Investimenti

  • Enel programma investimenti per 190 miliardi fino al 2030

    Investimenti per 190 miliardi nel periodo 2021-2030, di cui 40 nei prossimi 3 anni. E’ con questa potenza di fuoco che il gruppo Enel si attrezza per affrontare le sfide future. Davanti c’è un “decennio pieno di opportunità”, ha spiegato l’a.d. Francesco Starace che affida al nuovo piano strategico triennale la “direzione per i prossimi 10 anni”. Al centro della strategia, l’accelerazione della transizione energetica, con l’obiettivo di fare del gruppo un protagonista nelle rinnovabili.

    Il nuovo piano 2021-23, presentato ai mercati e alla stampa, è corredato da una visione strategica decennale per cogliere al meglio i cambiamenti che caratterizzeranno i prossimi anni, dal crescente ruolo delle rinnovabili all’elettrificazione e digitalizzazione delle infrastrutture. Per farlo, il gruppo mobilita una maxi-mole di risorse al 2030: 160 miliardi di investimenti diretti (150 attraverso il modello ‘Ownership’, cioè in proprio, e altri 10 attraverso il modello ‘Stewardship’, cioè attraverso partnership), e altri 30 miliardi provenienti da terzi. Sull’orizzonte dei tre anni, investirà direttamente circa 40 miliardi (38 nel quadro del modello Ownership e 2 miliardi Stewardship), mobilitando altri 8 miliardi da terzi, con una crescita degli investimenti di circa il 36% rispetto al piano precedente. Solo per l’Italia, precisa il Cfo Alberto De Paoli, il nuovo piano prevede “14 miliardi di euro di investimenti”, dai 9 del precedente. L’obiettivo del piano è far crescere l’Ebitda ordinario ad un tasso annuo composto del 5-6% (a 20,7 e 21,3 miliardi di euro nel 2023) e l’utile netto ordinario ad un ritmo tra l’8 e il 10% (a 6,5-6,7 miliardi di euro nel 2023). Enel guarda anche agli azionisti, ridefinendo la politica dei dividendi, con un dividendo fisso per azione garantito e crescente nel triennio (+7% fino a 0,43 euro nel 2023): una “politica molto chiara e attrattiva che darà dei benefici ai nostri azionisti”, sottolinea Starace, “e questo sarà un vantaggio per noi, per la società e sarà un futuro molto luminoso per Enel”.

    E’ alle rinnovabili che viene dedicata una grossa fetta di questi investimenti: 70 miliardi in 10 anni che consentiranno di arrivare a circa 120 GW di capacità installata nel 2030, quasi tre volte quella attuale. Nei primi tre anni del piano, grazie a 17 miliardi di investimenti, la capacità installata da rinnovabili salirà a 60 GW (+33%). “Intendiamo diventare veramente protagonisti nelle rinnovabili con una presenza mondiale”, ha sottolineato Starace, che considera le rinnovabili “il futuro della produzione energetica” e punta a raggiungere una quota di mercato del 4% (da 2,5% attuale) in 10 anni. In parallelo, Enel spinge l’acceleratore anche sul processo di decarbonizzazione (la quota di produzione dal carbone scende già quest’anno al 7%, dal 28% del 2017), anticipando di 3 anni l’uscita dal carbone al 2027.

    Una grossa percentuale degli investimenti è poi destinata alle infrastrutture e reti, con un’attenzione particolare alla digitalizzazione. Un intervento che consentirà di aumentare gli utenti finali a circa 77 milioni nel 2023, digitalizzati al 64% con contatori intelligenti nel 2023 (da circa 74 milioni, digitalizzati al 60% nel 2020), per poi arrivare a oltre 90 milioni nell’arco di 10 anni, digitalizzati al 100% grazie all’uso dei contatori intelligenti. E parlando di reti, uno dei temi caldi resta Open Fiber, soprattutto dopo il pressing del governo per accelerare sulla rete unica. Starace, che vede nella missiva una “conferma” della bontà della scelta di creare Open Fiber, ha risposto in modo vago alle molte domande di analisti e stampa (monetizziamo non appena vediamo un’opportunità “in linea con il nostro interesse”, ha detto, forse è un bene uscire “se il prezzo è giusto e le condizioni sono quelle giuste”). Salvo poi rivelare, in un’intervista a Bloomberg Tv, che l’accordo potrebbe essere vicino: la vendita della nostra quota è “questione di settimane”, tanto che l’argomento prezzo è già stato superato e si è arrivati agli ultimi dettagli.

