inflazione

  • L’inflazione, questa entità negata

    Piano piano stanno emergendo i dati relativi al 2023, non solo afferenti la crescita economica ma soprattutto rispetto all’andamento dell’inflazione la quale, va ricordato, determina comunque un impoverimento, cioè una perdita di valore di tutti gli asset, dal risparmio agli immobili del Paese.

    Il dato generale parla di un aumento dell’inflazione del +5,7% accolto, oltretutto, con entusiasmo dal governo. Il dato veramente allarmante, però, riguarda quello relativo all’andamento dei prezzi alimentari che segna un +9,2% il quale determina sostanzialmente un crollo dei consumi a retribuzioni sostanzialmente costanti. Le vendite al dettaglio a dicembre staccano di un -0,1% in valore e -0,5% in volume su novembre, ed ancora di un +0,3% in valore e -3,2% in volume su base annua. Nel 2023, infine, ad una crescita +2,8% in valore corrisponde un drammatico -3,7% in volume rispetto all’anno precedente.

    Ecco quindi spiegate con pochi dati le conseguenze del fenomeno inflattivo che si manifesta con una maggiore spesa in valore alla quale corrisponde una diminuzione nei volumi.

    La crescita quasi doppia dell’inflazione nel settore alimentare è determinata anche dall’effetto devastante della sospensione degli sconti sulle accise per i carburanti i quali incidono molto di più nei costi dei trasporti di altri beni a maggiore valore aggiunto.

    In questo contesto quindi il carrello tricolore e la diminuzione del cuneo fiscale non hanno determinato, a differenza di quanto affermato dal ministro Urso, nessun effetto se non addirittura hanno peggiorato la situazione.

    La stessa inflazione, da troppi ancora oggi considerata come un fattore competitivo e di sostegno alla crescita delle nostre esportazioni, non ha conseguito gli effetti desiderati, come dimostrano gli ultimi dati relativi all’export dell’ultimo trimestre ed ancora di più quelli recenti del 2024 (https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/pelletteria-la-frenata-del-lusso-allarme-rosso-per-il-distretto-d4cfd74c).

    Questi numeri di economia reale stridono con le affermazioni del governo in carica tanto per la battaglia contro l’inflazione quanto per la presunta crescita economica. Si pensi, infatti, al medesimo effetto nel calcolo del Pil del 2023 il quale segna un segno positivo solo per l’aumento dei prezzi in quanto viene calcolato a prezzi correnti, per di più drogato dall’effetto dei finanziamenti a debito del PNRR.

    In questo contesto di estrema difficoltà dei cittadini e delle imprese, quindi, risulterebbe vitale per la stessa sopravvivenza di un livello di vita decente il totale abbandono di determinati capitoli di spesa quali non garantiscono l’effetto immediato di benessere per i cittadini.

    L’annullamento del faraonico progetto del ponte sullo Stretto di Messina, per esempio, come la rinuncia a determinati fondi destinati alla realizzazione di opere urbanistiche finanziate con il PNRR rappresenterebbero una delle strategie che un buon padre di famiglia adotterebbe in un momento di crisi piuttosto che continuare a ricorrere al debito ormai arrivato alla spaventosa cifra di 2.864 miliardi (quasi mille in più dal novembre 2011 quando segnava 1.987 miliardi il debito pubblico).

    Gli ultimi dodici anni (2012-2024) hanno dimostrato come l’aumento della spesa pubblica e del debito non abbiano determinato nessun effetto positivo. Queste riduzioni di spesa pubblica dovrebbero parallelamente corrispondere a delle riduzioni sulle accise di carburanti e non tanto del cuneo fiscale quanto dell’IVA.

    Tutte le politiche degli ultimi trent’anni hanno determinato congiuntamente un impoverimento del reddito disponibile di oltre il -2,7% per i cittadini italiani a fronte di una crescita in Germania del +34,7 ed in Francia del +27,2.

    Sarebbe un atto di estrema intelligenza dimostrarsi in grado di comprendere come sia arrivato il momento di cambiare strategie economiche, ritornando a considerare come centrale il sostegno alla domanda interna e, contemporaneamente, supportare la competitività delle imprese, non tanto attraverso la compressione dei salari ma con un miglioramento dei servizi offerti dalla macchina burocratica e con una pressione fiscale meno opprimente.

