guerra

  • Bisogna pensare responsabilmente alle conseguenze

    Chi difende un colpevole si rende complice della colpa.

    Publilio Siro

    Accadeva proprio ventiquattro anni fa. Era il 12 giugno 1999 quando un contingente militare internazionale di 50.000 effettivi a guida NATO, denominata KFOR (acronimo di Kosovo Force, un contingente militare internazionale; n.d.a.) entrò in Kosovo. Due giorni prima, il 10 giugno 1999 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con quattordici voti a favore e una sola astensione, aveva adottato la Risoluzione 1244. Una Risoluzione quella che ha stabilito, tra l’altro, la fine degli scontri in Kosovo, nonché i principi di base per una soluzione politica e duratura della crisi. Quella Risoluzione ha sancito anche lo schieramento di un contingente militare internazionale sul territorio del Kosovo a guida dell’Alleanza Atlantica, attivando così un’operazione congiunta denominata “Joint Guardian” (Guardiano comune; n.d.a.). Parte integrante di quell’operazione era la costituzione della sopracitata KFOR attiva subito, già dal 12 giugno 1999. La Risoluzione 1244 è stata approvata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dopo settantotto giorni di attacchi aerei da parte della NATO sul territorio della Serbia, compresa la capitale, cominciati il 23 marzo 1999. Un’operazione, quella, denominata “Allied Force” (Forza alleata; n.d.a.) che costrinse al ritiro dal territorio del Kosovo l’esercito serbo. In più la Risoluzione 1244 sanciva anche la costituzione di un governo e di un parlamento provisorio in Kosovo, sotto controllo e protettorato internazionale, garantiti dalla NATO e dal UNMIK (acronimo di United Nations Interim Administration Mission in Kosovo – La Missione di Amministrazione ad interim delle Nazioni Unite in Kosovo; n.d.a.).

    Bisogna evidenziare anche un altro fatto accaduto il 12 giugno 1999. I primi contingenti militari che entrarono in Kosovo quel giorno erano gli effettivi delle forze speciali della Norvegia e del Servizio speciale dell’aeronautica del Regno Unito. Ma loro hanno trovato di fronte un contingente militare delle forze armate della Russia, che, guarda caso, proprio un giorno prima, all’improvviso e senza un comune accordo con la KFOR, avevano preso il controllo dell’aeroporto del capoluogo del Kosovo. Da alcune indiscrezioni riferite a fonti ben informate mediatiche e non solo, e subito diffuse, risultò che la Russia aveva previsto l’arrivo di un suo consistente contingente militare tramite l’aeroporto. Chissà perché?! La reazione della NATO è stata immediata. La Romania, la Bulgaria e l’Ungheria hanno bloccato i rispettivi spazi aerei per i voli russi. E solo dopo il controllo posto sull’aeroporto da parte delle forze della KFOR, il ministero degli Affari Esteri della Russia ha considerato un “errore” l’occupazione dell’aeroporto da parte del contingente militare russo.

    Bisogna però sottolineare che sia la decisione di cominciare gli attacchi aerei sul territorio della Serbia che l’adozione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite della Risoluzione 1244 il 12 giugno 1999 sono state molto importanti per porre fine ad una sanguinosa guerra ed al ritorno alla normalità. Erano delle decisioni difficili da prendere, ma erano delle decisioni indispensabili ed importanti, prese dopo un lungo periodo di scontri armati, di massacri crudeli e di pulizia etnica contro gli albanesi etnici del Kosovo, che rappresentavano circa il 92% dell’intera popolazione, da parte dell’esercito della Repubblica Federale di Jugoslavia, il cui presidente era Slobodan Milošević. Proprio colui che il 28 giugno 2001 era stato consegnato al Tribunale Penale Internazionale per i Crimini nella ex-Jugoslavia con sede all’Aia in Olanda. L’accusa contro di lui era quella di crimini contro l’umanità per le operazioni di pulizia etnica dell’esercito jugoslavo in Croazia, Bosnia ed Erzegovina e Kosovo.

