Industria

  • In attesa di Giustizia: ma quale scudo, ma mi faccia il piacere!

    L’argomento di cronaca più trattato di questi giorni è quello legato alla sorte dell’ex ILVA a causa della manifestata intenzione di ArcelorMittal di recedere dal contratto stipulato: in un primo momento, ma anche successivamente in aggiunta a ragioni diverse, l’opzione della cordata franco indiana è stata fondata sulla scelta del Governo di non più concedere lo scudo penale.

    La materia del contendere si è, come anticipato, spostata su aspetti diversi di natura eminentemente aziendalistica con implicazioni del margine di profitto, l’avvertita esigenza di evitare il dissesto dei conti attraverso la riduzione dei costi che, a sua volta, comporta migliaia di esuberi. Un termine elegante per dire: licenziamenti.

    L’asse della discussione si è poi spostato sul piano industriale e su vari tavoli di concertazione con il coinvolgimento della politica, dei sindacati oltre che della magistratura ma nessuno ha mai avuto la buona grazia di spiegare in cosa consistesse lo scudo penale la cui minacciata revoca è stata forse impiegata come pretesto per sfilarsi da una intrapresa economicamente non più appetibile. Cerchiamo di fare chiarezza per i lettori.

    La legge che lo istituisce risale al 2015 ed è cambiata nel tempo un paio di volte: suo cuore è l’articolo che prevede una vera e propria immunità penale del commissario straordinario, dell’affittuario o acquirente e dei soggetti da questi funzionalmente delegati in relazione alle condotte poste in essere in attuazione del Piano Ambientale e delle norme di tutela della salute, della incolumità pubblica e della sicurezza sul lavoro.

    Tradotto: non saranno perseguibili penalmente anche in caso di commissione di reati in materia ambientale e di igiene e sicurezza sul lavoro od omissione dei necessari interventi migliorativi delle strutture esistenti.

    Insomma, esagerando un po’ (ma non poi troppo pensando ai livelli di inquinamento provocati dall’acciaieria) è qualcosa di simile alla licenza di uccidere, quella degli agenti della Sezione Doppio Zero del MI6 immaginata da Ian Fleming.

    Senza esagerare, almeno a parere di chi scrive, è sicuramente l’ennesima dimostrazione del digiuno di diritto costituzionale praticato rigorosamente dal nostro legislatore.

    Infatti, con questo “scudo” si violano almeno due articoli della Carta Fondamentale dello Stato: il  112 che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale, che non può essere di sicuro esclusa e “parzializzata” per taluno e per taluni reati, per di più con legge ordinaria (ne servirebbe, se mai, una costituzionale) e il 101 che recita la subalternità della Magistratura soltanto alla legge e non – come in questo caso – ad una manifestazione di volontà del Governo espressa tramite una normativa di dubbia costituzionalità.

    L’Autorità Giudiziaria di Taranto, per vero, ha investito della questione il Giudice delle Leggi ma la Corte ha deciso salomonicamente di restituire gli atti (un po’ come ha fatto Mattarella con la riforma della legittima difesa e un decreto sicurezza) invitando il Governo a rivalutare se permangono dubbi di costituzionalità, correggendo il testo. Una sollecitazione al ripensamento, ad una riscrittura, caduta nel vuoto come altre e non poche volte.

    L’attesa di Giustizia, non di rado, soffre proprio di quel digiuno di principi fondamentali del diritto, un digiuno che è tutt’altro che salutare per il legislatore, che ne disturba il sonno e il sonno della ragione – come è noto – genera mostri.

  • Magneti Marelli: dalla possibile quotazione alla cassa integrazione

    A soli dieci mesi dalla vendita  della Magneti Marelli ceduta ad una società giapponese dalla galassia del gruppo Agnelli, ecco partire la cassa integrazione per 910 dipendenti, compresi anche i centri di sviluppo in Italia che avrebbero dovuto rappresentare la garanzia di evoluzione dell’azienda stessa.

    L’allora amministratore delegato del gruppo Marchionne aveva indicato nella quotazione la via migliore per mantenere l’azienda in costante e continuo sviluppo all’interno di un perimetro dell’Automotive in forte e continuo sviluppo. Purtroppo la sua visione è risultata assolutamente disattesa ed inascoltata ed il gruppo torinese con sede legale in Olanda e fiscale a Londra ha ceduto l’azienda  al colosso giapponese Calsonic Kansei .