    Questi piccoli numeri definiscono senza ombra di dubbio il fallimento di gran parte della classe politica di economisti ed accademici che si sono succeduti negli ultimi trent’anni anni alla guida del nostro Paese e che ancora oggi stanno facendo pagare ai cittadini normali quella che, per non dire di peggio, è stata la loro incompetenza.

  • Il finto e colpevole pensiero liberale

    Il risultato finale di uno scolastico pensiero liberale emerge limpido dalla semplice verifica dei dati economici. Il consuntivo delle “italiche” liberalizzazioni che hanno semplicemente trasferito monopoli statali a complessi interessi privati nell’ultimo decennio sono presto elencati. Costi a carico dell’utenza nell’ultimo decennio: energia elettrica +240%, gas +65%, acqua +54%, rifiuti +23% (*). Contemporaneamente le retribuzioni registrano un tasso di crescita del +11,5%.

    Un modo semplice ed elementare per comprendere per quale motivo negli ultimi trent’anni il reddito disponibile in Italia sia complessivamente diminuito del -3% mentre in Germania risulti cresciuto del +34,7% ed in Francia di oltre il 27% https://www.ilpattosociale.it/attualita/lappropriazione-indebita-del-termine-liberali/.

    Il mondo reale sconosciuto agli stessi scolastici promotori del liberalismo senza regole che hanno infestato le istituzioni nazionali dimostra quanto sia il danno economico e patrimoniale che questa risibile “scuola di pensiero” ha arrecato al nostro Paese, riducendo, in più, l’Italia a recitare, nella tragedia teatrale europea, il ruolo dell’Argentina. Il nostro sistema economico è tenuto in piedi paradossalmente dalla moneta unica (euro), perché se così non fosse avremmo gli stessi tassi di interesse (90%) dell’Argentina che opera con la propria valuta.

    Il Paese è stato depredato delle più importanti infrastrutture indivisibili (**) (autostrade, energia etc) in nome di un finto pensiero liberale assolutamente diverso da quello applicato in Svizzera e in Germania dove, solo per offrire un esempio, le autostrade sono di gestione pubblica. In questi paesi le infrastrutture e il loro efficientamento rappresenta un fattore fondamentale finalizzato alla crescita della competitività dell’intero paese.

    Nel nostro, invece, sono diventate, con un’evidente complicità del sistema politico, occasione di speculazioni a danno dell’utenza e del Paese.

    In questo contesto, basti ricordare come lo stesso ex primo ministro del governo conservatore Boris Johnson in Gran Bretagna abbia rinazionalizzato le ferrovie britanniche.

    Dopo una approfondita ricerca era emerso, non senza imbarazzi, come la liberalizzazione delle ferrovie britanniche avesse determinato un aumento del costo dei biglietti unito ad un peggiorato servizio reso ai viaggiatori https://www.luciferonline.it/2021/06/21/il-ritorno-di-british-railway-ed-il-silenzio-liberale/

    Emege molto difficile trovare strategie che assicurino uno sviluppo, specialmente a livello industriale, senza adottare un vero pensiero politico liberale che abbia come prospettiva l’efficentamento in termini qualitativi e di costi per l’utenza delle infrastrutture.

    Molto lontano, quindi, dalla smobilitazione di monopoli statali a favore di interessi privati invece di favorirne un accesso sulla base del principio della concorrenza.

    (*) Fonte Il Sole 24 Ore

    (**) I servizi di accesso dovrebbero invece essere oggetto di liberalizzazioni (p.e. Telepass)

  • L’inflazione green

    Mentre negli Stati Uniti la corsa dall’inflazione sembra rallentare (+5%), tanto è vero che la Fed probabilmente aumenterà di soli 25 punti il tasso di interesse, in Italia (+8,3% e nel settore alimentare +11%) ed in Europa (+7,4%) l’inflazione rialza la testa.

    Non è il solo dato allarmante in quanto il calo dei consumi si attesta ad oltre il -5% nel settore alimentare, come le due consecutive flessioni dalla produzione industriale (-2.3% sul 2022). Diminuzioni importanti le quali, tuttavia, non determinano alcuna ripercussione relativa ad un conseguente abbassamento dei prezzi imputabile proprio ad una flessione della domanda.

