guerre

  • Presidenti virtuali e democrazie morte

    Si discute molto, in questi giorni, sulle performance di Trump e di Biden e sulle effettive possibilità che ha quest’ultimo di tornare alla presidenza.

    Sono molte meno le voci che si confrontano sul problema reale e cioè quale è il futuro di un grande paese, come gli Stati Uniti, definiti la più grande democrazia del mondo occidentale e la prima, o tra le primissime potenze, in fatto di armi e di economia, quando per la presidenza si confrontano due anziani, l’uno inqualificabile per i suoi comportamenti, l’altro che spesso sembra confuso.

    L’età di un presidente non è importante se ci troviamo di fronte a persone lucide come Mattarella, diventa un problema quando negli Stati Uniti dei due candidati l’uno passa di processo in processo, enunciando programmi sempre più astrusi e pericolosi, e l’altro non riesce a ricordare le cose buone che ha fatto durante la sua presidenza e a rispiegare i fondamentali motivi per i quali gli Stati Uniti non possono disarticolarsi dall’Europa o smettere di difendere l’Ucraina.

    Tutto questo avviene mentre sanguinose guerre continuano, non solo in Medio Oriente ed in Ucraina, in tutto il mondo, Xi Jinping stringe sempre più forte amicizia con il sanguinario zar della grande Russia, Kim Jong-un esporta armi, lancia missili ed inonda di immondizia la Corea del Sud, tornano a farsi sentire i terroristi di varia natura, l’Europa nelle trattative per il proprio e nostro futuro sembra la nazionale di calcio italiana, cioè inconcludente, la Francia è sull’orlo di una crisi isterica, almeno per una parte, i cambiamenti climatici hanno messo in ginocchio l’agricoltura ed il rischio di carestie e di impoverimento per tutti è sempre più reale.

    Che l’inquinamento, negli anni, abbia colpito il cervello di molti non è più una ipotesi surreale, forse l’intelligenza artificiale è stata creata proprio per questo, oltre che per arricchire alcuni, e cioè impedirci di continuare a pensare sostituendosi a noi con presidenti virtuali e democrazie morte.

  • Un conflitto locale e grandi interessi geostrategici internazionali

    L’arte della guerra è l’arte di distruggere gli uomini, la politica è l’arte d’ingannarli

    Jean Le Rond D’Alembert, da “Zibaldone di letteratura e filosofia”

    Nonostante si stia svolgendo nel territorio della Striscia di Gaza, quel conflitto, scoppiato il 7 ottobre scorso, con delle drammatiche conseguenze, con ogni probabilità fa parte di una strategia ben più ampia, internazionale. Una strategia che avrebbe come obiettivo il raggiungimento di determinati interessi geostrategici ben più grandi di quelli che riguardano la Striscia di Gaza. Fatti accaduti e che stanno accadendo in questi ultimi dieci giorni alla mano, risulterebbe che quel conflitto, diventato ormai una guerra vera e propria, con ogni probabilità, potrebbe avere anche delle gravi ripercussioni economiche, finanziarie, ma anche di fornimento delle materie prime, dei generi alimentari ed altro. Quanto è accaduto dal 24 febbraio 2022, quando la Russia diede inizio all’aggressione contro l’Ucraina, ne è una eloquente e significativa testimonianza.

    E quanto sta accadendo ormai da circa venti mesi in Ucraina dovrebbe aiutare a capire meglio quanto sta accadendo anche in altri Paesi coinvolti in altri conflitti in queste ultime settimane. Le conseguenze a livello locale ed internazionale della guerra, che per il dittatore russo continua ad essere “un’operazione speciale militare”, sono ormai di dominio pubblico. Così come sono ormai di dominio pubblico l’immediato sostegno e coinvolgimento, a fianco dell’Ucraina, di molti Paesi occidentali ed altri in tutto il mondo. Ma anche le alleanze della Russia con determinati Paesi arabi ed asiatici, dopo il fallimento del raggiungimento degli obiettivi posti dal dittatore russo e dagli strateghi che lo consigliano. Loro, nel tentativo di impedire alla NATO (acronimo di North Atlantic Treaty Organization – Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord; n.d.a.) di espandersi verso l’Est con l’Ucraina, hanno però avviato un processo di allargamento della NATO verso nord ovest, con la Finlandia e la Svezia. Perciò si sono dati la zappa sui propri piedi. In più, durante questi venti mesi di guerra, la Russia è stata costretta ad indietreggiare da diverse aree che aveva prima conquistato. E nonostante la Russia sia una grande potenza militare, risulterebbe che ormai stia cercando sostegno e rifornimenti dai suoi alleati. Tenendo perciò presente una simile e non facile situazione in cui si trova la Russia, allora non si potrebbe escludere neanche l’attuazione di una strategia di attivare conflitti in altre aree, per spostare l’attenzione da quello che sta accadendo dal 24 febbraio 2022 in Ucraina. Ma anche e soprattutto per far diminuire l’appoggio dato con il sostegno ufficiale ed i tanto necessari rifornimenti all’Ucraina con mezzi e materiale bellico.

    Prima che iniziasse l’attacco contro l’Israele con dei razzi dai militanti dell’organizzazione Hamas (l’acronimo di Harakat al-Muqawwama al-Islamiyya – Movimento Islamico di Resistenza; n.d.a.) il 7 ottobre scorso, ci sono stati due altri conflitti locali. Il primo nel Nagorno-Karabakh (Caucaso meridionale). Il secondo, soltanto alcuni giorni dopo il primo, nel nord del Kosovo. E poi, soltanto due settimane dopo, l’attacco dei militanti di Hamas nella Striscia di Gaza. Chissà se sia stato per caso, oppure si è trattato di una ben ideata ed attuata strategia diversiva?! Ma guarda caso però, ci sono anche delle similitudini in tutti questi conflitti. Compresa la guerra in Ucraina, tenendo presente anche cosa successe e perché il conflitto finì nel marzo 2014 con l’annessione della Crimea. Si tratta di similitudini che hanno a che fare con l’origine e la causa dei conflitti. Si tratta però, fatti accaduti e documentati, fatti che tutt’ora stano accadendo alla mano, anche della presenza diretta e/o indiretta della Russia, ma non solo, in tutti questi conflitti locali.