    Questa operazione ha portato alle casse della Holding Agnelli oltre due miliardi di extra dividendo e conferma ancora una volta il trend degli ultimi vent’anni che ha visto una diminuzione della capacità produttiva della famiglia torinese nel settore auto al 50% ed una diminuzione dei dipendenti del 40%.

    Molto spesso, e a ragione, si attribuiscono le responsabilità del declino economico del nostro paese ad una classe politica incapace di avere una visione futura di sviluppo strategico in ambito economico. Questa deficienza strategica purtroppo nello specifico è attribuibile anche alla classe imprenditoriale italiana (o meglio ad una sua parte, per fortuna) la quale perde il ruolo di traino all’interno del contesto italiano e preferisce accodarsi alla politica delle dismissioni, parallela manifestazione in ambito economico del declino culturale (https://www.ilpattosociale.it/2018/10/24/1987-common-rail-2018-magneti-marelli-le-pericolose-similitudini/).

    Esattamente come avvenne con il common rail (invenzione e relativo brevetto nati in casa Fiat), destinato a rivoluzionare il motore a gasolio e che avrebbe potuto portare il gruppo torinese ai vertici mondiali, così anche in quel caso si preferì la cessione al gruppo Bosch al fine di capitalizzare immediatamente il valore dell’Innovazione. Con questa decisione si persero in un colpo solo il fattore moltiplicatore economico ed occupazionale che tale innovazione avrebbe potuto avere in ambito italiano ma anche il possibile ruolo guida che una società di imprenditori potrebbe e dovrebbe esprimere all’interno del proprio Paese.

    Mai come adesso questa tipologia di imprenditoria italiana rappresenta una delle cause del nostro declino economico.

  • Lombardia: finanziamenti per ricerca e sviluppo alle PMI

    La Lombardia è da sempre in prima linea quando si parla di finanziamenti per l’innovazione e l’internazionalizzazione delle Pmi. In questi giorni si stanno discutendo due provvedimenti che puntano a promuovere l’attività delle imprese piccole e medie: queste valgono complessivamente 37 milioni.

    Il primo, atteso a breve in pubblicazione, è il nuovo bando Frim Fesr 2020 «Ricerca e Sviluppo», gestito da Finlombarda, che vale 30 milioni: finanzia ricerca e innovazione delle Pmi e dei liberi professionisti. A disposizione ci sono risorse regionali, statali e del Por Fesr 2014-2020 per i progetti collegati alle aree di specializzazione della «Strategia regionale di specializzazione intelligente per la ricerca e l’innovazione-S3» (settore aerospaziale, agroalimentare, industrie creative) e alle tematiche delle «smart cities» (infrastrutture, costruzioni intelligenti, sicurezza). I finanziamenti sono a medio-lungo termine, di durata da tre a sette anni (di cui massimo due di preammortamento) con tasso fisso nominale dello 0,5% e importo tra 100mila euro e un milione. È finanziabile fino al 100% degli investimenti di almeno 100mila euro in attività di ricerca industriale, sviluppo sperimentale e innovazione, realizzati entro 18 mesi (più sei di possibile proroga) dal decreto di concessione. Sono ammissibili nel finanziamento spese per tecnici e ricercatori, costi di ammortamento o canoni per l’acquisto in leasing di impianti e attrezzature nuovi o usati, i costi della ricerca contrattuale, delle competenze tecniche e dei brevetti, la consulenza per l’attività di ricerca, i materiali necessari alla realizzazione del progetto, le spese generali forfettarie, i costi per il deposito e la convalida dei brevetti durante il periodo di realizzazione del progetto. Sarà possibile presentare domanda online dal 6 giugno fino a esaurimento delle risorse.

    Si apre invece il 22 maggio lo sportello della «linea internazionalizzazione» di Regione Lombardia, gestita da Finlombarda, che finanzia i progetti integrati di internazionalizzazione e sviluppo internazionale delle Pmi lombarde attive da almeno due anni. Lo stanziamento iniziale è di 7 milioni a valere su risorse del Por Fesr 2014-2020 con il cofinanziamento regionale e statale. Sono previsti finanziamenti di medio-lungo termine a tasso zero, di importo compreso tra 50 e 500mila euro e durata da tre a sei anni (di cui massimo due di preammortamento). I finanziamenti coprono fino all’80% degli investimenti in programmi di internazionalizzazione, che siano realizzati entro 18 mesi dalla concessione dell’agevolazione e di importo minimo di 62.500 euro. Sono finanziabili le spese sostenute per la partecipazione a fiere internazionali, per la promozione dei prodotti in showroom o spazi espositivi temporanei all’estero, per servizi di consulenza, per l’ottenimento di certificazioni estere e per il personale impiegato nel progetto di internazionalizzazione. Le imprese potranno fare domanda online, fino a esaurimento delle risorse.