    Ancora una volta, quindi, l’inflazione, a differenza di quanto potessero credere i titolari delle banche centrali ma soprattutto la Bce, non era determinata da una crescita della domanda aggregata (in Europa) mentre negli Stati Uniti sicuramente, in quanto la sua flessione attuale non ne determina alcuna diminuzione. Basti ricordare come anche in Germania la riduzione degli acquisti abbia raggiunto il -8,3% contro la quale il governo si sta attivando con delle politiche di sostegno al reddito.

    Uno degli ulteriori fattori preoccupanti relativo all’economia e alla sua comprensione, viene fornito dal costo dei noli marittimi che in un anno è passato da 16.000 dollari nel 2022 a meno di 2.000 nel 2023.

    All’interno di un’economia globale rappresenta sostanzialmente l’arresto dei flussi commerciali soprattutto per quanto riguarda i beni intermedi.

    L’inflazione, quindi, all’interno di un mercato con una domanda complessiva in flessione, si conferma comunque come assolutamente impermeabile alle politiche monetarie e alle fluttuazioni della domanda e dell’offerta. Uno scenario che ci riporta alle dinamiche dei mercati globali all’interno dei quali i postulati economici, tanto cari al mondo politico ed accademico, hanno perso ogni valore e soprattutto capacità di incidere sull’andamento economico complessivo.

    Andrebbe ricordato, infatti, come investire invece cocciutamente in un unico settore come quello edilizio in Italia o, peggio ancora, in Europa nella ipotetica transizione Green, rappresenti la condizione ideale per trasferire le aspettative di inflazione dal mercato singolo ai mercati in generale come “sentiment”.

    In altre parole, invece di combattere gli effetti della crisi economica attraverso un intervento complessivo forse meno incisivo sotto il profilo finanziario, ma in grado di coinvolgere l’intero settore economico ed industriale, come quello dei servizi attraverso, per esempio, occorrerebbe una riduzione dei carichi fiscali.

    Si è deciso, in preda ad un reale delirio ideologico, di investire solo ed esclusivamente nel settore di un’ipotetica transizione Green. Questa, oltre a essere irraggiungibile nei tempi, tuttavia ha determinato la creazione di aspettative di inflazione per tutti i settori economici ed ovviamente creato le condizioni per fenomeni speculativi.

    Non esistono, infatti, altre giustificazioni se non legate alla esplosione dei costi delle terre rare e di quanto legato al singolo settore, espressione di un incremento esponenziale della domanda proprio come limpida conseguenza dell’ideologia ambientalista adottata dall’Unione Europea.

    La responsabilità, quindi, di questa impennata dell’inflazione dovrebbe essere attribuita proprio al fenomeno settoriale della transizione Green, in più in Italia con il bonus 110%, che ha escluso tutti gli altri settori in difficoltà facendone pagare però l’inflazione come espressione della crescita esponenziale di un singolo settore.

    Per quanto si possa accreditare una certa impreparazione generale alla classe dirigente europea, accecata da un furore ideologico senza precedenti, sulla base della quale si pongono in secondo piano le aspettative legittime di una crescita economica dopo due anni di pandemia e in piena guerra ucraina, i dubbi relativi anche ad una onestà intellettuale diventano legittimi.

    Il fallimento clamoroso di questa politica viene espresso dalla terrificante sintesi del calo dei consumi assieme all’aumento dell’inflazione.

    In altre parole, ci si avvicina ad una possibile stagflazione già ora comunque imputabile all’ideologia espressa da una ipotetica transizione ecologica.

  • La diversa velocità dell’inflazione

    Molti organi ufficiali governativi, uniti ad altrettanti media nazionali, sottolineano, con malcelata soddisfazione, la minima riduzione del debito pubblico a gennaio 2023, pari a 2756 miliardi di euro (in flessione rispetto al dicembre 2022 che segnava 2762 miliardi), ma in forte aumento rispetto allo stesso periodo del 2022 con una crescita di oltre 41 miliardi di euro.

    Questa risibile soddisfazione è assolutamente fuori luogo e tende, con colpevole miopia, a coprire il diverso effetto dell’inflazione sul valore nominale del PIL e del debito pubblico legato semplicemente alla diversa modulazione della sua velocità.

    Il fatturato, infatti, si adegua immediatamente al crescere dei costi, con conseguenti adeguamenti dei prezzi, quindi il Pil  a prezzi correnti cresce (ma non quello a prezzi costanti) migliorando il rapporto con il debito pubblico, anch’esso crescente. Il miglioramento, ma si ricorda solo temporaneo, del rapporto debito pubblico/Pil nasce perciò solo dalla diversa velocità di adeguamento del debito rispetto al PIL generato dall’andamento della spirale inflattiva.

