Iran

  • Il nuovo presidente dell’Iran

    Non è certo rassicurante né bello a sapersi ma siamo tutti consci che da sempre e ovunque nel mondo ciò che i politici dicono non corrisponde necessariamente a ciò che fanno. In Medio Oriente le cose si fanno ancora più complicate perché in quelle zone le parole “sempre” e “mai” hanno pochissimo senso.

    Un caso che qualche sottile storico del futuro potrà decidere di studiare nelle sue trasformazioni decennali è quello dell’Iran, la “Repubblica Islamica” per eccellenza. Si tratta di un Paese molto particolare nel suo sistema politico. Se intendiamo come “democratico” uno Stato dove i cittadini possono esercitare un libero (seppur parziale) diritto di voto l’Iran lo è, poiché sono sempre stati gli elettori a scegliere apparentemente chi sarebbe potuto diventare il Presidente dello Stato. Purtroppo, da un lato i candidati ammessi alle elezioni sono scelti insindacabilmente da un organismo affatto trasparente sia nella sua composizione sia nei suoi criteri di valutazione; dall’altro il vero potere non appartiene né al Presidente eletto né al locale Parlamento. Infatti, istituzionalmente, la massima autorità politica risiede nella Guida Suprema, attualmente l’Ayatollah Alì Khamenei capo politico e religioso.

    Anche il potere economico non è realmente nelle mani di chi si suppone potrebbe detenerlo bensì, soprattutto nel corso degli ultimi anni, sta nelle mani di società e organismi controllati direttamente o indirettamente dalle Guardie Rivoluzionarie, una specie di esercito parallelo costituito durante la Rivoluzione Islamica a garanzia che l’orientamento religioso e morale (e politico!) del Paese non potesse essere messo a rischio. Tuttavia, particolarmente nelle città ma anche sempre più nelle campagne, la popolazione non ne può più del regime clericale, delle regole da esso imposte, della corruzione e delle prepotenze dei suoi esponenti o delle organizzazioni che li fiancheggiano. Non è un caso che le manifestazioni di protesta originate da varie cause, non ultima l’assassinio in un carcere della curda Masha Amini rea di aver indossato il velo in modo improprio, hanno visto un numero sempre crescente di partecipanti. Il fatto che siano state soffocate nel sangue con brutalità ha potuto porre fine alle proteste ma non alle ragioni che le motivavano. Nelle penultime elezioni i conservatori più tradizionalisti avevano pensato di mantenere salde le leve del potere facendo candidare (e poi eleggere senza veri concorrenti) Ibrahim Raisi alla presidenza. Costui era un ultraconservatore inviso a una grande fetta della popolazione ma perfettamente organico al potere vigente, tanto è vero che si parlava di lui come del possibile successore allo stesso Khamenei, già molto avanzato nell’età. La sua morte avvenuta con la caduta dell’elicottero su cui viaggiava ha però scombussolato tutti i giochi del potere. A questo proposito, considerate le circostanze dell’evento, non si può nemmeno escludere che la caduta del velivolo che trasportava il Presidente in carica e alcuni suoi sodali di alto livello sia stata causata volutamente dallo stesso pilota che avrebbe così deciso di sacrificarsi per liberare il Paese da un personaggio spietato e impopolare.

    Le elezioni presidenziali convocate in tutta fretta dopo quella morte hanno visto, con sorpresa di molti in patria e all’estero, che il Consiglio dei Guardiani assieme a tre candidati conservatori aveva deciso di far correre anche un “riformista”. La sorpresa è stata ancora più grande quando proprio costui ha vinto al ballottaggio la gara elettorale contro il candidato ultra conservatore che era rimasto.

    Conoscendo quel sistema si può escludere che il tutto sia avvenuto casualmente e dobbiamo allora cercare alcune possibili spiegazioni.

