Israele

  • Il Qatar smette di fare il mediatore tra Hamas e Israele

    Il Qatar ha deciso di porre fine al suo ruolo di mediatore nei negoziati tra Israele e il movimento islamista palestinese Hamas. Lo ha confermato al quotidiano “Times of Israel” una fonte diplomatica che ha familiarità con la questione. Se il Qatar non fa più da mediatore, non ha più motivo di permettere a Hamas di mantenere il suo ufficio politico nel Paese, ha affermato la stessa fonte. In precedenza, fonti statunitensi e qatariote hanno dichiarato all’emittente “Cnn” che il Qatar ha accettato di espellere i leader di Hamas dalla capitale Doha in seguito a una richiesta arrivata dagli Stati Uniti dopo mesi di tentativi falliti per convincere il gruppo islamista ad accettare un accordo di tregua con Israele nella Striscia di Gaza. Secondo la fonte di “Times of Israel”, i leader di Hamas si sposteranno dal Qatar in Turchia. A seguito della notizia del ritiro dalla mediazione del Qatar, un funzionario di Hamas di alto livello ha dichiarato ai media internazionali che il gruppo islamista non ha ricevuto alcuna indicazione dal Paese di Golfo di lasciare Doha, dove da anni ha sede il suo ufficio politico. “Non abbiamo nulla da confermare o smentire riguardo a quanto pubblicato da una fonte diplomatica non identificata e non abbiamo ricevuto alcuna richiesta di lasciare il Qatar”, ha dichiarato il funzionario di Hamas da Doha.

    Secondo quanto riferito da “Cnn”, circa due settimane fa i funzionari Usa avrebbero informato le loro controparti del Qatar sulla necessità di smettere di dare rifugio a Hamas a Doha. Il Qatar ha accettato e ha dato al gruppo islamista un preavviso circa una settimana fa, hanno affermato le fonti di “Cnn”. “Hamas è un gruppo terroristico che ha ucciso statunitensi e continua a tenerli in ostaggio”, ha dichiarato a “Cnn” un funzionario di alto livello dell’amministrazione Biden, aggiungendo: “Dopo aver rifiutato ripetute proposte di rilascio degli ostaggi, i suoi leader non dovrebbero più essere i benvenuti nelle capitali dei partner degli Usa”.

    Nel corso dei negoziati mediati da Usa, Qatar ed Egitto nell’ultimo anno per raggiungere una tregua tra Israele e Hamas, i funzionari statunitensi hanno chiesto al Paese del Golfo di usare la minaccia di espulsione da Doha come leva nei colloqui con il gruppo islamista. L’impulso finale che avrebbe spinto il Qatar ad accettare di cacciare Hamas dalla sua capitale è arrivato di recente, dopo la morte dell’ostaggio statunitense-israeliano Hersh Goldberg-Polin e il rifiuto del movimento palestinese dell’ultima proposta di cessate il fuoco. Non è chiaro né quando i leader di Hamas saranno espulsi dal Qatar né dove andranno. Un funzionario statunitense ha spiegato a “Cnn” che al gruppo non è stato concesso un periodo di tempo prolungato per lasciare il Paese. Sebbene la Turchia sia vista come una possibile opzione, è probabile che gli Stati Uniti non approvino questo scenario.

  • La fine di Sinwar esempio per irriducibili fautori di violenza

    Quando muore una persona, specie se è uccisa, umanamente dispiace ma quando è eliminato uno dei più feroci terroristi ed assassini come Sinwar pensiamo solo che con la sua morte saranno risparmiate le vite di migliaia di innocenti.

    La fine dei vertici di Hamas ci auguriamo porti al più presto ad una nuova era per la Palestina e per Israele, che l’intera area ritrovi una convivenza civile, che ogni popolo, ogni legittimo governo abbiano la capacità, la volontà di sconfiggere qualunque tipo di terrorismo.

    La fine di Sinwar serva di estremo esempio agli irriducibili fautori di violenze, dagli Hezbollah all’Iran.