    Adesso, dopo ventiquattro anni dall’entrata in Kosovo dei primi contingenti della KFOR, proprio il 12 giugno 1999, nonostante molte e ripetute trattative e mediazioni da parte delle istituzioni dell’Unione europea, degli Stati Uniti d’America e di singoli Paesi europei per stabilire la normalità nei rapporti tra la Serbia ed il Kosovo, purtroppo continuano gli attriti. Da più di due settimane ormai la tensione è tornata di nuovo nella irrequieta regione dei Balcani. E sono valse a niente le mediazioni di importanti rappresentanti della Commissione europea, del Dipartimento di Stato statunitense e di altri singoli Stati europei. Il 29 maggio scorso nel nord del Kosovo dei violenti “protestanti” serbi hanno aggredito con bastoni e spranghe, ma anche con l’uso delle armi, sia gli agenti della polizia locale che i soldati della KFOR. Il nostro lettore è stato informato la scorsa settimana di quegli scontri violenti, nonché delle ragioni che hanno portato ad una simile e preoccupante situazione (Non c’è pace nei Balcani; 5 giugno 2023). Immediate sono state le reazioni e le reciproche condanne verbali da parte delle massime autorità del Kosovo e della Serbia. Ma immediate sono state anche le reazioni e le dichiarazioni ufficiali dei massimi rappresentanti della Commissione europea, del Dipartimento di Stato statunitense e di alcuni singoli Stati europei. Anche loro hanno verbalmente condannato quanto stava accadendo nel nord del Kosovo ed hanno chiesto il “ritorno alla normalità”. La Commissione europea ed il Dipartimento di Stato statunitense sono le due importanti istituzioni che da tempo sono state direttamente coinvolte a trovare e garantire una soluzione duratura dei problemi e dei contenziosi tra la Serbia ed il Kosovo. Ma che purtroppo, ad oggi, non ci sono riusciti. Chissà perché?! Comunque sia però, quanto da anni sta accadendo nella regione dei Balcani occidentali, e non solo tra la Serbia ed il Kosovo, dovrebbe far riflettere seriamente tutti i rappresentanti delle istituzioni internazionali coinvolti. Tutti loro, ma anche le massime autorità dei singoli Paesi europei e/o chi per loro, che si stanno prestando a mediare ed a trovare una duratura, perciò giusta e ragionevole, soluzione per tutti i contenziosi tra la Serbia ed il Kosovo hanno assunto una grande responsabilità. Sia personale che istituzionale. Ragion per cui tutti loro, prima di arrivare a delle conclusioni, prima di prendere delle decisioni, prima di cercare di convincere le parti ad accettare un accordo, prima di tutto, dovrebbero conoscere e prendere seriamente in considerazione le storie e le realtà locali. Ragion per cui tutti loro dovrebbero tenere presenti e riflettere sui tanti interessi geopolitici e geostrategici internazionali, quelli attuali ed a medio e lungo termine, che si incrociano nella regione dei Balcani occidentali. Perciò bisogna pensare responsabilmente anche alle conseguenze delle loro proposte, delle loro decisioni e degli accordi raggiunti tra le parti, con l’obbligo della firma. E non come è accaduto quest’anno, prima a Bruxelles, il 27 febbraio e poi ad Ohrid il 18 marzo, quando sono stati presentanti come un “successo” i due rispettivi accordi accettati verbalmente ma non firmati dalle parti. Il nostro lettore è stato informato a tempo debito di tutto ciò (Lunghe mediazioni europee e solo un accordo verbale; 27 marzo 2023).

    Quello che sta accadendo adesso tra la Serbia ed il Kosovo ha inevitabilmente attirato l’attenzione pubblica. Ma sta preoccupando anche l’Unione europea, gli Stati Uniti d’America e le cancellerie di singoli Paesi europei. Quello che accade nei Balcani, da tempo, coinvolge direttamente e/o indirettamente però anche la Russia, la Cina, la Turchia ed alcuni Paesi del Golfo Persico. Il che significa e testimonia che i Balcani rappresentano un’area di interessi geostrategici e geopolitici non indifferenti, anzi, per alcuni dei Paesi più potenti e ricchi del mondo. Un’aumentato interesse per i Balcani occidentali, dovuto a dei fattori geopolitici e geostrategici, si sta verificando adesso, mentre continua la guerra in Ucraina. Da tempo è noto che la Russia gode dell’amicizia storica con la Serbia. Un’amicizia quella dichiarata spesso in questo periodo, sia dal presidente della Russia e dal suo ministro degli Esteri, che dal presidente della Serbia e da alcuni suoi ministri e stretti collaboratori. Un’amicizia quella che spiega anche la decisione della Serbia, un Paese candidato all’adesione nell’Unione europea, di rifiutare di aderire alle sanzioni poste dalla stessa Unione alla Russia, dopo l’inizio dell’aggressione militare contro l’Ucraina, il 24 febbraio 2022. Non a caso durante le ultime “proteste” nel nord del Kosovo gli “oppositori” serbi hanno imbrattato muri e veicoli con la “Z” che gli invasori russi usano in Ucraina. Ma anche con la croce con quattro “C” cirillica corrispondente alla lettera “S”.  Quelle quattro “S” sono le prime lettere delle parole Samo Sloga Srbina Spasava (Solo l’Unità Salva i Serbi; n.d.a.). È ben noto ormai che la Serbia, compresa la chiesa ortodossa della Serbia, insieme con la Russia hanno fatto sempre dei tentativi per essere presenti e controllare il Montenegro dopo il referendum del 21 maggio 2006 per la separazione del Paese dalla Confederazione di Serbia e Montenegro. Lo stesso anche in Macedonia e in Bosnia ed Erzegovina. Non a caso uno dei più stretti collaboratori dell’attuale presidente della Serbia è il presidente della Republika Srpska (Repubblica serba; n.d.a.), una delle due entità statali in Bosnia ed Erzegovina. Proprio quest’ultimo ha fatto sapere giovedì scorso, l’8 giugno, che loro avevano approvato una risoluzione con la quale si chiede a tutti i Paesi membri delle Nazioni Unite che hanno conosciuto il Kosovo come una Repubblica indipendente, di ritirare ufficialmente questo riconoscimento. Nel gennaio scorso il nostro lettore, tra l’altro, è stato informato dei rapporti di dichiarata amicizia con la Russia del presidente della Republika Srpska, il quale con le sue scelte e le sue decisioni, “…sta cercando di avere un suo esercito, nonché un sistema fiscale e giudiziario divisi da quelli della Bosnia ed Erzegovina. Ed è quel presidente che ha recentemente conferito un’onorificenza al presidente della Russia.” (Finanziamenti occulti in cambio di influenze internazionali; 23 gennaio 2023). Ma, fatti accaduti alla mano, la Russia e la Serbia cercano di essere presenti e di controllare gli sviluppi politici e non solo, anche in Montenegro e nella Macedonia del Nord. Ormai è pubblicamente noto il tentativo fallito del colpo di Stato ideato ed organizzato il 16 ottobre 2016, giorno di elezioni in Montenegro, da alcune centinaia di miliziani, in maggioranza serbi e russi. Così come sono noti anche altri casi di presenze, di “rapporti collaborativi” di serbi e russi nella Macedonia del Nord. Giovedì scorso, l’Accademia delle Scienze della Serbia ha presentato un progetto sul modello dell’Associazione dei comuni a maggioranza di serbi etnici in Kosovo. Si tratta proprio del conditio sine qua non, del principale punto di contrasto tra la Serbia ed il Kosovo durante i negoziati con la difficile mediazione dei massimi rappresentanti della Commissione europea e del rappresentante del Dipartimento di Stato statunitense per i Balcani di quest’anno, prima a Bruxelles, il 27 febbraio scorso, e poi ad Ohrid il 18 marzo scorso. Negoziati che, come ormai il nostro lettore sa, sono falliti, nonostante i mediatori hanno cercato di presentare quel fallimento come un “successo condizionato”. Ebbene, il progetto presentato giovedì scorso dall’Accademia delle Scienze della Serbia era nient’altro che il progetto della “Grande Serbia”, una copia dell’ormai ben noto progetto della “Grande Russia”.

