Imprese

  • Il G30 e le imprese insolventi

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi** pubblicato su ItaliaOggi il 5 febbraio 2021

    Il 2021 potrebbe essere il vero «annus horribilis». Lo sarà quasi certamente per centinaia di migliaia, se non milioni, di imprese a livello mondiale, in particolare nei paesi cosiddetti avanzati. In Italia tutti temono la scadenza di fine marzo, quando molte aziende, piccole e medie, dovranno fare i conti soprattutto con i loro debiti e quando dovrebbe finire il blocco dei licenziamenti. Finora è intervenuta la rete di salvataggio della cassa integrazione per milioni di lavoratori. Anche se gli aiuti di Stato dovessero essere prolungati, e tutti se lo augurano in questo momento, il problema, comunque, si presenterà con più forza qualche mese dopo.

    La realtà brutale dei fatti è che siamo di fronte, anche in casa nostra, al pericolo di licenziamenti massicci e di fallimenti di imprese con dei numeri mai visti dopo la seconda guerra mondiale. La pandemia ha creato una crisi di insolvenza per mancanza di mercato e di introiti e una montagna di debiti impagabili, i cosiddetti non performing loans. «Questa crisi di solvibilità differisce nettamente dalla crisi finanziaria globale (2007-8), incentrata sul sistema finanziario e sui problemi di liquidità». Lo afferma anche lo studio «Reviving and Restructuring the corporate sector post-Covid», (rivitalizzare e ristrutturare il settore delle imprese dopo il Covid), recentemente preparato da un’organizzazione molto influente ma ancora poco conosciuta, il Gruppo dei Trenta.

    Il G30 è un’organizzazione internazionale privata formata da trenta tra i più influenti finanzieri ed economisti a livello mondiale. Fu creata alla fine degli anni Settanta dalla Fondazione Rockefeller, gestita dal noto banchiere americano. Ha sempre avuto l’obiettivo di analizzare le questioni economico-finanziarie più rilevanti, in particolare quelle relative ai mercati dei capitali e dei cambi. Oggi, oltre a numerosi ex governatori di banche centrali, annovera anche Mario Draghi, come senior member molto attivo. Il rapporto citato è stato redatto proprio sotto la sua supervisione.

    Lo studio evidenzia la tendenza molto pericolosa dell’aumento del cosiddetto «corporate debt», il debito delle imprese, ben prima della crisi pandemica, che, ovviamente, lo ha molto esacerbato. Il debito del settore corporate non finanziario globale è passato dal 73% del pil mondiale del 2007 al 91% dell’inizio del 2020. Ciò sta a indicare che molte economie erano molto più vulnerabili agli stress finanziari, già prima delle crisi da Covid.

    In generale, all’inizio della pandemia, anche il debito pubblico globale era di molto più grande rispetto a quello del 2007. Se si confrontano due periodi, quello del 2005-7 con quello del 2017-19, si vede che, a livello globale, la crescita del volume del private equity e del debito privato ha superato del 51% la crescita del pil, passando da 58 a 88 trilioni di dollari.

    Il rapporto del G30 evidenzia come siano le pmi a correre il maggiore rischio di default. Subiscono maggiori pressioni finanziarie delle grandi corporation e hanno, al tempo stesso, minori opzioni di finanziamento: dipendono largamente dal settore bancario a cui hanno già conferito notevoli garanzie personali a copertura dei crediti ottenuti. Esse sono, però, il pilastro portante dell’occupazione nel mondo. Negli Stati Uniti, per esempio, nel 2016 le imprese con meno di 500 addetti rappresentavano il 47% della forza lavoro del settore privato. In Europa, e soprattutto in Italia, si sa che questa percentuale è di gran lunga più grande.

    Che fare allora? Il G30 apprezza che a ottobre 2020 gli stimoli fiscali globali dei governi siano stati pari a 12 mila miliardi di dollari. Il Giappone, per esempio, ha approvato un pacchetto fiscale pari al 21% del suo pil! Di conseguenza, vi è un certo ruolo da parte dello Stato, il cui intervento, però, si sostiene, «non deve essere eccessivo». Anzi si suggerisce di non «guadagnare semplicemente tempo concentrandosi sulla liquidità» da far affluire al sistema, ma di «utilizzare le competenze del settore privato per valutare la redditività delle imprese».

    In breve, il G30 teme che una politica pubblica di aiuti troppo accomodanti potrebbe favorire la crescita delle cosiddette «imprese zombie», cioè quelle aziende decotte che non sono in grado di coprire finanche gli interessi sui debiti con i profitti correnti. Queste, mantenute in vita da sussidi e nuovi crediti distribuiti a pioggia, senza un più ferreo controllo, rappresenterebbero un fardello e una minaccia ai settori dell’economia ben funzionante. Si rileva, invece, che la situazione «potrebbe richiedere una certa quantità di «distruzione creativa». Si propone la creazione di istituti ad hoc, delle bad bank, per raccogliere i debiti corporate inesigibili. Non è detto, ma forse è proprio qui che gli esperti del G30 vedrebbero volentieri il contributo dello Stato. Il che suscita più di qualche perplessità.

