Investimenti

  • Flussi internazionali di investimento: i numeri ignorati o peggio sconosciuti

    Mentre la politica si azzanna sulla possibilità e soprattutto sui reali effetti di politiche “pseudo espansive” e rigorosamente a debito come il reddito cittadinanza e quota 100 per le pensioni, i reali numeri che andrebbero invece valutati (se conosciuti), ma assolutamente ignorati, dalla politica sono ben altri.

    Il nostro Paese è oggetto di flussi internazionali di investimenti (FDI) pari a circa 17,1 bilioni di dollari (un bilione di dollari equivale a un milione di milioni di dollari). Viceversa il Messico è maggiormente attrattivo con i suoi 27,9 milioni, mentre la Germania ci doppia con 34.7 bilions$. La stessa Francia attira flussi finanziari ed investimenti dall’estero per 49.8 bilioni di dollari, solo per restare nell’ambito europeo. Un ammontare pari al triplo di quello italiano.

    Cifre che dimostrano già come l’Italia sia uscita da anni del circolo virtuoso degli investimenti internazionali, come confermato dal grafico, proposto da www.unctad.org, divisione che si occupa di flussi finanziari e commerciali e sviluppo appartenente all’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu). Questi dati risultano irrisori se confrontati con realtà economiche superiori, come dimostrano i flussi e gli investimenti in Cina che ammontano a 136,3 bilioni, ma annichiliscono di fronte alla quota di investimenti destinata agli Stati Uniti d’America che arriva a 275,4 bilioni di dollari.

    Tornando all’ambito europeo tuttavia va ricordato come la Germania, anno dopo anno, cresca ad un tasso superiore del PIL rispetto all’Italia anche grazie all’articolata sintesi delle attività industriali unite e supportate da investimenti esteri.

    Un aspetto poi molto importante, che va oltre la semplice componente finanziaria, risulta dalla semplice considerazione che attraverso tali trasferimenti ed investimenti venga contemporaneamente trasferito ed ampliato proprio dagli stessi  investitori anche il know-how innovativo in settori nevralgici il cui sviluppo necessità di forti investimenti. In altre parole, lo Stato oggetto di tali investimenti ottiene un doppio beneficio finanziario ma anche di innovazione tecnologica. In Italia invece, anno dopo anno, si continua a non affrontare il problema della assoluta improduttività della pubblica amministrazione, una macchina giudiziaria ormai degna di un paese del terzo mondo, e contemporaneamente si è continuato a provare regolamenti farraginosi che limitano l’impresa privata.

    In più tale scenario disarmante è attribuibile anche a provvedimenti legislativi espressione di un’incompetenza di base, come l’Investiment Compact il quale assicura la “non retroattività fiscale” (parametro fondamentale per valutare  un investimento nel medio lungo termine) solo per operazioni superiori ai 500 milioni di euro. Escludendo, quindi, di fatto ogni investimento nelle PMI.

    Sempre come espressione di tale incapacità ecco che la fiscalità di vantaggio non venga utilizzata per attrarre appunto investitori ma semplici titolari esteri di redditi milionari ai quali viene assicurata una cedolare fissa sui propri redditi di €100.000, la quale, nelle sue molteplici applicazioni, si trasforma in un’aliquota del 10% per una persona con un reddito di un milione e viceversa dell’1% per titolari di redditi di 10 milioni.

    Tutto questo  mentre le dotte menti nostrane continuano ad aggiornarsi sul reddito di cittadinanza (il cui impatto assicurano sarà di un confortante  + 0,18 % sul Pil!!), come su quota 100, tralasciando così qualsiasi analisi strategica in ambito internazionale.

    I dati forniti dall’ONU sono disarmanti quanto il fatto che vengano ignorati o peggio risultino sconosciuti alla nostra classe politica.

  • L’Europa dorme e la Cina avanza non solo in Africa

    Il ministro degli esteri cinese Wang Yi all’inizio dell’anno si è recato in Africa per incontrare in Etiopia i leader dell’Unione africana. In seguito ha visitato il Burkina Faso, il Senegal ed il Gambia per rafforzare la cooperazione siglata durante il vertice tenutosi, lo scorso settembre a Pechino, al forum della cooperazione sino africana. Come ha sottolineato il quotidiano keniota Daily Nation, riportando i dati pubblicati dall’American Enterprise Institute, la Cina ha investito in Africa, in circa 13 anni, 298 miliardi di dollari e Pechino è diventato il più grande finanziatore singolo delle infrastrutture africane quali ponti, strade, porti ed impianti per l’energia.