    Chi scrive queste righe anche oggi avrebbe avuto molti altri argomenti e fatti accaduti da trattare e condividere con il nostro lettore. Argomenti e fatti che riguardano la crisi in corso tra la Serbia ed il Kosovo. Ed essendo una crisi che potrebbe avere delle conseguenze non solo per i due Paesi, ma anche per l’intera regione ed oltre, probabilmente verrà trattato in seguito. Chi scrive queste righe pensa però che i rappresentanti internazionali devono pensare responsabilmente alle conseguenze di quello che fanno. Purtroppo loro hanno fallito con la loro politica “del bastone e della carota”. Purtroppo loro hanno fallito trattando il presidente serbo con “le buone maniere”, mentre hanno cercato, allo stesso tempo, di “minacciare” le massime autorità del Kosovo. Diventa perciò molto significativa ed attuale la convinzione espressa da Publilio Siro circa ventuno secoli fa: “Chi difende un colpevole si rende complice della colpa”. Quanto sta accadendo lo dimostra.

  • L’attacco alla diga ucraina distrugge la biodiversità

    La distruzione della diga di Kakhovka probabilmente distruggerà centinaia di specie animali e vegetali rare in Ucraina.

    “A causa dei danni ingenti arrecati all’area, questo è il più grande ecocidio in Ucraina dall’inizio dell’invasione su vasta scala”, ha detto il vice ministro della Protezione ambientale e delle Risorse naturali, Oleksandr Krasnolutskyi. Gli ecologisti ucraini prevedono che la Riserva della biosfera del Mar Nero, che ospita migliaia di specie, e il deserto di Oleshky Sands saranno i più colpiti dalle inondazioni.

    La riserva idrica di Kakhovsk esisteva sopra la diga ed era utilizzata dagli uccelli migratori nell’area: il fatto che le inondazioni possano trasportare sostanze inquinanti, metalli pesanti e fertilizzanti fino al Mar Nero influenzerà gravemente la vita marina nell’area.

    Circa il 70% del territorio dell’Ucraina è utilizzato per scopi agricoli, il che significa che la flora e la fauna sono in gran parte concentrate attorno ai suoi fiumi. La lista delle specie minacciate, redatta dall’Unione internazionale per la conservazione della natura, è una fonte di informazioni completa sullo stato del rischio di estinzione globale di specie animali, fungine e vegetali.

    Sono state colpite anche aree in Ucraina che fanno parte della Rete Smeraldo, una rete paneuropea di aree di particolare interesse per la conservazione.

    Il Dnipro è il fiume più grande e importante dell’Ucraina e la popolazione locale ha un profondo attaccamento emotivo all’estuario, che ha svolto un ruolo centrale nella storia e nell’agricoltura del Paese.

    La Russia attualmente occupa quella che è conosciuta come la riva sinistra del Dnipro: lo scorso novembre, Mosca ha aperto gli sfioratori della centrale idroelettrica di Kakhovka e il serbatoio è sceso al livello più basso degli ultimi tre decenni, mettendo a rischio le risorse di irrigazione e di acqua potabile, nonché i sistemi di raffreddamento della centrale nucleare di Zaporizhzhia.

  • La Russia nella trappola imperiale, convegno a Siracusa

    Lunedì 5 giugno, alle ore 18,30, all’Auditorium del Centro Studi F. Rossitto di Siracusa, si svolgerà la conferenza La Russia nella trappola imperiale: alle origini della crisi. Relatore il Prof. Valery Mikhaylenko dell’Università di Ekaterinburg, storico del fascismo e acuto osservatore della Russia contemporanea.