  • Il silenzio arabo nella crisi mediorientale

    Credere che un anno fa, il 7 ottobre 2023, sia cominciata una delle più gravi crisi mediorientali rappresenta una visione legittima ma piuttosto limitata e probabilmente viziata da un approccio ideologico. L’inizio di questa crisi sfociata nell’attuale conflitto trae la propria origine strategica e politica con l’inizio della presidenza Biden, il quale annullò, appena insediatosi alla Casa Bianca, l’accordo siglato dalla precedente amministrazione Trump con l’Arabia Saudita (sunnita), che aveva una funzione anti Iran (sciita), con l’obiettivo di isolare quella teocrazia all’interno del mondo arabo e con lo stesso appoggio della Russia.

    Questa scellerata decisione di politica estera dell’amministrazione Biden, invece, ha determinato come effetto immediato quello di riportare la teocrazia iraniana all’interno dello scacchiere internazionale e soprattutto medio orientale, come hanno dimostrato i finanziamenti a vari gruppi terroristici come Hamas e gli Hezbollah,

    In altre parole, il riconoscimento statunitense di un ritrovato ruolo alla teocrazia sciita iraniana all’interno dello scacchiere politico ha rigenerato, come affetto collaterale, lo stesso ruolo dell’Opec che l’accordo tra Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia, anche sul prezzo del barile di petrolio, aveva messo in disparte.

    Soprattutto nello scacchiere mediorientale, il tradimento diplomatico statunitense ha posto le basi politiche dell’attuale crisi, il cui esito finale risulta ancora in via di definizione, anche se già ora alcune aspettative politiche cominciano a delinearsi.

    Pur riconoscendo che il mondo arabo, infatti, da sempre risulti di difficile lettura ed interpretazione, tuttavia forse all’interno di questo scenario di guerra israelo-palestinese contemporaneo i ruoli appaiono un po’ più definiti. Prova ne sia che dal 7 ottobre 2023 ad oggi si sia registrato l’assoluto silenzio delle Nazioni arabe moderate e soprattutto dell’Arabia Saudita, un silenzio indice di un nuovo atteggiamento politico nei confronti di Israele.

    Questi paesi arabi intendono assistere in complice silenzio alle azioni sempre più profonde della strategia militare israeliana, da tempo non più limitate all’interno di Gaza ma anche del Libano e forse in previsione probabilmente anche dello stesso Iran.

    L’inconfessabile desiderio dell’Arabia Saudita, i cui vertici politici hanno confermato una volta di più l’assoluto disinteresse per la causa palestinese, quanto dei paesi arabi moderati, rimane quello di vedere implodere la democrazia iraniana, da sempre fornitrice di supporti finanziari ai diversi gruppi terroristici che mettono a rischio la stabilità di molti paesi del Medio Oriente.

    Il paradosso di questa crisi mediorientale è definibile dal clamore assicurato nell’occidente dalle frange più estremiste nelle democrazie occidentali nella più totale assenza di una posizione politica dell’Unione europea, al quale si contrappone il silenzio dei paesi arabi moderati e della stessa Arabia Saudita che vedono in Israele lo strumento attraverso il quale eliminare il più grande pericolo al mondo arabo rappresentato dall’Iran.

  • Le incompatibili strategie

    Come reazione all’attentato terroristico dello scorso ottobre lo Stato di Israele ha scelto di rispondere in due diversi modalità. La prima attraverso quella che potremmo definire una guerra tradizionale nei confronti dello Stato palestinese, ma soprattutto di Hamas che lo amministra lungo la striscia di Gaza. Contemporaneamente, ed ecco la seconda opzione, i servizi segreti israeliani hanno mantenuto la propria operatività individuabile nella ricerca e successiva eliminazione dei leader delle diverse organizzazioni terroristiche, esattamente come nell’ultimo caso a Teheran con il campo di Hamas.