  • I nuovi investimenti ‘spaziali’ dell’UE

    L’Europa investirà in comunicazioni satellitari, esplorazione dello spazio e lancio dei missili alla luce dei rapidi progressi nel settore che stanno facendo Stati Uniti e Cina. A comunicarlo, in una intervista, Thierry Breton, commissario per il mercato interno.

    Lo storico lancio di due astronauti della NASA sulla navicella spaziale SpaceX Crew Dragon verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) a fine maggio è stato un campanello d’allarme per l’UE. Il volo, sforzo congiunto tra NASA e SpaceX di Elon Musk, ha segnato una nuova era per l’industria spaziale, essendo la prima volta in cui esseri umani hanno viaggiato in orbita, partendo dal suolo americano, da quando il programma Space Shuttle della NASA è terminato nel 2011.

    Sebbene l’Unione abbia il suo equivalente SpaceX, l’Arianespace, un lanciarazzi sviluppato dall’Agenzia spaziale europea (ESA), il suo primo volo è stato bloccato nel 2021 a causa delle nuove esigenze derivanti dalla pandemia di Coronavirus.

    “SpaceX ha ridefinito gli standard e Ariane 6 è un passo necessario, ma non l’obiettivo finale: dobbiamo iniziare a pensare ora ad Ariane 7”, ha affermato il Commissario che ha aggiunto che lo spiegamento dei satelliti di navigazione Galileo dell’UE verrà portato avanti per tre anni, fino al 2024, e che il nuovo sistema satellitare sarà “il più moderno al mondo”, poiché i satelliti potrebbero interagire tra loro e fornire un segnale.

    La speranza di Breton è che il bilancio a lungo termine, vale a dire il quadro finanziario pluriennale (QFP) per il 2021-2027, possa includere una quantità significativa di fondi per il settore spaziale e che è pronto a proporre 1 miliardo di euro del Fondo spaziale europeo per potenziare le startup.

    Tuttavia, investire nel futuro dell’industria spaziale sembra poco promettente, con l’Unione che sta concentrando gran parte della sua attenzione sull’attenuazione delle conseguenze economiche causate dalla pandemia di Coronavirus negli Stati dell’UE.

  • L’ambasciatore italiano a New Dehli invita a puntare sull’India

    L’India “si sta sforzando di trovare un equilibrio tra la tutela dell’economia e la tutela della salute dei cittadini: ha lanciato un piano da 2 milioni di dollari per aiuti umanitari e ha presentato un pacchetto di stimolo all’economia che mette in campo 266 milioni per puntare all’autosufficienza. Ma anche offrendo agli investitori internazionali riforme che renderanno il Paese ancora più competitivo”. Lo ha detto all’Ansa l’ambasciatore a New Delhi, Vincenzo De Luca, sottolineando che si tratta di “un’occasione da non perdere. Nonostante i numerosi squilibri interni, l’India costituisce un mercato dalle dimensioni interessantissime” anche per il Made in Italy.

    De Luca ha spiegato che l’intervento di stimolo messo in campo dal governo Modi rappresenta il 10% del Pil del Paese. Un pungolo – come spiegato dallo stesso esecutivo indiano – “che deve mirare alla ‘Atmanirbhar Bharat’ (la self-reliance) ovvero una rinascita che dovrà originare da risorse interne. Ma allo stesso tempo si è rivolto agli investitori esteri con lo slogan delle quattro ‘L’: ‘Land, Labour, Liquidity and Laws’, riforme che renderanno il Paese ancora più competitivo”. “E’ un’occasione da non perdere”, ha ribadito l’ambasciatore ricordando che l’economia indiana resta, nonostante l’impatto sul Pil della crisi causata dalla pandemia, in tenuta. E il ruolo di Delhi resta rilevante per la governance globale: membro del G20, “del quale assumerà la presidenza subito dopo di noi, nel 2022, ha risposto alla crisi del coronavirus rilanciando su molti piani la collaborazione internazionale”.

    In questo quadro i rapporti tra Italia e India “continuano nel segno del positivo rilancio degli ultimi tempi: sin