    Resterà aperto fino al 17 giugno, invece, il bando Fashiontech della Regione Lombardia per la sostenibilità delle piccole e medie imprese del settore moda. In base al bando, aperto il 30 aprile, sarà possibile presentare progetti “di ricerca e sviluppo finalizzati all’innovazione del settore Tessile, moda e accessorio, secondo il principio della sostenibilità, dal punto di vista ambientale, economico e sociale”. Il budget del bando è di 10 milioni di euro. Possono partecipare al partenariato pmi, grandi imprese, organismi di ricerca pubblici e privati o Università. Le imprese devono avere sede operativa attiva in Lombardia alla data della prima richiesta di contributo. Vengono comunque solo riconosciute le spese sostenute presso la sede in Lombardia.

  • Quattro imprese italiane su cinque pronte all’industria 4.0

    Il dato è confortante: ben il 78% delle aziende italiane ha avviato processi di trasformazione digitale, improntati verso l’Industria 4.0.

    In realtà la ricerca realizzata da Bcg e Ipsos tra le imprese fornisce un quadro caratterizzato da luci e ombre, presentando più di una criticità nel viaggio verso Industria 4.0. Tra le 170 aziende coinvolte (oltre 20 settori di appartenenza, con una prevalenza di realtà del Nord Italia) in termini di conoscenza il problema non esiste più: il 100% delle imprese conosce l’argomento.

    A distanza di oltre due anni dal varo dei maxi-incentivi fiscali disponibili per i beni “connessi”, il 22% del campione non ha avviato alcun progetto digitale e al momento non pianifica nulla sul tema. Il 78% delle aziende ha invece progetti in corso o comunque già pianificati, anche se le applicazioni in corso sono circoscritte ai primi step: ad esempio l’avvio di un primo progetto pilota in produzione o la connessione delle le prime macchine. Solo un quarto delle imprese (24%) si è invece già spinto oltre, avviando o completando la connessione con clienti e fornitori o addirittura arrivando a connettere l’intera catena del valore. In media i dati dicono quindi che solo il 19% delle imprese (il 24% del 78%) ha messo in pista progetti profondi e radicati, in grado di modificare in modo evidente i risultati ottenuti.

    Così, non sorprende più di tanto osservare che nel 54% dei casi le imprese non si sentano in grado di poter fare un bilancio sull’effetto incrementale di questi cambiamenti in termini di maggiori ricavi, mentre solo il 25% del campione segnala un saldo positivo. In generale solo il 14% delle aziende con progetti a bassa complessità dichiara di aver sperimentato un aumento di ricavi, percentuale che balza invece al 60% tra le imprese che hanno progetti di elevata maturità.

    Altro nodo chiave è quello delle competenze, con il 98% delle imprese a segnalare la necessità di un miglioramento in questo ambito. Nuove professionalità che in generale non avranno un riflesso significativo sui numeri della forza lavoro interna: ci si aspetta infatti un saldo negativo del 2% per impiegati dei livelli più bassi e operai, -1% tra gli impiegati di livello superiore, un aumento dell’1% tra i manager. Tra chi ha già avviato un progetto Industria 4.0, solo il 26% ha previsto team dedicati, nonostante nel 67% dei casi le aziende ammettono di attendersi un’elevata complessità nell’implementazione di questi progetti.

    La maggior parte delle aziende quindi considerano quello di Industria 4.0 un passaggio da gestire, almeno in un primo momento, soprattutto con risorse informatiche specializzate, dunque non sistemiche.

    “Nella fabbrica intelligente – spiega Jacopo Brunelli, partner e managing director di BCG, responsabile operations per Italia, Grecia, Turchia e Israele – saranno più fluide le competenze ricercate e verrà richiesta la capacità di andare oltre le tradizionali abilità tecniche del proprio ruolo. Inoltre, se lo scenario di una sostituzione completa della forza lavoro da parte dei robot sembra scongiurato perché gli automi saranno impiegati sempre più spesso per interagire con gli umani, prevediamo la ricerca di nuove figure professionali con specifiche competenze che coprano aree differenti”.

    Per Andrea Alemanno, senior client officer di Ipsos, “bisogna pensare alle possibilità che offre Industria 4.0; è una ‘rivoluzione copernicana’ che va ben oltre l’ottimizzazione dell’attuale, e consente di affrontare nuove sfide, e di guardare alla supply chain, alla gestione dei clienti e della produzione in modo diverso e costantemente evolutivo”.