    Al primo turno, in gara c’erano il religioso conservatore Mostafa Pourmohammadi, il presidente del parlamento ed ex comandante delle Guardie Rivoluzionarie Mohammad Bagher Ghalibaf, sostenuto dai conservatori moderati, l’ultra conservatore Saeed Jalili, ex segretario del Consiglio Supremo Nazionale Iraniano e il riformatore moderato Massoud Pezeshkian. Quest’ultimo è un medico cardiochirurgo che non si era mai risposato dopo che la moglie morì in un incidente d’auto e ha cresciuto i figli da solo. Fu presidente dell’Università e Ministro della Salute durante la presidenza del riformatore Khatami diventando in seguito membro del parlamento. Pur essendo non particolarmente conosciuto né essersi distino come parlamentare agguerrito, riveste l’immagine di essere competente, pio e per nulla corrotto. Inoltre, la sua ascendenza è in parte curda e in parte azera e quindi potenzialmente gradito alle due minoranze. Al primo turno durante la campagna elettorale, convinti che sarebbe passato uno di loro, i tre candidati conservatori non hanno risparmiato i reciproci attacchi e ognuno di loro era portatore di uno dei gruppi di interessi che, all’interno del potere costituito, lottano da tempo tra loro per la supremazia. Sembrava che il favorito, anche perché sostenuto dalla Guardie Rivoluzionarie, potesse essere Ghalibaf ma al ballottaggio arrivò invece Jalili che si trovò contro Pezeshkian. A questo punto sembra che non solo l’elettorato più vicino ai riformatori ma anche alcuni tra i sostenitori di Ghalibaf e di Pourmohammadi abbiano scelto di appoggiare Pezeshkian. Costui aveva fatto una campagna elettorale apparentemente sottotono in quanto riformatore, ribadendo in più occasioni la sua fedeltà alla suprema guida Khamenei e ribadendo di credere nell’identità fondamentale della repubblica islamica. In positivo si è concentrato nel promettere di ridurre l’inflazione, migliorare l’azione di governo, facilitare l’accesso a internet e non enfatizzando la rigidità nelle restrizioni sull’abbigliamento femminile. In altre parole ha cercato di presentarsi come un riformatore moderatissimo, rispettoso delle virtù religiose e conscio delle responsabilità dell’equilibrio necessario in politica. È stato sincero e il suo comportamento sarà veramente come pre-annunciato? È possibile, però occorre ricordare che se fosse partito con un atteggiamento diverso e più “rivoluzionario” non solo le probabilità che il sistema lo lasciasse vincere sarebbero state quasi minime ma è perfino pressoché sicuro che sarebbe stato escluso dalla lista dei candidati. Certamente, la sua elezione ha beneficiato anche della spaccatura tra i conservatori pragmatici e i dogmatici intransigenti che avevano vinto con il governo Raisi ma non va sottovalutato che durante la sua campagna elettorale gli ex politici riformatori del passato lo hanno fortemente sostenuto. Lo ha fatto soprattutto Azar Mansoori, una donna considerata leader dei riformatori, la stessa che aveva, con successo, invitato a boicottare le elezioni presidenziali del 2021 e quella parlamentari del 2023. Questa volta, invece, ha invitato la gente ad andare a votare e scegliere Pezeshkian. Una osservazione particolare riguarda il fatto che l’anagrafica lascia pensare che proprio durante questa nuova Presidenza potrebbe probabilmente accadere che si dovrà scegliere una nuova Guida Suprema che prenda il posto di Khamenei. Essere oggi Presidente può non avere moltissimo peso, ma in alcune nomine e in alcune decisioni quella posizione può giocare un ruolo. Ancora di più se l’attuale Guida Suprema dovesse scomparire improvvisamente creando così un vuoto istituzionale e scatenando le lotte tra i vari gruppi conservatori.