    Nella regione del Nagorno Karabakh, che si trova dentro il territorio dell’Azerbaigian, nel Caucaso meridionale, la popolazione è di maggioranza armena. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nell’agosto del 1991 sia l’Armenia che l’Azebaigian, che fino ad allora erano delle repubbliche dell’Unione, diventarono degli Stati indipendenti. Ma già dal 1988, dopo delle votazioni svolte nel Nagorno Karabakh, si era affermata la volontà degli abitanti della regione di unirsi con l’allora repubblica dell’Armenia. Un risultato quello che, ovviamente, ha generato una forte reazione da parte dell’Azerbaigian e degli scontri etnici tra le due popolazioni. Ma approfittando dalle leggi in vigore in quel periodo, nel Nagorno Karabakh si svolse un referendum nel gennaio 1992, dopo che, nel settembre 1991, il Nagorno Karabakh aveva annunciato la sua secessione dall’Azerbaigian. Ebbene, il risultato referendario affermò proprio la proclamazione dell’autonomia della regione di Nagorno Karabakh dalla repubblica di Azerbaigian. Ma, de facto, più di un’autonomia, fatti accaduti alla mano, era un’indipendenza. Da allora sono stati continui gli scontri armati tra gli armeni e gli azeri, fino al 1994, quando, il 5 maggio di quell’anno è stato firmato un accordo di “cessate il fuoco” tra i due Paesi. Ma i contenziosi e le avversità tra le parti continuarono anche negli anni successivi. Dal 2016 però sono ricominciati di nuovo gli scontri armati. E sono stati sempre gli azeri ad attaccare gli armeni del Nagorno Karabakh. Così è stato nell’aprile 2016, nel settembre 2020 e, di nuovo, nel settembre 2022. Bisogna sottolineare che durante tutti questi anni la Russia sosteneva Nagorno Karabakh, mente la Turchia è stata una dichiarata sostenitrice della repubblica di Azerbaigian. Nello scorso luglio però le forze armate azere hanno bloccato l’unica strada che permetteva il collegamento tra il Nagorno Karabakh e l’Armenia. E poi, il 19 settembre scorso l’Azerbaigian attacca di nuovo e sconfigge gli armeni. Un attacco determinato quello degli azeri per annientare definitivamente l’autonomia della regione di Nagorno Karabakh. Ma, altresì, per far capire chiaramente anche all’Armenia che si è  dimostrata debole e vulnerabile nelle sue reazioni, di subire direttamente. Grazie però alla diretta mediazione della Russia, un giorno dopo, il 20 settembre, è stato raggiunto un nuovo accordo di “cessate il fuoco” tra le parti. Un accordo che per gli analisti risulta essere in realtà una chiara vittoria dell’Azerbaigian ed una capitolazione per gli armeni. Secondo loro il presidente russo ha volutamente provocato una crisi tra gli azeri e gli armeni, consapevole della debolezza di quest’ultimi, per poi causare la sconfitta ed il successivo allontanamento degli armeni dal Nagorno Karabakh. E, guarda caso, nello stesso tempo che gli azeri attaccavano, il ministro russo della Difesa si trovava in una visita ufficiale nella capitale dell’Iran, per discutere ed accordarsi con il suo omologo iraniano su temi di “comune interesse”. E si sa quali siano tali interessi in questo periodo per i due Paesi, la Russia e l’Iran. Gli analisti hanno evidenziato altresì che, durante gli ultimi scontri tra il 19 e il 20 settembre, il contingente russo che doveva garantire gli accordi precedentemente raggiunti tra le parti in conflitto ha dimostrato una certa indifferenza, permettendo così agli azeri di raggiungere gli obiettivi. Mentre il presidente russo, diversamente dal suo solito, il 20 settembre scorso ha auspicato che il contenzioso tra le parti si potesse “risolvere in modo pacifico”. Ma “l’indifferenza” della Russia ed il comportamento del dittatore russo sono state anche una “punizione” per il presidente armeno che, durante gli ultimi mesi, aveva dimostrato un’atteggiamento critico nei confronti della Russia ed un avvicinamento con gli Stati Uniti d’America e con l’Unione europea. Invece quest’ultima ha scelto di essere non critica nei confronti dei massimi dirigenti istituzionali dell’Azerbaigian. Le recenti dichiarazioni pubbliche del presidente del Consiglio europeo, durante la prima metà dello scorso settembre, dimostrano e testimoniano questa “scelta diplomatica” e questo “blando comportamento” non solo suo, ma anche di altri alti rappresentanti istituzionali dell’Unione europea. Quello che è accaduto dal 1988 e fino al 20 settembre scorso tra gli azeri e gli armeni della regione di Nagorno Karabakh ha delle somiglianze e degli elementi in comune con quello che è successo e sta tutt’ora succedendo tra gli israeliani e i militanti palestinesi di Hamas. Ma anche tra i serbi e la popolazione di etnia albanese del Kosovo.