    Nel documento è evidente una forte contraddizione. Si sottolinea più volte il timore che la crisi di insolvenze possa colpire anche il settore finanziario, per cui si ripete con forza che «il governo potrebbe dover intervenire per proteggere o rafforzare la capacità del settore finanziario di sostenere la ripresa economica». Il rischio, o meglio la certezza, di una massiccia disoccupazione di massa, con evidenti e pericolose derive sociali, è, invece, sbrigativamente affrontata con generici riferimenti a riqualificazioni e trasferimenti di lavoratori. Ciò la dice lunga circa l’ottica nella quale anche il G30 si muove.

    In conclusione il documento del G30 non è per niente innovativo. Anzi dimostra come l’approccio non sia mai cambiato, sia dopo la Grande Crisi, sia nel mezzo della crisi pandemica. Questo è il vero problema che ci trasciniamo da troppo tempo. Certo, il Covid ha aggiunto crisi su crisi.

    Secondo noi, però, la riforma finanziaria e una nuova architettura globale più giusta e multipolare, se non ora, quando?

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La via accademica al socialismo reale

    “…piuttosto dei ristori a debito…per molte attività sarebbe meglio che lo Stato ne favorisse la ristrutturazione o la chiusura”, prof. Mario Monti, senatore a vita.

    Come sempre simili affermazioni suscitano ammirazione dai sempre più esigui ammiratori del senatore ma vera indignazione da parte di chi, ogni giorno, rischia con la propria professione sottoposta alle regole del mercato.

    Ovviamente definizioni e strategie così perentorie esprimono una visione vergognosamente semplicistica espressa da un favorevole piedistallo accademico. Una posizione di privilegio ma lontana anni luce dall’economia reale unita all’illusorio presupposto che la articolata e variegata economia italiana possa venire definita con semplici paradigmi accademici.

    Il problema che sfugge ovviamente al senatore a vita relativo a queste affermazioni assolutamente gratuite riguarda l’individuazione dei parametri sulla base dei quali analizzare, verificare e certificare le aziende degne di venire ristrutturate o quelle per le quali sarebbe necessario favorirne l’uscita dal mercato con la loro chiusura, con ovviamente l’immediata perdita di posti di lavoro.

    Un altro aspetto non secondario viene rappresentato anche dalla indicazione di chi, in nome dello Stato, dovrebbe utilizzare simili parametri sempre per la definizione delle aziende degne di investimenti oppure da abbandonare. Fino ad ora ogni attività economica, come la sua stessa valutazione (si pensi in un’ottica di accesso al credito), da sempre viene basata sulla spesso amara e cruda realtà di quanto emerge dalla applicazione delle leggi di mercato e della concorrenza. In altre parole dalla capacità per un’azienda di fornire un prodotto o un servizio che permetta di sviluppare un fatturato superiore ai costi fissi e variabili o quantomeno il raggiungimento del break even.

    Questo non significa che il mercato rappresenti l’unico e oggettivo arbitro in quanto la sua “valutazione” può venire influenzata con l’introduzione di politiche governative finalizzate a creare fattori economici e competitivi favorevoli all’azione delle aziende.  Giova ricordare, infatti, come mentre l’impresa propone un prodotto od un servizio sul libero mercato, lo Stato possa contemporaneamente favorire quelle allocate all’interno del territorio nazionale attraverso delle politiche di fiscalità di vantaggio che permettano una maggiore competitività.

    Quindi, come logica conseguenza, si ottiene anche un aumento dell’occupazione, specialmente stabile (un obiettivo politico), ma espressione conseguenziale dello sviluppo economico.

    Le stesse regole del mercato possono venire “in parte influenzate” attraverso una attiva politica, economica e fiscale adottata dallo Stato. In questo senso i campi operativi all’interno dei quali l’attività governativa dello Stato può generare degli effetti molto “distorsivi rispetto alle sole leggi di mercato” riguardano essenzialmente la funzionalità della spesa pubblica (1), la fiscalità di vantaggio (2), una tassazione incentivante di investimenti anche esteri (3), una macchina giuridica efficiente (4), la pubblica amministrazione fornitrice di servizi aggiornati e tempestivi (5), un sistema fiscale equo (6) ed una macchina della giustizia efficiente e credibile (7).

    Sembra incredibile come il professorone non sia in grado di elencare questi fattori “ambientali, politici e nazionali” tra quelli che veramente possano determinare la crescita o meno di una società e di un’azienda. Un professor Monti, va ricordato, durante il cui governo nel 2012 si suicidarono oltre 1.000 persone per gli effetti devastanti dell’ennesima crisi economica italiana. Ora l’ex primo ministro introduce una soluzione in assoluta antitesi rispetto alle regole del mercato incentrata sull’intervento diretto dello Stato al quale viene attribuito il potere di esprimere una valutazione relativa alle aziende considerate strategicamente e quindi finanziariamente sostenibili.