  • Russia: dall’inizio della guerra il giallo della morte di 14 esponenti di spicco

    Con la morte del viceministro russo Kucherenko sono ormai 14 le morti “misteriose” di importanti personaggi di vertice improvvisamente defunti per incredibili suicidi o per altrettanti incredibili malori.

    Se di questi decessi, visto i ruoli ufficiali che ricoprivano, abbiamo avuto notizia certamente non sappiamo, e forse non sapremo mai, quante altre persone di secondo piano sono sparite o morte.

    La sciagurata guerra di Putin, che ha raso al suolo intere città dell’Ucraina, reso inagibile, anche per la produzione agricola, sterminate porzioni del territorio, portato alla morte civili, bambini, soldati ucraini e, in numero ancora più elevato, soldati russi miete anche vittime, illustri e chissà quante sconosciute, persone che hanno avuto il coraggio di dire no alla sanguinosa invasione.

    Continuiamo a chiederci a cosa effettivamente serva l’ONU quando non solo non è in grado di impedire la più palese violazione dei suoi principi costitutivi ma neppure di espellere, o almeno sospendere, chi questi principi ha violato e continua a violare.

    Qualcuno ha cominciato, dopo essersi posto le domande, a trovare delle risposte?

    Intanto Putin continua ad uccidere, sul campo di battaglia e in ogni dove perché qualunque mezzo gli è congeniale e consentito per tenere il potere e sopprimere ogni voce di dissenso.

  • L’UE lancia un ponte aereo umanitario per fornire beni di prima necessità in Sudan

    Alla luce delle crescenti esigenze umanitarie dovute al conflitto dilagante in Sudan, l’UE ha lanciato un ponte aereo umanitario per trasportare forniture essenziali da consegnare ai nostri partner impegnati in operazioni umanitarie a Port Sudan. Le 30 tonnellate di articoli essenziali (provviste idriche, servizi igienico-sanitari, attrezzature di accoglienza ecc.), sono state trasportate dai magazzini delle Nazioni Unite a Dubai a Port Sudan. Al loro arrivo, i beni sono stati consegnati all’UNICEF e al Programma alimentare mondiale.

    Il ponte aereo umanitario è organizzato nel quadro della Capacità europea di risposta umanitaria, uno strumento concepito per colmare le lacune in termini di risposta umanitaria ai rischi naturali e alle catastrofi provocate dall’uomo.

    L’UE ha già stanziato 200 000 € per il soccorso immediato e l’assistenza di primo soccorso alle popolazioni ferite o esposte a rischi elevati nella capitale, Khartoum, e in altre zone colpite dalle violenze in corso. Inoltre l’UE sostiene la società della Mezzaluna Rossa sudanese nella fornitura dei primi soccorsi, di servizi di evacuazione e di sostegno psicosociale. Questi finanziamenti si aggiungono ai 73 milioni di € già assegnati al Sudan nel 2023 per l’assistenza umanitaria, mentre ulteriori 200 000 € sono stati assegnati alla Mezzaluna rossa egiziana per fornire sostegno ai rifugiati che arrivano in Egitto dal Sudan.

  • Necessarie riflessioni per evitare il peggio

    Non far nulla senza riflessione, alla fine dell’azione non te ne pentirai.

    Siracide (32;19), Antico Testamento.

    La prossima settimana, il 9 maggio, si celebrerà il 73o anniversario di quella che ormai è nota come la Dichiarazione Schuman. Un documento storico che rappresentava le convinzioni ed il pensiero lungimirante dei Padri Fondatori dell’Europa unita. Un documento presentato il 9 maggio 1950 dall’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman. Bisogna sottolineare che in quel periodo i Paesi europei stavano cercando di portare avanti il processo della ricostruzione dopo una lunga e devastante seconda guerra mondiale. E per portare avanti ed atturare il loro Progetto per un’Europa senza guerre ed unita, i Padri Fondatori, dopo lunghe e responsabili riflessioni, avevano deciso di partire con delle scelte adeguate e concrete. Scelte che permettevano una effettiva collaborazione economica tra i Paesi europei e, allo stesso tempo, rendevano difficile l’avvio di un altro conflitto armato in Europa. E non a caso la prima iniziativa si riferiva a due materie prime, indispensabili sia per la guerra che per lo sviluppo economico, tanto importante in generale, ma anche durante quel periodo di ricostruzione. Si trattava del carbone e dell’accaio. I Padri Fondatori erano convinti che il controllo comune della produzione di quelle due importanti materie prime avrebbe evitato una nuova guerra, soprattutto fra i due rivali storici, la Francia e la Germania, ma anche fra altri paesi europei. Ne era convinto anche Schuman che, nella sua dichiarazione, resa pubblica il 9 maggio 1950, sottolineava che così facendo una nuova guerra diventava “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. Circa un’anno dopo, il 18 aprile 1951, con il Trattato di Parigi, è stata istituita la Comunità europea del carbone e dell’accaio. Tra i promotori di quella storica iniziativa c’erano Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer ed Alcide De Gasperi. Un’iniziativa quella della Comunità europea del carbone e dell’accaio nella quale, all’inizio, aderirono la Francia, la Germania, l’Italia, il Belgio, il Lussemburgo e i Paesi Bassi, ma che era aperta anche per altri Paesi europei. Le convinzioni e la visione dei Padri Fondatori per un’Europa comune, rese pubbliche con la Dichiarazione Schuman il 9 maggio 1950, diventarono poi parte integrante del Trattato di Roma, approvato il 25 marzo 1957 dai primi sei Paesi fondatori della Comunità economica europea, gli stessi che aderirono alla costituzione della Comunità europea del carbone e dell’accaio.