    dall’inizio del lockdown le autorità sanitarie e il Ministero degli Esteri ci hanno sostenuto in maniera encomiabile, permettendoci di far rimpatriare le centinaia di turisti bloccati, e offrendo ai connazionali, ammalati di coronavirus durante il viaggio, la migliore assistenza possibile”. Nelle ultime settimane – ha proseguito De Luca – “abbiamo implementato tutte le nostre relazioni istituzionali ed economiche: l’India segue con estrema attenzione e vicinanza gli sviluppi della crisi Covid-19 nel nostro Paese, e ci ha presi a modello per molte scelte. La telefonata del premier Modi al nostro presidente del Consiglio ne è la conferma”. In India, ha ricordato l’ambasciatore, “siamo a poco più di 119mila casi di positività al virus e a 3.508 decessi. Cifre contenute, se rapportate alle dimensioni della popolazione indiana, oltre un miliardo trecento milioni di persone. I dati dipendono, qui come ovunque, dal numero dei test, e sulle prossime settimane incombe l’incognita del possibile aumento per il movimento dei migranti interni, ma sinora il Paese è riuscito a contenere il virus”. Con il governo centrale, “che ha reagito con tempestività, proclamando il lockdown dal 24 marzo, quando i casi erano solo un centinaio, e adottando misure molto rigide”. “E’ stata una gestione molto positiva, che ha visto riconfermare la forte leadership del premier, con le opposizioni che sostanzialmente hanno sostenuto le scelte del governo, e che ha portato anche agli apprezzamenti dell’Oms”, ha aggiunto l’ambasciatore sottolineando, tra le novità, il fatto che “le decisioni sono prese in collaborazione tra centro e governatori, e le misure calibrate a seconda della gravità del contagio nelle varie zone, definite da colori diversi rosse, arancio, gialle e verdi”. “Sono fiero della capacità dimostrata” dall’Ambasciata italiana a Delhi durante la crisi: “siamo stati i primi, tra tutte le sede diplomatiche, a trasformarci in Digital Embassy”, ha concluso l’ambasciatore spiegando che “con questa scelta abbiamo mantenuto intatta l’operatività e i contatti con la comunità e le 600 aziende italiane; siamo riusciti inoltre a mantenere un rapporto fruttuoso, non solo con l’insieme del sistema Italia, ma con tutti gli interlocutori indiani”.

  • Putin si sta rafforzando in Africa

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi pubblicato su ItaliaOggi il 7 novembre 2019

    Dopo la Cina, anche la Russia ha organizzato alla fine di ottobre a Sochi il primo summit economico con tutti i 54 paesi dell’Africa e le sue più importanti organizzazioni regionali. Nel corso di due giorni di discussioni e di intensi negoziati tra le varie delegazioni e i ben 40 capi di Stato, sono stati siglati più di 500 importanti documenti, tra accordi, memorandum e contratti veri e propri per un ammontare di oltre 20 miliardi di euro. Attualmente l’interscambio commerciale tra Russia e Africa è di circa 20 miliardi di dollari, con un aumento del 17% nell’ultimo anno. Ancora molto lontano dai 170 miliardi dei commerci tra Cina e il continente africano.

    Il presidente Putin, però, ha annunciato l’intenzione di raddoppiare gli scambi entro 4-5 anni. Ha ricordato che in passato la Russia ha cancellato più di 20 miliardi di dollari di debiti che i paesi africani avevano accumulato durante il periodo sovietico. «Non solo per una ragione di generosità, ma anche come una manifestazione di pragmatismo, in quanto molti paesi africani non erano in grado di pagare gli interessi sui prestiti», ha ricordato, e anche per dare inizio ad una nuova fase di fattiva cooperazione economica e politica basata sul principio dello «scambio del debito con lo sviluppo».

    A differenza della Cina, che è in grado di offrire enormi prestiti a condizioni favorevoli, in cambio, però, dell’accesso alle materie prime africane e alla costruzione e gestione delle grandi infrastrutture, come ferrovie, strade, porti e dighe, la Russia non ha grande bisogno di quelle materie prime poiché anch’essa ne possiede in grande abbondanza. Ciò vale anche per l’energia e le tante ambite «terre rare», i materiali di importanza strategica per i delicati settori militari, delle comunicazioni e delle tecnologie più avanzate.

    Mosca intende rafforzare e valorizzare soprattutto i legami scientifici e culturali con il continente che, secondo le valutazioni di molti, promette di diventare un nuovo centro di opportunità e crescita dell’economia mondiale. Cosa che, purtroppo, spesso l’Europa preferisce ignorare. Una vecchia analisi dei rapporti in essere vorrebbe la Russia semplicemente come un grande fornitore di armi. In verità, molti armamenti provengono ancora da Mosca e personale qualificato riceve un training militare in Russia, ma la Russia è anche tra i primi dieci fornitori di cibo al mercato africano.

    Ci sembra che l’intenzione russa sia strategica più che economica. S’intende creare un nuovo meccanismo per il dialogo e la partnership tra Russia e Africa, anche nell’ottica di un ordine politico internazionale multipolare. Quello di Sochi è stato il primo forum dei capi di stato che dovrebbe ripetersi ogni tre anni, preparato con più frequenti incontri a livello ministeriale secondo le tematiche congiuntamente decise.