    Come possa lo Stato, e soprattutto i propri funzionari, e sulla base di quali parametri oggettivi definire le caratteristiche principali per un’azienda per essere definita decotta e quindi non più finanziabile per restare sul mercato non risulta comprensibile. Probabilmente il professor Monti, che ormai rappresenta la obsoleta espressione del delirio accademico, non si rende conto di quello di cui sta parlando, e se fosse così andrebbe ancora bene. Nel caso contrario, invece, per quanto possa risultare dura (ma abbiamo già visto comunque influenzabile), se alla legge di mercato si inserisse e sostituisse la valutazione indicata dal senatore Monti lo Stato assumerebbe i connotati di unico giudice monocratico.

    Nel primo caso la funzione governativa si esplica attraverso le politiche di fiscalità di vantaggio e soprattutto attraverso una pubblica amministrazione efficiente che renda servizi alle imprese.

    Sempre preferibile, e siamo alla seconda versione del ruolo statale, al delirio imbarazzante del Professore che assegna allo Stato il ruolo di giudice.

    In questa nuova figura lo Stato può abbandonare completamente la propria azione di chi favorisce la crescita economica attraverso l’economia politica e così semplicemente ritirarsi in camera di consiglio per giudicare il futuro delle aziende.

    Il professor Monti dimostra di non essere in grado di comprendere l’assoluta conseguenza istituzionale implicita nel riconoscere l’autorità ad un organo dello Stato, in sostituzione a quella del mercato, definendo in modo cristallino i termini del declino culturale ormai avviato verso una metastasi culturale.

    Il disastro culturale di queste affermazioni emerge talmente evidente come espressione di un rinnovato delirio statalistico declinante verso un nuova forma di autoritarismo statale all’interno del quale la figura e l’autorità statali possano inserirsi in qualsiasi ambito come “arbitro e giudice unico”.

    L’Italia potrà ripartire solo quando il mondo accademico si dimostrerà in grado di rigenerarsi nella sua interezza liberandosi una volta per tutte di queste figure apicali che invocano, magari a propria insaputa, la via accademica al socialismo reale.

  • Il Covid provocherà solo una lieve fuga di capitali dalle imprese in Italia

    Tra le conseguenze economiche della pandemia da Covid 19 non c’è un grande timore di deflusso dei capitali dall’Italia. A non temere una caduta di appeal del Paese come destinazione degli investimenti esteri, pur prevedendo un moderato deflusso nel breve-medio termine, è il 50% della comunità finanziaria. Fatto è che l’attrattività del Paese per gli investitori, pur cresciuta rispetto al 2019 (+3,5%), resta sotto la sufficienza (44,4 in una scala da 0 a 100), secondo l’Aibe-Index, indice sintetico che misura l’attrattività del sistema-Italia da un punto di vista di investimenti esteri. A dirlo è la seconda rilevazione 2020 realizzata dall’Aibe (Associazione italiana banche estere) con la collaborazione del Censis, per sondare l’opinione sulla situazione economica e di fiducia nel Paese col virus, condotta dal 1 al 15 novembre in un panel internazionale di società finanziarie, fondi di investimento, imprese multinazionali. Quanto al flusso di capitali, per il 23,2% degli interpellati ci si potrebbe all’opposto aspettare un moderato afflusso, soprattutto verso i settori produttivi che hanno registrato una forte domanda interna proprio in conseguenza al coronavirus, come il farmaceutico, gli apparecchi medicali, la distribuzione alimentare. Meno probabile l’opzione di un forte deflusso collegato alle incertezze della domanda globale (17,9%) e quella associata alla leva delle risorse dell’Unione europea, rese disponibili per contrastare l’impatto economico e rilanciare il Paese (8,9%).

    L’Italia resta però indietro quanto ad attrattività, soprattutto per il carico fiscale (indice di attrattività di 4,32 su 10), i tempi della giustizia civile (4,19 su 10), il carico normativo e burocratico (3,58 su 10), il livello di corruzione del sistema (4,68 su 10) e la certezza del quadro normativo (4,71 su 10). Priorità d’intervento indicate dunque nel carico fiscale (56,1% delle risposte), nel carico normativo e burocratico (56,1%), nei tempi della giustizia civile (29,8%). Quanto ai decreti messi in campo dal governo, viene ritenuto (37,3%) che provvedimenti come il blocco dei licenziamenti e la proroga delle misure di integrazione del reddito dei lavoratori abbiano solo ritardato gli effetti inevitabili della crisi economica e produttiva. Oltre un quinto delle risposte segnala inoltre l’effetto di dispersione delle risorse secondo una logica di puro trasferimento monetario, mentre il 16,9% riconosce al governo e ai suoi provvedimenti un effetto positivo ottenuto contro i rischi di tensione sociale. Il 23,7% evidenzia l’importanza dei provvedimenti finalizzati a scongiurare la chiusura delle imprese a causa della crisi di liquidità.