    Da questi dati emerge, una volta di più, la mancanza di visione, per quanto riguarda le strategie politiche ed economiche nonché quelle legate all’immigrazione, dell’Unione europea. L’espansionismo cinese non solo ha saputo creare nel continente africano una base potente e forte ma sia con l’acquisto di porti nel Mediterraneo che con la costruzione di importanti infrastrutture nell’estremo nord europeo sta creando un vero e proprio accerchiamento del continente europeo. Rimangono aperti gli interrogativi su come l’Italia intenda affrontare il problema nel contesto nazionale, europeo ed internazionale e se, tra le “politiche” del governo ci sia una seria difesa del know how dei prodotti italiani.

  • Di Maio spalanca le porte dell’Italia alla Cina

    L’1 ottobre si è tenuta la prima riunione della Task Force Cina del governo italiano, cui hanno partecipato oltre 300 tra membri del governo, giornalisti, imprenditori, accademici e altri. «L’obiettivo della Task Force – recita un comunicato del Ministero dello sviluppo economico riportato da EIR (Executive Intelligence Review) – è sviluppare, sotto il coordinamento del MISE, un approccio sistemico nei confronti della Cina per affrontare tutti gli aspetti della collaborazione bilaterale, a partire dal commercio e dagli investimenti reciproci, per estendersi alla cooperazione scientifica, alle infrastrutture, alla cooperazione culturale, al turismo e ai trasporti, secondo uno schema che parte dal presupposto che anche la Cina agisce come un unico, solido sistema nei suoi rapporti internazionali».

    «Tra i risultati già ottenuti dalla Task Force rientrano la firma da parte del Vice Presidente Di Maio del Memorandum of Understanding tra Italia e Cina sulla cooperazione in Paesi terzi (che potrà schiudere interessanti prospettive di un approccio sinergico, per esempio, in Africa) e la firma dell’accordo tra il MISE e la Provincia del Sichuan per rafforzare la collaborazione sul piano della promozione del commercio e degli investimenti bilaterali. Altri negoziati in corso tra Italia e Cina sul piano bilaterale, come il Memorandum su Belt & Road Initiative, stanno beneficiando di questo rinnovato clima di collaborazione strategica».

    La Task Force sarà suddivisa in vari gruppi di lavoro, ciascuno dei quali avrà due coordinatori, presenti nei due Paesi con lo scopo di stabilire un doppio flusso di informazioni, da Cina a Italia e da Italia a Cina.

    «Noi fungiamo da stimolo e da indirizzo – ha dichiarato Geraci – ma è l’input dei singoli nei differenti gruppi di lavoro ciò che determinerà il successo della Task Force e la sua efficacia nello sforzo del nostro Governo di cogliere le opportunità che la Cina di oggi presenta. Anche in Cina abbiamo avuto segnali di interesse per questa Task Force, come ricordato dall’Ambasciatore cinese sia durante la prima riunione dell’altro ieri sia durante la festa nazionale cinese di qualche giorno fa. Vorrei chiudere con una citazione di Confucio: ‘Quando spira il vento del cambiamento, alcuni costruiscono muri, altri mulini a vento’. Mi auguro che ogni gruppo di lavoro si ponga come un mulino al servizio dell’Italia nei suoi rapporti con la Cina».

    Come osserva Bloomberg «Il governo italiano straccia gli sforzi del governo precedente per limitare gli investimenti cinesi nei settori strategici, favorendo lo sviluppo dei rapporti con Pechino attraverso un ruolo nel grande programma cinese di infrastrutture mondiali».

  • Dal Pireo l’espansionismo della Cina e sui mercati

    Mentre in Italia si sta ancora disquisendo su come ricostruire il ponte di Genova e mentre da anni il porto del capoluogo ligure è additato come uno dei più lenti per lo smaltimento dei container di merci provenienti da fuori Europa, il progetto infrastrutturale di Pechino, “nuova via della seta”, è sempre più in espansione in Grecia e non solo. Questo progetto conta ormai sei corridoi di trasporto che toccano più di sessanta nazioni tra Asia, Europa  e Nord Africa e, di fatto, sta già spostando gli assetti politici ed economici dando alla Cina sempre maggiore centralità non solo nelle attività commerciali.