    Putin, ovviamente, ha ricordato il sostegno russo alla lotta dei popoli africani contro il colonialismo, il razzismo e l’apartheid e ha rinnovato l’impegno per il rispetto e la difesa della loro indipendenza e della loro sovranità. Al riguardo oggi, oltre alla partecipazione nella costruzione delle infrastrutture, Mosca intende continuare l’impegno per il training professionale e scientifico di migliaia di giovani africani presso le università russe, dove già studiano 17 mila studenti africani, ma anche presso i nuovi centri di cultura e di qualificazione professionale che la Russia intende creare in molti paesi dell’Africa.

    È importante notare le nuove aree di cooperazione discusse a Sochi: oltre alle infrastrutture, le risorse energetiche rinnovabili e il nucleare per scopi pacifici, le tecnologie digitali, la sanità, l’information security, e le nuove frontiere dell’ingegneria.

    Un aspetto non secondario del Forum è stato l’impegno di favorire il rapporto tra l’Unione Economica Eurasiatica e gli stati africani, soprattutto con le sue organizzazioni, come l’Unione Africana. Ciò è ancora più importante se si considera che soltanto pochi mesi fa è stato siglato a Niamey, in Niger, l’accordo per un mercato africano libero dai dazi.

    Il presidente russo naturalmente ha polemizzato con «certi stati occidentali che stanno esercitando pressioni, intimidazioni e ricatti» nei confronti dell’Africa, dichiarando di volersi opporre a qualsiasi «gioco geopolitico» che coinvolga il continente.

    Come riportato nella dichiarazione finale, il Forum si è anche espressamente impegnato a «promuovere un rapporto più stretto e profondo di cooperazione e di partnership tra i paesi Brics e l’Africa per rafforzare i meccanismi collettivi della governance globale all’interno di un sistema multipolare di relazioni internazionali».

    Tutto ciò ci induce a chiedere: «Quando l’Unione europea, come istituzione, promuoverà incontri regolari con l’Unione Africana e tutti i capi di Stato dell’Africa per programmare insieme una continua e proficua iniziativa di cooperazione e di sviluppo tra i due continenti?» L’alternativa sono forme striscianti di neo colonialismo, come recentemente è stato stigmatizzato anche dal presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte.

    Con rare eccezioni finora, purtroppo, la Francia preferisce un rapporto diretto e solitario con i paesi francofoni, l’Inghilterra fa lo steso con quelli anglofoni e gli altri paesi europei, come l’Italia, cercano di infilarsi nelle «fessure» lasciate ancora aperte e inserire le proprie imprese nei vari progetti di sviluppo.

    Spesso, però, tale comportamento crea soltanto tensioni e liti tra gli europei che minano ancora di più la credibilità dell’Unione europea.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

  • La credibilità di un paese: un patrimonio azzerato

    La vicenda delle Acciaierie ArcelorMittal dimostrano ancora una volta quale sia l’approccio anti industriale dei diversi governi che si susseguono alla guida del nostro Paese da oltre vent’anni ed in particolare dell’ultimo in carica.

    I danni economici quantificabili, per cominciare, nella perdita di circa 20.000 posti di lavoro tra diretti ed indotto aggiunti ad una probabile diminuzione del PIL del -1,2% risultano certamente enormi per i quali sarà necessario reperire risorse pubbliche aggiuntive al fine di finanziare gli ammortizzatori sociali senza precedenti. Un impatto devastante per la finanza pubblica in termini di spesa aggiuntiva al quale si deve aggiungere la perdita di ricchezza immediata ma anche di un moltiplicatore di Pil all’interno dei confini italiani. Qualora non bastasse va anche considerato come questa situazione costringerà le aziende metalmeccaniche, vera  eccellenza del Made in Italy e  primo settore per esportazione ed occupazione, a rivolgersi all’estero per l’acquisto dell’acciaio necessario, causando un ulteriore squilibrio della bilancia commerciale.

    Ragionando tuttavia nell’ottica del medio e lungo termine, questi costi, se considerati in un’ottica globale, possono risultare addirittura incredibilmente inferiori rispetto a quelli complessivi in termini di azzeramento della credibilità imputabile al  governo in carica e alla maggioranza parlamentare. In altre parole, all’interno dei flussi finanziari globali il nostro Paese perde ogni residuale attrattività nell’intercettare tali investimenti.

    Una credibilità complessiva ormai quantificabile in un valore infinitesimale se valutata in rapporto al cambiamento dei termini dell’accordo tra ArcelorMittal degli  ultimi due governi Conte che ha portato il Parlamento all’approvazione della cancellazione dello scudo penale precedentemente garantito.