    Come già evidenziato prima, mentre per i prezzi la maggiore crescita legata ai costi in salita generati dall’inflazione risulta immediato e seriale, l’effetto dell’inflazione per i costi del servizio al debito pubblico, anch’esso sempre in crescita, tende a manifestarsi solo con l’emissione a 12, 18 o 24 mesi dei titoli del debito pubblico che prezzano un mercato dominato dall’inflazione e dalle stesse aspettative, e quindi con tassi crescenti.

    Sembra incredibile, infatti, come a questa soddisfazione assolutamente ingiustificata ed ingiustificabile, in quanto fornisce un alibi per un ulteriore aumento della spesa pubblica, di un migliorato rapporto tra debito pubblico e PIL, non si prenda nella giusta considerazione come i costi del servizio al debito per il 2025 potranno arrivare a cento (100) miliardi all’anno di soli interessi sul debito pubblico.

    Se nel 2022 lo Stato italiano ha incassato 609 miliardi di tasse, e mantenendosi basso il tasso di crescita della nostra economia (*), mistificato solo da un maquillage di genesi inflattiva , la spesa per il servizio addebito si potrebbe avvicinare quindi  al 15-18% delle tasse incassate e al 5% del PIL. Senza considerare come la perdita di potere d’acquisto, in particolar modo per le classi della popolazione meno abbienti, seguita da un aumento esponenziale dei costi dei finanziamenti per le imprese e dei mutui per le famiglie, sempre legati alla crescita dell’inflazione, rappresenta un serio problema per una crescita strutturale della nostra economia.

    In altre parole, l’inflazione, oltre ad una pia ed illusoria soddisfazione per un miglioramento temporaneo del rapporto debito PIL, rappresenta la peggiore tassa occulta. Viceversa, viene accolta con favore dalle classi governative prive di visione a medio e lungo termine, in quanto aumenta le entrate fiscali (Fiscal Drag +54 miliardi).

    La diminuzione del potere d’acquisto della popolazione che assiste alla metamorfosi delle banconote in euro al valore di quelle del monopoli renderebbe necessaria una manovra fiscale per ridurre l’impatto della crescita dei prezzi. L’inflazione invece illude una classe politica incapace di procedere nella giusta direzione.

    (*) Per il 2023 +1% obiettivo del governo mentre il Fmi ci accredita un +0,7% e +0,8% nel 2024

  • Sui supermercati pesa l’incognita inflazione, Eurospin regina degli utili

    Dopo un 2022 di crescita l’inflazione è la grande incognita per la Gdo alimentare. L’ultimo osservatorio sul settore, targato Area Studi Mediobanca, se per l’anno scorso indica una crescita delle vendite del 6,7% con il calo però dei margini, per il 2023 – con gennaio in flessione – mette in guardia sulla tenuta della domanda.

    La corsa dei prezzi rischia, infatti, di erodere il potere d’acquisto pur con stime, anche quest’anno, di una crescita delle vendite sebbene più limitata e pari al 2,8%. Dalla studio emerge poi come la ricerca di maggiori opportunità di risparmio da parte dei consumatori spinga, in particolare, i prodotti a marchio del distributore che raggiungono nel 2022 vendite pari a 12,8 miliardi (+9,4% sul 2021) e il canale dei discount proiettati oltre il 22% del mercato (17,4% nel 2017). Prosegue poi la crescita del canale on-line (+10,5% sul 2021) ma comunque fermo intorno al 3% del fatturato complessivo. La concentrazione del mercato italiano è stabile: la market share dei primi 5 retailer è pari al 57,1%, restando al di sopra di quella della Spagna (49,8%), ma lontana da Paesi Bassi, Francia, Gran Bretagna e Germania.

    Altro dato che è emerge è che motore del settore è la distribuzione organizzata: il relativo peso è passato dal 33,3% del 2017 al 37,9% nel 2021. Eurospin svetta, invece, per Roi (il ritorno sugli investimenti) a livello internazionale: è la seconda dietro la statunitense Target e davanti al colosso WalMart. Ma soprattutto è la regina in Italia per utili cumulati tra il 2017 e il 2021 con 1.286 milioni. Un risultato che le consente di superare Esselunga (1.195 milioni). A poca distanza VéGé a 1.078 milioni e Selex (1.056 milioni). Coop Alleanza 3.0 è, infine, la maggiore cooperativa italiana con vendite nel 2021 pari a 4.301 milioni.