    È, comunque, impossibile pensare che Pezeshkian potesse essere candidato e poi eletto contro la volontà di Khamenei. Contrariamente alla vulgata diffusa in occidente, i politici iraniani e lo stesso Khamenei non sono dei fanatici invasati di fede religiosa ma sono, al contrario, dei raffinati machiavellici forti di una cultura dotta e secolare. Il Paese sta soffrendo pesantemente una crisi economica che colpisce tutti gli strati della popolazione salvo i privilegiati vertici del potere e i loro sodali. Tutti loro, Khamenei incluso, erano oramai consci che l’impopolarità del sistema stava arrivando ad un punto di non ritorno. Le sanzioni economiche stanno soffocando sempre di più le possibilità di sviluppo e hanno fermato quasi del tutto gli investimenti e il know how dall’estero. È facile immaginare che la stessa Guida Religiosa abbia capito che, almeno nelle apparenze, qualcosa doveva cambiare per l’opinione pubblica e l’offrire una seppur piccola speranza di rinnovamento avrebbe aiutato a placare gli animi e ridare un po’ di rispettabilità al sistema (“Cambiare tutto per non cambiare niente” dice qualcosa?). I problemi, tuttavia, non si fermano alla politica interna. I vertici iraniani sanno benissimo che la loro attuale sopravvivenza deve moltissimo, se non tutto, all’aiuto che a loro arriva da Cina e Russia ma sanno altrettanto bene che ogni Paese persegue un proprio egoistico interesse e che, in caso cambiassero certi equilibri, i due attuali partner potrebbero anche decidere verso altre direzioni. Con sano realismo, quindi, Khamenei, che continua e continuerà a manifestare pubblicamente la sua ostilità nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati, ha però deciso di permettere ad una figura potenzialmente più accettabile da parte dell’occidente di avere un ruolo che, almeno formalmente, possa aprire ad altri scenari sia in politica interna che internazionale.  Ciò non significa che l’Iran potrebbe voltare le spalle a Cina e Russia ma che potrebbe aprire contemporaneamente ad un maggiore dialogo con gli occidentali. Nessuno si può illudere che l’Iran cambierà improvvisamente il proprio atteggiamento anche perché, comunque sia, la politica estera è strettamente nelle mani dello stesso Khamenei (anche il Ministro degli esteri del governo Pezeshkian non potrà che essere un esecutore delle direttive che gli arriveranno dalla Guida Suprema e dai consiglieri in politica internazionale di quest’ultimo). Comunque sia, non è stato casuale che Pezeshkian abbia sostenuto di volersi impegnare in “dialogo costruttivo” con i Paesi europei (sebbene continui ad accusarli di aver tradito l’accordo del 2015). Ha anche parlato di voler aumentare la collaborazione con i Paesi vicini sostenendo che tutta l’area sarebbe molto più sicura e tranquilla se regnasse tra loro la collaborazione anziché la ricerca del dominio di un singolo Stato. A proposito della guerra di Gaza, nonostante l’Iran continui a sostenere pubblicamente Hamas e la causa palestinese in generale, ha dichiarato che la sua amministrazione farà di tutto per spingere i vicini Stati arabi a collaborare affinché sia raggiunto un qualunque cessate il fuoco. A questo proposito, anche qui considerando le modalità con cui si è svolto l’assassinio di Ismail Haniyek, non è da escludere che tale omicidio abbia avuto almeno un tacito consenso dei massimi poteri di Teheran. Costui, infatti, pur presentandosi al mondo come la parte più dialogante di Hamas (in un gioco delle parti comunemente usato in politica) era sempre stato percepito dagli iraniani come “troppo indipendente”. Infatti, tutta sua fu la responsabilità della decisione che Hamas, in Siria, si schierasse con le fazioni ribelli (sostenute da sauditi e turchi) contro Assad e quindi contro gli iraniani. Ovviamente, anche se così fosse stato, mai e poi mai qualcuno lo ammetterà.

    Anche per quanto concerne le scelte economiche e di politica interna il margine di manovra del nuovo governo sarà condizionato pesantemente. La onnipresenza pervasiva delle aziende che fanno capo alle Guardie Rivoluzionarie obbligherà il nuovo Governo a negoziare e concordare con loro ogni intervento che non vorrà essere minimale.

    Come si diceva all’inizio di queste righe, la politica medio orientale è molto complessa e raramente trasparente. In Iran lo è ancora di più rispetto a tutti i Paesi che lo circondano. I gruppi di interesse sono tanti e la lotta tra di loro non è mai venuta meno nonostante l’apparente compattezza. I precedenti tentativi, supportati dall’Occidente, di apportare cambiamenti al sistema sono sempre naufragati nel nulla aprendo la porta a vecchi poteri reazionari. Non è da escludere che questa volta, in maniera mai dichiarata e affatto eclatante, si arrivi man mano a cambiamenti politici inaspettati. Affinché ciò possa avvenire, sarà però indispensabile che nessuna forza straniera si intrometta in alcun modo, né solleciti accelerazioni perché, se così fosse, anche i poteri ora in lotta tra loro si ricompatterebbero immediatamente e tutto tornerebbe a bloccarsi.