    La coesistenza di queste due strategie sta isolando completamente lo Stato israeliano all’interno degli schieramenti internazionali anche a causa di un errore clamoroso dell’amministrazione Biden. Appena insediato il quasi ex presidente degli Stati Uniti d’America tradì l’accordo, precedentemente firmato dall’amministrazione Trump, con l’Arabia Saudita che aveva portato all’isolamento politico, militare ed economico dell’Iran sciita e nemico storico della dinastia Saudita. La irresponsabile apertura statunitense alla Repubblica islamica ha permesso a quest’ultima di continuare nel processo di arricchimento dell’uranio, di sostenere finanziariamente i vari gruppi terroristici, di diventare un alleato della Russia di Putin e di confermare la propria volontà di abbattere lo Stato di Israele. Mentre l’Arabia Saudita, che assieme agli Stati Uniti rappresentano i due più importanti produttori di petrolio nel mondo, ha abbandonato la propria posizione di mediazione all’interno del mondo arabo ed ora all’interno di questa nuova e terribile crisi mediorientale rimane in posizione di attesa.

    In questo complesso sistema di relazioni internazionali e di guerra, le due strategie, (1) di una guerra totale, (2) di un azzeramento dei vertici delle diverse organizzazioni terroristiche attraverso l’azione dei servizi segreti, risultano incompatibili in quanto gli effetti di un compattamento degli avversari politici, ideologici e religiosi rischiano di diventare molto più gravi nella loro complessa gestione di quelli di un tradizionale conflitto militare.

    Una lungimirante politica vedrebbe innanzitutto coinvolta l’Arabia Saudita da parte degli Stati Uniti attraverso un nuovo accordo che andrebbe ben oltre l’elezione del prossimo presidente Usa, in modo da assicurarsi all’interno del vulcano medio orientale l’appoggio politico o quantomeno la neutralità del più grande stato di quella regione, anche in previsione di un possibile ingresso dell’Arabia Saudita all’interno dei Brics in un’ottica di sbarramento allo strapotere cinese.

    In altre parole, mantenere questa strategia israeliana risulta assolutamente impossibile e per risolvere bisognerebbe coinvolgere appunto l’Arabia Saudita in contrapposizione all’Iran ed alla sua teocrazia che intende ad accrescere lo scenario di guerra coinvolgendo gli Hezbollah libanesi.

    Uno scenario certamente complesso che richiede visioni a medio e lungo termine e competenze non comuni. Esattamente quelle che ancora una volta l’intera Unione Europea dimostra di non possedere in considerazione della sua più totale assenza da ogni situazione di crisi geopolitica internazionale.

  • Dichiarazione della Presidente von der Leyen sull’attacco dell’Iran contro Israele

    Ieri l’Iran ha lanciato un massiccio attacco contro Israele, utilizzando droni e missili. Un simile attacco diretto dell’Iran contro Israele è senza precedenti.

    Oggi noi, leader del G7, abbiamo condannato quest’attacco con la massima fermezza. Esprimiamo la nostra solidarietà e il nostro sostegno al popolo israeliano e ribadiamo il nostro risoluto impegno per la sua sicurezza.

    Le azioni dell’Iran rischiano di provocare un’escalation incontrollabile nella regione, che deve essere evitata.

    Continueremo a lavorare per stabilizzare la situazione.

    Chiediamo all’Iran e ai suoi alleati di cessare completamente gli attacchi. Tutte le parti devono esercitare la massima moderazione.

    Abbiamo anche discusso della necessità di porre fine quanto prima alla crisi a Gaza. Ciò implica un immediato cessate il fuoco e l’immediato rilascio di tutti gli ostaggi da parte di Hamas, oltre alla fornitura di maggiore assistenza umanitaria ai palestinesi in difficoltà.

    Valuteremo ulteriori sanzioni contro l’Iran in stretta collaborazione con i nostri partner, soprattutto in relazione ai programmi su droni e missili.

    Grazie.

  • Cosa si aspettava Hamas dal tremendo atto del 7 ottobre?