  • Richieste di credito da parte delle imprese in calo dell’8,3% richieste nel terzo trimestre

    Decisa frenata nel terzo trimestre per le richieste di credito delle imprese italiane (-8,3%), rispetto allo stesso periodo del 2019. Accade dopo che il secondo trimestre aveva visto un’impennata (+79,3%), sulla spinta anche delle misure di stimolo del governo per contenere gli impatti dell’emergenza Covid 19. Col crescere della seconda ondata della pandemia la tendenza però torna a invertirsi a ottobre, con un picco nell’ultima settimana (+28%). I dati sono dell’ultimo aggiornamento sul patrimonio informativo di Eurisc – il Sistema di informazioni creditizie di Crif, e viene spiegato che la nuova crescita è sostenuta in particolare dai mutui immobiliari (nelle ultime settimane stabili intorno al +30%) e dai prestiti finalizzati, mentre fidi e soprattutto prestiti personali e carte di credito restano distanti dai volumi del 2019.

    Se si guarda al dettaglio, emerge una dinamica speculare tra le richieste delle imprese individuali e quelle delle società di capitali. Sale l’importo medio dei finanziamenti richiesti: nell’ultima rilevazione 72.084 euro, il valore più elevato degli ultimi due anni. Le imprese individuali hanno visto un importo medio di 27.080 euro (-1,4%), mentre per le società di capitali si è assestato a 99.631 euro (+3,8%). Quanto alla distribuzione per classi di importo, il 30,1% del totale si è concentrato nella fascia al di sotto dei 5.000 euro, per il peso delle richieste di ditte individuali e microimprese. Le richieste di importo superiore ai 50.000 euro contano però per quasi il 17% del totale.

    Lo scenario d’incertezza vede inoltre le imprese continuare a richiedere l’accesso alla moratoria del governo per sospendere il pagamento delle rate sui finanziamenti. Per il comparto business, l’analisi di Crif fa emergere significative differenze sulla base della dimensione d’impresa. Il 73,1% dei contratti che hanno ottenuto la sospensione delle rate è riconducibile a società di capitali, il 23,6% a società di persone e i 2,1% a ditte Individuali. L’importo medio della rata mensile sospesa e l’ammontare residuo per estinguere il finanziamento risultano pari rispettivamente a 2.999 euro e 134.246 euro. Per le società di capitali la rata mensile sospesa risulta di 3.568 euro a fronte di un importo residuo pari a 152.627 euro. Per le società di persone la rata risulta di 1.473 euro e per le ditte individuali di 835 euro. Sulla totalità dei contratti per cui è stata ottenuta la sospensione, il 48% riguarda mutui di liquidità, il 25,8% leasing e il 16,4% mutui immobiliari. Seguono i prestiti finalizzati, col 5,4%, e i prestiti personali, col 4,5%.

  • Socialdemocrazia addio, per vivere i giovani praticano liberismo e iniziativa imprenditoriale

    Il posto fisso non esiste più, ed i giovani hanno capito che la socialdemocrazia novecentesca fatta di lavoro dipendente e stipendio certo a fine mese appartiene ormai alle generazioni che li hanno preceduti. I giovani hanno quindi accettato nuove sfide professionali aprendo un’impresa, le cose non vanno benissimo. Sebbene infatti quasi un’impresa su dieci sia guidata da un under 35, negli ultimi cinque anni ne sono state perse 80mila. Un dato che fa riferimento alle sole imprese individuali ossia quei giovani che hanno deciso di aprire una partita iva o un negozio senza l’aiuto di altri capitali. A lanciare l’allarme è uno studio di Unioncamere secondo cui negli ultimi dieci anni circa 250mila giovani, tra i 15 e i 34 anni, hanno deciso di lasciare l’Italia. Un trend che, unito al calo delle nascite e alla disoccupazione, ha ridotto di due punti percentuali il contributo dei giovani al Pil italiano.

    Intanto “Green” e “tech” si confermano le parole d’ordine per i giovani che hanno aperto una nuova attività: tra le imprese giovanili manifatturiere, il 47% ha investito nella ‘green economy’ nel passato triennio, contro il 23% delle altre imprese. Così come per le start up innovative, un settore in cui i giovani trainano gli investimenti (il 18%, per poco meno di 2.100 unità su un totale di oltre 11mila unità). Cresce tra i giovani però anche un “richiamo al mondo dell’agricoltura” con  quasi 7mila  imprese giovanili in più in 5 anni, con un incremento di oltre il 14% nel periodo.

    Per quanto riguarda i settori tradizionali, 6 giovani su 10 hanno puntano sul commercio, dove si contano 140mila imprese di under 35 (26,5% del totale), costruzioni (63mila, pari al 12%), turismo (quasi 58mila, circa l’11%) agricoltura (55mila, 10,4%).

    Da un punto di vista geografico il Trentino Alto Adige è la regione che registra l’incremento più alto di imprese guidate da under 35, con 9.300 imprese, (+2,4% mentre Marche (-20,6%), Toscana (-19,8%) e Abruzzo (-18,4%) sono le regioni che in termini relativi hanno visto le riduzioni più cospicue del numero dei giovani imprenditori.