    In una intervista il pro rettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, Prof. Giuliano Noci, ricorda come la maggior parte delle merci cinesi, dirette in Europa, viaggi per mare e proprio attraverso i porti del mediterraneo la Cina riduce della metà i tempi di trasporto. La Cina ha in mano il porto del Pireo in Grecia e sta già guardando allo sviluppo del porto di Patrasso, città affacciata sul mare Ionio! Il porto del Pireo è lungo più di trenta chilometri e la Repubblica Popolare cinese, che ha investito quasi mezzo miliardo di euro, controlla l’intero scalo anche se la maggior parte dei dipendenti non hanno un contratto collettivo ma sono impiegati attraverso agenzie interinali. La Grecia ha comunque beneficiato degli accordi con Pechino anche per quanto riguarda la presenza di centinaia di migliaia di turisti già arrivati o previsti per i prossimi anni ma è evidente che la sempre maggiore espansione cinese nei porti greci e del mediterraneo (vedi Italia e Spagna) comporta un immenso aumento delle merci cinesi nei nostri paesi e dell’apertura di attività commerciali che per prezzi sono particolarmente concorrenziali con i nostri. Vi sono anche risvolti politici importanti visto che la Grecia ha impedito che l’Unione europea emettesse una condanna unanime sulla situazione dei diritti umani in Cina  e si aumentassero i controlli sugli investimenti cinesi in Europa. Vi è inoltre notizia che una flotta militare cinese, nell’estate, abbia navigato fino al Pireo e anche le preoccupazioni espresse dalla Merkel non hanno fino ad ora smosso le autorità nazionali, oltre che europee, per mantenere una propria capacità nei porti del mediterraneo che possa contrastare l’espansionismo cinese che solo nel 2017 ha operato su quattro milioni di container in Grecia.

    Fino a che l’Europa e i paesi del mediterraneo non comprenderanno la necessità di sviluppare nell’immediato le proprie infrastrutture portuali e non daranno vita ad una armonizzazione dei sistemi doganali continueremo ad avere non solo un espansionismo massiccio e pericoloso in termini economici e non solo, della Cina ma anche un continuo incremento delle merci illegali e o  contraffatte che entrano in Europa, a tutto danno dei consumatori e delle imprese manifatturiere e di conseguenza il declino continuerà.

  • Equità fiscale: 3.7 milioni, 23.3 milioni , 150 persone…

    Uno dei concetti più usati per ragione contro la flat tax è relativo al fatto che questa favorisca mediamente i redditi oltre i 30.000 euro e quindi escluda dai benefici di una aliquota piatta quasi l’80% della popolazione italiana. Da anni i fatti continuo ad indicare, per una riduzione del carico fiscale vista come unica soluzione finanziariamente sostenibile, la riduzione delle aliquote e della loro progressività. L’unicità della soluzione nasce dalla sostenibilità finanziaria anche in considerazione del fatto che il nostro Paese continua a dimostrare una crescita del debito pubblico  due volte e mezza superiore rispetto alla crescita del PIL. In tal senso si ricorda anche che in presenza di una riduzione del PIL reale rispetto a quello previsto (2018 anno in corso 1.1% attuale rispetto alle previsioni di 1,4 %) questo determini automaticamente un aumento della pressione fiscale stessa.

    Tornando quindi alla politica fiscale strutturata in una costante lieve riduzione delle aliquote e della loro progressività per ridare un po’ di supporto alla domanda interna, contemporaneamente la leva fiscale dovrebbe venire utilizzata anche come fiscalità di vantaggio al fine di favorire gli investimenti nel nostro Paese. Questa fiscalità offre  la possibilità di raggiungere il doppio obiettivo di favorire il reshoring produttivo di attività una volta delocalizzate in un paese a basso costo di manodopera e, di conseguenza, aumentare l’occupazione di buon livello, sia professionale che retributivo. Quindi come obiettivo correlato si otterrebbe anche un sostegno alla crescita della domanda interna.

    Ovviamente per trovare la propria copertura si dovrebbe avviare un’azione di ottimizzazione della spesa pubblica, la famosa spending review, mentre  l’anno successivo la copertura dovrebbe  arrivare dal maggiore gettito fiscale legato alle nuove attività industriali con forte ricaduta occupazionale presenti sul nostro territorio. Non va infatti dimenticato che in un mercato complesso e globale come quello attuale, l’economia non rappresenta un sistema perfetto nel quale applicare teorie economiche con manieristica ottusità  ma un insieme complesso ed articolato sempre alla ricerca di un proprio equilibrio senza mai trovarlo.