    Nessuno è in grado di dire oggi come sarà la Gaza del futuro e la stessa incertezza riguarda la Cisgiordania. È risaputo che dentro il governo di Netanyahu ci sono personaggi e forze politiche che ambiscono all’assorbimento di tutti questi territori dentro lo Stato di Israele ma, anche se ciò dovesse (improbabilmente) avvenire, resta la domanda su cosa sarà dei milioni di palestinesi che oggi abitano quelle zone. Il desiderio dei fanatici religiosi e dei super-nazionalisti israeliani è quello di tenerli fuori dai futuri confini ma questa possibilità sembra irrealistica. Giordania ed Egitto, i due Stati confinanti che, in teoria, dovrebbero accoglierli hanno già dichiarato in modo inequivocabile che non se ne parla nemmeno. Il loro atteggiamento è più che comprensibile poiché non si tratta di qualche centinaio d persone ma di milioni: un popolo con una propria identità e un odio sempre più condiviso e radicale contro gli occupanti delle loro terre.  È ovvio che costoro rappresenterebbero un enorme fattore di instabilità interna ed esterna per entrambi i Paesi ospitanti. La Giordania ha già un problema con la grande quantità di palestinesi che vivono dentro i suoi confini e, a prescindere da possibili (forse probabili) sentimenti affettivi, il fatto che il re di Giordania abbia scelto come sposa proprio una palestinese suona un po’ come quando gli antichi sovrani sposavano le figlie del re di un Paese potenzialmente nemico proprio per farselo amico. In Egitto non stanno molto meglio. Se, come ipotizzano alcuni fanatici a Tel Aviv, tutti i palestinesi fossero confinati nel semi-desertico Sinai da lì rilancerebbero le loro battaglie, esattamente come hanno fatto assieme a Hezbollah in Libano. Con l’aggravante che, di là dalla retorica, il governo egiziano ha tutto l’interesse, economico e politico, ad avere buoni rapporti con i governi di Israele e non diventare la base di partenza per un nuovo conflitto.

    Considerata la situazione attuale, ci sarebbe da domandarsi perché l’ha fatto e cosa si aspettava Hamas dal tremendo atto disgustoso del 7 ottobre. Solo per ingenuità si può immaginare che Hamas con quell’azione sperasse poi di distruggere Israele sul campo di battaglia e i dirigenti di questo gruppo terroristico sono tutto salvo che ingenui. Gli obiettivi veri erano almeno tre e, considerato il susseguirsi degli eventi, li ha raggiunti tutti. Ecco le ragioni che hanno spinto Hamas ad agire proprio in quel momento e in quel modo truce dopo essersi preparato a farlo per lungo tempo:

    • Gli accordi di Abramo cui avevano già aderito Emirati Arabi e Bahrein stavano per estendersi anche all’Arabia Saudita. Grazie all’azione diplomatica iniziata da Jared Kushner (genero di Donald Trump), i colloqui in questa direzione continuavano da alcuni mesi e tutti gli osservatori si aspettavano potessero concludersi abbastanza a breve. L’Arabia Saudita è pur sempre un Paese politico di riferimento per molti Stati arabi e la riapertura di questi rapporti economici e politici con Israele avrebbero cambiato radicalmente gli equilibri in tutto il Medio Oriente. A Mohamed Bin Salman servivano i capitali e il know how israeliano per dare una ulteriore spinta al suo progetto avveniristico Vision 2030 e per Israele avrebbero rappresentato un grande successo diplomatico. Certamente, nell’intesa si sarebbero spese parole di facciata per lo status futuro dei palestinesi ma era chiaro a tutti che, dopo la firma, il futuro di questi ultimi sarebbe stato segnato negativamente e, forse, per sempre. Chi, assieme a loro, ci avrebbe rimesso pesantemente era il nemico più pericoloso che Israele ha attualmente e cioè l’Iran. Una alleanza tra Riad e Tel Aviv avrebbe accentuato l’isolamento di Teheran anche in barba all’accordo sottoscritto pochi mesi orsono con la mediazione cinese e la riapertura dei rapporti diplomatici. I fatti del 7 ottobre e ciò che ne è seguito hanno messo una pietra molto pesante sulla strada di quel negoziato.
    • Tutti i sondaggi svolti tra i palestinesi di Gaza e di Cisgiordania prima del 7 ottobre attestavano che l’impopolarità sia di Hamas sia della Autorità Nazionale Palestinese era in costante aumento. Nel frattempo, sempre più coloni israeliani occupavano abusivamente con le armi nuovi territori appartenuti a contadini palestinesi in Cisgiordania, alimentando in loro una sensazione di rabbia e di impotenza. Il disumano attacco del 7 ottobre è apparso a tutti i palestinesi che nutrivano odio per gli occupanti e per il governo di Tel Aviv che li legittimava come una doverosa punizione e una giusta vendetta. Ogni sondaggio effettuato dopo quella data presso gli stessi soggetti ha mostrato che, mentre l’Autorità continua a perdere consenso, Hamas lo ha riguadagnato in grande misura.
    • La reazione spropositata e tragica di Israele era stata, in una certa misura, preventivata dai capi del gruppo terrorista ma, proprio in vista di quella reazione, erano stati presi quel centinaio di ostaggi che dovevano servire a obbligare Tel Aviv ad una qualche trattativa, o almeno a contenere la dimensione della ritorsione. Il fatto che l’esercito israeliano abbia invece ricevuto l’ordine di agire con tutti i mezzi e senza alcun riguardo per la popolazione civile ha causato quello che, seppur impropriamente, qualcuno arriva a definire come genocidio. A questo proposito va considerato che i guerriglieri terroristi sono mischiati tra la popolazione civile e che strutture teoricamente intoccabili quali scuole, moschee e sedi della UNRWA sono stati usati, in superficie o nei loro sotterranei, quali basi logistiche. Tuttavia, il risultato che sta sotto gli occhi di tutto il mondo è che decine di migliaia di civili, molti dei quali magari perfino ostili ad Hamas, sono rimasti uccisi sotto i bombardamenti più o meno indiscriminati. È duro affermarlo ma è evidente che, con il loro solito cinismo, i capi di Hamas traggono vantaggio da questa carneficina. Infatti, dopo ogni nuovo bombardamento o scontro a fuoco i responsabili delle relazioni pubbliche di Hamas e la sodale Al Jazeera si precipitano ad offrire al mondo e ai giornalisti stranieri (nessuno di loro è autorizzato ad essere presente) cifre, magari gonfiate, delle vittime civili. Se, come posso dare per certo, il terzo obiettivo di Hamas era quello di attirare l’attenzione e la simpatia mondiale verso la causa del popolo palestinese e suscitare una incontenibile indignazione contro gli israeliani il risultato voluto è stato raggiunto. Nonostante gli americani (e i loro alleati) critichino le “esagerazioni” israeliane nessun governo amico osa condividere formalmente le condanne indirizzate all’ONU contro Tel Aviv. Ciò che vale per alcuni governi non vale però per la maggior parte della popolazione mondiale e cortei e manifestazioni di solidarietà verso i palestinesi sono sempre più numerose e partecipate in Europa, negli Stati Uniti e in tutto il mondo arabo. È evidente ad ogni osservatore che una componente tra i manifestanti lo fa per puro e mai sopito antisemitismo ma la motivazione formale di tutti è quella più utile ad Hamas e cioè la condanna dell’aggressione degli “ebrei” contro una popolazione araba indifesa.