  • Il “sistema” Italia diviso per età e localizzazione

    Uno dei principi maggiormente disattesi è quello dell’uguaglianza di fronte alla legge, specialmente se fiscale.

    E’di pochi mesi fa la polemica che ha contrapposto il nostro Paese all’Olanda in relazione alla fiscalità di vantaggio che quest’ultima offre alle imprese italiane che trasferiscono le sedi legali e fiscali nei Paesi Bassi. Al di là  delle posizioni legittime che si possono avere in relazione alla politica del paese olandese in materia fiscale appare evidente come la posizione italiana risulti ampiamente ambigua se considerata in relazione alla politica adottata all’interno dei nostri confini. Ogni decontribuzione rappresenta un vantaggio per chi ne beneficia ma contemporaneamente un insostenibile svantaggio fiscale per chi già sostiene i costi della pubblica amministrazione. In altre parole lo svantaggio fiscale rappresentato da una decontribuzione fiscale che favorisca un determinato territorio diventa un costo aggiuntivo immeritato per tutte le imprese allocate nel resto del paese.

    Questo principio vale anche ovviamente per tutte quelle politiche che tendono ad incentivare una fascia di lavoratori over 55 o under 35 le quali, di fatto, rendono le altre professionalità fuori da queste fasce di età non più attrattive per l’impresa. Sembra incredibile come, ancora oggi, in un mondo globalizzato la politica non sia in grado di comprendere come la decontribuzione abbia  un valore incentivante per il “sistema” delle imprese dell’economia italiana solo se viene applicata all’intero paese oppure per tutti i lavoratori e non per diverse fasce di età.

    In altre parole, la politica adottata nel nostro Paese, definita come “anticiclica” rispetto al perdurare della crisi all’interno di un mercato globale, risulta paradossalmente quella di favorire piccole fasce specifiche di imprese in relazione alla loro posizione o di lavoratori in relazione alla propria età. Una risposta settoriale e parziale ad una domanda ed un mercato globali. Una visione ed una politica decisamente di basso profilo specie in considerazione di un mondo e di un mercato globale.

    Paradossale,  poi, come questa stessa classe politica continui ad affermare di operare in favore di un “sistema Italia” quando invece  con i propri atti amministrativi tenda a segmentarlo e quindi indebolirlo.

    Non comprendere le ripercussioni  reali delle scelte politiche, espressione della propria ideologia applicata all’economia, dimostra, ancora una volta, lo scollamento della classe politica rispetto al mondo reale.

  • Aumentano gli incentivi dei Paesi progrediti a ricerca e sviluppo

    La crescita economica globale è strettamente legata al futuro della ricerca e lo sviluppo. Di questo sono sempre più convinti i governi che puntano sul sistema di incentivazione alle imprese. Negli ultimi 25 anni, infatti, si è quadruplicato il numero dei Paesi che offrono al sistema produttivo almeno un incentivo per la ricerca e lo sviluppo. Ad analizzare il fenomeno è l’Osservatorio sugli incentivi di Deloitte che evidenzia come molti Paesi hanno, inoltre, intrapreso la strada degli incentivi legati a nuovi percorsi di crescita, come quello a sostegno degli investimenti focalizzati all’industria 4.0 o alla eco-sostenibilità. Gli incentivi alla ricerca e sviluppo e all’innovazione sono “correlati alla crescita e all’aumento dell’occupazione”, è evidenziato nella ricerca.

    Guardando allo scenario globale emerge come nel 1995 erano solamente 12 i Paesi Ocse che offrivano alle imprese almeno un incentivo, nel 2004 questi Paesi crescono a 18, fino ad arrivare a superare i 50 nel 2020. La Francia ed il Canada, secondo quanto evidenzia Deloitte, sono sicuramente i modelli da “seguire per la stabilità e la semplicità degli incentivi, in particolare per quanto riguarda il credito d’imposta per Ricerca e Sviluppo”. La Francia ha un credito d’imposta per la Ricerca e sviluppo, il Cir (Crédit d’impôt recherche) che esiste dal 1983 ed è pari al 30% dei costi spesi in R&D sui primi 100 milioni di euro di spese più un ulteriore 5% oltre i 100 milioni. Inoltre, per le Pmi è previsto un credito d’imposta del 20% per i progetti di innovazione che non sono agevolabili con il credito Cir. Il Canada, invece, prevede un sistema combinato di crediti Federali e provinciali e, in particolare, il governo federale offre un credito d’imposta per Ricerca e Sviluppo volumetrico del 15% a cui si vanno ad aggiungere i crediti d’imposta offerti dalle province che variano dal 3,5% dell’Ontario al 30% del Quebec. Dopo la crisi provocata dalla pandemia da coronavirus, per stimolare la ripresa della crescita economica sarebbe sufficiente che “buona parte delle risorse del Recovery Fund venissero utilizzate per un’estensione di almeno 5 anni dell’attuale piano Transizione 4.0”. Non meno importante sarebbe prevedere un “potenziamento degli incentivi che almeno raddoppi tutti i massimali da 3 a 6 milioni per la ricerca e sviluppo, da 1,5 a 3 milioni per l’innovazione tecnologica, e da 10 ad almeno 20 milioni per investimenti in beni strumentali 4.0”. Per essere efficaci, gli incentivi devono essere “chiari e semplici, basati su strumenti automatici, stabili nel tempo e con tempistiche certe”, afferma Ranieri Villa di Deloitte.