    Partendo da questo oggettiva considerazione è evidente quindi come la fiscalità, o meglio, la politica fiscale attuata dai vari governi possa rappresentare molto più della politica monetaria, uno dei fattori performanti e competitivi che possano favorire una crescita economica successivamente alla quale può anche subentrare la funzione di redistribuzione del reddito con i servizi erogati dallo Stato attraverso il prelievo fiscale.

    La rinuncia ad una quota della fiscalità normale viene in questo modo ripagata dal maggior gettito dell’anno successivo grazie alla maggiore occupazione creata con gli investimenti allettati appunto dalla fiscalità di vantaggio ma anche grazie al benessere diffuso che, di conseguenza, si riverbera attraverso la crescita dei consumi e il maggiore gettito dell’ IVA e delle altre accise sui consumi.

    In questo senso si ricorda che l’Italia rispetto alla crisi del 2010 risulti ancora al di sotto di oltre il 2% come livello di consumi, il che dimostra come  le politiche fiscali degli ultimi anni non abbiano ottenuto neppure un effetto redistributivo del reddito ma solo quello di coprire assieme al debito l’esplosione della spesa pubblica improduttiva.

    E’ perciò evidente come il livello dei consumi rappresenti un indicatore inequivocabile del benessere diffuso che la politica economica e quindi anche quella fiscale abbiano determinato negli ultimi anni. In questo senso allora può risultare interessare constatare come l’indice dei consumi risulti inferiore a quello dell’inflazione dello 0,3%. In questo contesto disastroso va ricordato invece come il  governo Gentiloni abbia inserito la flat tax al 26%  per le rendite finanziarie che favorisce le rendite oltre i 750.000 euro, in più con una possibilità esclusa per le imprese di compensare anche le minusvalenze.

    Ancora più insultante è l’intervento del governo Renzi che ha inserito la cedolare fissa di 100.000 euro per tutti i percettori di reddito superiore al milione che intendessero scegliere l’Italia come propria residenza fiscale. Solo per dare un esempio: una persona con un reddito di  un milione di euro verserà al fisco italiano centomila euro applicando una aliquota del 10%, mentre se il reddito risultasse di dieci milioni l’aliquota applicata risulterebbe essere del’l,1%.

    Una fiscalità di vantaggio per le singole persone dai redditi milionari non avrà e non può avere nessun tipo di ricaduta per la collettività e per i contribuenti cittadini italiani, se non forse l’aumento del valore degli immobili di prestigio. Si ricorda invece come la tassazione sul lavoro sia del 48%!

    In considerazione quindi allo stato attuale di questo sistema fiscale, assolutamente sbilanciato, la prima riforma fiscale che un governo di persone oneste e competenti dovrebbe varare dovrebbe venire individuata nella soppressione di questa volgare ed iniqua cedolare secca per i redditi multimilionari che rende l’Italia un paese indegno e non certo europeo. Anche perché a tal proposito si ricorda che la fiscalità di vantaggio dei paesi dell’Unione Europea riguarda la volontà di essere maggiormente attrattivi per gli investimenti e le imprese estere che generano occupazione e non certo dei singoli percettori di alto reddito come in Italia. Si continua infatti a parlare a sproposito di investimenti in infrastrutture la cui ricaduta risulta positiva nel medio lungo termine (come fattore competitivo per le imprese), mentre la politica fiscale ha degli effetti immediati sul reddito disponibile dei cittadini e dei contribuenti e rappresenta l’unico modo per ridare un po’ di fiducia che troverebbe sicuramente una manifestazione anche attraverso un aumento dei consumi. Oltre ovviamente a riportare un senso di equità fiscale che attualmente è completamente dimenticato tanto dai sostenitori della flat tax e dell’uscita dall’euro quanto dei loro predecessori. Atteggiamenti entrambi figli di una incompetenza e disonestà intellettuale ormai senza orrore di se stessa.