  • Le incompatibili strategie

    Come reazione all’attentato terroristico dello scorso ottobre lo Stato di Israele ha scelto di rispondere in due diversi modalità. La prima attraverso quella che potremmo definire una guerra tradizionale nei confronti dello Stato palestinese, ma soprattutto di Hamas che lo amministra lungo la striscia di Gaza. Contemporaneamente, ed ecco la seconda opzione, i servizi segreti israeliani hanno mantenuto la propria operatività individuabile nella ricerca e successiva eliminazione dei leader delle diverse organizzazioni terroristiche, esattamente come nell’ultimo caso a Teheran con il campo di Hamas.

    La coesistenza di queste due strategie sta isolando completamente lo Stato israeliano all’interno degli schieramenti internazionali anche a causa di un errore clamoroso dell’amministrazione Biden. Appena insediato il quasi ex presidente degli Stati Uniti d’America tradì l’accordo, precedentemente firmato dall’amministrazione Trump, con l’Arabia Saudita che aveva portato all’isolamento politico, militare ed economico dell’Iran sciita e nemico storico della dinastia Saudita. La irresponsabile apertura statunitense alla Repubblica islamica ha permesso a quest’ultima di continuare nel processo di arricchimento dell’uranio, di sostenere finanziariamente i vari gruppi terroristici, di diventare un alleato della Russia di Putin e di confermare la propria volontà di abbattere lo Stato di Israele. Mentre l’Arabia Saudita, che assieme agli Stati Uniti rappresentano i due più importanti produttori di petrolio nel mondo, ha abbandonato la propria posizione di mediazione all’interno del mondo arabo ed ora all’interno di questa nuova e terribile crisi mediorientale rimane in posizione di attesa.

    In questo complesso sistema di relazioni internazionali e di guerra, le due strategie, (1) di una guerra totale, (2) di un azzeramento dei vertici delle diverse organizzazioni terroristiche attraverso l’azione dei servizi segreti, risultano incompatibili in quanto gli effetti di un compattamento degli avversari politici, ideologici e religiosi rischiano di diventare molto più gravi nella loro complessa gestione di quelli di un tradizionale conflitto militare.

    Una lungimirante politica vedrebbe innanzitutto coinvolta l’Arabia Saudita da parte degli Stati Uniti attraverso un nuovo accordo che andrebbe ben oltre l’elezione del prossimo presidente Usa, in modo da assicurarsi all’interno del vulcano medio orientale l’appoggio politico o quantomeno la neutralità del più grande stato di quella regione, anche in previsione di un possibile ingresso dell’Arabia Saudita all’interno dei Brics in un’ottica di sbarramento allo strapotere cinese.

    In altre parole, mantenere questa strategia israeliana risulta assolutamente impossibile e per risolvere bisognerebbe coinvolgere appunto l’Arabia Saudita in contrapposizione all’Iran ed alla sua teocrazia che intende ad accrescere lo scenario di guerra coinvolgendo gli Hezbollah libanesi.

    Uno scenario certamente complesso che richiede visioni a medio e lungo termine e competenze non comuni. Esattamente quelle che ancora una volta l’intera Unione Europea dimostra di non possedere in considerazione della sua più totale assenza da ogni situazione di crisi geopolitica internazionale.

  • Prima dello schianto Raisi fa eseguire le condanne a morte disposte in Iran

    Ebrahim Raisi le ha raggiunte poco dopo, ma prima che il presidente iraniano morisse l’Iran ha giustiziato almeno sette persone, tra cui due donne. A denunciarlo è stata la Ong con sede a Oslo, Iran Human Rights (Ihr), segnalando anche il rischio imminente di esecuzione per un membro della minoranza ebraica. L’associazione ha evidenziato una escalation di esecuzioni capitali nel Paese. Una delle vittime è Parvin Mousavi, 53 anni, madre di due figli adulti che è stata impiccata nella prigione di Urmia, nel nord-ovest dell’Iran. Insieme a lei anche cinque uomini, condannati per vari casi legati alla droga, secondo quanto riferito su un comunicato dell’organizzazione norvegese. L’altra donna giustiziata è Fatemeh Abdullahi, 27 anni, impiccata a Nishapur, nell’Iran orientale, con l’accusa di aver ucciso suo marito (che era anche suo cugino).