    Quest’ultimo infatti rappresentava uno dei fattori determinanti per consentire gli investimenti e il ripristino di condizioni ambientali accettabili da parte del Colosso indiano. Una credibilità che viene messa a dura prova anche dalle dichiarazioni del primo ministro il quale si richiama ad una posizione di fermezza nei confronti dell’azienda stessa dopo aver causato con la propria azione di governo questo disastro economico industriale. Del medesimo livello risultano le reazioni dei partiti che compongono la maggioranza e che quindi hanno votato la cancellazione dello scudo penale ma che ora si dichiarano disponibili al ripristino della stessa, dimostrando, ancora una volta, il proprio disinteresse per le conseguenze delle proprie decisioni politiche in entrambe le due diverse occasioni parlamentari nel momento in cui hanno espresso voto favorevole all’annullamento dello scudo penale con il solo obiettivo di mantenere intatta una maggioranza ma disinteressandosi completamente delle reazioni dell’azienda stessa che vedeva cambiati i termini del contratto.

    Ora, per la medesima  ragione, cioè il mantenimento di una maggioranza, ma stupiti, nella loro superficialità, dalle conseguenze del primo voto, sono addirittura disponibili a reinserire lo scudo penale con un voto parlamentare. In questo contesto evidentemente gli interessi del Paese, nel suo complesso di lavoratori e sistema industriale italiano, non vengono tenuti in alcuna considerazione.

    In questo avvilente panorama umano e politico il patrimonio, in termini di credibilità, dilapidato da questo governo e dalla sua maggioranza non è assolutamente recuperabile agli occhi degli investitori, tanto italiani quanto esteri.

    Un paese in cui ogni dieci  mesi vengono apportate delle modifiche al quadro fiscale, anche retroattive, impedendo di fatto la valutazione di ogni investimento e del calcolo del Roe, unitamente ad una incapacità ed irresponsabilità politica di mantenere gli accordi siglati precedentemente (tav) è un sistema paese assolutamente non attrattivo per gli investitori italiani ma soprattutto esteri.

    Per questo motivo il danno economico complessivo, calcolabile in una perdita di un punto o poco più di PIL  in caso di chiusura della acciaieria ex Ilva, rappresenta un valore infinitamente inferiore se paragonato alla perdita di credibilità che il nostro Paese deve subire a causa di questa scellerata classe politica e di questa maggioranza parlamentare nella sua articolata composizione.

    La credibilità di un Paese rappresenta un patrimonio non solo economico ma anche culturale che meriterebbe una maggiore attenzione ma soprattutto una maggiore consapevolezza nella sua tutela.

  • L’UE sostiene la Croazia nell’attirare investimenti

    E’ stato l’ultimo Paese, in ordine di tempo, ad entrare a far parte dell’UE, il 1° luglio 2013, e sta cercando di giocarsi al meglio tutte le carte che questa importante appartenenza comporta. La Croazia cerca di attrarre investitori e perciò la Commissione europea e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici (OCSE) lavorano di concerto per fornirle competenze tecniche per migliorare la vita dei cittadini e delle imprese promuovendo le prestazioni economiche e sociali. Il lavoro dell’OCSE e del programma di sostegno alla riforma strutturale dell’UE mirano a contribuire a ridurre gli oneri amministrativi, rimuovere gli ostacoli per le imprese e creare un ambiente competitivo per gli investimenti. Il programma offre esperienza a tutti i paesi dell’UE per la progettazione e l’attuazione di riforme che promuovano la crescita, si basa sulla domanda ed è fatto su misura per lo Stato membro beneficiario.

  • Ok del Parlamento europeo a programmi per investimenti di 700 miliardi entro il 2027

    Il Parlamento europeo ha dato il via libera al nuovo programma europeo per sostenere gli investimenti e l’accesso ai finanziamenti nel periodo 2021-2027, concordato in parte con i ministri dell’Unione europea. Con l’obiettivo di generare quasi 700 miliardi di euro di investimenti, l’iniziativa “InvestEU” sostituisce l’attuale Fondo europeo per gli investimenti strategici (il Feis, che faceva parte del “Piano Juncker”) istituito dopo la crisi finanziaria del 2008. Gli eurodeputati vogliono migliorare la proposta della Commissione europea, aumentando la dotazione dell’Ue da 38 miliardi di euro a 40,8 miliardi di euro per innescare investimenti pari a 698 miliardi di euro (l’obiettivo della Commissione era di 650 miliardi di euro).