    Nel frattempo il nostro lettore è stato informato degli scontri, nel nord del Kosovo, tra le forze paramilitari serbe e le forze di sicurezza del Kosovo e del KFOR (acronimo di Kosovo Force, un contingente militare internazionale a guida NATO; n.d.a.). Sia degli scontri di alcuni mesi fa, che di quelli recenti, dopo il conflitto armato nelle primissime ore del 24 settembre scorso (Pericolose somiglianze espansionistiche, 26 agosto 2022; Non c’è pace nei Balcani, 5 giugno 2023; Bisogna pensare responsabilmente alle conseguenze, 12 giugno 2023; La ragione del più forte e anche del più influente, 19 giungo 2023; Ciarlatani disposti a tutto, anche a negare se stessi, 3 luglio 2023; Si sentono responsabili alcuni rappresentanti internazionali?, 25 Settembre 2023; Le preoccupanti conseguenze degli interessi geopolitici, 2 ottobre 2023). Forse di nuovo si tratta di un caso, ma l’ultimo conflitto armato però tra le forze paramilitari serbe e le forze di sicurezza del Kosovo è scoppiato soltanto quattro giorni dopo quello tra gli azeri e gli armeni nella regione di Nagorno Karabakh. E si sa ormai, essendo da anni di dominio pubblico il rapporto di amicizia e di stretta collaborazione tra la Serbia e la Russia. Si sa anche che la Serbia è l’unico Paese che ha avviato la procedure per l’adesione all’Unione europea, ma non ha però partecipato alle sanzioni poste dalla stessa Unione alla Russia, dopo l’invasione dell’Ucraina il 24 febbraio 2022. E come nel caso della regione autonoma di Nagorno Karabakh, anche nel caso del Kosovo, ormai una repubblica indipendente dal 2008 e riconosciuta da 117 Paesi del mondo, i massimi rappresentanti istituzionali dell’Unione europea hanno sempre “preso con le buone” il presidente della Serbia. Proprio colui che è stato il ministro della propaganda e stretto collaboratore di Slobodan Milošević, ex presidente della repubblica federale di Jugoslavia. È pubblicamente noto che quest’ultimo è stato accusato di crimini di guerra contro l’umanità e di pulizia etnica in Croazia, in Bosnia ed Erzegovina ed in Kosovo. Il processo a suo carico, avviato dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia, è stato però interrotto nel 2006 dopo la sua morte e poco prima che si esprimesse la sentenza. Ebbene, dopo l’ultimo conflitto del 24 settembre scorso, proprio gli stessi massimi rappresentanti delle istituzioni dell’Unione europea, che fino ad alcuni giorni prima “coccolavano” il presidente serbo, hanno cambiato un po’ il loro atteggiamento. Ma mai però a dire le vere verità e a prendere le dovute e necessarie decisioni. Il nostro lettore è stato informato anche di tutto ciò (Si sentono responsabili alcuni rappresentanti internazionali?, 25 Settembre 2023; Le preoccupanti conseguenze degli interessi geopolitici, 2 ottobre 2023). L’ambiguità nelle loro dichiarazioni pubbliche e, non di rado, anche l’irresponsabilità delle loro scelte e decisioni sembrerebbero siano ormai, nolens volens, delle loro “preferenze comportamentali”. Chissà perchè?! Si sa però, fatti accaduti alla mano, che anche come nel caso dell’attuale guerra in corso nella Striscia di Gaza, le scelte fatte dall’Unione europea non sono state quelle dovute e necessarie.

    Nel frattempo però nella Striscia di Gaza si sta combattendo e, purtroppo, altre vite umane si stanno perdendo, bambini compresi, sia ebrei che palestinesi. I media stanno diffondendo, dal 7 ottobre scorso ed in continuazione quanto sta accadendo lì dove si sta combattendo. Così come stanno rapportando anche gli schieramenti delle massime autorità dei singoli Paesi e delle istituzioni internazionali. Sia quelli che condannano gli attacchi dei miliziani del Hamas, che degli altri che si schierano contro l’Israele. E da quanto sta realmente accadendo nella Striscia di Gaza, purtroppo si presume che i combattimenti continueranno, con tutte le drammatiche conseguenze.

    Chi scrive queste righe è convinto che tutti i conflitti locali si svolgono per degli interessi, piccoli o grandi che siano. Compresi anche i grandi interessi geostrategici internazionali. Chi scrive queste righe trova significativo quanto scriveva nella metà del diciottesimo secolo D’Alembert. E cioè che l’arte della guerra è l’arte di distruggere gli uomini, la politica è l’arte d’ingannarli.

  • Preoccupanti e pericolosi poteri occulti in azione

    La passione per il potere è insita nella maggior parte degli uomini

    ed è naturale abusarne una volta acquisito

    Alexander Hamilton

    Era l’11 aprile 2019. A Casa Santa Marta in Vaticano si svolgeva il ritiro spirituale di due giorni per la riconciliazione in Sud Sudan. Un ritiro “Per la pace” nel quale erano presenti oltre all’attuale presidente del Paese, anche il vice presidente ed i tre vicepresidenti designati, nonché gli otto membri del Consiglio delle Chiese del Sud Sudan. Diventato Stato indipendente il 9 luglio 2011, è però, dal dicembre del 2013, un Paese logorato dai continui conflitti etnici. Conflitti che hanno causato alcune centinaia di migliaia di vittime e tantissime crudeltà subite e sofferte dalla popolazione. Il Sud Sudan era e purtroppo tuttora è un Paese dove si incrociano molti interessi economici internazionali che mirano allo sfruttamento del ricco sottosuolo con petrolio e minerali molto richiesti dal mercato. Ragion per cui il Sud Sudan era ed è tuttora, però e purtroppo, anche un Paese dove si verificano dei preoccupanti e pericolosi abusi di potere, locali ed internazionali. Papa Francesco, l’11 aprile 2019, rivolgendosi ai partecipanti al ritiro “Per la pace” nel Sud Sudan, ha detto: “Non mi stancherò mai di ripetere che la pace è possibile!”. E poi si è inginocchiato davanti al presidente e al suo avversario, il vicepresidente ed ha baciato anche i loro piedi. Un gesto spontaneo, quello di Papa Francesco, che rimarrà impresso nella memoria collettiva.