    L’Ong norvegese afferma anche di aver registrato in Iran almeno 223 esecuzioni quest’anno, di cui almeno 50 solo nel mese di maggio. La nuova ondata, iniziata dopo la fine delle festività del Capodanno persiano e del Ramadan ad aprile, ha visto la morte di 115 persone, tra cui 6 donne impiccate da allora. L’Iran è il Paese che registra più esecuzioni di donne in tutto il mondo. Gli attivisti affermano che molte di queste detenute sono vittime di matrimoni forzati o abusivi. Secondo l’Ong, che accusano la repubblica islamica di usare la pena capitale come mezzo per scatenare la paura sulla scia delle proteste scoppiate nell’autunno 2022, l’anno scorso l’Iran ha effettuato più impiccagioni che in qualsiasi altro anno dal 2015. “Il silenzio della comunità internazionale è inaccettabile”, ha dichiarato il direttore dell’Ihr Mahmood Amiry-Moghaddam. “Le persone giustiziate – ha aggiunto – appartengono ai gruppi poveri ed emarginati della società iraniana e non hanno avuto processi equi con il giusto processo”.

  • Silenzi e parole

    Ogni giorno muoiono tante persone per malattia, anche tanti bambini

    Ogni giorno muoiono tante persone per fame, carestie, povertà, anche tanti bambini

    Ogni giorno, in guerre subite o volute, guerre di offesa e troppe guerre di difesa, muoiono tanti civili, anche tanti, troppi bambini.

    Muoiono esseri umani, che non hanno fatto mai male a nessuno, durante le catastrofi naturali o in incidenti voluti o provocati da altri esseri umani, muoiono persone mentre stanno lavorando o mentre tornano a casa e qualcuno le uccide in macchina, muoiono donne per mano di chi pretendeva di amarle, muoiono bambini per poter vendere i loro organi.

    La morte purtroppo fa parte della vita quando si diventa anziani ma tutte queste morti tragiche volute da altri uomini, o tutte le tragedie per le quali sembra non poter esserci risposta se non continuando ad avere il coraggio della fede, perché sono sempre di più gli innocenti che muoiono rispetto a chi innocente non è, sembra che non colpiscano più di tanto rispetto alla morte di una persone potente e conosciuta.

    La morte del presidente iraniano ha avuto più parole e attenzione di tutti i morti in Ucraina o di tutti coloro che sono morti mentre fuggivano disperati dai loro paesi in guerra.

    Comprendiamo ovviamente tutte le ragion di Stato ma per la morte di Raisi possiamo solo dire di avere l’ingenua, incrollabile speranza che chi lo sostituirà sia meno sanguinario e crudele di lui.

  • Gli Usa sventano una fornitura d’armi agli Houthi dalla Somalia. Ma è allarme per ambiente e pirateria

    Le autorità statunitensi hanno incriminato quattro cittadini stranieri accusati dell’invio di armi di fabbricazione iraniana alle milizie yemenite Houthi, responsabili degli attacchi sferrati in questi mesi contro le navi commerciali che attraversano il Mar Rosso. Il dipartimento di Giustizia ha divulgato ieri i capi d’accusa a carico di Muhammad Pahlawan, Mohammad Mazhar, Ghufran Ullah and Izhar Muhammad: i quattro sarebbero responsabili del carico di armi sequestrato dai Navy Seals al largo delle coste della Somalia il mese scorso, e sono anche accusati di aver fornito informazioni false alla Guardia costiera statunitense dopo il loro arresto.

    Pahlawan è stato inoltre accusato di aver trasportato illegalmente una testata esplosiva, pur sapendo che gli Houthi avrebbero potuto utilizzarla per attaccare navi commerciali. L’arresto dei quatro contrabbandieri e il sequestro di un piccolo carico di componenti per missili sono stati effettuati l’11 gennaio scorso durante un controverso raid al largo delle coste della Somalia, che ha portato alla morte di due militari statunitensi. Secondo indiscrezioni della stampa Usa, il raid venne ordinato dai vertici della Marina Usa a dispetto di condizioni proibitive sul piano operativo, a causa del mare molto mosso.

    In un’intervista al Financial Times, Arsenio Dominguez, segretario generale dell’Organizzazione marittima internazionale, ha paventato un corto circuito tra gli attacchi degli Houthi nel Mar Rosso e la pirateria africana.