    Dopo la feroce azione del 7 ottobre e indipendentemente dai sentimenti di simpatia per un partito o l’altro tutti gli israeliani furono, contemporaneamente, indignati e impauriti ed è stato quindi facile formare un governo di emergenza che comprendesse quasi tutte le forze politiche di Tel Aviv. Sarebbe stato difficile, nei giorni immediatamente successivi al tragico evento, opporsi a un qualche atto che suonasse come pesante ritorsione e tuttavia i risultati ottenuti fino ad oggi dimostrano che le decisioni prese si sono rivelate un tragico errore. Neanche la metà dei guerriglieri di Hamas sono stati identificati e messi fuori combattimento, i combattimenti a Gaza continuano tuttora, dal Libano (seppur senza passare un certo limite) sono ricominciati i lanci di razzi e perfino nel non vicino Yemen gli Houthi stanno contribuendo ad allargare il conflitto colpendo le navi che vorrebbero transitare verso il Canale di Suez. Che dietro gli Houthi ci siano gli iraniani è scontato, ma lo fanno nascondendo le mani poiché né all’Iran né agli Stati Uniti conviene dichiarare una guerra aperta, almeno fino ad ora. Gli iraniani, pur dichiarando sostegno ai palestinesi, non ammettono nessun loro coinvolgimento diretto e anche gli americani ed i britannici giustificano i loro attacchi contro le basi missilistiche e dei droni degli Houthi come semplici come atti di difesa.

    Col senno di poi è certamente più facile ragionare, ma che il tipo di reazione israeliana si stia rivelando un errore per loro e una vittoria per Hamas è qualcosa che non si può negare.  In altre parole, comunque finisca il conflitto, chi sta realmente vincendo al momento questa guerra non è l’esercito israeliano. Forse possiamo affermare che sarebbe stato più opportuna un altro tipo di reazione. Magari un atto simbolico contro le postazioni missilistiche di Hamas già conosciute, un sostegno internazionale per la liberazione immediata degli ostaggi e, nel tempo, qualcosa di simile a ciò che fu fatto dai sevizi segreti israeliani dopo l’attentato di Monaco durante le olimpiadi: una identificazione sicura dei vertici dell’organizzazione terroristica e l’eliminazione fisica di tutti loro.

    Purtroppo, del senno di poi …

  • L’antisemitismo ed il terrorismo non si combattono solo a parole, l’Europa, le Nazioni Unite, ogni singolo cittadino siano più attivi

    Commemorare l’Olocausto non basta se non vi è una forte, concreta, comune iniziativa europea e delle Nazioni Unite per sancire, e di conseguenza agire, affinché ogni manifestazione, attività, dichiarazione volta a promuovere o ad accettare l’antisemitismo sia combattuta ed eradicata immediatamente

    Il commosso ricordo dei bambini, delle donne e degli uomini brutalmente uccisi e torturati nei campi di sterminio nazisti, di quelli che morirono nei gulag stalinisti, di quanti sono stati barbaramente trucidati da Hamas il 7 ottobre, come di coloro che hanno subito violenze, in ogni parte d’Europa e del mondo, in quanto ebrei ci insegni, definitivamente, che la lotta al terrorismo, alla discriminazione, all’antisemitismo devono essere impegno non solo degli Stati ma anche di ciascuno di noi.

    Tutti coloro che non saranno chiari ed attivi in questo impegno si renderanno responsabili di correità.

  • 550 chilometri di tunnel sotto Gaza

    Una rete di tunnel impressionante con una galleria capace di far passare un’auto o un’altra estesa quanto tre campi di calcio e collocata sotto un ospedale. La maestria di Hamas nel costruire la sua difesa sotterranea ha impressionato l’esercito israeliano che ha documentato con video e fotografie lo straordinario dedalo che da tempo era considerato una grave minaccia per loro a Gaza anche prima della guerra in corso. A lasciare esterrefatti i funzionari israeliani sono state la quantità, la qualità e la profondità dei tunnel scavati da Hamas. E se fino a dicembre si stimava che la rete si estendesse per circa 400 chilometri, gli alti funzionari della difesa israeliana, interpellati dal New York Times, parlano adesso di uno spazio compreso tra i 550 e i 700 chilometri con 5700 pozzi di accesso. Il tutto costruito sotto un territorio che nel suo punto più lungo misura appena 40 chilometri.

    Hamas usa i tunnel come basi militari e arsenali, per spostamenti delle forze e per proteggere i comandanti. Un documento del 2022 mostrava che Hamas aveva stanziato un milione di dollari per le porte dei tunnel, i laboratori sotterranei e altre spese nel solo territorio di Khan Younis, dove, stando a fonti dell’intelligence israeliana, i tunnel si estendono per circa 160 chilometri.