    “A due anni e mezzo dalla partenza del piano industria 4.0 – commenta il vice presidente di Confindustria per la politica industriale Giulio Pedrollo – possiamo dire che ha funzionato e che le imprese hanno colto l’opportunità di innovare e di crescere. Una sfida importante e imprescindibile adesso è quella dell’adeguata formazione delle risorse umane già impiegate e soprattutto della creazione di nuovi profili che siano in grado di dispiegare al meglio le potenzialità di Industria 4.0”.

  • La filiera T/A tra export oriented ed e-commerce: sterili strategie

    Il nostro sistema industriale ha dovuto sopportare il peso ed i costi delle improduttività della pubblica amministrazione ai quali molto spesso ha ovviato nel corso degli anni 80 e 90 con la svalutazione competitiva. Nell’ultimo ventennio, invece, amplificandosi tali diseconomie legate alla pubblica amministrazione, il tentativo di mantenere in equilibrio il sistema industriale viene ricercato anche attraverso la compressione dei costi di produzione molto spesso trasferendo parte della stessa all’estero (TPP), strategia supportata dalla mancanza di una articolata normativa che sia in grado di tutelare l’articolata filiera espressione del made in Italy, come una recente ricerca giornalistica ha ancora una volta dimostrato (https://made-to-measure-suits.bgfashion.net/article/16242/65/Why-the-Italian-fashion-factories-go-bankrupt). Tale strategia del sistema industriale, assolutamente legittima, tuttavia ha sempre posto in secondo piano l’attenzione per il mercato e la domanda e quindi la disponibilità economica degli stessi consumatori italiani, quest’ultimi di competenza della classe politica e dirigente. In particolar modo per il sistema tessile abbigliamento ci se è illusi che la crescita internazionale potesse mantenere in equilibrio il sistema complessivo. In altre parole, si sperava che la forte capacità delle nostre imprese export oriented potesse sopperire al continuo calo della domanda interna legata ad una disponibilità economica sempre minore combinata ad una compressione della propensione al consumo, espressione cristallina dell’incertezza politica del nostro paese, come dimostrano l’aumento in 10 anni dei depositi bancari del 75% (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/03/la-crescita-dei-depositi-bancari-in-dieci-anni-75/).

    I terribili dati relativi al primo trimestre 2019 indicano come la domanda interna per quanto riguarda l’abbigliamento risulti in flessione del -8,1% e come oltre un terzo delle aziende intenda ricorrere alla cassa integrazione per far fronte a questa drastica diminuzione dei consumi. Questi dati dimostrano essenzialmente come fosse miope ed assolutamente illusoria la sola visione che individuasse nella salvezza del settore l’unica strategia export-oriented. Al tempo stesso risulta  altrettanto banale quanto superficiale individuare e giustificare la crisi del dettaglio indipendente solo ed esclusivamente legato all’e-commerce, quindi per questo quasi accettata  in quanto considerata espressione dell’innovazione tecnologica applicata alla distribuzione e perciò inevitabile secondo buona parte del mondo politico ed economico.

    La crisi politico-istituzionale che si trascina nel nostro Paese dal momento della crisi del 2008 lo sta portando al collasso economico. In questo senso infatti va considerato il paradosso del costante (e per questo indice di una sempre maggiore insicurezza) aumento dei  depositi bancari legato viceversa ad una diminuzione dei consumi e del denaro circolante. In più, in questo incredibile corto circuito economico nel quale la ricchezza prodotta non viene più messa in circolo e di conseguenza non diventa essa stessa veicolo di sviluppo esiste ancora chi pensa ad una ulteriore riduzione del contante per combattere l’evasione fiscale. Ulteriore conferma dell’assoluto distaccamento tra l’economia percepita da parte della classe politica e quella reale vissuta quotidianamente dagli operatori economici.

    La responsabilità di tale corto circuito economico nel quale la ricchezza prodotta non viene utilizzata per ricreare a sua volta nuova ricchezza a cascata (effetto leva) ma solo come strumento difensivo attraverso il deposito bancario va interamente imputata alla classe politica e dirigente.

    La prima dimostra giorno dopo giorno la propria incompetenza in ambito economico e politico giovandosi della irresponsabilità che il mandato elettorale regala. La seconda completamente lontana dal sentiment dei consumatori da non prevedere tale situazione e tanto meno pensare a soluzioni per invertire questo trend.