    Dopo diversi rinvii per motivi di sicurezza o di salute, la scorsa settimana, dal 31 gennaio fino al 5 febbraio, Papa Francesco è andato prima in Congo e, da li, in Sud Sudan. Durante la sua visita di tre giorni nella Repubblica Democratica del Congo Papa Francesco ha avuto modo di ascoltare da alcune delle vittime molte testimonianze dirette di inaudite crudeltà. Il Paese è stato dilaniato dagli scontri armati. Soprattutto quelli scoppiati dal maggio del 1997 e durati per alcuni anni. Durante quel periodo si valuta che ci siano stati circa quattro milioni di morti, vittime di un micidiale conflitto armato che, secondo gli analisti, risulterebbe essere stato il più grande dopo la seconda guerra mondiale. Papa Francesco ha ascoltato, durante l’incontro nella sala della rappresentanza pontificia a Kinshasa, delle testimonianze di orrori e di tanta brutalità subita dalla popolazione indifesa durante lunghi anni di scontri etnici e di altre ingerenze occulte e pericolose di gruppi di interesse internazionali. Interessi tuttora attivi che si concentrano sulle tanto appetibili risorse naturali del Paese. Risorse che si trovano soprattutto nella parte meridionale, ricca di giacimenti di minerali, di diamanti e di petrolio, molto richiesti dai mercati internazionali. Come anche in Sud Sudan, con il quale il Congo confina a nord.

    Il 1 febbraio scorso è stato proclamato giorno di festa nazionale proprio per onorare l’arrivo di papa Francesco in Congo. Commosso da tutto quello che ha ascoltato dalle testimonianze delle vittime, Papa Francesco ha detto: “Davanti alla violenza disumana che avete visto con i vostri occhi e provato sulla vostra pelle si resta scioccati”. Ma il Papa ha parlato anche del “…sanguinoso, illegale sfruttamento della ricchezza di questo Paese” e dei “…tentativi di frammentarlo per poterlo gestire”. Aggiungendo perentorio che “Riempie di sdegno sapere che l’insicurezza, la violenza e la guerra che tragicamente colpiscono tanta gente sono vergognosamente alimentate non solo da forze esterne, ma anche dall’interno, per trarne interessi e vantaggi”. Era convinto però il Santo Padre che “…è la guerra scatenata da un’insaziabile avidità di materie prime e di denaro che alimenta un’economia armata, la quale esige instabilità e corruzione”. Ma era soprattutto una frase pronunciata da Papa Francesco, una lucida constatazione, che per l’autore di queste righe è molto significativa. Il Pontefice è stato diretto e perentorio dicendo: “Che scandalo e che ipocrisia! La gente viene violentata e uccisa mentre gli affari che provocano violenze e morte continuano a prosperare!”. E poi ha aggiunto, sempre riferendosi a tutti coloro che sono i diretti responsabili e colpevoli di queste atrocità: “…Vi arricchite attraverso lo sfruttamento illegale dei beni di questo Paese e il cruento sacrificio di vittime innocenti”.

    Dal Congo Papa Francesco è arrivato il 3 febbraio scorso in Sud Sudan. Come sopracitato, anche quello è un Paese colpito e sofferente per i continui conflitti etnici e per la povertà diffusa. E come in Congo, anche nel Sud Sudan sono presenti ed in azione dei preoccupanti e pericolosi poteri occulti internazionali. Sono interessi economici per le tante ricchezze del sottosuolo del Paese che contendono la gestione di quei giacimenti minerari e di petrolio. Da quel 9 luglio 2011, giorno in cui divenne uno Stato indipendente ad oggi, il Sud Sudan è, purtroppo, un Paese profondamente colpito da una lunga e sanguinosa guerra civile e da una diffusa povertà che causa fame. Non sono valsi a niente neanche gli accordi di pace del 2018. E neanche le aspettative, dopo il sopracitato ritiro “Per la pace”, di costituire un governo di alleanza nazionale previsto allora per maggio 2019. Una simile realtà ha generato anche un inevitabile flusso migratorio. Secondo le valutazioni delle istituzioni specializzate internazionali, risulterebbe che durante questi anni siano stati almeno quattro milioni gli sfollati nel Sud Sudan. Al suo arrivo a Giuba, capitale del Paese, Papa Francesco, accompagnato dall’arcivescovo anglicano di Canterbury e dal moderatore della Chiesa di Scozia, ha incontrato il presidente sudsudanese. Lo stesso che aveva incontrato l’11 aprile 2019 a Casa Santa Marta in Vaticano. Proprio colui di fronte al quale quel giorno Papa Francesco si era inginocchiato ed aveva baciato il piede, chiedendogli la pacificazione del Paese. Rivolgendosi a lui il Pontefice ha detto: “…È tempo di voltare pagina, è il tempo dell’impegno per una trasformazione urgente e necessaria. […] È tempo di un cambio di passo!”. Ed è proprio tempo per dare finalmente la possibilità al “Paese fanciullo”, come ha chiamato Papa Francesco il Sud Sudan, di passare “…dalla inciviltà dello scontro alla civiltà dell’incontro”. È tempo di riuscire finalmente ad impegnarsi seriamente anche nella lotta contro la corruzione e l’arrivo e traffico delle armi.

