che tecnici italiani saranno impegnati nel restauro della grande Cattedrale ortodossa della Trasfigurazione, gravemente danneggiato dai bombardamenti russi nella notte del 23 luglio scorso. La chiesa è uno dei simboli della storia culturale e religiosa della città costiera ucraina che dell’Italia è figlia: fondata nel 1794 dall’ammiraglio Giuseppe De Ribas, è legata indissolubilmente al nostro Paese nella sua storia intrisa di italianità, testimone la sua architettura omaggio del neoclassico italiano.

    “Anche in ricordo di una lunga e ricchissima storia di scambi tra Odessa e la cultura italiana, che ha portato alla fine del XVIII secolo gli architetti italiani a progettare il piano e gli edifici più rappresentativi della città, il governo italiano ha coinvolto due tra le più autorevoli istituzioni culturali italiane, la Triennale di Milano e il Maxxi di Roma, allo scopo di raccogliere le migliori energie economiche, tecniche e culturali in grado di contribuire al restauro della Cattedrale della Trasfigurazione”, ha annunciato Palazzo Chigi.

    Fondata nel 1794 e ricostruita nel 2005 dopo la distruzione da parte dell’Urss nel 1936, ora la cattedrale potrà fare affidamento sull’Italia per azioni di restauro. Facendo concreto l’impegno da tempo annunciato da Roma per una ricostruzione dell’Ucraina, che non passa solo dalle infrastrutture critiche e dalle risorse economiche, ma anche dai beni culturali devastati dall’invasione.

    L’annuncio giunge a pochi giorni dalla decisione dell’Unesco di approvare uno stanziamento d’urgenza di 169mila dollari per interventi degli edifici danneggiati a Odessa, il cui centro storico è patrimonio mondiale. Una missione dell’agenzia Onu nella città ha valutato che più di 50 beni culturali sono stati gravemente danneggiati dai raid russi, dieci quasi distrutti. Importanti danni ha subito proprio la Cattedrale della Trasfigurazione, insieme alla Casa degli Scienziati, il palazzo di Manuk-Bey, il Museo della Letteratura, il palazzo del Pommer, oltre allo stesso tessuto urbano storico, parte importante del sito del patrimonio mondiale.

Pulsante per tornare all'inizio