    Ancora una volta i dati economici dimostrano come la crisi del nostro Paese non sia economica ma soprattutto culturale.

     

  • Italian Digital Challenge: una due giorni per conoscere i finanziamenti europei dedicati all’industria high tech

    Il 12 e 13 novembre si svolgerà a Bruxelles l’Italian Digital Challenge, dedicata ad una selezione di aziende italiane di high tech. L’iniziativa si prefigge di Favorire l’accesso ai finanziamenti europei per l’industria digitale, anche da parte di Pmi e Startup; Creare incontri con possibili partner industriali e finanziari internazionali; Aprire nuovi mercati, entrare nelle reti internazionali dell’high tech.

    Il primo giorno è previsto un incontro presso la Commissione Europea con i Dirigenti delle DG Connect, della DG Growth, della DG Research e dell’Easme, preposti ai Programmi di finanziamento (H2020 e oltre) per Ict, Iot, Digital Manufacturing, Greentech. Il secondo giorno prevede un’Open Session con Aziende, Investitori, Istituzioni Finanziarie, Reti Internazionali, per scambiare esperienze e creare nuove partnership

    L’Italian Digital Challenge, realizzato con la Collaborazione della Commissione Europea e della Rappresentanza Italiana, permette ai partecipanti di sviluppare conoscenze approfondite sui temi dei finanziamenti europei per l’industria digitale; strategie vincenti per i Programmi europei; un’azione di networking internazionale verso Istituzioni, Aziende, Investitori.

    Informazioni sull’agenda dei lavori e sulle modalità di adesione sono presenti sul sito www.italiandigitalchallenge.it. Le adesioni devono pervenire entro il 2 novembre.

  • Italian sounding: cui prodest

    Cos’è l’Italian sounding, ma soprattutto, in rapporto alla sua peculiarità, a chi e per quale motivo porta dei vantaggi economici questa pratica economica fraudolenta anche per il solo utilizzo concettuale a fini miseramente propagandistici?

    Nel 2015 il governo Renzi  affermò di aver inserito a bilancio 34 milioni per la lotta alla contraffazione dei prodotti italiani definiti appunto “italian sounding” che portano un danno economico per le aziende italiane di oltre 54 miliardi di euro. In questo contesto infatti va considerato come ogni dieci prodotti venduti all’estero che presentano nomi italiani sei risultino assolutamente realizzati al di fuori dell’Italia. Da allora, cioè dall’anno della dichiarazione del ministro, tuttavia non un’azione risulta intrapresa dal governo italiano a tutela dei prodotti italiani in qualche mercato estero. Anche perché va ricordato che l’ottimo governo Monti, con il pregiato ministro Passera, aveva precedentemente smantellato ogni struttura di controllo presente sui mercati internazionali. Mancando il monitoraggio ovviamente risulta difficile avviare qualsiasi azione  finalizzata alla tutela dei prodotti italiani clonati in modo miserevole da aziende e catene di distribuzione internazionali.

    Nel  contesto italiano e della mera e superflua dialettica politica governativa ecco come il concetto di italian sounding venga trasformato dal governo Renzi semplicemente in un’idea, o meglio un’icona, che successivamente viene riportata “sic et simpliciter” priva di ogni sviluppo reale dal sistema mediatico. Ulteriore prova di questa assoluta negligenza governativa deriva dal fatto che le uniche azioni per la tutela dei prodotti di aziende italiane le abbiano intraprese Zegna, Kartell e Ferrero le quali hanno dovuto attingere alle proprie risorse interne per tutelare i propri interessi e diritti.

    L’Italian sounding tuttavia risulta anche quel fenomeno odioso di imitazione, se non addirittura clonazione spesso grossolana, dello stile di vita italiano che viene venduto nei mercati internazionali dell’agroalimentare, del tessile-abbigliamento, fino  all’arredamento giustificati nella scelta fraudolenta dal valore culturale che ogni prodotto italiano esprime quale risultato finale di una filiera complessa, quindi come sintesi di know how industriale, storia e professionalità: la massima espressione del Way of Life unico al mondo che solo il Made in Italy esprime.

    Esiste poi una terza forma di  italian sounding, peraltro legittima, come quella delle aziende estere che hanno rilevato le nostre PMI italiane amate in ogni parte del mondo. Successivamente all’acquisizione, il prodotto viene completamente svuotato di ogni contenuto valoriale culturale con il fine di trasformarlo successivamente in un Brand vuoto nel quale inserire ciò che viene considerato dall’azienda stessa più idoneo a soddisfare le proprie esigenze di vendita.