    Domenica, il 5 febbraio, Papa Francesco ha presieduto la Santa Messa nel Mausoleo “John Garang” a Giuba. In seguito nell’aereo, durante il volo di ritorno a Roma, egli, insieme con l’arcivescovo anglicano di Canterbury ed il moderatore della Chiesa di Scozia, ha risposto alle domande dei giornalisti. Rispondendo ad un giornalista sulla realtà nel Congo, il Pontefice ha detto che “c’è questa idea: l’Africa va sfruttata. Qualcuno dice, non so se è vero, che i Paesi che avevano colonie hanno dato l’indipendenza dal pavimento in su, non sotto, vengono a cercare minerali. Ma l’idea che l’Africa è per sfruttare dobbiamo toglierla”. Un altro giornalista era interessato a sapere cosa si potrebbe fare per impedire la continua e palese violazione delle leggi internazionali, come accade in Sud Sudan, ma anche in altri Paesi africani. Papa Francesco è convinto che bisogna impedire la vendita delle armi perché, come egli ha ribadito, “nel mondo questa è la peste più grande”. Aggiungendo però convinto che “… è anche vero che si provoca la lotta fra le tribù con la vendita delle armi e poi si sfrutta la guerra di ambedue le tribù. Questo è diabolico!”. Rispondendo ad un altro giornalista, il Pontefice ha parlato anche della gravità e delle preoccupanti conseguenze di tante guerre in corso in diverse parti del mondo. Per lui non c’è soltanto la guerra in corso in Ucraina. “Da dodici-tredici anni la Siria è in guerra, da più di dieci anni lo Yemen è in guerra, pensa al Myanmar […] Dappertutto, nell’America Latina, quanti focolai di guerra ci sono! Sì, ci sono guerre più importanti per il rumore che fanno, ma, non so, tutto il mondo è in guerra, e in autodistruzione. Dobbiamo pensare seriamente: è in autodistruzione!” ha detto Papa Francesco. Poi un giornalista ha fatto riferimento a quello che egli ha denominato come la “globalizzazione dell’indifferenza”. A lui il Pontefice ha risposto convinto: “C’è dappertutto la globalizzazione dell’indifferenza”. E poi ha continuato, aggiungendo: “Pensare che le fortune più grandi del mondo sono nelle mani di una minoranza. E questa gente non guarda le miserie, il cuore non gli si apre per aiutare”. Perciò bisogna conoscere le specifiche realtà, visitando diversi paesi nel mondo. Papa Francesco ha ricordato anche il primo suo viaggio apostolico in Europa. Il 21 settembre 2014 andò in Albania che era “il Paese che ha sofferto la dittatura più crudele, più crudele, della storia”.

    In realtà quella visita in Albania ha attirato l’attenzione mediatica internazionale. Ha suscitato speranze anche tra gli albanesi. Il Papa ha incontrato le massime autorità istituzionali e quelle religiose. Ha incontrato anche il primo ministro che da un anno aveva cominciato il suo primo mandato come tale. Colui che attualmente sta esercitando il suo terzo mandato. Chissà cosa ha detto lui al Pontefice? Di certo però non ha parlato di quello che aveva in mente di fare e che poi, nel corso di questi anni, ha veramente fatto. E lo aveva dichiarato al Parlamento un anno prima, nel settembre 2013. Rivolgendosi ai deputati dell’opposizione, il primo ministro aveva dichiarato con tanta enfasi: “Voi non avete visto ancora niente!”. Purtroppo, in realtà quello che aveva fatto fino al 2013 non era niente in confronto a quello che il primo ministro albanese ha fatto durante questi anni. Il nostro lettore ha avuto modo di essere continuamente informato del suo operato, con tutta la dovuta ed obbligatoria oggettività, fatti alla mano. Sono stati lui ed i suoi stretti collaboratori che hanno diffuso sul tutto il territorio nazionale la coltivazione della cannabis, per poi trafficare il prodotto. Una realtà questa che ha messo in allarme le istituzioni specializzate internazionale e che ha sconvolto il mercato degli stupefacenti. Lo ha fatto coinvolgendo direttamente il ministro degli Interni, il quale ha garantito il diretto coinvolgimento delle strutture della polizia di Stato. Una realtà quella che continua. Il nostro lettore è stato informato, a più riprese e a tempo debito, anche di questo. Così come è stato molto spesso informato soprattutto del restauro e del consolidamento di una nuova dittatura sui generis in Albania. Il nostro lettore è stato molto spesso informato anche della costituzione di un’alleanza pericolosa capeggiata, almeno formalmente, dal primo ministro. Un’alleanza tra il potere politico, la criminalità organizzata locale ed internazionale e determinati raggruppamenti occulti, anche quelli locali ed internazionali. Il nostro lettore è stato spesso informato, fatti documentati e denunciati alla mano, della galoppante corruzione che sta divorando sempre più la cosa pubblica in Albania, mentre la povertà si sta diffondendo sempre più in tutto il Paese. Ragion per cui si sta verificando, da alcuni anni ormai, un preoccupante spopolamento del paese. Come nel Sud Sudan ed in altri paesi dove da anni, pero, sono attivi scontri armati tra diverse etnie. Anche di questo il nostro lettore è stato informato. Così come è stato spesso informato del clamoroso abuso di potere, partendo proprio dal primo ministro e dai suoi più stretti collaboratori. Il nostro lettore è stato informato durante questi anni del fallimento ideato, programmato ed attuato della riforma del sistema della giustizia in Albania. Un fallimento che ha avuto il supporto dei “rappresentanti internazionali” in Albania e di alcuni alti rappresentanti dell’Unione europea. La scorsa settimana il nostro lettore è stato informato del diretto coinvolgimento del primo ministro albanese in uno scandalo internazionale tuttora in corso (Collaborazioni occulte, accuse pesanti e attese conseguenze; 30 gennaio 2023). Ovviamente lui, bugiardo ed ingannatore innato qual è, ha detto tutt’altro a Papa Francesco durante il loro sopracitato incontro nel settembre 2014.