  • Soldi in più ma per le imprese

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso ‘ItaliaOggi’ il 6 giugno 2020

    Nelle poche settimane dominate dai lockdown per il Covid-19 il bilancio della Federal Reserve è passato da 4 mila a 7 mila miliardi di dollari. È l’effetto della disponibilità illimitata di liquidità annunciata dalla Banca centrale e dalla decisione del Congresso americano di stanziare circa 3.000 miliardi di dollari, pari al 14% del Pil, per sostenere vari settori economici.

    Il debito pubblico inevitabilmente aumenta. Molti economisti, però, concordano sulla necessità che, durante la crisi, le spese pubbliche debbano rimpiazzare quelle private in netta diminuzione. Pochi altri, tra cui il Washington Post, restano, tuttavia, sempre dell’idea che l’austerità sia la soluzione migliore.

    Le scelte e i comportamenti economici adottati negli Usa meritano grande attenzione poiché, in fin dei conti, sono sempre, purtroppo, «copiati» dall’Europa. Infatti, la Bce ha aumentato il suo bilancio dai 4.600 miliardi di euro di fine 2019 ai 5.500 miliardi dell’inizio di giugno.

    Adesso ha aggiunto altri 600 miliardi di euro per acquistare la stessa tipologia di titoli che sta comprando la Fed.

    Fermare la spesa pubblica sarebbe un grave errore. Il vero dibattito negli Stati Uniti riguarda, però, alcuni punti cruciali. Lasciare che i nuovi fondi siano «sequestrati» dalla finanza più speculativa oppure orientarli con forza verso i settori dell’economia reale?

    Tappare soltanto i buchi creati dalla crisi oppure ritornare alle politiche di Franklin Delano Roosevelt e in particolare al suo New Deal fatto di grandi investimenti, infrastrutture e innovazioni? Ma, quali saranno i tempi di decisione e di realizzazione?

    Per il momento le prime mosse sono state della grande finanza e del sistema bancario. Essi erano in una situazione di grande crisi, di quasi bancarotta, già prima della pandemia.

    Come in passato la liquidità della Fed è stata finalizzata all’acquisto di titoli del debito pubblico e in particolare degli asset backed security. Anche quelli di dubbia validità e consistenza, in possesso delle stesse banche e delle altre strutture finanziarie non bancarie che fanno parte del cosiddetto shadow banking.

    Questi alleggerimenti dei bilanci delle banche dovrebbero essere controbilanciati, in misura uguale se non superiore, attraverso l’emissione di nuovi crediti verso i settori produttivi in difficoltà e verso nuovi investimenti. Come in passato, però, questo «travaso» è fatto in modo estremamente lento e limitato. La gran parte dei fondi va a coprire i loro pericolosi buchi finanziari oppure rimane semplicemente parcheggiata nelle banche. È la stessa cosa che stiamo sperimentando in Europa. Purtroppo anche in Italia.

    Si tratta di un comportamento che prescinde dalle responsabilità dirette dei governi di qualsiasi orientamento politico siano. Ha, invece, a che fare con la loro debolezza.

    Negli Usa, questo processo sta già avvenendo con i private equity fund operanti in vari settori. A livello mondiale gestiscono attivi per 6.000 miliardi di dollari. Sono fondi d’investimento che acquistano azioni o partecipazioni in imprese produttive spesso al solo scopo di estrarne il massimo profitto nel breve periodo.

    Se poi dette imprese rischiano il fallimento, si può sempre chiedere il bail out con i soldi pubblici. Secondo il Financial Times, il semplice fatto che la Fed abbia detto di voler acquistare anche titoli in grande difficoltà, avrebbe grandemente galvanizzato il mercato degli junk bond.

    Anzitutto il settore della distribuzione al dettaglio. Dopo avere distribuito lauti dividendi per un decennio, le catene di negozi di abbigliamento e fashion di media e alta fascia, come la J. Crew, la texana Neiman Marcus e i grandi magazzini della Jc Penney, durante la pandemia hanno dichiarato bancarotta, appellandosi al Chapter 11. In passato i private equity li avevano enormemente indebitati attraverso operazioni di leverage buyouts, che sono complesse operazioni di acquisizione di un’impresa attraverso la sua capacità di indebitamento. La perdita di clienti e la diminuzione degli acquisti hanno ridotto il flusso di cassa e mandato velocemente in tilt il sistema.