    Costrette dallo scorso dicembre a deviare le loro rotte e circumnavigare l’Africa per evitare gli attacchi Houthi, le principali compagnie navali hanno determinato un aumento della navigazione nelle acque dell’Oceano Indiano e al largo dell’Africa occidentale, un’area marittima dove notoriamente avvengono degli attacchi di pirateria. Non a caso, da anni, in quella sezione di mare è operativa la missione Ue Atalanta. Dominguez ha affermato di aver parlato con le autorità della Somalia, dell’Africa orientale e dei Paesi attorno al Golfo di Guinea, nella parte occidentale del continente, per discutere degli sforzi da mettere in atto per garantire che la pirateria non diventi nuovamente un grave problema.

    Last but not least, gli attacchi degli Houthi rappresentano una minaccia anche all’ambiente. Il Comando centrale degli Stati Uniti (Centcom) ha segnalato nei giorni scorsi che una nave mercantile abbandonata nel Golfo di Aden dopo un attacco dei ribelli sciiti yemeniti sta imbarcando acqua e ha lasciato un’enorme chiazza di petrolio, provocando un disastro ambientale. La Rubymar, una nave mercantile battente bandiera del Belize, registrata in Regno Unito e gestita dal Libano, è stata colpita da un missile sulla fiancata della nave, con conseguente allagamento della sala macchine e abbassamento della poppa, ha affermato il suo operatore, il Blue Fleet Group. “Quando è stata attaccata la M/V Rubymar trasportava oltre 41mila tonnellate di fertilizzanti che potrebbero riversarsi nel Mar Rosso e peggiorare questo disastro ambientale”, ha affermato Centcom in un post su X. L’attacco alla Rubymar rappresenta il danno più significativo mai inflitto a una nave commerciale da quando gli Houthi hanno iniziato a sparare sulle navi a novembre come forma do rappresaglia contro l’offensiva israeliana a Gaza. Gli attacchi degli Houthi hanno spinto alcune compagnie di navigazione ad allungare la rotta intorno all’Africa meridionale per evitare il Mar Rosso, dove normalmente transita circa il 12% del commercio marittimo globale.

  • Incursioni di pirateria nel Mar Rosso contro le navi commerciali. Blocco di Suez e circumnavigazione dell’Africa: grave attacco all’economia europea

    Riceviamo e pubblichiamo un comunicato stampa di Salvatore Grillo della Segreteria di Unità Siciliana

    “Persiste un sostanziale silenzio in Italia, una assenza di dibattito politico su una vicenda che determinerà, se non si interverrà urgentemente, un forte aumento dei costi sui beni importati ed esportati colpendo seriamente interessi strategici del nostro Paese e dell’intera Europa. Mi riferisco agli attacchi che le milizie ribelli yemenite Houth, sorrette dall’Iran, stanno lanciando contro le navi commerciali che transitano nel mar Rosso. A seguito di questa azione piratesca, che sconvolge i diritti internazionali di navigazione negli stretti, le maggiori compagnie e i consorzi di navigazione, a cominciare da   Maersk, Cma Cqm,Hapag-Lloyd e MSC Mediterranean Shipping Co,  hanno annunciato che devieranno il tragitto delle loro navi evitando lo stretto di Suez e tornando a circumnavigare l’Africa dal Capo di Buona Speranza. Questa scelta causerà l’aumento di almeno da 5 a 9 gg di navigazione e la conseguente lievitazione dei costi di una quantità enorme di materie prime e semi lavorati che riforniscono la struttura manifatturiera europea. Questa vicenda riguarda il 20% della ricchezza mondiale che normalmente transita nel Mediterraneo, fatto che ha determinato un colossale investimento per il raddoppio di Suez e su cui si basano le speranze di sviluppo di molti territori, a partire dal Mezzogiorno italiano. Nonostante gli enormi interessi in ballo registro un silenzio assordante da parte della politica italiana, Governo ed opposizione, ed aggiungerei anche scarsa reazione delle categorie interessate, non solamente quella della rappresentanza industriale, ma di tutti i settori coinvolti, a partire dalla logistica per giungere all’intera rappresentanza sindacale. I fatti sono legati ad una azione violenta di solidarietà ad Hamas dei guerriglieri sciiti che hanno dichiarato che attaccheranno le navi di tutti i paesi che riconoscono Israele, una azione certamente scatenata dal regime iraniano che arma e finanzia queste milizie, un regime la cui esistenza da anni si appalesa come insopportabile innanzitutto per l’oppressione violenta di ogni libertà reclamata dai giovani e dalle donne di quel paese, un regime nei confronti del quale rimane inspiegabile la mancata partecipazione dell’Europa Comunitaria al suo isolamento assoluto sul piano delle relazioni economiche. Sull’argomento amerei vedere muovere il nostro Parlamento, sentire il pensiero del Governo e magari potere constatare una protesta e una mobilitazione sociale”.