    Chi scrive queste righe è convinto che in molti Paesi del mondo, compresi il Congo e il Sud Sudan, ma anche l’Albania, si stanno verificando delle presenze di preoccupanti e pericolosi poteri occulti in azione. Poteri che abusano, sfruttando la disponibilità dei politici corrotti. È vero, la passione per il potere è insita nella maggior parte degli uomini ed è naturale abusarne una volta acquisito. Come sta facendo da anni irresponsabilmente e spudoratamente anche il primo ministro albanese.

  • Le guerre per le terre rare minano anche il nostro futuro

    Mentre la nostra attenzione è, ovviamente, concentrata sui diversi problemi dovuti al rincaro del gas e alla sospensione di gran parte dei rifornimenti dalla Russia, si rischia che manchi all’analisi del nostro futuro quali saranno le conseguenze delle varie guerre di potere per accaparrarsi quelle materie prime senza le quali la società mondiale non può più vivere.

    Lo scontro tra i grandi della terra è sulle terre rare senza le quali le vecchie e nuove tecnologie non possono funzionare e in questo scontro ogni giorno si contano molte vittime.

    Il Congo è ricco di coltan, il minerale indispensabile per il funzionamento dei migliori microchip, quei microchip che regolano ogni tecnologia e presto saranno usati anche nell’industria pesante. Il coltan del Congo è particolare per la concentrazione di columbite-tantalite che porta ad un risparmio energetico, ad esempio prolunga la durata delle batterie e perciò è particolarmente richiesto anche per le macchine elettriche.

    La grande richiesta del coltan, in una paese poverissimo nonostante le tante risorse minerarie, cobalto in testa, aumenta le lotte intestine, i traffici internazionali, le guerre di potere, tutto a scapito della popolazione, che in gran parte lavora più di 12 ore al giorno, senza protezione e per una misera manciata di dollari.

    La Cina ha ovviamente un rapporto stretto con il governo congolese e ha usato tutti i mezzi per aggiudicarsi l’esclusiva del cobalto e si muove, anche sotto la copertura di varie società che tra loro si fondono con giochi ad incastro. Nel frattempo la situazione di donne e bambini resta drammatica mentre gli attacchi di bande armate, dei contrabbandieri e dell’Isis continuano contro la popolazione civile.

    Continua anche la corsa al litio, materiale essenziale per le moderne tecnologie e del quale la Bolivia detiene un quarto delle riserve mondiali conosciute ma non ne produce che pochissime quantità perché l’ex presidente Morales comanda ancora. Pur essendo nazionalizzata l’estrazione del litio, esiste solo un piccolo impianto che non riesce a produrre in modo industriale. Nel 2021 Morales ha deciso di mettere fine alla fallimentare nazionalizzazione ma solo nell’interesse di Pechino e Mosca.

    Le batterie al litio sono le più efficienti e riciclabili perciò è un grande affare produrlo, utilizzarlo, venderlo vista la necessità di arrivare all’autotrasporto elettrico così la metà delle compagnie che potranno avviare progetti di ricerca sul litio sono cinesi. Una di queste ha fatto una società mista con una società statale boliviana per l’industrializzazione delle saline. Il litio boliviano sarà anche a disposizione di una azienda statale russa che si occupa di energia nucleare, poiché è uno dei maggiori produttori mondiali di uranio, la Bolivia è ricca anche di questo materiale.

    Russia e Cina pur essendo apparentemente alleate su molte questioni, compreso il silenzio colpevole del presidente cinese sulla guerra di Putin contro l’Ucraina, in effetti hanno una forte rivalità per la conquista proprio delle terre rare. Queste terre sono molto presenti nel sottosuolo degli ex paesi satelliti dell’Unione Sovietica come il  Kazakistan, il Turkmenistan, il Kirghizistan.

    La concorrenza continua anche per appropriarsi dei grandi giacimenti, non solo di preziosissimo rame, in Afganistan. In effetti le concessioni di alcune miniere sono in mano cinese già dal 2007 ma le note vicende afgane hanno per ora impedito l’estrazione. I cinesi inoltre potrebbero godere di un enorme giacimento di litio nell’alto Tibet individuato recentemente.

    Guerre e guerriglie grandi e piccole, ufficiali od ufficiose, continuano e si espandono, in nome di finti ideali, per garantire terre rare e potere ai giganti del mondo mentre le popolazioni dei paesi, che nel  sottosuolo hanno tante ricchezze, restano sempre più povere.

    Quando i giganti avranno raggiunto la piena acquisizione dei metalli e delle terre rare saranno i padroni definitivi del mondo, forse si faranno guerra tra di loro, forse si divideranno il mondo ma certamente noi non saremo più liberi ed indipendenti come siamo ora, o come crediamo di essere.

    Anche per questo aiutare il popolo ucraino a salvare la sua indipendenza e le ricchezze del suo sottosuolo è necessario e giusto anche per il nostro futuro di libertà e benessere.

  • Gli umani ed i mostri

    Cosa differenzia un essere umano da un mostro?
    Gli esseri umani provano sentimenti i mostri no, gli umani fanno le guerre, purtroppo, ma mediamente cercano di non uccidere appositamente i civili, i mostri distruggono scuole, ospedali, abitazioni, sparano sugli inermi, non hanno remore davanti a nulla, sono mostri.
    I mostri non hanno etichette di destra o di sinistra perché sono convinti di essere loro l’assoluto, non apprendono nulla dagli errori o dalle tragedie del passato, non combattono per difendersi ma solo per conquistare e in alternativa distruggere.
    I mostri si ritengono onnipotenti e tutti gli altri appartengono a una razza inferiore da annientare o da asservire perchè i mostri non hanno un popolo ma solo schiavi sotto di loro.

    I mostri sono sempre terroristi perchè seminano il terrore per potere fiaccare ogni resistenza, col terrore cercano di impadronirsi del corpo e dell’anima e trovano sempre menti deboli che li fiancheggiano per sentirsi anch’esse forti.