    P.S. Nel caso qualcuno si chiedesse il significato dei numeri del titolo: persone ed aziende sottoposte al regime fiscale con aliquota media del 48% 3.7 milioni di imprese; 23.2 milioni di occupati; numero di persone che ottengono il regime fiscale forfettario con cedolare fissa a 100.000 euro per reddito oltre 1 milione: 150 …

     

  • Brexit: la conferma indiretta del reshoring

    Dal momento della sorpresa per l’esito del referendum che stabilì l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa non risulta un commento o una previsione da parte del mondo economico, accademico e politico europeo, Italia inclusa, che abbia saputo valutare o perlomeno prevedere gli esiti economici di tale referendum. Si è assistito ad un fiume di dichiarazioni che prevedevano il disastro economico e finanziario unito a quello immobiliare (per la sola città di Londra), a cominciare dal Presidente del FMI Christine Lagarde alla quale si sono accodate via via tutte le compagini politiche ed economiche italiane ed europee.

    Ricordo di aver scritto un pezzo nel quale avanzavo dei dubbi relativamente agli eventi catastrofici che avrebbero dovuto attendere l’economia inglese semplicemente proponendo due fattori economici molto importanti. La Gran Bretagna innanzitutto non faceva parte dell’Euro, di conseguenza gli effetti economici dell’esito sorprendente del referendum si sarebbero rivelati molto più limitati rispetto a quelli di un altro paese che avesse fatto parte della moneta unica. A questo si aggiunga che il rapporto tra debito pubblico e PIL due anni fa risultava al 89%, assolutamente sostenibile e di conseguenza poteva far prevedere un’uscita tutto sommato indolore per l’economia  anglosassone.

    Arriviamo però ad un terzo conclusivo e fondamentale fattore economico: ricordavo come  il primo ministro Cameron avesse investito oltre 400 milioni di sterline al fine di favorire il “reshoring produttivo”, cioè la riallocazione di produzioni una volta delocalizzate nei paesi dell’est Europa o in  estremo Oriente. Una strategia talmente fondamentale ed importante proprio in rapporto agli effetti  sostanziali per la crescita economica britannica che dovrebbe fungere da esempio per le politiche economiche italiane. L’unico che riconobbe la mia posizione come una vera rarità fu Riccardo Ruggeri che mi citò  nel suo intervento su Italia Oggi mentre oggi i suoi acuti interventi sono leggibili all’interno del quotidiano La Verità.

    Tornando al reshoring produttivo, tale strategia economica di sviluppo, che riporta centrale il mondo dell’industria realizzata dal governo Cameron oltre quattro anni addietro, sta ottenendo il proprio risultato come viene confermato dagli investimenti sul territorio inglese delle aziende italiane di macchinari utensili e macchinari di precisione. Dall’economia inglese infatti si sta assistendo ad un nuovo impulso legato alle aziende che hanno riallocato la loro produzione e quindi stanno investendo nell’innovazione di processo utilizzando di conseguenza il know-how di primissimo livello italiano. Questo dimostra, ancora una, volta come l’intera nomenclatura economica europea ed italiana abbia clamorosamente fallito ogni previsione relativa agli esiti economici della Brexit, tanto è vero che a due  anni di distanza, una volta stabilizzate le incertezze legate alla situazione economico-politica assolutamente nuova del  mercato inglese, il sistema economico britannico sta ricominciando ad investire come a diventare un mercato di sbocco per le nostre produzioni di alto livello. Infatti il vero costo della Brexit è oggi legato all’incertezza della situazione assolutamente nuova ed unica, ammortizzata tuttavia dagli investimenti di governi precedenti all’esito del referendum.

    Ancora una volta emerge come le competenze espresse dalle organizzazioni economiche internazionali e nazionali abbiano dimostrato la propria impreparazione ma soprattutto l’incapacità di scindere le proprie convinzioni politiche dalle valutazioni economiche al fine di elaborare un pensiero economico il più possibile obiettivo. Convinzioni ed appartenenze a determinati ambiti politici che probabilmente hanno causato anche la loro ascesa a tali incarichi internazionali e nazionali. Una ulteriore conferma indiretta del declino culturale del nostro Paese e dell’Europa nella sua articolata complessità.

  • Tutte le opportunità per investire in Marocco

    Si intitola Il Marocco porta dell’Africa: investimenti, infrastrutture, commercio la tavola rotonda organizzata dall’Ambasciata del Marocco in Italia, con la collaborazione di GreenHillAdvisory, il prossimo 9 maggio a Roma, alle ore 15,presso la sede dell’Ambasciata in via Brenta, 12. L’iniziativa ha l’obiettivo di presentare le opportunità industriali, commerciali e finanziarie che il Marocco è oggi in grado di offrire alle Imprese italiane e che lo rendono di fatto la migliore “porta di accesso” al Continente Africano.

