Incidente

  • Ustica e Mattei continuano ad alimentare la polemica dell’Italia verso la Francia

    Qualcuno non ama la Francia in Italia. A decenni di distanza, vengono ancora agitati i casi di Ustica e di Mattei per accusare Parigi di aver orchestrato i due episodi.

    Per la morte di Mattei le indagini giudiziarie si sono concluse senza colpe accertare ma a 60 e passa anni dalla sua morte si ricorda che tra i tanti nemici che il fondatore dell’Eni si era fatto vi era anche la Francia, al cui interno vi era chi (l’Osa, Organisation de l’Armée Secrète) era ben poco felice della fornitura d’armi al Fronte di Liberazione Nazionale algerino. Nel corso delle indagini, Fulvio Martini, ex direttore del Sismi, aveva parlato senza indugi di «responsabilità francese, tenuto conto della determinazione con cui agivano nel Continente africano». Anche il professor Francesco Forte, vicepresidente Eni dal 1971 al 1975, dichiarò che all’interno dell’ente di Stato «era pacifico per tutti che Mattei fosse stato ucciso dai francesi». A riproporre accuse alla Francia sono stati peraltro saggi sia transalpini che italiani, come il libro pubblicato nel 1968 da Fayard in Francia: “Le Monde parallèle ou la Vérité sur l’espionnage” e “L’Italia nel petrolio e il sogno infranto dell’indipendenza energetica”, dei giornalisti Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani .

    Come per Mattei, anche per Ustica, 81 vittime dell’aereo dell’Itavia precipitato il 27 giugno 1980, all’inizio si accreditò la tesi dell’incidente, di un “cedimento strutturale”, ma è poi spuntata la tesi di un missile francese. La tesi fu lanciata da un personaggio di assoluto rilievo e grande conoscenza delle relazioni internazionali, come Francesco Cossiga, che nel 1980 era presidente del Consiglio. Nel 2008 dichiarò che «i servizi segreti italiani mi informarono, così come fecero con l’allora sottosegretario Giuliano Amato, che erano stati i francesi con un aereo della Marina a lanciare un missile non ad impatto ma a risonanza. Se fosse stato ad impatto non ci sarebbe nulla dell’aereo». Lo stesso Giuliano Amato l’anno scorso ha improvvisamente rilanciato quella pista, con un’intervista al Corriere della Sera in cui lanciava il dubbio che la Francia continui a nascondere qualcosa all’Italia.

  • In attesa di Giustizia: la strage degli innocenti

    Altre morti: quello degli infortuni sul lavoro è un argomento di cui questa rubrica si è già occupata ma gli anni passano e non sembrano esserci miglioramenti nella drammatica statistica delle “morti bianche” (oltre mille anche nel 2023) a tacere di quegli incidenti che comportano mutilazioni, lesioni gravi e di quelli in cui solo la fortuna ha evitato il peggio, insomma è una vera e propria strage degli innocenti.

    Ovviamente, dopo l’ultima tragedia a Firenze, c’è già chi invoca pene più gravi: una soluzione tanto facile, di gradimento a populisti e forcaioli, quanto statisticamente destinata a non produrre risultati; tanto per fare un esempio, restando nell’ambito dei reati colposi (cioè quelli non voluti ma verificatisi per negligenza), basta scorrere i dati relativi agli incidenti automobilistici fatali per avere contezza della inutile introduzione del reato di omicidio stradale che ha prodotto risultati controversi. Nelle annate migliori vi sono state riduzioni percentualmente marginali sui decessi: l’inasprimento delle pene, quindi, non ha svolto nessuna reale efficacia dissuasiva né risultati apprezzabili anche se, come suol dirsi, anche una sola vita salvata è un successo…ammesso che non si tratti di mere casualità registrate su grandi numeri.

    Senza dimenticarne altre sciagure terribili – come quello dei manutentori della linea ferroviaria a Brandizzo – l’indagine sulle morti a Firenze ha fatto emergere il problema legato al sub appalto dei lavori, spesso affidato con una lunga serie di delegazioni ad imprese che non assicurano standard minimi di sicurezza né  affidabilità, reclutando lavoratori privi di formazione specifica: altra circostanza che sta risultando proprio dall’inchiesta fiorentina sono le assunzioni con contratto misurato su mansioni diverse da quelle assegnate e questo è un ulteriore rilievo che fa riflettere più che sulle pene sulla esigenza di una rigorosa opera di prevenzione e vigilanza.