    La scorsa settimana, dal 28 e fino al 30 aprile, Papa Francesco è stato in Ungheria. Ha incontrato le più alte autorità istituzionali ed ecclesiastiche del Paese. Ha fatto anche diverse visite durante la sua permanenza in Ungheria. Dopo aver incontrato la presidente della Repubblica ed il primo ministro ungherese, venerdì scorso papa Francesco ha avuto un incontro con i rappresentanti delle autorità, della società civile e del corpo diplomatico. Durante quell’incontro il Pontefice ha fatto appello all’Europa di “ritrovare l’anima europea”, riferendosi al pensiero lungimirante dai Padri Fondatori. Papa Francesco ha ribadito la sua ormai da tempo espressa preoccupazione per quanto sta accadendo in Ucraina, dove “tornano a ruggire i nazionalismi”. Il Pontefice ha anche sottolineato la necessità che la politica, “regredita a una sorta di infantilismo bellico”, debba ritornare a quella che rispetta quanto stabilito dai Padri Fondatori. Durante quell’incontro il Pontefice ha ribadito che “…Nel dopoguerra l’Europa ha rappresentato, insieme alle Nazioni Unite, la grande speranza, nel comune obiettivo che un più stretto legame fra le Nazioni prevenisse ulteriori conflitti”. Aggiungendo però che purtroppo “…la passione per la politica comunitaria e per la multilateralità sembra un bel ricordo del passato: pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace, mentre si fanno spazio i solisti della guerra”. Per il Pontefice la pace, in una simile e preoccupante situazione internazionale, è indispensabile. Ma come egli ha detto, la pace “non verrà mai dal perseguimento dei propri interessi strategici, bensì da politiche capaci di guardare all’insieme, allo sviluppo di tutti: attente alle persone, ai poveri e al domani; non solo al potere, ai guadagni e alle opportunità del presente”. Prima di partire per Roma, nel pomeriggio di domenica scorsa il Santo Padre ha avuto un incontro, presso la Facoltà di Informatica e di Scienze Bioniche dell’Università Cattolica Péter Pázmány a Budapest, con rappresentanti degli studenti, nonché con quelli della comunità della cultura e delle università. “La cultura, in un certo senso, è come un grande fiume: collega e percorre varie regioni della vita e della storia, mettendole in relazione, permette di navigare nel mondo e di abbracciare Paesi e terre lontane, disseta la mente, irriga l’anima, fa crescere la società”, ha detto ai partecipanti all’incontro il Santo Padre. In seguito, riferendosi a quanto disse Gesù ai giudei – “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Vangelo secondo Giovani, 8/32) – il Pontefice ha detto ai partecipanti che “…l’Ungheria ha visto il susseguirsi di ideologie che si imponevano come verità, ma non davano libertà”. Ed ha aggiunto, ribadendo che “…anche oggi il rischio non è scomparso: penso al passaggio dal comunismo al consumismo. Ad accomunare entrambi gli “ismi” c’è una falsa idea di libertà. Quella del comunismo era una “libertà” costretta, limitata da fuori, decisa da qualcun altro; quella del consumismo è una “libertà” libertina, edonista, appiattita su di sé, che rende schiavi dei consumi e delle cose. E quanto è facile passare dai limiti imposti al pensare, come nel comunismo, al pensarsi senza limiti, come nel consumismo!”.

    Da anni Papa Francesco sta parlando di una terza guerra mondiale a pezzetti. Durante un’intervista rilasciata il 18 dicembre 2022 egli ha detto: “La guerra distrugge, distrugge sempre.  Da tempo io ho parlato, stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzetti”. Dal 31 gennaio al 5 febbraio scorso, Papa Francesco è andato prima in Congo e, da li, in Sud Sudan. Sul volo di ritorno dal Sud Sudan, il 5 febbraio, durante lo scambio di opinioni con i giornalisti, rispondendo ad uno di loro, papa Francesco convinto e perentorio ha affermato che “…Tutto il mondo è in guerra, in autodistruzione, fermiamoci in tempo!”. Mentre, rispondendo ad un altro giornalista, il Pontefice ha parlato anche della gravità e delle preoccupanti conseguenze di tante guerre in corso in diverse parti del mondo. Per lui non c’è soltanto la guerra in corso in Ucraina. “Da dodici-tredici anni la Siria è in guerra, da più di dieci anni lo Yemen è in guerra, pensa al Myanmar […] Dappertutto, nell’America Latina, quanti focolai di guerra ci sono! Sì, ci sono guerre più importanti per il rumore che fanno, ma, non so, tutto il mondo è in guerra e in autodistruzione. Dobbiamo pensare seriamente: è in autodistruzione! Fermiamoci in tempo”, ha detto Papa Francesco.