  • La resistenza “monetaria” dell’inflazione

    Marzo 2023: https://www.ilsole24ore.com/art/istat-rientro-inflazione-piu-del-previsto-AE6QJ53C

    Risulta incredibile come ci si possa ancora oggi stupire della resistenza del fenomeno inflattivo ad oltre un anno e mezzo dal sua primo palesarsi. Chissà se nella attuale analisi come in quelle precedenti si sia mai presa nella dovuta considerazione l’origine stessa dell’aumento dei prezzi in quanto questa “inaspettata” resistenza dello stesso fenomeno alle politiche monetarie restrittive varate tanto dalla Fed quanto dalla Bce (*) dipende ovviamente anche dalla sua Genesi.

    Febbraio 2022: https://www.ilpattosociale.it/attualita/le-due-diverse-genesi-inflattive/

    Ad oltre un anno da una imprescindibile ma omessa analisi dei principali organi finanziari ed istituzionali relativa alla stessa natura dell’inflazione si rileva, con malcelato stupore e disappunto per la sua resistenza espressa dagli organi sopracitati, l’ennesima conferma del senso di mancanza di visione di insieme della classe dirigente e politica italiana ed europea.

    (*) incapace di tarare la politica monetaria europea proprio in ragione della propria diversa genesi rispetto a quella statunitense

  • L’inflazione reale

    Il nostro Paese rappresenta l’unico all’interno della Unione Europea a subire un tasso di inflazione a doppia cifra: +11,6% mentre la Germania segna +8,7%, la Francia +5,2% e la Spagna +6,7%.

    Questo dati, o meglio il loro semplice confronto, dimostrano senza ombra di dubbio come le strategie economiche adottate dagli ultimi tre governi (Conte2, Draghi e Meloni) si siano irrimediabilmente dimostrate meno performanti di quelle adottate dai partner europei. E non solo a causa delle minori risorse disponibili legate al rapporto debito pubblico/Pil Italiano, ma soprattutto alla banale adozione della moltitudine di Bonus fiscali come agenti deflattori.

    Una ricerca statistica più approfondita (*) ha dimostrato, poi, come il tasso di inflazione reale si attesti piuttosto al +18,2%, confermando la pesantezza della situazione italiana, in particolar modo per le fasce a medio e basso reddito. Inoltre, le ultime rilevazioni relative ai consumi dimostrano, ancora una volta, la perversa dinamica di mercato attribuibile all’effetto inflattivo per il quale a fronte di notevoli diminuzioni di acquisti in volumi faccia riscontro un loro aumento in valore.

    In questo problematico contesto, e solo per offrire un esempio, la spesa alimentare relativa al 2022 registra in valore una crescita del +5,8%.

    Contemporaneamente, però, si manifesta una terribile flessione del -6,6% in volumi, in altre parole si è speso di più ma si è mangiato di meno con una inevitabile diminuzione della qualità della vita soprattutto per le fasce di cittadini meno abbienti.

    Un quadro generale cosi disastroso tra obiettivi programmatici e risultati conseguiti, se venisse applicato ad una azienda di mercato, determinerebbe la messa in discussione della strategia adottata dal Cda e dallo stesso management.

    Nello specifico si valuterebbe un immediato cambiamento di indirizzo strategico magari adottando una azione di “compensazione fiscale” finalizzata ad una immediata, anche se parziale, riduzione dell’impatto inflattivo sulla capacità di acquisto (**). Considerando, poi, a conferma del trend economico italiano, che la produzione industriale segna una preoccupante flessione del -3,9% e persino le anticipazioni relative al PIL di dicembre, pur se drogato nella sua parte nominale dall’inflazione, sembrerebbero di segno negativo.

    Il tutto mentre nel contesto europeo, tanto la Commissione europea che il Parlamento approvano una strategia “green” obbligatoria da applicare ai beni immobili la quale da una parte determina già ora una svalutazione immediata, anche in considerazione degli investimenti necessari ( si parla di 1.400 miliardi) per l’adeguamento alla  normativa europea, mentre dall’altra apre il nostro patrimonio immobiliare ad una strategia speculativa di dimensioni epocali che già ora vede in prima linea fondi privati e sovrani.