    In questo senso infatti va inquadrata l’operazione della Nestlé di chiudere il centro di ricerca relativo ai preparati ed ai sughi situato a Villa Fratti di Sansepolcro in provincia di Arezzo. La nuova sede  per la ricerca di preparati e sughi che verranno venduti con il marchio italiano Buitoni (quindi ancora oggi una delle massime espressioni nel settore dell’agroalimentare  industriale) verrà collocata nella città di Solon nello Stato dell’Ohio, Stati Uniti. Tutti i mercati mondiali quindi potranno acquistare dei prodotti sintesi della creatività e della competenza statunitensi che verranno proposti con un brand espressione invece della cultura italiana.

    Una scelta certo legittima di un’azienda la quale ovviamente deve cercare marginalità e soprattutto strategie in rapporto alle opportunità offerte e ricercate anche attraverso le acquisizioni. Tuttavia come non ricordare l’entusiasmo da parte della classe politica e di quegli imprenditori trasformatisi in piazzisti che definirono questa campagna vendita da parte delle multinazionali estere in relazione alla nostre PMI. Una stagione iniziata tra la fine degli anni ‘80 e ‘90 e che ha avuto un fortissimo incremento degli ultimi 10 anni avendo visto moltissimi marchi dell’agroalimentare italiano passare in mano straniera. Allora come oggi questa campagna acquisti veniva e viene definita da parte degli economisti e dei politici italiani come una campagna di forte internazionalizzazione che avrebbe assicurato ed dovrebbe consentire anche oggi un futuro di sviluppo alle stesse aziende italiane. Affermazioni grossolane e superficiali, allora come oggi, che dimostrano come la storia economica italiana ed internazionale non abbia ancora insegnato nulla. Come non ricordare una classe politica ed imprenditoriale la quale invece di affrontare le difficoltà di una gestione di queste aziende abbia preferito supportare la loro vendita  alle multinazionali spacciandola spudoratamente come una grande risorsa per il territorio italiano e per l’economia  italiana in generale.

    Nel prossimo futuro quindi il mondo conoscerà una nuova forma di Italian sounding, peraltro assolutamente legittima, che vedrà un marchio italiano associato ai prodotti di ispirazione statunitense. Francamente quest’ultima rispetto alle altre due forme di Italian sounding che coinvolgono operatori industriali disonesti e compagini governative inette e probabilmente anche poco competenti rappresenta quella meno insopportabile.

  • La Lombardia rilancia l’industria

    Dopo un periodo difficile per tutto il nostro Paese, i numeri iniziano a fotografare finalmente l’uscita dal tunnel della crisi di questi anni. La Lombardia, come spesso accade, fa da traino per tutte le altre regioni. L’industria lombarda appare così più solida e finalmente con maggiore disponibilità di credito, consolidando il proprio trend favorevole. Questa è la situazione fotografata dagli ultimi numeri elaborati dall’Osservatorio Assolombarda-Cerved. L’analisi del credito e del rischio delle imprese relativa al terzo trimestre 2017 evidenzia nel complesso una maggiore disponibilità di finanziamenti, in crescita dell’1,5% rispetto allo stesso periodo del 2016. Il dato globale sui prestiti per l’intero panorama delle imprese passa da un calo del 4,5% ad una frenata minima, pari allo 0,1%. Un calo generato esclusivamente dal settore delle costruzioni, area che resta in palese difficoltà (-5,9%) mentre per servizi (+0,6%) e industria (+1,5%), le indicazioni sono favorevoli. L’industria, infatti, cresce per il quarto trimestre consecutivo, stando ai numeri riportati.

    A livello complessivo continuano a registrarsi differenze ancora troppo evidenti tra grandi e piccole industrie: se infatti per le imprese più grandi, quelle oltre i 20 addetti, il credito è ormai da tempo in risalita (otto trimestri consecutivi in crescita), per le Pmi accade esattamente l’opposto, con una frenata del 3%, ormai standard da almeno tre anni. La sfida è quella di indicare alle Pmi quali possono essere tutte le opportunità mirate a favorire il loro sviluppo. Negli ultimi anni nuovi strumenti di finanziamento sono apparsi sul mercato e molti di questi possono costituire ottime soluzioni anche per imprese di piccole-medie dimensioni, con programmi diversificati di investimento e di crescita.