    La relazione di José Manuel Fernandes (Ppe) e Roberto Gualtieri (Pd-S&D) è stata approvata con 463 voti favorevoli, 64 contrari e 29 astensioni. “Con InvestEU stiamo dando forma al futuro dell’Ue verso maggiori investimenti a sostegno delle piccole e medie imprese e dei progetti locali. Inoltre, colleghiamo questo nuovo strumento a un forte incentivo a sostenere i progetti ambientali, sociali e di governance, promuovendo la cultura e garantendo una finanza etica e sostenibile”, ha spiegato Gualtieri correlatore e presidente della commissione per i problemi economici e monetari. Il Parlamento ha ora concluso la sua prima lettura, che comprende le parti già concordate con gli Stati membri. I colloqui con i ministri Ue proseguiranno nel corso della prossima legislatura.

  • Il denaro a volte puzza: normativa europea per verificare gli investimenti nella Ue

    Pecunia non olet dicevano i latini, il denaro non puzza, mentre l’Europarlamento teme che non sia così e ha approvato un primo strumento per il controllo degli investimenti diretti esteri, attraverso il quale intende tutelare i settori strategici europei. Il testo, approvato in plenaria con 500 voti favorevoli, 49 contrari e 56 astensioni, introdurrà anche il vaglio degli investimenti provenienti da società statali ‘opache’ legate a governi in settori critici e tecnologie.

    Le nuove regole proteggeranno settori industriali chiave come energia, trasporti, comunicazioni, dati, spazio e finanza, oltre che le tecnologie della robotica, l’intelligenza artificiale, l’industria dei semiconduttori. I negoziatori del Parlamento Ue hanno aggiunto alla lista iniziale l’acqua, la salute, la difesa, i media, la biotecnologia e la sicurezza alimentare. Gli eurodeputati hanno inoltre rafforzato il meccanismo di cooperazione per includere lo scambio di informazioni tra i Paesi Ue, che potranno formulare osservazioni sugli investimenti diretti per altri Stati membri. La Commissione Ue potrà chiedere informazioni e fornire il suo parere al Paese cui è destinato l’investimento, ma la decisione finale spetterà allo Stato membro interessato. Dopo il via libera in plenaria, il Consiglio dovrà ora approvare l’accordo in via formale.

    Gli eurodeputati della Lega e del M5S si sono astenuti al voto in Plenaria che ha approvato il primo strumento Ue per il controllo degli investimenti diretti esteri, con l’obiettivo di tutelare i settori strategici europei. Il testo è passato con 500 voti favorevoli, 49 contrari e 56 astensioni. “Lega e M5S, che del sovranismo hanno fatto la loro bandiera, si sono opposti all’introduzione di questo strumento segnando, ancora una volta, la distanza tra le roboanti dichiarazioni di quand’erano opposizione e l’incapacità di prendere una posizione di oggi che sono maggioranza”, ha commentato Alessia Mosca, europarlamentare Pd e capogruppo dei Socialisti e Democratici nella commissione Commercio Internazionale. “Oggi il Parlamento Europeo ha approvato la proposta della Commissione di creare uno ‘scudo’ contro gli investimenti predatori in Europa, che permetterà, in primo luogo, la salvaguardia di migliaia di posti di lavoro”, ha spiegato Mosca. “Attualmente, infatti, Paesi come la Cina attuano strategicamente acquisizioni di società europee per coprire il gap tecnologico che consente a Paesi sviluppati, come l’Italia, di essere ancora competitivi nonostante salari più alti e normative ambientali più rigide. Bloccando queste acquisizioni, impediremo il trasferimento in Cina della produzione di questi prodotti”, ha aggiunto. “Non solo: un’altra ragione per la quale Paesi esteri possono voler acquisire società europee è il tentativo di aumentare la propria influenza. Non si tratta di discorsi ipotetici, parliamo di avvenimenti già accaduti, ad esempio in Grecia. In seguito all’acquisizione della rete elettrica greca e del Porto del Pireo, principale asset nazionale, Atene ha bloccato dall’interno dichiarazioni e progetti considerati ostili dalla Cina”.

    Con 532 voti a favore, 22 contrari e 55 astensioni, il Parlamento europeo ha anche approvato norme per ridurre anche nei Paesi non euro ma appartenenti all’Unione (Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Ungheria, Polonia, Romania, Svezia e Regno Unito) gli oneri legati all’invio di denaro a carico di imprese e persone e per promuovere maggiore trasparenza nei costi di conversione delle valute.
    Prima della fine dell’anno, le commissioni bancarie per i pagamenti transfrontalieri in euro su tutto il territorio dell’Ue dovranno dunque allinearsi a quelle per i pagamenti nazionali effettuati nella valuta locale ufficiale. La sforbiciata ai costi riguarda anche il prelievo di contante e i pagamenti all’estero: tutti i pagamenti transfrontalieri nell’Ue dovranno avere gli stessi costi, molto bassi, validi nell’Eurozona. Le nuove misure proteggeranno anche i consumatori dai costi arbitrari per le conversioni valutarie. Le spese di commissione saranno indicate in modo univoco, utilizzando il tasso di riferimento della Bce, più gli oneri aggiuntivi fissati individualmente dalle banche.