                                    

  • L’Iran condanna a morte quattro imputati per aver venduto alcolici di contrabbando

    L’Iran ha condannato a morte quattro imputati per aver venduto alcolici di contrabbando che, a giugno scorso, avevano provocato la morte di 17 persone, mentre 191 erano state ricoverate in ospedale con sintomi di avvelenamento da metanolo. Lo ha dichiarato in una conferenza stampa il portavoce della magistratura iraniana, Masoud Setayeshi, spiegando che 11 imputati erano stati accusati in precedenza del “reato capitale di corruzione” per la distribuzione di bevande alcoliche nella provincia di Alborz, a ovest di Teheran.

    Di questi 11, quattro sono stati condannati a morte mentre gli altri hanno ricevuto pene detentive da uno a cinque anni, i condannati possono appellarsi alla Corte suprema dell’Iran. Secondo i dati diffusi dall’Istituto di medicina legale della Repubblica islamica, 644 persone sono morte nell’anno iraniano conclusosi il 20 marzo 2023 dopo aver consumato “bevande alcoliche contraffatte”, con un aumento del 30 per cento rispetto al periodo precedente di 12 mesi. La vendita e il consumo di alcolici sono stati vietati in Iran dopo la Rivoluzione islamica del 1979, dando origine a un massiccio contrabbando di alcolici, alcuni dei quali adulterati con metanolo tossico. Nel 2020, almeno 210 iraniani erano morti dopo aver bevuto alcolici di contrabbando, credendo falsamente che fossero una cura per il Covid-19.

  • In Iran tornano le pattuglie per il controllo del decoro

    A meno di un anno dalla morte Mahsa Amini, la giovane uccisa in Iran perché non indossava
    correttamente l’hijab, le pattuglie della polizia morale, istituite dopo la Rivoluzione islamica del 1979, potranno nuovamente sanzionare coloro che non portano il velo correttamente nei luoghi pubblici.

    L’assurdo omicidio aveva portato moltissime persone a manifestare in maniera veemente contro il regime, la maggior parte erano donne che avevano tolto il velo e tagliato i capelli in segno di ribellione. Dopo centinaia di arresti e condanne a morte, l’Iran aveva sospeso le forze della polizia morale poiché gli agenti di sicurezza, durante le proteste, avevano picchiato, torturato, ucciso e fatto sparire delle persone. Nonostante il regime iraniano, le proteste sono andate avanti a lungo. Adesso però gli agenti ripristineranno il controllo capillare sui civili, in particolare sul corretto utilizzo dell’hijab da parte delle donne, avvalendosi anche di
    telecamere in strada.

  • Aerei Usa nel Golfo Persico per impedire sequestri di navi da parte di Teheran

    Gli Stati Uniti hanno deciso d’inviare caccia F-16 nella regione del Golfo Perisco, in particolare intorno allo Stretto di Hormuz, per meglio proteggere le navi in transito da tentativi di sequestro da parte dell’Iran. Lo riportano i media Usa citando una fonte del Pentagono, secondo la quale Washington è sempre più preoccupata dai crescenti legami tra Iran, Russia e Siria.

    Gli F-16 si uniranno agli aerei da attacco A-10 che stanno già conducendo attività di pattugliamento dell’area da oltre una settimana. Questo dopo che a metà luglio l’Iran ha cercato di sequestrare due petroliere in transito attraverso lo Stretto, aprendo anche il fuoco contro una di esse. In entrambi i casi, le imbarcazioni iraniane sono tornate indietro dopo l’arrivo dell’incrociatore statunitense Uss McFaul.

    La fonte anonima del Pentagono ha spiegato che gli F-16 garantiranno copertura aerea alle navi e miglioreranno le capacità di controllo delle forze armate Usa nell’area, oltre a costituire una forza di deterrente contro nuovi attacchi iraniani. Lo stesso funzionario del dipartimento della Difesa ha aggiunto che gli Stati Uniti stanno considerando diverse opzioni sul tavolo per rispondere ai sempre più frequenti attacchi aerei della Russia in Siria, che complicano le operazioni degli Stati Uniti contro lo Stato islamico. Washington, ha aggiunto la fonte, continuerà in ogni caso a effettuare missioni di antiterrorismo nella parte occidentale del Paese.