    Sebbene i ruoli degli Ispettori del Lavoro continuino a segnalare carenze della pianta organica vicine al 50%, ed è all’Ispettorato che è assegnata – tra le altre – la funzione di controllo sul rispetto della legislazione in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, gli strumenti volti ad una efficace prevenzione non mancano ma sono affidati ai privati, soprattutto allorquando si tratti proprio di assegnazione di opere in sub appalto.

    Sembra, dunque, che questa funzione sia misurata sulla serietà delle aziende che, per prime, devono offrire garanzie reali in materia (ed in difetto delle quali non potrebbero neppure partecipare alle gare sia pubbliche che private) ma che restano del tutto vanificate qualora, senza verifica neppure dalle stazioni appaltanti, le opere vengano subassegnate a soggetti che le medesime garanzie non offrono: i committenti  più rigorosi, per esempio, non solo esigono che solo una percentuale assai ridotta (a regola non oltre il 10%) possa essere subappaltata ma anche che tutte le realtà impiegate dispongano di un sistema di prevenzione degli illeciti ai sensi del d.lgs. 231/01 che contempla la responsabilità da reato delle imprese che, quindi, rispondono per una forma di colpa in organizzazione unitamente ai dirigenti e manager il cui comportamento integri un reato tra quelli previsti da uno specifico catalogo: e gli infortuni sul lavoro vi rientrano.

    In sintesi, il sistema – con la inaccettabile eccezione della mancanza di ispettori del lavoro, ma i soldi per le assunzioni non ci sono mai…- è strutturato per una adeguata prevenzione e basterebbe farlo funzionare senza affidarsi solo al “buon cuore”, se così si po’ dire, degli imprenditori che non sempre mostrano più sensibilità alla sicurezza, alla integrità fisica, alla vita, che non alle economie derivate dal risparmio su materiali impiegati, formazione, dotazione di strumenti individuali di protezione.

    L’aumento delle pene, la creazione del reato di omicidio sul lavoro difficilmente farebbero scomparire il fenomeno delle morti bianche, rendendo solo più complesso un sistema già bizantino. Questo vale per ogni cosa: prima di introdurre nuove leggi sarebbe buona cosa far rispettare quelle esistenti. Altrimenti è solo propaganda e l’attesa di giustizia per il popolo dei lavoratori, di quelli più umili, meno pagati e meno “garantiti”, non risiede certo in condanne esemplari il cui dispositivo è buono solo per essere affisso su quelle troppe lapidi che non vorremmo più vedere ma in quelle morti che si devono e si possono evitare.

  • Aumentano le multe per chi guida nonostante alcol e droghe

    Quasi una multa su tre è per eccesso di velocità, sono in aumento le sanzioni per guida dopo aver assunto alcol e droga, così come quelle a chi non ha assicurato il veicoli. Emergono i comportamenti pericolosi degli italiani alla guida dal rapporto sull’attività delle Polizie locali nel 2022, una fotografia della sicurezza nelle città medie e grandi.

    Sono 142 i comandi delle Polizie locali che hanno partecipato attivamente alla raccolta dei dati, fornendo le informazioni su Comuni in cui abitano quasi 19 milioni di italiani. Se da un lato c’è stata una diminuzione degli incidenti con feriti rispetto ai dati prima dalla pandemia – si è passati dai 76.099 del 2019 ai 65.309 del 2022 – dall’altro c’è un crescente coinvolgimento degli utenti più deboli, come ciclisti e pedoni. Su 6,5 milioni infrazioni contestate, 1,9 milioni riguardano l’eccesso di velocità, c’è una crescita delle sanzioni per guida in stato di ebrezza o sotto l’influenza di sostanze stupefacenti (6.426 violazioni accertate) e di quelle per mancata copertura assicurativa (46.674 sanzioni, in aumento rispetto al precedente anno quando erano 42.029); le violazioni per il mancato uso dei dispositivi di sicurezza (casco e cinture) e per l’uso del cellulare alla guida ammontano a 134.463; la fuga o omissione di soccorso è stato riconosciuto in 2.210 casi; 25.537 patenti sono state ritirate.