  • Bruxelles muove 116,1 milioni per stimolare investimenti per 3,2 miliardi su clima e ambiente

    Arrivano nuovi finanziamenti nell’ambito del programma LIFE per ambiente e clima, che consentiranno di sbloccare più di 3,2 miliardi di euro di sovvenzioni supplementari a favore di 12 progetti su vasta scala in 10 Stati membri dell’Ue al fine di sostenere la transizione dell’Europa a un’economia circolare, a basse emissioni di carbonio. La Commissione europea ha annunciato un investimento di 116,1 milioni di euro che sosterranno progetti in Austria, Bulgaria, Repubblica ceca, Estonia, Finlandia, Grecia, Ungheria, Italia, Portogallo e Slovenia.

    Karmenu Vella, Commissario responsabile per l’Ambiente, gli affari marittimi e la pesca, ha dichiarato: “I progetti integrati del programma LIFE sono un ottimo esempio di fondi dell’UE che fanno veramente la differenza sul campo, migliorando la qualità di vita di milioni di cittadini europei. I nuovi investimenti aiuteranno gli Stati membri ad attingere alle risorse per rispondere alle preoccupazioni dei cittadini per quanto riguarda la qualità dell’aria e dell’acqua e per arrestare la perdita di biodiversità”. Miguel Arias Cañete, commissario responsabile per l’Azione per il clima e l’energia, ha dichiarato: La Commissione ha proposto di basarsi sull’esperienza positiva dell’integrazione in altre politiche delle azioni per il clima e di rafforzare ulteriormente l’azione per il clima nel prossimo bilancio a lungo termine dell’UE. Porsi obiettivi più ambiziosi porterà a un potenziamento dell’azione per il clima in settori chiave come quello dell’agricoltura, dello sviluppo rurale e dell’azione esterna e a un incremento dei finanziamenti destinati all’azione per il clima nell’ambito del programma LIFE.

    I progetti finanziati sono volti a portare gli Stati a conformarsi alla legislazione dell’Ue in 5 settori (natura, acqua, aria, attenuazione dei cambiamenti climatici e adattamento ai cambiamenti climatici) e avranno una dotazione di bilancio complessiva di 215,5 milioni di euro, 116,1 milioni dei quali – appunto – cofinanziati dall’Ue. Il finanziamento dell’UE mobiliterà investimenti per un importo supplementare di 3,2 miliardi, in quanto gli Stati membri possono utilizzare anche altre fonti di finanziamento dell’Ue, tra cui i fondi agricoli, regionali e strutturali e Orizzonte 2020, nonché fondi nazionali e investimenti del settore privato.

  • L’Italia reclama investimenti. Bisognerebbe quindi far ripartire subito i cantieri

    Pubblichiamo di seguito l’articolo di Mario Lettieri e Paolo Raimondi apparso su ItaliaOggi del 13 febbraio 2019

    Recessione tecnica, recessione economica, crisi economica. Troppe definizioni e poche decisioni, quando, invece, in Italia necessiterebbe un programma concreto di rilancio dell’economia, fatto d’investimenti, di lavori pubblici, d’incentivi per la modernizzazione e l’occupazione. In situazioni di emergenza, sarebbe necessario un accordo bipartisan per lo sviluppo, come ha saputo fare, anche con molte difficoltà, la Germania. In casa nostra, purtroppo, ieri come oggi, si preferisce «gufare», «tifare» per il fallimento dell’altro, facendo perdere tutti, soprattutto il paese.

    L’ultima cosa di cui si ha bisogno sono le pagelle delle agenzie private di rating e del poco affidabile Fondo Monetario Internazionale. Gli analisti e la stampa internazionale, come al solito, puntano il dito sul nostro alto debito pubblico e sui ritardi delle cosiddette riforme strutturali dell’economia italiana. Temono che una successiva contrazione economica possa avere delle conseguenze sull’intero sistema. Secondo noi, una delle debolezze più preoccupanti, da correggere con urgenza, è la bassa produttività dell’economia italiana.