    I mostri si nutrono delle paure altrui, distruggono chi prova sentimenti o comprensione, dileggiano chi parla di pace e di dialogo, annientano tutto ciò che non è funzionale al raggiungimento del loro scopo: il potere assoluto.
    La storia ci ha insegnato che periodicamente i mostri ritornano, prima o poi soccombono ma dopo aver portato morte e distruzione, soccombono senza lasciare altro che l’orrore del loro ricordo come Hitler ieri, come Putin oggi.

    Annientare I mostri non è l’unico obiettivo :gli esseri  umani, le società civili, dovrebbero cominciare a pensare seriamente come si può evitare che risorgano o come si possano, si debba, stroncarli sul nascere.

    Per combattere i mostri scesi in guerra occorrono le armi, e dopo averli resi inoffensivi, per impedire che altri mostri ritornino, occorre che sia resa sempre più forte,sempre più condivisa, partendo dalle nuove generazioni, la culture della libertà, della conoscenza del passato, della giustizia, della democrazia.

  • Mauritania accuses Malian army of killing its citizens

    Mauritania’s foreign ministry has accused Mali’s army of crimes against its nationals after dozens of protesters said their fellow countrymen had been killed “in cold blood”.

    Mali’s ambassador Mohamed Dibassy was called in to hear a “strong protest against the recent, recurring criminal acts”, committed by the army following the disappearance of several Mauritanians just over the border, the ministry said.

    In January, seven Mauritanians died in a border region, although after an inquiry, Bamako said there was no evidence linking its army to the deaths.

    Another incident took place over the weekend when two Mauritanians were shot at on their way back to Abel Bagrou, near the Malian border.

    Sources say some of the killed Mauritians were accused of links to jihadist groups operating in Mali.

    The Jeune Afrique website says they were shot by a group “affiliated to Mali’s army” said to be Russia’s Wagner Group, which is believed to be helping Mali tackle the Islamist militants.

    Mali’s ruling military junta has not reacted to Mauritania’s accusations.

    Since West African regional body Ecowas imposed sanctions on Mali because of the military takeover, Mauritania has been one of the few countries helping it get round the isolation.

  • Sudan’s prime minister warns of risk of chaos, civil war

    KHARTOUM, June 15 (Reuters) – Sudan’s prime minister warned on Tuesday of the risk of chaos and civil war fomented by loyalists of the previous regime as he sought to defend reforms meant to pull the country out of a deep economic crisis and stabilise a political transition.

    Abdalla Hamdok made the comments in a televised address days after young men carrying clubs and sticks blocked roads in the capital Khartoum following the removal of fuel subsidies.

    Hamdok’s government serves under a fragile military-civilian power-sharing deal struck after a popular uprising spurred the army to overthrow veteran leader Omar al-Bashir in April 2019.

    The transition is meant to last until the end of 2023, leading to elections.

    “The deterioration of the security situation is mainly linked to fragmentation between components of the revolution, which left a vacuum exploited by its enemies and elements of the former regime,” Hamdok said.

    He said that without reform of Sudan’s sprawling security sector, which expanded under Bashir as he fought multiple internal conflicts, Sudan will continue to face internal and external threats.

    “These fragmentations can lead us to a situation of chaos and control by gangs and criminal groups, just as it can lead to the spread of conflict among all civilian groups and might lead to civil war.”

    Though Sudan has won international praise for economic reforms since Bashir’s fall and has made progress towards debt relief, many Sudanese face food shortages or have struggled to make ends meet as prices have soared over the past year.

    Inflation hit 379% in May and electricity or water outages occur daily.

    While roadblocks have often been used in protests triggered by economic or political grievances since 2018, a Reuters witness saw more aggression around the barriers set up in recent days.

    The state government said police and prosecutors would deal with what it called the gangs involved in blocking the roads, but there appeared to be little police presence on the streets.

  • Quelle strade di polvere rossa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Marco Zacchera tratto da ‘Il Punto’ n. 804 del 26 febbraio 2021

    E’ con commozione che va un ricordo all’ambasciatore Luca Attanasio e a Vittorio Iacovacci, il suo carabiniere di scorta.

    Vedendo l’immagine di Attanasio riverso – pallido e morente – su un fuoristrada mentre lo portavano in un ospedale lungo quelle strade di polvere rossa (dove ben difficilmente l’avrebbero comunque salvato) non potevo che ricordare viaggi vicini e lontani nel tempo tra quella stessa polvere rossa dell’altipiano, quella che si infila ovunque e – appena piove – diventa subito un fango spesso, pesante, che ti si attacca alle suole e resta incollato ai piedi di chi le scarpe neppure le ha.

    Il “mio” Burundi, le cannonate in Rwanda, i tanti profughi che camminano verso il Congo nell’eterna lotta tra hutu e tutsi con le distruzioni e i massacri, le case di mattoni crudi abbandonate con i tetti bruciati e che così si sbriciolano presto.

    Capanne buie, colline terrazzate dove si piantano fagioli in ogni punto possibile pur di avere qualcosa da mangiare, galline che piluccano tra le corsie ospedaliere (dove i pazienti devono farsi da mangiare da soli) in edifici cadenti dove la cosa che ti colpisce di più è l’odore di marcio e di urina.

    E intorno hai sempre tanti, tanti bambini.

