Piano piano stanno emergendo i dati relativi al 2023, non solo afferenti la crescita economica ma soprattutto rispetto all’andamento dell’inflazione la quale, va ricordato, determina comunque un impoverimento, cioè una perdita di valore di tutti gli asset, dal risparmio agli immobili del Paese.
Il dato generale parla di un aumento dell’inflazione del +5,7% accolto, oltretutto, con entusiasmo dal governo. Il dato veramente allarmante, però, riguarda quello relativo all’andamento dei prezzi alimentari che segna un +9,2% il quale determina sostanzialmente un crollo dei consumi a retribuzioni sostanzialmente costanti. Le vendite al dettaglio a dicembre staccano di un -0,1% in valore e -0,5% in volume su novembre, ed ancora di un +0,3% in valore e -3,2% in volume su base annua. Nel 2023, infine, ad una crescita +2,8% in valore corrisponde un drammatico -3,7% in volume rispetto all’anno precedente.
Ecco quindi spiegate con pochi dati le conseguenze del fenomeno inflattivo che si manifesta con una maggiore spesa in valore alla quale corrisponde una diminuzione nei volumi.
La crescita quasi doppia dell’inflazione nel settore alimentare è determinata anche dall’effetto devastante della sospensione degli sconti sulle accise per i carburanti i quali incidono molto di più nei costi dei trasporti di altri beni a maggiore valore aggiunto.
In questo contesto quindi il carrello tricolore e la diminuzione del cuneo fiscale non hanno determinato, a differenza di quanto affermato dal ministro Urso, nessun effetto se non addirittura hanno peggiorato la situazione.
La stessa inflazione, da troppi ancora oggi considerata come un fattore competitivo e di sostegno alla crescita delle nostre esportazioni, non ha conseguito gli effetti desiderati, come dimostrano gli ultimi dati relativi all’export dell’ultimo trimestre ed ancora di più quelli recenti del 2024 (https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/pelletteria-la-frenata-del-lusso-allarme-rosso-per-il-distretto-d4cfd74c).
Questi numeri di economia reale stridono con le affermazioni del governo in carica tanto per la battaglia contro l’inflazione quanto per la presunta crescita economica. Si pensi, infatti, al medesimo effetto nel calcolo del Pil del 2023 il quale segna un segno positivo solo per l’aumento dei prezzi in quanto viene calcolato a prezzi correnti, per di più drogato dall’effetto dei finanziamenti a debito del PNRR.
In questo contesto di estrema difficoltà dei cittadini e delle imprese, quindi, risulterebbe vitale per la stessa sopravvivenza di un livello di vita decente il totale abbandono di determinati capitoli di spesa quali non garantiscono l’effetto immediato di benessere per i cittadini.
L’annullamento del faraonico progetto del ponte sullo Stretto di Messina, per esempio, come la rinuncia a determinati fondi destinati alla realizzazione di opere urbanistiche finanziate con il PNRR rappresenterebbero una delle strategie che un buon padre di famiglia adotterebbe in un momento di crisi piuttosto che continuare a ricorrere al debito ormai arrivato alla spaventosa cifra di 2.864 miliardi (quasi mille in più dal novembre 2011 quando segnava 1.987 miliardi il debito pubblico).
Gli ultimi dodici anni (2012-2024) hanno dimostrato come l’aumento della spesa pubblica e del debito non abbiano determinato nessun effetto positivo. Queste riduzioni di spesa pubblica dovrebbero parallelamente corrispondere a delle riduzioni sulle accise di carburanti e non tanto del cuneo fiscale quanto dell’IVA.
Tutte le politiche degli ultimi trent’anni hanno determinato congiuntamente un impoverimento del reddito disponibile di oltre il -2,7% per i cittadini italiani a fronte di una crescita in Germania del +34,7 ed in Francia del +27,2.
Sarebbe un atto di estrema intelligenza dimostrarsi in grado di comprendere come sia arrivato il momento di cambiare strategie economiche, ritornando a considerare come centrale il sostegno alla domanda interna e, contemporaneamente, supportare la competitività delle imprese, non tanto attraverso la compressione dei salari ma con un miglioramento dei servizi offerti dalla macchina burocratica e con una pressione fiscale meno opprimente.
Questi piccoli numeri definiscono senza ombra di dubbio il fallimento di gran parte della classe politica di economisti ed accademici che si sono succeduti negli ultimi trent’anni anni alla guida del nostro Paese e che ancora oggi stanno facendo pagare ai cittadini normali quella che, per non dire di peggio, è stata la loro incompetenza.