    L’uso delle telecamere posizionati in diversi punti della città consentono di monitorare le strade urbane, soprattutto in alcuni punti ritenuti più critici. Secondo il rapporto, l’attività di videosorveglianza è in costante crescita: il 79% dei Comuni ha stilato un regolamento di videosorveglianza (erano il 56,5% del 2014). Le telecamere installate nel 2021 sono in media 192 per ogni città (erano 179 nel 2020). La città più videocontrollata è Milano (2.272 telecamere), seguita da Roma (2.123 telecamere installate) e Firenze (1.392 telecamere). Per quanto riguarda gli accertamenti di natura amministrativa, nell’ultimo anno sono stati 9.060 gli abusi edilizia accertati (7.537 nel precedente anno), ed è in aumento anche l’attività di accertamento in tema ambientale: oggi rappresentano il 16% dell’attività di polizia amministrativa (il 10,5% nel 2020).

    Il personale delle Polizie Locali rappresenta il 15,7% del personale dei Comuni, negli ultimi sette anni è diminuito di 6.735 unità, quasi l’8%. Con questi numeri i comandi fanno fatica. E non è solo una questione di organico in termini assoluti, ma anche di età media elevata. “C’è una discrasia evidente – ha sottolineato Enzo Bianco, presidente del Consiglio nazionale dell’Anci – tra la domanda di sicurezza che viene rivolta ai sindaci e le risorse umane e finanziarie che le amministrazioni locali possono impiegare”. Da qui la richiesta di “rafforzare quantitativamente e qualitativamente, specie sotto il profilo anagrafico, la polizia locale: deve diventare una priorità». “Dobbiamo cogliere – ha affermato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, rispondendo alle sollecitazioni dell’Anci – questa stagione per riconsiderare il concetto di sicurezza urbana e l’ordinamento delle polizie locali, evitando suggestioni come quella della dimensione regionale o della spinta alla quarta polizia».