    Al termine dell’incontro sarà possibile rivolgere domande direttamente all’Ambasciatore del Marocco, S.E. Hassan Abouyoub, ed al Responsabile Italia dell’Agenzia Marocchina per lo Sviluppo degli Investimenti, dott.ssa Yasmina Sbihi.

  • Investimenti e risorse umane

    Molto spesso, anzi, troppo spesso, si parla della necessità di aumentare la spesa pubblica con l’obiettivo di incrementare gli investimenti pubblici favorendo così le condizioni per una crescita  dell’economia italiana. L’analisi della storia del nostro Paese evidenzia invece come questi investimenti non vengano utilizzati per la realizzazione di nuovi fattori con l’importante funzione di aumentare la competitività del sistema industriale ed  aziendale italiano, troppo spesso questi si trasformano  semplicemente in nuova spesa corrente ed improduttiva finalizzata alla semplice creazione di “posti” che si trasformano successivamente in consenso elettorale. Come se non bastasse, negli ultimi anni si sono aggiunte scelte dissennate come i quasi 30 miliardi di nuovo debito per finanziare gli 80 euro dati alla fascia media (8.000/26.000 fascia di reddito escludendo quindi i veri indigenti) e che rivela come questi siano stati un semplice rimborso fiscale in quanto al disotto degli 8000 euro scatta l’esenzione dalla dichiarazione dei redditi.

    Si aggiungano poi gli oltre 30 miliardi per finanziare il Jobs Act che dopo tre  anni ha portato allo “stupefacente” risultato di 91.000 di contratti a tempo indeterminato e oltre 910 mila a tempo determinato: di questi ultimi poi il 33% è di non oltre i tre (3!!!) giorni di durata.

    Per motivi la cui individuazione sarebbe troppo complessa in quanto investe la commistione tra un sistema pubblico ed interessi privati i quali si uniscono malignamente nella attribuzione e gestione  della spesa pubblica italiana, fare un confronto con i paesi nostri confinanti potrebbe aprire uno squarcio nelle priorità di determinate scelte delle altre nazioni, sempre in tema di spesa pubblica, ma soprattutto della sua articolazione che evidenzia inevitabilmente i parametri di riferimento.

    In questo contesto quindi può risultare di grandissimo aiuto il rapporto presentato dall’Ufficio Economico del Cantone di Zurigo il quale ha pubblicato la classifica delle professioni maggiormente retribuite.

    Per chiarezza va comunque ricordato che le cifre riguardano l’importo al lordo delle tasse la cui pressione ovviamente risulta inferiore rispetto a quella italiana e parallelamente va considerato come il costo della vita mediamente risulti più alto in Svizzera rispetto alla nostra Italia.

    Fatte queste precisazioni, tornando al rapporto dell’ufficio economico del Cantone di Zurigo al primo posto di questa classifica viene indicata come professione maggiormente retribuita quella del  diplomatico (13.555 Franchi/mese), seguita dall’ufficiale istruttore (8.192 Franchi/mese).

    Al terzo posto il maestro elementare (6.981 Franchi/mese), al quarto il giornalista (6.440 Franchi/mese), mentre l’ostetrica risulta al quinto (6.229). Il muratore guadagna mediamente 5.553 franchi (sesto posto), seguito dalla maestra d’asilo con 4.977 Franchi, quindi settima in classifica la professione del falegname (4.435), quelle del libraio (4000) e del tassista (3.20 ) chiudono la classifica.

    Al di là di un facile entusiasmo che possono suscitare tali cifre dalle quali appunto vanno sottratte  la tassazione per l’assicurazione sanitaria ed il fondo per la vecchiaia (AVS) tuttavia quello che emerge evidente ed assolutamente sorprendente rispetto a quanto avviene nel nostro paese come le professioni relative ai percorsi formativi ed educativi dei bimbi e dei ragazzi (il maestro elementare, l’ostetrica e la maestra d’asilo) occupino nella classifica reddituale rispettivamente il terzo, il quinto e il settimo posto. Tale posizione di assoluto prestigio (confermato dal livello retributivo) dimostra come all’interno di una realtà variegata come quella federale svizzera, espressione di un benessere economico nazionale, le figure maggiormente formative, dal momento della nascita fino all’ingresso nell’età adolescenziale, vengano considerate ed adeguatamente retribuite.