    Da anni il Pontefice sta parlando non solo della “terza guerra mondiale a pezzetti”, ma anche della “globalizzazione dell’indifferenza”. Una pericolosa tendenza, un preoccupante fenomeno quello della “globalizzazione dell’indifferenza” sul quale il Pontefice non smette mai di trattare, cercando di attirare l’attenzione e di rendere consapevole l’opinione pubblica in tutto il mondo delle gravi conseguenze di questo fenomeno. Lo ha fatto e lo sta facendo in tante occasioni durante questi anni. L’8 luglio 2013, solo circa quattro mesi dalla sua elezione, papa Francesco ha fatto la sua prima visita apostolica in Italia; è andato a Lampedusa. Un’isola quella di Lampedusa dove, con delle fatiscenti imbarcazioni arrivavano i profughi dalle coste dell’Africa settentrionale. Un’isola diventata nota sia per l’accoglienza dei profughi da parte degli abitanti, sia per le tante tragedie di mare nelle sue vicinanze, Un’isola quella di Lampedusa dove anche attualmente i diversi centri di accoglienza sono pieni, oltre i limiti, di profughi e dove, vicino alle sue coste, continuano le tragedie di mare. Quell’8 luglio 2013 a Lampedusa, papa Francesco ha cominciato la sua omelia, riferendosi ai tanti profughi che avevano perso la vita nelle tragedie di mare. “Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”. Poi ha confessato che quando aveva appreso quella notizia, aveva sentito il dovere “di venire…qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta”. Così ha cominciato la suo omelia il Pontefice. E poi, in seguito, ha trattato l’indifferenza dell’essere umano ed il perché di questa indifferenza. “…La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri”. Tutto ciò, secondo il Pontefice, “…porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!”. Il Pontefice, riferendosi alle tante vittime delle tragedie di mare, si è chiesto in seguito: “Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’”. Tutto ciò, secondo papa Francesco, perché “…la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”.

    La Giornata Mondiale della Pace è diventata una ricorrenza onorata e celebrata ogni 1o gennaio, partendo dal 1968, per volere e decisione di Papa Paolo VI, proclamato santo il 14 ottobre 2018, Papa Francesco, ogni volta che si presenta l’opportunità, tratta l’argomento della “globalizzazione dell’indifferenza”. Lo ha fatto anche nel suo Messaggio in occasione della Giornata Mondiale della Pace, il 1° gennaio 2016, con il tema “Superare l’indifferenza e conquistare la pace”. Il Santo Padre, con il suo Messaggio ha chiesto a tutte le persone di buona volontà “…di riflettere sul fenomeno della “globalizzazione dell’indifferenza”, che è la causa di tante situazioni di violenza e ingiustizia”. Mentre durante un incontro con alcuni ambasciatori non residenti, accreditati presso la Santa Sede, svoltosi nel maggio 2018, papa Francesco ha trattato di nuovo l’argomento della “globalizzazione dell’indifferenza”. Rivolgendosi ai partecipanti all’incontro il Pontefice ha detto: “Quest’anno, che segna il settantesimo anniversario dell’adozione, da parte delle Nazioni Unite, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dovrebbe servire da appello per un rinnovato spirito di solidarietà nei riguardi di tutti i nostri fratelli e sorelle, specialmente di quanti soffrono i flagelli della povertà, della malattia e dell’oppressione”. Aggiungendo anche che “…Nessuno può ignorare la nostra responsabilità morale a sfidare la globalizzazione dell’indifferenza, il far finta di niente davanti a tragiche situazioni di ingiustizia che domandano un’immediata risposta umanitaria.”. Nell’ambito della Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, il 29 settembre 2019, nel suo Messaggio papa Francesco ha scritto: “Le società economicamente più avanzate sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la globalizzazione dell’indifferenza.”.

    Chi scrive queste righe è convinto che bisogna riflettere su quanto sta dicendo e denunciando da anni papa Francesco, E cioè sia sulla “terza guerra mondiale a pezzetti”, sia sulla “globalizzazione dell’indifferenza”. Chi scrive queste righe è convinto che si tratta di necessarie riflessioni per evitare il peggio e pensa anche a quanto ha scritto Ambrose Bierce sulle riflessioni. Secondo lui si tratta di un “processo mentale attraverso il quale raggiungiamo una visione più chiara del nostro rapporto con gli avvenimenti del passato e che ci mette in grado di evitare pericoli che non incontreremo mai più sul nostro cammino”. Perché, come scritto nell’Antico Testamento, Siracide (32;19) “Non far nulla senza riflessione, alla fine dell’azione non te ne pentirai.

  • 25 aprile con i fratelli Cervi e i fratelli Govoni

    Sono passati 78 anni, generazioni sono morte, molte altre sono nate ed ancora non riusciamo a sentirci riappacificati perché i conti con la Storia, personale, di parte, collettiva nessuno vuole farli fino in fondo.
    La storia: ciascuno si aggrappa alla sua, a quella dei suoi genitori, a quella narrata da una parte o dall’altra.