  • I ricordi del pendolarismo

    L’incidente capitato al treno proveniente da Cremona, che è uscito dai binari a Pioltello causando quattro vittime e decine di feriti, mi ha riportato di colpo con la memoria agli anni 1948/49 nei quali anch’io, come centinaia di cremonesi a quell’epoca, praticavo il pendolarismo « professionale». Prendevo infatti il treno in partenza dalla stazione di Cremona alle ore 5,26 per recarmi a Bagnolo cremasco, ove ero stato assegnato come insegnante, a seguito di un concorso magistrale vinto nel 1948. Mi alzavo alle 4,15 e dopo essermi rasato e ripulito, facevo colazione e andavo alla stazione a piedi. Attraversavo mezza città per raggiungerla, perché abitavo in corso Vittorio Emanuele e a quell’ora i filobus non funzionavano ancora. Alla stazione incontravo la massa dei pendolari che come me dovevano prendere quel treno per giungere in tempo al lavoro. Molti erano colleghi insegnanti, la maggior parte erano operai ed impiegati che lavoravano nel cremasco e a Milano. Il treno si fermava ad ogni stazione per far salire altri pendolari. Ma non c’era affollamento su quelle carrozze di terza classe con i sedili e gli schienali di legno. Non c’era nemmeno caos o disordine, come si legge invece sulle cronache odierne del pendolarismo. L’atmosfera la ricordo con un po’ di nostalgia e di compassione: volti stanchi, sorrisi spenti, parole sottovoce. La testa era ancora nell’aura del sonno ed i pensieri facevano fatica a districarsi  tra il bisogno di riposare ancora un po’ e l’esigenza di partecipare alle conversazioni che i colleghi avevano già iniziato sui temi del lavoro o sull’attualità della cronaca che qualcuno già sbandierava dalle pagine dei giornali comperati al chiosco della stazione. A parte queste incombenze di carattere sociale, che talvolta allietavano lo scorrere del tempo, c’era il paesaggio da guardare. In autunno le nebbie e la foschia  confondevano i margini delle cose: alberi, barchessali, cascine. I prati sembravano tappeti stesi ad asciugare. I rari animali brucavano l’erba ai margini dei campi, lungo le rive dei fossati. Non c’era ancora l’abitudine di lasciarli all’aria aperta; la stabulazione era una pratica corrente e contribuiva a coltivare la tubercolosi che colpiva le mucche in particolare. D’inverno talvolta i paesaggio toglieva il fiato. Gli alberi ricamati di galaverna sembravano un ricamo di ghiaccio che abbelliva l’orizzonte e creava un’atmosfera magica e fiabesca. La neve invece si stendeva sui campi come una coperta candida e rendeva il paesaggio pulito e brillante alla luce del sole. Poi veniva la primavera, con i suoi scoppi di colore e la dolcezza delle sue atmosfere. Il treno sferragliava senza sosta e a mano a mano che ci si allontanava da Cremona si aveva l’impressione di giungere in luoghi attesi, se non desiderati. Nel frattempo i discorsi diventavano collettivi. Se si parlava di lavoro e di programmi scolastici le tendenze erano sempre duplici. Da un lato, coloro che accettavano ciò che vigeva, magari con lievi miglioramenti, dall’altro coloro per i quali niente andava bene nella scuola, a cominciare dai programmi identici da Nord a Sud, nelle città e nelle campagne, in riva al mare o sui monti dell’Appennino, delle Alpi, delle Dolomiti. Tutto doveva essere cambiato, anzi, «rivoluzionato». Se poi si chiedeva loro il nome dei poeti preferiti, solitamente non si andava oltre Pascoli, Carducci e D’Annunzio. Niente Ungaretti, Quasimodo, Cardarelli, Pavese o Saba, ad esempio. Allora la mia partecipazione alla conversazione collettiva terminava qui e ascoltavo con disgusto le parole al vento e le proposte pedagogiche le più strampalate. L’arrivo del treno a Crema interrompeva i conversari e una ventina di noi scendeva per prendere altri mezzi. Il mio era un bus che partiva un’ora  e un quarto dopo da una piazza periferica. Allora ci si recava in piazza del duomo dove alle 7,30 un bar apriva i battenti per permetterci di fare colazione con un cappuccino ed una briosche. Alle 8,25 prendevo il bus che mi depositava alle 8,45 sulla statale Crema-Pandino, alla confluenza con una strada che portava a Bagnolo cremasco. Impiegavo un quarto d’ra a fare a piedi il tragitto di 1,9 Km. e alle 9.00 in punto entravo in classe accolto dalle voci gioiose dei miei 36 alunni, tutti stabili, non pendolari come il loro insegnante. Rifacevo il cammino inverso partendo a piedi dalla scuola alle 16,30. Alle 17,00 risalivo sul bus che mi scaricava sulla piazza della stazione a Crema. Poco dopo prendevo il treno che mi riportava a Cremona alla 19,36.  Dalle 5,26 alle 19,36. Così il mio pendolarismo durava 14 ore e 10 minuti per 5 ore di lezione. Incontravo gli stessi pendolari: stesse facce stanche, stessi pensieri semi-cupi, stesso destino dell’alzarsi all’alba per andare a lavorare una sessantina di chilometri più lontano, stessi disagi per il viaggio. A casa mangiavo in fretta e furia, verso le 20,00, un piatto di minestra e poi mi ritiravo a letto a leggere  i miei autori preferiti. La televisione non era ancora stata inventata e le mie serate non potevano ancora essere dedicate a Pippo Baudo. Eppure, se ripenso a quell’anno, al mio primo anno di insegnamento, al mio pendolarismo quotidiano e ai personaggi con i quali l’ho vissuto, non mi sentirei di lamentarmi. C’è di meglio, certamente, ma a parte il tempo perso, la frequentazione di persone che esercitavano lo stesso mio mestiere o che facevano gli impiegati o gli operai in uffici o in fabbriche, è stata per me un’esperienza che mi ha arricchito umanamente e che mi ha reso consapevole dei disagi che tante persone devono affrontare ogni giorno soltanto per compiere il proprio dovere. Quel treno sferragliante era diventato per tutti noi una seconda casa, la casa comune di chi si doveva alzare presto per andare a lavorare. E coloro che l’abitavano formavano una sorta di categoria ad hoc che pativa gli stessi disagi e che condivideva le stesse fortune, quando il tempo era al bello e la natura mostrava tutta la sua particolare bellezza. Una categoria di persone che si stimavano a vicenda e che condividevano quotidianamente lo stesso destino. Non quello infelice e tragico del deragliamento di Pioltello, dovuto, come sempre, a incuria e noncuranza. Ma quello di persone normali, che facevano un lavoro normale, in condizioni – bisogna riconoscerlo – un po’ anormali, ma usuali e ordinarie.

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