    I segnali di miglioramento del sistema sono però evidenti. Il rapporto tra sofferenze e impieghi in Lombardia è in calo di quasi un punto rispetto al trimestre precedente, scendendo a quota 12,9%. Incidenza delle sofferenze peraltro in calo anche in Piemonte (da 15,6% a 14,5%), in Veneto (da 16,4% a 15,1%) e in Emilia Romagna (da 17,3% a 16,4%), anche se è proprio la Lombardia a realizzare la performance migliore. Ancora più interessante è l’osservazione dei flussi, cioè la velocità di generazione di nuovi crediti problematici. Il tasso d’ingresso in sofferenza in Lombardia si conferma in attenuazione al 2,6% (dal 2,8% del terzo trimestre 2016), medie tuttavia trainate verso l’alto dalle costruzioni, dove per la Lombardia il valore schizza al 7,4%.

    Sostanziale anche la diminuzione dei fallimenti: sono 1.852 le nuove procedure in Lombardia nei primi nove mesi del 2017, in diminuzione del -12,5% rispetto allo stesso periodo del 2016.

    Altro elemento chiave è il rafforzamento del sistema, come evidenziato dall’indice di solidità elaborato da Cerved group, che sintetizza la probabilità di default delle imprese. A settembre 2017 il tessuto produttivo lombardo risulta più solido rispetto all’anno precedente, con una quota di imprese in area di che sale al 61,2% (59,8% un anno prima).

    La Lombardia si contraddistingue inoltre per la percentuale maggiore di upgrade (imprese che hanno migliorato la propria classe di rischio, pari al 29,1%) e la più bassa di downgrade (imprese che l’hanno peggiorata), pari al 25,7%.

    A questi dati, sostanzialmente tecnici ed economici, si aggiungono quelli inerenti alle start up nel territorio lombardo. Rispetto al terzo trimestre 2017 le start up innovative della Lombardia sono aumentate ben oltre il 9%, passando da 1793 a 1959 attività. Una percentuale superiore di circa 3 punti rispetto alla crescita media nazionale che si ferma al 6,8 %, con la provincia di Milano che registra un incremento di oltre il 10 %. E il trend positivo per la Lombardia continua anche nel 2018, visto che secondo i dati del Registro Imprese nel 2018 sono già nate più di cento nuove startup.

  • Quale futuro…

    Più di una volta mi viene chiesto quale potrebbe essere il futuro migliore e soprattutto  attraverso quali strategie economiche e politiche si potrebbero assicurare degli scenari economici futuri positivi. Certamente non con i programmi elettorali che dei mediocri politici stanno presentando in questa vergognosa campagna che rappresenta l’immagine di un declino culturale al quale sembra non esserci fine né limite.

    Tutte le ricette e riforme proposte dai vari leader politici non tengono infatti in alcun conto le eventuali reazioni del mercato finanziario nel quale noi giochiamo il ruolo sempre più imbarazzante di debitori, ormai sempre più insolventi. In questo senso infatti va ricordato che ai 313 miliardi di nuovo debito aggiuntivo rispetto all’inizio della crisi finanziaria italiana del novembre 2011 i governi che si sono succeduti alla guida del paese hanno avuto anche l’ardire di utilizzare fondi per 55 miliardi assolutamente fuori bilancio, come certificato dalla Corte dei Conti. Può sembrare

    Paradossale, tuttavia qualsiasi sia la scelta del governo futuro risulterà fondamentale assicurare i mercati finanziari i quali in questo modo potranno continuare a finanziare il nostro debito.

    Uno scenario politico mediatico talmente imbarazzante e disarmante che coinvolge anche personalità definite “tecniche”, le quali, diventati personaggi di talk show, propongono il loro ennesimo libro che dovrebbe rappresentare il compendio assoluto delle ricette per comprendere il passato ma mai le soluzioni per affrontare il futuro. Ovviamente poi in questo contesto dominato dalla questione dell’immigrazione legata artificiosamente al calo della natalità nessuno di questi esponenti politici si preoccupa di prendere in considerazione il vero problema italiano degli ultimi  anni rappresentato dall’esodo di 115.000 laureati e diplomati in cerca di un contratto come una retribuzione rispondente alle proprie qualifiche. Questi ormai sono stati dimenticati e considerati assolutamente sacrificabili.

    Oggi tuttavia, a differenza di quanto sia successo negli ultimi anni, abbiamo due esempi che ci indicano quale potrebbe essere la via più corretta per assicurare due tipologie di scenari diversi tra loro ma entrambi possibili e sicuramente più realistici di quanti proposti da personaggi politici da avanspettacolo.