    Sulle tragedie del ventesimo secolo sono stati scritti innumerevoli libri e le inchieste, gli articoli, le ricerche non bastano mai mentre le polemiche continuano e nascono nuove forme di odio che allontanano, ancora una volta, dalla sperata riappacificazione.
    Per tentare una nuova via che porti ad una condivisa unità nazionale pensiamo quanto potrebbe essere di esempio se, insieme, i discendenti dei sette fratelli Cervi  e dei sette fratelli Govoni scrivessero una nuova pagina di storia.
    I fratelli Cervi, che diedero, con tutta la loro famiglia, un importante contributo alla Resistenza, furono prima imprigionati e poi fucilati dai fascisti il 28 dicembre del 1943 a Reggio Emilia  e la loro azienda agricola fu data alle fiamme.
    I fratelli Govoni, sei uomini ed una ragazza, una madre ventenne, furono uccisi a Pieve di Cento, con sevizie, bastonate, strangolamento, dai partigiani della brigata garibaldina Paolo, era l’11 maggio 1945 e la guerra era ufficialmente finita dal 25 aprile.
    Ecco il 25 aprile, senza polemiche, immaginiamo di vedere i discendenti dei fratelli Govoni dire il fascismo commise molte atrocità che dobbiamo ricordare come monito per il presente e per il futuro, ma non tutti i fascisti erano cattivi, crudeli e di sentire dai discendenti dei fratelli Cervi parole simili perché anche nel movimento partigiano si sono visti  orrori, delitti commessi per interesse personale e il comunismo è stato anch’esso un male assoluto.
    Immaginiamo che entrambe le parti dicano mai più fascismo mai più comunismo per il bene dell’Italia e del mondo e che poi ciascuno, tornando alla sua casa, alla sua parte politica, ricordi che la democrazia e la libertà hanno un prezzo, anche quello di saper misurare le conseguenze delle parole che si dicono, di saper riconoscere gli errori del passato, dal nazifascimo al comunismo, perché gli orrori restano orrori e non c’è un orrore meno orrore o più orrore di un altro e questo vorremo lo si ammettesse tutti, non solo una parte.

  • L’Ucraina aderisce al meccanismo di protezione civile dell’UE

    L’Ucraina è diventata uno Stato partecipante al meccanismo di protezione civile dell’UE, il quadro di solidarietà europeo che sostiene i paesi colpiti da un disastro. A Kiev, il Commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha firmato ufficialmente a nome dell’Unione europea un accordo che garantisce all’Ucraina piena adesione al meccanismo. Durante la visita, il Commissario ha partecipato all’International Summit of Cities and Regions con il Presidente ucraino Volodymyr Zelenskyy, la Vice Prima ministra Olha Stefanishyna, il Ministro degli Affari interni Ihor Klymenko e il Capo del Servizio per le emergenze Serhiy Kruk.

    Il meccanismo di protezione civile dell’UE ha erogato assistenza emergenziale all’Ucraina da tutta Europa sin dall’inizio della guerra di aggressione intrapresa dalla Russia a febbraio 2022. Grazie alla più vasta e lunga operazione intrapresa ad oggi, il meccanismo ha consentito l’invio di più di 88.000 tonnellate di presidi salvavita, cibo e medicinali. Più di 1.000 generatori di energia interamente finanziati dall’UE sono stati recentemente inviati in Ucraina dalle riserve energetiche strategiche del dispositivo rescEU. Essendo ora membro a pieno titolo, l’Ucraina potrà inviare aiuti tramite il meccanismo qualora un altro paese dovesse trovarsi in una situazione di crisi.

    L’UE ha inoltre stanziato ulteriori 55 milioni di € di finanziamenti umanitari per l’Ucraina in aggiunta ai 145 milioni già forniti all’inizio di quest’anno. Questi nuovi finanziamenti saranno utilizzati in preparazione al prossimo inverno.

  • L'”arte” della guerra

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    La guerra, qualsiasi guerra, presenta un aspetto relativo alla battaglia territoriale ed un altro contemporaneo giocato nell’articolato contesto diplomatico al quale aggiungere nella contemporaneità della nostra società anche l’aspetto mediatico.

    Il successo in una guerra, quindi, necessita ovviamente di una superiorità militare espressa con una capacità strategica vincente, ma anche di una parallela visione diplomatica attraverso la quale trovare delle soluzioni politiche per un cessate il fuoco, senza dimenticare l’obiettivo di isolare quanto più possibile il nemico che si intende abbattere.

    La Grande Alleanza nata tra Stati Uniti, Gran Bretagna ed Unione Sovietica aveva l’obiettivo, per altro perfettamente riuscito, di isolare la Germania nazista e quindi porre le basi militari, politiche e diplomatiche finalizzate alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.

    L’amministrazione Biden, già prima dell’inizio della guerra russo-ucraina avviata da Putin, decise scientemente di annullare le alleanze che la precedente amministrazione Trump aveva definito, come l’accordo tra gli Stati Uniti con l’Arabia Saudita. Un’intesa di carattere politico ed economico con vicendevoli opportunità per i due contraenti che aveva assicurato il mantenimento del pezzo del petrolio a 60 dollari grazie proprio all’alleanza tra il primo produttore di petrolio al mondo, cioè gli Stati Uniti, con la prima nazione per riserve petrolifere, cioè la sunnita Arabia Saudita. Contemporaneamente l’intero mondo occidentale vedeva il potere dell’Opec, con la sua politica ricattatoria, ridimensionato come mai in precedenza.