    Un altro settore in grave affanno è quello degli immobili in affitto. Grandi fondi hanno acquistato un numero enorme di appartamenti negli Stati Uniti, ma anche in Europa, scommettendo sull’aumento degli affitti per la classe medio-alta. Per esempio, il più grande private equity fund, il Blackstone Group, è diventato il proprietario numero uno al mondo. Quando, però, il valore degli immobili scende, il sistema scricchiola.

    Lo stesso dicasi per la bolla del credito al consumo. Nel 2020 il debito delle carte di credito negli Usa ha raggiunto i mille miliardi di dollari. Il Covid-19 ha ridotto drasticamente il reddito di almeno un terzo dei lavoratori americani. Di conseguenza, anche i programmi di sostegno dei debiti accesi dai fondi, basati su un flusso continuo e crescente di introiti, crollano.

    Non è molto rassicurante vedere come i governi siano stati capaci di imporre il lockdown all’economia reale ma che lascino la finanza operare as usual. Ancora una volta dobbiamo sottolineare che è intollerabile tollerare che i fondi pubblici per il rilancio e la liquidità delle banche centrali siano fatti fluire nell’economia reale attraverso il sistema bancario privato. Senza condizioni e controlli puntuali, stringenti e rigorosi! Problema enorme e serio. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • Dal decreto liquidità ai soldi in banca

    In un recente articolo abbiamo ripercorso le iniziative messe in campo dal Governo, in particolare con il decreto liquidità, per sostenere le imprese. Superate le problematiche connesse con l’attività prodromica quali redazioni di business plan e assenza di segnali di crisi nella situazione ante pandemia, proviamo a analizzare oggi il processo per la richiesta dei “gettonatissimi” 25.000 euro. Apparentemente la procedura dovrebbe essere molto snella e rapida proprio perché il fattore tempo risulta essenziale. Non solo il sostegno deve arrivare, ma deve arrivare velocemente pena diventare inutile.

    Il primo passo da fare è compilare l’allegato 4 bis “Modulo per la richiesta di garanzia su finanziamenti di importo fino a 25.000 euro ai sensi della lettera m), comma 1 dell’art. 13 del DL liquidità” (scaricabile dal seguente link: https://www.fondidigaranzia.it/normativa-e-modulistica/modulistica/).

    Chi si immaginasse una semplice richiesta di una paginetta, dovrà ricredersi, trovandosi di fronte a un modello complesso di 8 pagine, ricco di dichiarazioni e richieste di dati tutt’altro che banali. Per esempio, al punto 6 il beneficiario “in particolare, dichiara di accettare che, a seguito della liquidazione della perdita al soggetto finanziatore, il Fondo acquisisce il diritto di rivalersi sullo stesso soggetto beneficiario finale per le somme pagate, e proporzionalmente all’ammontare di queste ultime, il Fondo si surroga in tutti i diritti spettanti al soggetto finanziatore” a sottolineare il fatto che trattasi di prestiti e non di sussidi a fondo perduto per cui l’imprenditore sarà comunque tenuto a rispettare i propri impegni e quindi a ponderare attentamente la propria capacità di far fronte alle obbligazioni assunte.  La garanzia del Fondo indennizza la banca, alla quale si surroga, nel diritto di credito, verso il beneficiario finale.

    Al punto 13 andranno indicate le finalità del prestito. Secondo le indicazioni dell’ABI si potranno anche dichiarare semplici esigenze di liquidità. Ovviamente, sono altrettanto plausibili richieste per investimenti produttivi o approvvigionamento di scorte. Finalità che, ovviamente, dovranno poi essere rispettate.

    Al punto 14 il soggetto dichiara che l’attività d’impresa è stata danneggiata dall’emergenza COVID-19. Attenzione alla sostenibilità e dimostrabilità di tale affermazione. Non si tratta di un finanziamento per tutti, ma per aiutare coloro che sono stati danneggiati dai provvedimenti di contenimento dell’infezione.

    Al punto seguente andranno dichiarati i ricavi realizzati in base all’ultimo bilancio depositato o dichiarazione fiscale presentata.

    Altro punto da attenzionare è il 17, in cui andranno specificati gli ulteriori aiuti di stato ricevuti e ricollegabili all’emergenza Covid 19 (si fa esplicito riferimento, infatti, alla comunicazione della Commissione Europea del 19 marzo 2020).

    Meritevole di attenzione anche la scheda 2 relativa al tipo di impresa e ai parametri dimensionali.

    Nella maggioranza dei casi, soprattutto per le realtà più piccole, sarà necessario far riferimento ai propri consulenti per la comprensione del modello e la conseguente corretta e consapevole compilazione.

    Oltre a questo modulo per l’attivazione della garanzia statale, che ricordiamo essere gratuita, occorrerà sottoscrivere la richiesta del finanziamento alla banca erogante.

    Nella propria circolare operativa, l’ABI, specifica che “Il rilascio della garanzia è automatico e gratuito, senza alcuna valutazione da parte del Fondo. La Banca potrà pertanto erogare il finanziamento con la sola verifica formale del possesso dei requisiti, senza attendere l’esito dell’istruttoria del gestore del Fondo medesimo”. Dal tenore della dichiarazione dovrebbe conseguire la snellezza dell’operatività con l’istituto finanziario e la tempestività dell’erogazione.