    In modo assolutamente legittimo il CDA di Italo ha deciso di vendere il 100% delle proprie azioni ad un fondo americano invece di decidere per un passaggio ed una quotazione alla Borsa di Milano.

    Questa  scelta assolutamente legittime determina come un altro asset infrastrutturale importante venga ceduto a soggetti esteri i quali giustamente hanno tutto l’interesse a ricavarne un Roe  immediato e rendere vantaggioso per i propri associati l’investimento stesso, in particolare nell’ottica della liberalizzazione completa tra due anni, come stabilito dall’Unione Europea.

    L’ingresso di Italo ha avuto certamente il merito di aprire una nuova fase del trasporto ferroviario costringendo Trenitalia a migliorare i servizi ad un prezzo più concorrenziale. Tuttavia va ricordato che tanto Italo quanto Trenitalia abbiano goduto di investimenti pubblici per l’alta velocità di oltre 32 miliardi. Il che, tra l’altro, aprirebbe una nuova questione relativa alla produttività di tale spesa pubblica. Il rapporto infatti che emerge nel settore dell’alta velocità e che vede 32 miliardi di spesa pubblica ottenere 2 miliardi di investimenti privati, quindi con un rapporto 16 a 1, risulta assolutamente insostenibile.

    Tuttavia in qualsiasi posizione si ponga il compratore estero è evidente che nelle strategie di sviluppo economico del nostro paese, che passano inevitabilmente anche per la gestione infrastrutturale, si sia perso un altro fattore strategico, dimostrando ancora una volta di non aver compreso come nelle politiche economiche di sviluppo di un paese gli asset infrastrutturali abbiano  la funzione di collante e  di tessuto connettivo al fine di diventare veri e propri fattori competitivi per il sistema economico nazionale in un mercato assolutamente concorrenziale e competitivo.

    Questa legittima decisione prova e dimostra come buona parte della classe dirigente non abbia alcuna visione e soprattutto competenza per comprendere il valore strategico di determinate scelte di mercato e soprattutto delle loro ricadute all’interno di un  sistema economico complesso come quello italiano.

    Viceversa, e per fortuna, la seconda vicenda presenta un esito decisamente diverso quanto positivo e  soprattutto apre un altro scenario futuro anche se con  un peso specifico economico inferiore.

    Questa seconda vicenda vede come protagonista Fabrizio Zanetti, imprenditore trevigiano, il quale con il proprio colosso della  Hausbrandt ha deciso di finanziare la campagna pasquale dell’azienda veronese Melegatti (in crisi per una gestione scellerata da parte dell’azionariato di  maggioranza) con l’obiettivo di acquisirla in un secondo momento. Un imprenditore privato quindi ancora una volta dimostra come dietro a molte aziende di successo, che tuttavia non ottengono il favore televisivo, si possano trovare una proprietà, un management, quadri, impiegati ed operai che concorrono al successo nazionale ed internazionale delle stesse imprese.

    Tornando alla domanda iniziale che ogni tanto mi viene posta, cioè quale potrebbe o dovrebbe risultare  lo scenario futuro migliore per la nostra economia italiana che possa assicurare un livello di reddito sufficiente, la mia risposta risulta legata essenzialmente all’attività di imprenditori come Zanetti. Altrettanto importante  sarà il supporto della politica che questi imprenditori riusciranno ad ottenere unito ovviamente ad un’attenzione del sistema bancario che invece sta abbandonando ancora una volta le piccole-medie aziende. Queste ultime si presentano come il modello futuro e sintesi felice di persone e professionalità che operano quotidianamente per il raggiungimento degli obiettivi di bilancio e che assicurano lavoro di buona qualità e retribuzioni adeguate.

    Tale tipologia di aziende e di imprenditori non ottengono alcun riscontro presso i grandi media  perché il loro obiettivo non risulta quello di apparire o di diventare icone ma quello di rendere la propria attività sempre più competitiva.

    Tornando quindi alla questione iniziale si potrebbe concludere che il futuro del complesso sistema economico nazionale, che rappresenta la base per qualsiasi benessere politico e sociale, dipenderà molto dal supporto che la politica assieme al sistema bancario sapranno offrire a queste nuove tipologie di aziende le quali riescono attraverso la propria specificità a diventare poli aggreganti di nuove realtà industriali. Rielaborando e attualizzando  in questo modo il concetto di

    “distretti industriali “, la cui nuova definizione ed operatività può sicuramente determinare ottimi risultati economici ed occupazionali anche se composta da realtà industriali logisticamente non limitrofe.

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