    Una scelta o, meglio, una strategia espressione di scelte i cui effetti si vedranno nel medio e lungo termine e che considera importanti appunto le figure professionali che intervengono nella formazione dei bimbi e dei giovani che rappresentano la classe dirigente del domani. Tale spesa in Italia viene contabilizzata dalla spesa corrente per il personale perché la massificazione delle professioni, confermata dall’appiattimento retributivo, è espressione della ideologia post sessantottina.

    Viceversa in Svizzera, e specificatamente nel Cantone di Zurigo, le professioni che intervengono nelle prime fasi della vita formativa vengono riconosciute come fondamentali e come un vero e proprio investimento, quindi un fattore competitivo in prospettiva.

    Al di là del contenuto etico che evidentemente lo Stato svizzero riconosce a questo tipo di professioni, confermato dal livello retributivo, è evidente come la Svizzera consideri ed ipotizzi la propria crescita futura all’interno di uno stato e di un’economia in forte espansione, partendo dalle origini formative dei  propri cittadini attraverso la selezione e la conseguente retribuzione di varie figure formative fondamentali.

    Paradossale poi  che in Italia i falegnami siano ormai spariti quando proprio nella ricca Svizzera rappresentano nel Cantone di Zurigo (indicato come uno dei più alti per qualità di vita al mondo) il falegname rappresenti l’ottava professione per livello retributivo. Non deve suscitare alcun stupore quindi se poi tali investimenti in risorse umane, quelli che in termini aziendali vengono chiamate HR (human resources), si trasformino in veri e propri fattori economici competitivi dei quali l’economia svizzera è espressione di un sistema industriale vincente, mix di eccellenze mondiali e di PMI, e di un sistema economico e politico che intenda crescere tutelando le proprie risorse dal momento della nascita e durante  l’età formativa al fine di prepararle all’ingresso in un mercato sempre più competitivo e globale.

    Rispetto a questa classifica fa sorridere, se non arrabbiare, l’importanza che i media nazionali (in costante e continua  flessione di copie senza aumentare le connessioni internet) ancora riservano alle “nuove professioni” legate alla app, sharing o gig economy, assolutamente ridicole rispetto alla classifica svizzera che neppure le prende in considerazione.

    Anche copiare un modello economico e sociale può essere un’arte per il cui esercizio però risulta necessaria una base minima di conoscenza, evidentemente ancora sconosciuta alla nostra classe dirigente italiana. Questo rapporto economico presentato dall’ufficio economico del Cantone di Zurigo riconosce sostanzialmente il valore di un investimento nelle risorse umane che si trasforma in un fattore economico competitivo del quale ne trae giovamento l’intera economia svizzera.

  • I PIR: conoscerli per investire in modo consapevole

    Approdati sulla scena italiana con la legge di bilancio per il 2017, i PIR possono rappresentare una valida alternativa per i piccoli risparmiatori italiani. A più di un anno dal loro varo, ai più sono ancora sconosciuti in tutto o in parte comportando potenziali distorsioni nel loro utilizzo. Cercheremo, con questo breve intervento, di colmare tale lacuna tratteggiandone i caratteri salienti, evidenziandone le opportunità e i rischi.

    Innanzitutto, sebbene per il nostro Paese rappresentino una novità, lo stesso non può dirsi in termini assoluti avendo noi mutuato l’istituto da Paesi stranieri quali la Francia e il Regno Unito dove strumenti analoghi hanno visto la luce parecchi anni or sono. I Piani Individuali di Risparmio, da cui l’acronimo PIR, dovrebbero consentire di veicolare una parte del risparmio delle famiglie verso le aziende a media capitalizzazione operanti in Italia con un duplice obiettivo: incentivare il risparmio e garantire risorse finanziarie alle PMI italiane, notoriamente sottocapitalizzate e dipendenti dal sistema bancario, che sono state particolarmente sferzate dagli anni di crisi e dal protrarsi dei fenomeni di credit crunch che hanno caratterizzato l’ultimo lustro.

    I PIR sono quindi un “contenitore” che raccoglie al suo interno investimenti in strumenti finanziari qualificati. Il contenitore può assumere svariate configurazioni: OICR, fondo comune, assicurazione…; gli strumenti finanziari raccolti al loro interno vengono definiti “qualificati” se rispettano determinati parametri. A questo punto l’algoritmo è completo e discendono importanti agevolazioni fiscali: detassazione dei redditi di capitale e dei redditi diversi di natura finanziaria.

    I soggetti beneficiari della disciplina di favore sono le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato italiano che detengono le partecipazioni nel PIR non in regime di impresa (detto in altri termini: i risparmiatori italiani).