    La legittimità dell’azione degli ultimi governi non può certo essere messa in discussione, ma soprattutto di fronte a simili risultati la sua efficacia dovrebbe spingere tanto i vertici governativi quanto quelli politici ad una seria riflessione in ordine alle strategie adottate e ai disastrosi risultati conseguiti.

    Sarebbe un segnale di grande attenzione nei confronti dei propri cittadini che non troverà alcun riscontro.

    (*) https://www.milanofinanza.it/news/l-inflazione-effettiva-sale-al-18-3-single-e-disoccupati-i-piu-colpiti-come-neutralizzare-i-rincari-202302081251174751#Echobox=1675859974

    (**) si pensi al disastroso annullamento degli sconti fiscali per i carburanti

  • L’inflazione di genere: una nuova pagina

    La semplice rilevazione dei tassi di inflazione spesso non rende il quadro complessivo ma neppure quello specifico, e soprattutto non offre le coordinate necessarie nella elaborazione delle strategie per combatterne non solo i nefasti effetti ma soprattutto le ragioni scatenanti dell’aumento dei prezzi.

    Durante l’ultima rilevazione l’inflazione si è attestata al +11,9%, un dato che già indica chiaramente il livello di usura del potere di acquisto dei cittadini come quello della depatrimonializzazione dei risparmi nei depositi liquidi.

    A questa situazione si aggiungono altri dati, sempre relativi al tasso di inflazione, ma specifici per altri settori merceologici fondamentali nel tentativo di elaborazione di una strategia di contrasto. Nell’ambito dei beni alimentari si registra, infatti, un aumento annuale dei prezzi del +14,1% (*), ma con picchi di vera e propria esplosione inflattiva per l’olio di semi +64%, del burro con un +34% mentre la farina segna un +23%, vicina al riso ed alla pasta con un +22%.

    Una spirale inflattiva, che ha già determinato una riduzione generale dei consumi nell’anno in corso e che indurrà, solo per offrire uno scenario futuro, il 60% della popolazione ad una diminuzione della spesa natalizia per regali e alimentari.

    In questo complesso e problematico scenario andrebbe considerato come il settore alimentare, nello specifico, paghi, per sua stessa natura, una maggiore incidenza del costo del trasporto sul prezzo finale al consumatore.

    Nonostante questo settore fondamentale e primario sconti un tasso di inflazione già ora decisamente superiore rispetto a quello generale, ed il suo impatto sia decisamente maggiore in particolare modo per le famiglie con fasce di reddito inferiore, la scelta del governo in carica di diminuire gli sconti fiscali per il gasolio risulta quindi scellerata e con ripercussioni pericolose.

    Non è difficile immaginare come un ulteriore aumento dei costi di trasporto determinerà un rafforzamento “dell’inflazione alimentare” la quale ridurrà ulteriormente la capacità di acquisto specialmente per le fasce di reddito più basse.

    All’interno di un simile contesto, e con una pressione fiscale già attestata nel 2022 alla cifra record del 43,8% (**), un ulteriore incremento della medesima determinerà lo scenario ideale per una recessione economica senza precedenti, anche rispetto a quanto si verificherà per gli altri paesi della stessa Unione europea.

    L’inflazione, specialmente se esogena, cioè determinata da fattori esterni (impennata costi materie prime ed energetici determinate dalla pandemia e dalla guerra ucraina), può venire attenuta nei propri effetti solo attraverso una compensazione fiscale generale, magari anche solo parziale, ma mai con bonus parziali e tanto meno con una riedizione dei fallimentari Bonus familiari di genesi tremontiana.

    Viceversa, si aggiunge così una nuova pagina al libro “L’ analfabetismo economico” del nostro Paese alla cui realizzazione concorrono da oltre trent’anni indistintamente le classi politiche e governative italiane.

    (*) www.corrierecomunicazioni.it

    (**) Cgia di Mestre

  • L’inflazione e le politiche monetarie “flat”

    La seconda potenza economica mondiale, la Cina, ha ridotto i tassi di interesse come espressione di una strategia finalizzata ad offrire una nuova dotazione finanziaria alla crescita economica in progressivo rallentamento.

    La  strategia cinese nasce dalla consapevolezza e dalla  adozione del postulato economico che recita come solo perseguendo una crescita economica uno stato si dimostra in grado di sostenersi ed in primis garantire la spesa sociale.