    Missionari e volontari eroici, gente di poche parole e da prima linea, quelli che spesso devono fuggire per le minacce di politici corrotti perché sono testimoni pericolosi. Insicurezza totale, campi profughi sterminati, giovani fumati e donne con i figli sulle spalle e una fascina o la tanica d’acqua in testa, perché le fontane sono sempre lontane da casa e ogni volta devi risalire a piedi tutta la collina con il solito fango che ti fa scivolare, eppure le taniche restano sempre diritte…

    Ogni tanto vedi passare i gipponi bianchi dell’ONU o delle grandi associazioni umanitarie con gli altri volontari, quelli che –  ben pagati – il “volontario” lo fanno di mestiere e di solito vivono nelle ville nei quartieri “bene” delle capitali, quasi mai tra la gente disperata.

    Intorno, uno scenario sempre uguale tra mille colline verdi, deforestate e popolate da formiche che sono una umanità povera, divisa, remissiva, paziente, che però ogni tanto si scatena in gesti di violenza inaudita e di lotte tribali.

    Come non ricordare quella mattina presto di metà aprile (avevo proprio l’età di Attanasio ed ero stato appena eletto deputato) quando nella foschia dell’alba per cinquanta metri sbagliammo direzione e finimmo in mezzo ai ribelli che controllavano la strada. Un albero di traverso per obbligarci a frenare e poi quegli occhi rossi dietro la punta del kalashnikov puntato diritto in faccia, con nemmeno il tempo di avere paura.

    La vita che va e che viene, dipende dall’umore di quegli occhi rossi che ti fissano.

    A noi andò bene e bastarono tre pacchetti di sigarette per poter tornare indietro, ma soprattutto servirono le parole tranquille e convincenti di un missionario saveriano che parlava bene il kirundo.

    A Luca e Vittorio è andata male: è la roulette della vita, un soffio che vola leggero se vai in giro per quelle strade di terra rossa, quella di un’Africa che molti non immaginano neppure.

    Loro passavano di là non per depredare ma per aiutare, ed è proprio per questo che resteranno ben vivi nel nostro ricordo.

    PS: Forse pochi sanno che una qualsiasi nostra ambasciata nel mondo (e il personale che vi lavora) è “difesa” da pochissimi carabinieri –  che anche in Africa al massimo si contano sulle dita di una mano e solo per le sedi più critiche – e un assalto, un agguato, una qualsiasi aggressione può avvenire in un attimo, sia in sede che all’esterno, quando allora conta ben poco la difesa di una pistola d’ordinanza.

    Così come nessuno difende normalmente la sede di un consolato, a volte unica presenza italiana per interi paesi quando le nostre ambasciate – ridotte all’osso – “coprono” diversi stati anche lontani tra loro. Altro che le scorte (inutili) per centinaia di politici e di VIP che scorrazzano con le auto di rappresentanza e le luci blu lampeggianti per le vie di Roma…

  • Il Qatar si offre come mediatore tra Usa e Iran

    In attesa di conoscere le prime mosse di politica mediorientale del nuovo presidente americano Joe Biden e di capire cosa rimarrà delle scelte prese dall’ormai ex presidente Usa Donald Trump, il Qatar si offre come possibile mediatore tra Stati Uniti e Iran, ma chiede che Washington torni a essere più presente nei vari scenari di crisi della regione, dalla Libia al Golfo passando per i Territori palestinesi.

    In una intervista con l’Ansa, la portavoce del ministero degli esteri di Doha, Lolwa al Khater ha raccontato quanto la crisi economica globale e regionale, aggravata dalla pandemia, abbia contribuito ad accelerare la fine del blocco commerciale imposto nel 2017 dall’Arabia Saudita, dall’Egitto, dal Bahrein e dagli Emirati Arabi Uniti.

    Poche settimane fa l’Arabia Saudita e gli altri tre Paesi alleati di Riad hanno deciso di metter fine assieme al Qatar alla crisi scoppiata alla metà del 2017, quando Riad e i suoi alleati avevano imposto a Doha un assedio marittimo, aereo e terrestre, accusando il Qatar, alleato della Turchia, di sostenere il terrorismo. Quelle accuse sembrano improvvisamente svanite, tanto che al Khater afferma: “Era evidente che era una crisi creata ad arte”.

    La velocità con cui si è apparentemente risolta la crisi del Golfo è stata forse dovuta al persistere di altre crisi, giudicate più dannose ai rispettivi interessi nazionali: la crisi economica, aggravata dalla crisi del Covid-19. Proprio al vertice saudita dei primi di gennaio, ricorda al Khater, tutti i paesi erano “consapevoli che questi anni di crisi (del Golfo) hanno creato perdite per tutti”. Ecco perché – ha aggiunto – ci si è accordati di riattivare i diversi progetti di cooperazione che erano stati sospesi a causa della crisi (del Golfo) e riprendere la collaborazione anche in ambito sanitario”.

    Gli occhi sono ora tutti puntati su Biden e sulla prossima politica mediorientale degli Stati Uniti. L’ex presidente Trump sarà da molti ricordato come colui che ha contribuito a esasperare le tensioni con l’Iran, che ha di recente ripreso l’attività di arricchimento dell’uranio.

    Il Qatar, a due passi dalla costa iraniana, si sente “nel cuore della questione”. Ma da Doha non si sbilanciano: “è difficile parlare in nome di un’amministrazione (Biden) che finora ha detto poco sull’argomento”. Ma si dicono pronti a svolgere un ruolo di mediatori per “abbassare la tensione”.  “Il Qatar è pronto a svolgere una mediazione tra le parti, a patto che tutte le parti ci chiedano di avere questo ruolo”, ha detto la portavoce in collegamento audio-video da Doha. Anche con i ritrovati alleati arabi del Golfo, tra cui l’Arabia Saudita, arcinemica dell’Iran, il Qatar è comunque d’accordo su un punto: “nessuno vuole una nuova guerra nella regione”. Il Qatar, come molti altri attori dell’area, è coinvolto anche in Libia e nella questione palestinese. Su questo al Khater lancia un appello proprio a Biden: gli Stati Uniti devono tornare a essere presenti nella regione.

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