    Quanto agli aspetti oggettivi, il PIR per essere “conformi” alla normativa e garantire i benefici fiscali deve rispettare i seguenti parametri:

    1. L’importo che il risparmiatore destina al PIR non può eccedere i 30.000 euro annui fino alla somma complessiva di euro 150.000;
    2. L’investimento deve essere mantenuto per almeno 5 anni. E’ possibile disinvestire durante l’holding period purchè si proceda a reinvestire in uno strumento qualificato entro i successivi 90 giorni;
    3. Il patrimonio complessivamente investito dal PIR per almeno 2/3 dell’anno deve rispettare i seguenti vincoli di destinazione:
      1. Almeno il 49% in strumenti finanziari qualificati (equity o debt) di imprese residenti in Italia o in stati membri UE o in Stati SEE con stabili organizzazioni italiane;
      2. Almeno il 21% in strumenti qualificati di imprese italiane non negoziate nel FTSE MIB (o indici esteri equivalenti) o di imprese estere (UE o SEE) con stabili organizzazioni in Italia;
      3. Il restante 30% può essere investito anche in strumenti non qualificati di imprese estere (UE o SEE) anche senza stabile organizzazione in Italia.
    4. Le somme o i valori destinati nel piano non possono essere investiti per una quota superiore al 10% del totale in strumenti finanziari di uno stesso emittente o stipulati con la stessa controparte o con altra società appartenente al medesimo gruppo emittente.

    Da un punto di vista squisitamente pratico, il risparmiatore, per investire in PIR dovrà rivolgersi ad un intermediario abilitato (banche, assicurazioni, OICR) che possa garantire l’applicazione del regime fiscale del risparmio amministrato. Tipicamente le somme saranno segregate e investite nel rispetto dei vincoli illustrati. A questo punto, essendo il PIR conforme, consentirà, alla maturazione del quinquennio, di conseguire l’esenzione dalle imposte sui redditi di capitale o sui redditi diversi realizzati (l’eventuale decesso del risparmiatore durante l’holding period non comporta la tassazione dei redditi maturati sino alla data di apertura della successione).

    Non di poco conto sono quindi le agevolazioni concesse considerando che l’imposta sostitutiva su questo tipo di redditi è del 26%. Se ciò è vero, per valutare attentamente la reddittività con strumenti alternativi, occorre contrapporre i rendimenti (netti per definizione essendo esclusi da imposte) ai costi complessivi di gestione che possono raggiungere soglie significative (i valori medi sono: commissione di gestione 1.5%, commissione di ingresso del 2.5% – fonte sole 24 ore 12 febbraio 2018) per non parlare delle commissioni di performance che, laddove previste, si attestano in un range compreso tra il 10% e il 20%.

    Un altro aspetto che il risparmiatore deve attentamente ponderare è il circoscritto perimetro di investimento del PIR che comporta un’elevata concentrazione del rischio in una circoscritta area geografica. A tale proposito, per una corretta diversificazione del rischio del proprio portafoglio, sarà opportuno affiancare altri strumenti finanziari in grado di bilanciare opportunamente l’esposizione.

    Si segnala ancora come non sia imposto dalla legge nessun obbligo di disclosure alle aziende target con riferimento ai propri programmi di investimento. Lacuna, questa, che sarà necessariamente colmata dal mercato che, efficientemente, privilegerà gli investimenti nelle realtà sane, maggiormente competitive, che garantiscano visibilità sui propri programmi di investimento, sui propri budget e sui relativi scostamenti con i risultati conseguiti. In pratica sarà verosimile che i gestori dei PIR analizzeranno con attenzione le prospettive delle varie aziende privilegiando gli investimenti in quelle con maggiori rendimenti attesi.

    Anche le aziende di medie dimensioni dovranno quindi aggiornarsi per poter beneficiare dei capitali esterni che i PIR potranno apportare realizzando, in maniera compiuta e definitiva, quel salto di qualità “manageriale” che, ancora oggi, in alcune realtà del nostro Paese manca.

    Per concludere: bene i PIR che consentono di convogliare risorse alle PMI, opportunità per i risparmiatori che possono beneficiare di risparmi di imposta, ma non si lascino, questi ultimi, abbagliare e confrontino i rendimenti attesi con i costi e soprattutto non dimentichino il rischio, più o meno elevato, insito in questi strumenti finanziari.

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