    Dal 2000 il nostro sistema non ha registrato alcun aumento della produttività! Si ha tale aumento quando, attraverso nuove tecnologie e innovazioni, si produce di più con la stessa mano d’opera. La crescita della produttività è il motore della competitività di ogni sistema. Occorre dire, in verità, che le nostre imprese sono state comunque capaci di mantenere un elevato grado di competitività, sfruttando l’innata creatività scientifica e imprenditoriale e mantenendo, nonostante tutto, la bilancia commerciale positiva, sostenuta da un export che dal 2009 è cresciuto del 25%. Nel medio periodo, però, la scarsità dell’innovazione e della modernizzazione non regge il confronto con gli altri paesi che investono, e molto, nelle nuove tecnologie.

    La mancata crescita della produttività non è, comunque, imputabile solo all’alto indebitamento pubblico. Il Giappone, per esempio, ha un gigantesco rapporto debito/pil del 237% ma è il primo paese al mondo, prima degli Usa e della Germania, per la crescita della produttività. Non si può, quindi, imputare l’entrata in «recessione tecnica» soltanto all’effetto di fattori esterni, quali la contrazione economica cinese e tedesca. Nemmeno a certi retaggi del passato, come i disastri della grande crisi finanziaria ed economica del 2008. Ciò detto, ovviamente la nostra economia soffre più degli altri quando le citate locomotive frenano.

    Nel 2017 l’export di soli beni, senza i servizi, dell’Italia verso gli altri paesi europei è stato di 250 miliardi di euro, pari al 55% di tutte le nostre esportazioni. La Germania ha, invece, esportato in Europa beni per 750 miliardi: detiene il 22,4% di tutto il commercio infra Ue, mentre la quota italiana è appena del 7,4%. L’Italia mantiene la quinta posizione, dietro anche all’Olanda, alla Francia e al Belgio.

    Il più grande surplus nel commercio interno all’Ue (export meno import) è detenuto dall’Olanda con ben 200 miliardi di euro. Mentre l’Italia nel 2017 ha avuto un surplus di oltre 8 miliardi, la Francia e la Gran Bretagna, invece, hanno registrato un deficit nel commercio di beni con gli altri paesi europei rispettivamente di 107 e 110 miliardi di euro. Sono dati, questi ultimi, per certi versi sorprendenti.

    L’Eurostat prevede una momentanea contrazione dell’economia europea. Senz’altro la causa principale è legata all’altalenante guerra dei dazi che Donald Trump ha lanciato contro la Cina e l’Ue. La Germania, in particolare, soffre degli scandali, originati negli Usa, contro le emissioni di gas e dei dazi americani sull’import di auto tedesche. Negli anni passati, l’Europa, in primis la Germania, ha beneficiato della politica cinese di modernizzazione. La Cina è il più grande mercato di macchinari tedeschi di vario tipo. La flessione della crescita cinese in corso va, quindi, a impattare l’export tedesco e comunitario.

    Non possiamo, quindi, negare i rischi di crescenti difficoltà per la nostra economia. Anche perché si deve tener presente che l’Italia, a differenza di altri paesi europei, non ha ancora recuperato la perdita di pil provocata dalla grande crisi globale del 2008. È ancora di circa il 4% sotto il livello pre crisi. Anche gli investimenti, pubblici e privati, sono sotto del 19,2%. In dieci anni, poi, gli investimenti pubblici sono scesi dal 3% all’1,9% del pil. I consumi delle famiglie e il loro reddito disponibile sono inferiori rispettivamente dell’1,9% e dell’8,8% rispetto a dieci anni fa.

    L’ingresso dell’Italia in una fase di recessione ha già fatto sentire il suo segno negativo anche sulla borsa, in particolare sui titoli bancari. Si teme che la decrescita possa generare nel sistema bancario nuovi crediti deteriorati e rallentare lo smaltimento dello stock in sofferenza. A fine 2017 i suddetti crediti deteriorati ammontavano ancora a 264 miliardi di euro, pari al 17,6% del totale. E ciò avviene mentre la Bce sta riducendo il quantitative easing, cioè l’acquisto di titoli di Stato, che finora ha aiutato a sostenere i debiti pubblici sul mercato.

    Con la recessione il governo, a corto di munizioni, potrebbe essere tentato di aumentare il debito, sempre più caro e meno gestibile, o di aumentare la pressione fiscale. Occorre evitare di rincorrere la spirale negativa e, invece, è importante mettere in campo azioni anticicliche di sostegno agli investimenti, all’innovazione e al lavoro. Bisognerebbe far ripartire, senza perdere ulteriore tempo, tutti i cantieri e gli investimenti, anche privati, già decisi e finanziati. Sostenere i consumi è importante ma non sufficiente a rimettere in moto un’economia in recessione.

    *già sottosegretario all’Economia **economista

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