    Viceversa, negli Stati Uniti, la Fed, dovendo fronteggiare una spirale inflazione endogena, cioè causata da una crescita interna ed avendo raggiunto il traguardo della piena occupazione (per ogni disoccupato ci sono disposizione due posti di lavoro) provoca inevitabilmente un aumento delle retribuzioni e dei prezzi.

    La massima autorità finanziaria, quindi, ha scelto di alzare i tassi d’interesse per raffreddare la spinta inflazionistica e contemporaneamente evitare la crescita  dei costi dei mutui immobiliari passati dal 12% della retribuzione media ad oltre il 20%.

    Emerge, così, evidente l’intenzione di non sottovalutare la possibilità di ritrovarsi nelle medesime condizioni economiche e finanziarie che portarono alla terribile crisi finanziaria dei sub prime.

    All’interno di questo contesto globale che esprime queste divergenti politiche economiche e monetarie dei due maggiori sistemi economici globali in Europa il presidente della Bce Laguarde ha scelto di alzare i tassi di interesse non tenendo in alcuna considerazione la specificità dell’inflazione europea.

    A differenza di quella statunitense, infatti, il fenomeno inflattivo europeo risulta di assoluta origine esogena,  quindi determinata dalla esplosione dei costi energetici e dalla minore reperibilità delle materie per la nostra industria di trasformazione la quale li acquista con difficoltà e a maggiori costi. Una deriva economica già ampiamente manifesta nel 2021 e quindi solo  in parte attribuibile, come invece si tende ad affermare, alla guerra in Ucraina.

    L’inflazione, va ricordato, rappresenta la tassa più discriminatoria in quanto colpisce soprattutto le fasce di reddito più basse essendo flat, cioè piatta. Prova ne sia la già evidente riduzione della spesa alimentare nel nostro Paese che fa segnare un -4,4%.

    La specificità europea, con una economia già in fortissima difficoltà, non viene presa in alcuna considerazione e la scelta di alzare i tassi di interesse senza alcuna compensazione fiscale finalizzata ad alleggerire l’impatto nei confronti degli operatori e dei consumatori risulterà responsabile  di un ulteriore rallentamento, se non di una vera e propria recessione economica dell’intero sistema industriale ed economico continentale. Gli strumenti finanziari necessari all’industria europea per avviare investimenti produttivi finalizzati ad un minimo di recupero della competitività determinata dall’esplosione dei costi energetici presenteranno infatti un costo maggiore e insostenibile soprattutto per il sistema industriale italiano formato dalle Pmi.

    Le politiche monetarie, di per sé, rappresentano da sempre una risposta tardiva a delle situazioni di mercato già evidenti e in forte evoluzione. La risposta della Bce, oltre ad essere tardiva, si dimostra anche assolutamente sbagliata ed offre il senso della assoluta lontananza dei vertici europei finanziari dalla realtà economica.

    Di fronte a due fenomeni economici sostanzialmente “flat”, come l’inflazione (1) accoppiata ad una politica monetaria restrittiva (2), i cui costi ricadranno sulle fasce più deboli  dei consumatori (1) e sulle aziende più esposte alla concorrenza estera (2), si dovrebbe affiancare una contemporanea strategia governativa in grado di adottare una politica di riduzione strutturale fiscale. Un alleggerimento fiscale generale il quale, per sua stessa definizione, garantirebbe maggiori vantaggi per le  fasce di reddito più basse piuttosto della attuale politica dei bonus fiscali.

    Contemporaneamente le stesse aziende italiane potrebbero recuperare una minima percentuale di competitività rispetto, per esempio, alle concorrenti francesi che hanno ottenuto un paracadute fiscale in relazione ai costi energetici (massimo +4%) ed anche con quelle statunitensi che si avvantaggiano di una bolletta energetica pari ad 1/7 di quella incombente sulle imprese italiane.

    Mai come in questo periodo difficile le soluzioni “flat” e semplicistiche si dimostrano assolutamente inconcludenti come le autorità politiche e finanziarie che le propongono.

  • La Fed è un pericolo pubblico

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ‘ItaliaOggi’ il 30 agosto 2022

    Come ogni anno, nell’ultima settimana di agosto l’attenzione del mondo della finanza internazionale è puntata sul seminario organizzato dalla Federal Reserve Bank di Kansas City nella cittadina di Jackson Hole tra le montagne del Wyoming. Il tema di quest’anno è «Riesaminare i vincoli su economia e politica», per cercare di far fronte all’inflazione galoppante e alla recessione incipiente. In altre parole alla stagflazione.