    L’apertura, invece, dell’amministrazione Biden allo storico nemico sciita, l’Iran, fu giustamente vissuta come un tradimento da parte dell’Arabia Saudita la quale, in più occasioni, ha dimostrato il proprio risentimento appoggiando senza esitazione le politiche restrittive relative alle estrazioni di petrolio da parte dell’Opec.

    Una apertura americana che ha visto ovviamente l’appoggio dell’Unione Europea, da sempre incapace di elaborare una propria politica estera e che ha determinato, in più, il beffardo appoggio tecnologico e militare dello stesso Iran alla Russia di Putin, quindi contro gli stessi Stati Uniti ed Unione Europea.

    L’annuncio di questi giorni della ulteriore riduzione delle estrazioni di petrolio di oltre un milione di barili di petrolio rappresenta l’ennesima conferma della sempre più evidente contrapposizione tra il mondo occidentale con i paesi esportatori di petrolio a causa proprio della politica estera dell’amministrazione Biden.

    La situazione risulta talmente problematica che i nemici di sempre, Iran e Arabia Saudita, sotto l’egida della Cina (*), hanno ora addirittura raggiunto un primo storico accordo tra le due declinazioni della religione araba da sempre in guerra, cioè sciita e sunnita, compattando il fronte economico e politico che si contrappone nella complessa guerra russo-ucraina.

    Emerge evidente come, diversamente dalla vittoriosa strategia della Seconda Guerra Mondiale, la quale ha unito mondi politici ed istituzionali diversi come Stati Uniti Gran Bretagna ed Unione Sovietica, la contemporanea strategia americana, della NATO e della stessa Unione Europea tenda sempre più a non solare il nemico dichiarato, cioè la Russia di Putin, quanto a fortificare le alleanze tra Cina, Russia e mondo arabo.

    La supremazia militare mondiale degli Stati Uniti, quando non viene supportata da una adeguata politica estera e diplomatica, si riduce alla semplice esposizione dei primati militari e tecnologici. Traguardi i quali, tuttavia, perdono ogni effetto “deterrente” a favore dell’efficacia complessiva di una visione strategica politica, militare e diplomatica delle quali l’attuale amministrazione Biden, come la stessa Unione Europea, sembrano esserne assolutamente deficitarie.

    (*) La Cina acquisisce una nuova centralità nella geopolitica mondiale proprio in ragione degli errori statunitensi.

  • L’amore di una figlia strappata al papà che aveva condannato l’attacco di Putin all’Ucraina

    «Tutto andrà bene e torneremo insieme. Sappi che vinceremo, che la vittoria sarà nostra, indipendentemente da quello che accade…”. E’ un breve stralcio della lettera che Masha Moskaleva, ragazzina russa di 13 anni, ha scritto a suo padre condannato il 28 marzo a due anni di carcere per aver postato commenti contro la guerra scatena da Putin in Ucraina, e fuggito il giorno prima dagli arresti domiciliari. Quella di Masha e suo padre è una storia di dolore e di grande amore cominciata l’anno scorso quando suo papà, Alexei Moskaley, sui social aveva espresso forte disappunto per l’offensiva di Mosca e la bimba, a scuola, aveva fatto un disegno contro la guerra. E’ iniziata così la tremenda persecuzione, durata mesi, nei confronti di padre e figlia fatta di arresti e interrogatori durante i quali l’uomo è stato anche picchiato.

    Un tribunale russo, dopo un processo lampo, ha condannato al carcere Moskaley mentre la ragazzina, mandata dapprima in orfanotrofio in una località sconosciuta, è stata successivamente internata in una struttura «per la riabilitazione sociale».  Alexei Moskaley è fuggito dagli arresti domiciliari ai quali era già sottoposto, togliendosi anche il braccialetto elettronico e diventando di fatto latitante per sfuggire a un caso giudiziario costruito ad arte contro di lui. La difesa ha annunciato che farà appello contro il verdetto del tribunale e Masha rimarrà per il momento nella struttura statale russa dove potrebbe restare ancora a lungo per poi essere trasferita in un orfanotrofio, dopo che sarà quasi sicuramente tolta la custodia al genitore. La piccola sta però dimostrando grande forza come si evince dalle parole della lettera che scrive a suo padre: «Non arrenderti. Abbi fiducia. Tutto andrà bene e torneremo insieme. Sappi che vinceremo». «Voglio che tu non ti preoccupi. Io sto bene. Ti voglio molto bene e so che non hai alcuna colpa per nulla. Ti sosterrò sempre e qualunque cosa tu faccia va bene». Un messaggio di amore e speranza, quella della figlia per il padre, che conclude: «Tutto andrà bene e torneremo insieme. Sappi che vinceremo, che la vittoria sarà nostra, indipendentemente da quello che accade… Siamo insieme, siamo una squadra, sei il migliore. Sei forte, siamo forti, persevereremo. Sono orgogliosa di te. Non voglio scrivere di come sto, di che umore sono, non voglio darti pensieri, ma capisco che la verità amara è meglio di una dolce bugia. Ma non preoccuparti, ci vedremo e ti dirò tutto».

Pulsante per tornare all'inizio