    Ebbene, sembra che non sempre sia così, come denunciato dall’Associazione Nazionale dei Dottori Commercialisti nel proprio comunicato stampa del 29 aprile 2020.

    L’associazione denuncia comportamenti difformi, più o meno gravi, che snaturano la natura del sostegno e complicano il suo ottenimento e la sua portata.

    Tra le pratiche più scorrette viene denunciata la richiesta di fideiussioni personali. Speriamo che tali casi siano veramente sporadici, invitando i richiedenti a non sottostare a tali indebite richieste e a far rilevare prontamente gli abusi.

    Analogamente deplorevoli le richieste di copertura di esistenti posizioni debitorie pregresse presso la banca. Anche queste richieste non sono compatibili con la normativa di cui all’art. 13 lett. m del decreto cura Italia.

    Meno gravi, ma comunque penalizzanti, le richieste di molteplici documenti per l’istruttoria che tendono a snaturare il finanziamento che, nelle intenzioni del Legislatore, sarebbe dovuto essere molto semplice e non subordinato alla valutazione del merito creditizio, essendo garantito al 100% dallo Stato.

    Tema ancora aperto sarà quello dei tempi di erogazioni di cui, al momento, non si hanno evidenze.

  • In Italia 51mila ditte cinesi, una su 5 è in Lombardia

    In Italia ci sono 51mila aziende intestate a cinesi, secondo quanto stimato dalla Camera di commercio di Milano, Monza-Brianza e Lodi nel terzo trimestre 2019. Diecimila e 316 aziende sono in Lombardia, dove sono cresciute del 17,8% in 5 anni (contro il +13% fatto registrare nell’intero Paese), ma Milano (5.662 ditte individuali cinesi su un totale di 124.142, pari al 4,6%, con andamento stabili su base annua e in crescita del  21% nell’arco di 5 anni) si colloca solo al quarto posto tra le città in cui le imprese individuali cinesi più incidono, percentualmente, sul tessuto aziendale locale. Al primo posto figura Prato, dove le 5mila aziende individuali cinesi sulle 16mila totali rappresentano il 33% del totale (e sono cresciute dell’11% in 5 anni), al secondo c’è Firenze, col 7,6% di ditte individuali cinesi (quasi 4mila su 51mila, in crescita del 7% in 5 anni), mentre al terzo posto si piazza Fermo (521 imprese su 11mila, 5%, del totale, in crescita del 4% in un quinquennio). Alle spalle di Milano seguono Rovigo (599 ditte su 15.787, cioè il 3,8%, in calo dell’8,7% in 5 anni), e Reggio Emilia (1013 ditte su 27.629, equivalenti al 3,7%, in aumento del 3,2% in 5 anni).

    Per Marco Accornero, membro di giunta della Camera di commercio di Milano Monza-Brianza e Lodi: «Le attività di imprenditori cinesi, per la maggior parte sono ditte individuali, sono in crescita in 5 anni, in molti casi si tratta di imprese specializzate in alcuni settori, tra cui i servizi alla persona. I prodotti e servizi spesso sono dedicati alla comunità di appartenenza e contribuiscono a creare proposte nuove di mercato per gli stessi italiani. Anche attraverso queste imprese, a Milano si creano rapporti con i Paesi d’origine e nuove occasioni di business e culturali, in un trend europeo e internazionale. Purtroppo in questi giorni cresce l’allarme per l’emergenza del virus che si sta propagando dalla Cina. C’è un’elevata allerta, che però sta avendo un effetto non sempre giustificato sui comportamenti quotidiani. Si rischia infatti di vedere un impatto negativo sul business della componente cinese della nostra economia».

    Principali settori di specializzazione sono il manifatturiero con l’8% delle ditte individuali italiane gestite da cinesi, con un picco per Prato (78%) e una quota del 12% a Milano. Al secondo posto alloggio e ristorazione col 3,8% con picco di nuovo a Prato (35%) e Milano distanziata a quota 17%. Poi ci sono i servizi alla persona, come il parrucchiere col 3% sul totale italiano: Prato e Milano in questo settore registrano una quota paritetica del 12%. Nel commercio all’ingrosso gli imprenditori individuali cinesi pesano il 2% in Italia, ma ben il 17% a Prato, e il 4% a Milano e Firenze.

    In Lombardia, dove si concentrano per la maggior parte, le imprese individuali cinesi pesano per il 2,6% sul totale delle ditte individuali in regione, col dato di Milano a 4,6% (5.662 su 124.142, +21% in 5 anni). Per numero di imprese seguono Brescia con 970, (1,7% del totale, -3,5% in 5 anni), Mantova con 717, 3,3%, -5,9% in cinque anni, Bergamo con 714 (1,6% del totale, trend quinquennale +21,8%), Varese con 574, (1,9% del totale, +22% in 5 anni), Monza con 557 (quota dell’1,7%, ma crescita ben del 51% in 5 anni).

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