    Dal discorso del presidente della Fed, Jerome Powell, emerge la mancanza di ammissione degli errori fatti in passato. Invece, egli avverte che, per mettere sotto controllo l’inflazione, sarà necessario uno sforzo prolungato e doloroso per le famiglie e le imprese.

    Egli parla di alti tassi d’interesse per un periodo più lungo, sperando che «a un certo punto sarà opportuno rallentare il ritmo degli aumenti». Purtroppo, come sempre, gli effetti delle politiche monetarie della Fed si riverseranno su tutto il resto del mondo, in particolare sui Paesi emergenti e sull’Europa.

    Per capire sia la grave situazione sia la «pochezza» della visione e della politica del banchiere centrale è il caso di ricordare quanto disse nei due passati incontri di Jackson Hole. Nel 2021 si distinse per le affermazioni relative alla «temporaneità» dell’inflazione, che, secondo lui, sarebbe tornata sotto il fatidico, magico 2%. Un «wishful thinking», un pio desiderio.

    Nel 2020, invece, Powell affermò che avrebbe continuato ad acquistare asset fino a ottenere progressi sostanziali quali la massima occupazione e la stabilità dei prezzi. «La mia opinione, disse, è che il test di un nuovo progresso sostanziale sia stato soddisfacente per quanto riguarda l’inflazione». Un altro abbaglio. Oggi il bilancio della Fed è di 9.000 miliardi di dollari, con un aumento di circa 4.800 miliardi dal Covid del 2020.

    Nel discorso di qualche giorno fa, egli ha spiegato la crisi in corso negli Stati Uniti affermando che «l’alta inflazione attuale è il prodotto di una forte domanda e di un’offerta limitata». Ancora una volta l’abusata e semplicistica legge del mercato, dove domanda e offerta non trovano equilibrio. In questo modo si cercano delle spiegazioni e delle giustificazioni oggettive per coprire le politiche finanziarie «soggettive», cioè le decisioni e i comportamenti errati e tolleranti verso le speculazioni e le innumerevoli bolle del debito.

    La politica del tasso zero e degli acquisti di titoli attraverso i quantitative easing hanno gonfiato a dismisura il debito pubblico e privato. Siamo in una situazione peggiore di quella del 2008, con un’incipiente crisi finanziaria con effetti globali. Infatti, tutti gli strumenti di «gestione della crisi» sono già stati utilizzati!

    Powell ha affermato che, dalle crisi economiche dei passati cinquanta anni, ha imparato tre lezioni.

    La prima lezione è che «la banca centrale può e dovrebbe assumersi la responsabilità per raggiungere un’inflazione bassa e stabile». Troppo ovvia. Ci mancherebbe altro.

    La seconda lezione riguarda il fatto che «le attese pubbliche rispetto all’inflazione futura possono giocare un ruolo importante nel tracciare il percorso dell’inflazione nel tempo».

    Quando mancano i programmi e le politiche ancora una volta si ricorre alla psicologia più spicciola per rimpiazzare l’economia. Powell spera che non ci siano altri «grandi choc» e ricorda la Great Inflation del 1979 quando l’allora governatore della Fed, Paul Volcker, intervenne con alti tassi d’interesse. Dimentica, però, di dire che nel giugno 1981 il tasso era del 20%!

    La terza e ultima lezione sarebbe stare sul pezzo fino alla fine, a qualunque costo. Ricorda che nei 15 anni precedenti l’inizio degli anni Ottanta tutti i tentativi di contenere l’inflazione fallirono. In seguito, Volcker impose «una politica monetaria molto restrittiva per un lungo periodo». Prospettiva amara.

    Veramente l’ottimismo è poco. Ovviamente le tensioni geopolitiche tra gli Usa, la Cina e la Russia contribuiscono a ridurre ancora di più le speranze di affrontare insieme anche le grandi sfide economiche, finanziarie e monetarie globali. L’unico spazio operativo rimasto è il G20, che alcuni addirittura vorrebbero smantellare.

    Spazi enormi per l’Europa si aprono se vuole giocare a tutto campo il ruolo di pacificatore, da un lato e, dall’altro di riformatore del sistema economico, finanziario e monetario tra i Paesi del cosiddetto mondo occidentale e i Paesi degli altri continenti, a partire dalla Cina.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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