  • L'”arte” della guerra

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo del Prof. Francesco Pontelli

    La guerra, qualsiasi guerra, presenta un aspetto relativo alla battaglia territoriale ed un altro contemporaneo giocato nell’articolato contesto diplomatico al quale aggiungere nella contemporaneità della nostra società anche l’aspetto mediatico.

    Il successo in una guerra, quindi, necessita ovviamente di una superiorità militare espressa con una capacità strategica vincente, ma anche di una parallela visione diplomatica attraverso la quale trovare delle soluzioni politiche per un cessate il fuoco, senza dimenticare l’obiettivo di isolare quanto più possibile il nemico che si intende abbattere.

    La Grande Alleanza nata tra Stati Uniti, Gran Bretagna ed Unione Sovietica aveva l’obiettivo, per altro perfettamente riuscito, di isolare la Germania nazista e quindi porre le basi militari, politiche e diplomatiche finalizzate alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale.

    L’amministrazione Biden, già prima dell’inizio della guerra russo-ucraina avviata da Putin, decise scientemente di annullare le alleanze che la precedente amministrazione Trump aveva definito, come l’accordo tra gli Stati Uniti con l’Arabia Saudita. Un’intesa di carattere politico ed economico con vicendevoli opportunità per i due contraenti che aveva assicurato il mantenimento del pezzo del petrolio a 60 dollari grazie proprio all’alleanza tra il primo produttore di petrolio al mondo, cioè gli Stati Uniti, con la prima nazione per riserve petrolifere, cioè la sunnita Arabia Saudita. Contemporaneamente l’intero mondo occidentale vedeva il potere dell’Opec, con la sua politica ricattatoria, ridimensionato come mai in precedenza.

    L’apertura, invece, dell’amministrazione Biden allo storico nemico sciita, l’Iran, fu giustamente vissuta come un tradimento da parte dell’Arabia Saudita la quale, in più occasioni, ha dimostrato il proprio risentimento appoggiando senza esitazione le politiche restrittive relative alle estrazioni di petrolio da parte dell’Opec.

    Una apertura americana che ha visto ovviamente l’appoggio dell’Unione Europea, da sempre incapace di elaborare una propria politica estera e che ha determinato, in più, il beffardo appoggio tecnologico e militare dello stesso Iran alla Russia di Putin, quindi contro gli stessi Stati Uniti ed Unione Europea.

    L’annuncio di questi giorni della ulteriore riduzione delle estrazioni di petrolio di oltre un milione di barili di petrolio rappresenta l’ennesima conferma della sempre più evidente contrapposizione tra il mondo occidentale con i paesi esportatori di petrolio a causa proprio della politica estera dell’amministrazione Biden.

    La situazione risulta talmente problematica che i nemici di sempre, Iran e Arabia Saudita, sotto l’egida della Cina (*), hanno ora addirittura raggiunto un primo storico accordo tra le due declinazioni della religione araba da sempre in guerra, cioè sciita e sunnita, compattando il fronte economico e politico che si contrappone nella complessa guerra russo-ucraina.

    Emerge evidente come, diversamente dalla vittoriosa strategia della Seconda Guerra Mondiale, la quale ha unito mondi politici ed istituzionali diversi come Stati Uniti Gran Bretagna ed Unione Sovietica, la contemporanea strategia americana, della NATO e della stessa Unione Europea tenda sempre più a non solare il nemico dichiarato, cioè la Russia di Putin, quanto a fortificare le alleanze tra Cina, Russia e mondo arabo.

    La supremazia militare mondiale degli Stati Uniti, quando non viene supportata da una adeguata politica estera e diplomatica, si riduce alla semplice esposizione dei primati militari e tecnologici. Traguardi i quali, tuttavia, perdono ogni effetto “deterrente” a favore dell’efficacia complessiva di una visione strategica politica, militare e diplomatica delle quali l’attuale amministrazione Biden, come la stessa Unione Europea, sembrano esserne assolutamente deficitarie.

    (*) La Cina acquisisce una nuova centralità nella geopolitica mondiale proprio in ragione degli errori statunitensi.

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