    In un rapporto del 2015 si parla di una spesa di più di 3 milioni di dollari che Hamas aveva affrontato per realizzare tunnel in tutta la Striscia di Gaza, molti dei quali edificati sotto infrastrutture civili e luoghi sensibili come scuole e ospedali. I tunnel sarebbero stati costruiti con modalità diverse: quelli per i comandanti sarebbero più profondi e confortevoli perché sono ipotizzati periodi di soggiorno più lunghi, e gli altri, utilizzati dagli agenti, meno profondi e più essenziali.

  • Affrontare con coraggio alcune realtà

    In cinque giorni 500 tra missili e droni si sono abbattuti sull’Ucraina: la Russia ha intensificato al massimo gli sforzi bellici concentrandosi sulla distruzione di edifici civili ed infrastrutture necessarie alla vita dei cittadini. Non è più una guerra tra forze armate ma, come è ormai noto da tempo, il tentativo di distruggere completamente un popolo.
    Il prolungarsi della guerra e le difficoltà di dare maggiore slancio alla controffensiva Ucraina, anche per i ritardi con i quali sono state consegnate le armi di difesa  da parte degli alleati occidentali, hanno consentito allo zar di intessere nuove e pericolose relazioni con altrettanto pericolosi dittatori e di acquisire  nuovo incremento ai vari dispositivi militari necessari ai russi per continuare a sostenere un massiccio e sempre più violento bombardamento.
    Le titubanze dell’Occidente, a parole sempre vicino a Kiev ma nei fatti, salvo rare eccezioni, lento nel far seguire fatti concreti alle promesse e le ambiguità nel fare applicare le sanzioni, sappiamo tutti come abbia continuato a funzionare il sistema della triangolazione, hanno dato modo a Putin di avvalersi anche della sponda iraniana e di mettere becco  nel conflitto tra Israele ed Hamas.
    E’ arrivato il momento della verità e l’Occidente deve prendere decisioni nette ed operative, non bastano più le dichiarazioni di intenti, per fermare Putin bisogna affrontare con coraggio alcune realtà:
    1) l’Unione Europea non può consentire ad Orban di tenere in scacco, per le sue amicizie interessate con Putin e il presidente bielorusso, l’intero continente che, se vincesse Putin, vedrebbe messa a serio rischio la propria sicurezza,
    2) i paesi che hanno utilizzato la triangolazione, vanificando  così gran parte dei risultati che dovevano derivare dalle sanzioni alla Russia, devono pagare almeno un risarcimento, in termini di forniture belliche, all’Ucraina,
    3) occorrono nuove e più efficienti sistemi sanzionatori contro la Russia e una decisione rapida sull’utilizzo dei beni confiscati agli oligarchi,
    4) bisogna fornire ora gli aiuti militari promessi intervenendo sulle fabbriche di armi e sull’importazione da paesi terzi disponibili alla vendita di quanto necessario all’Ucraina per potere difendersi e contrattaccare,
    5) la Russia va immediatamente sospesa da ogni partecipazione a consessi internazionali e vanno congelati i suoi attuali incarichi,

    6) deve essere  fatta luce sui bambini ucraini rapiti e deportati e vanno portati avanti celermente i procedimenti per crimini di guerra,
    7) le Nazioni Unite devono mettere in mora Guterres per il colpevole silenzio e comportamento che fin dall’inizio ha tenuto. La sua faziosità è risultata ancora più evidente con la mancata condanna degli eccidi di Hamas del 7 ottobre, l’uomo non ha la capacità e la limpidezza necessarie ad un ruolo così delicato in un organismo che andrebbe completamente ristrutturato alla luce di quanto è avvenuto nel mondo in questi ultimi anni.

  • How missiles from Yemen could escalate Israel-Gaza war

    It is well over 1,000 miles from the coast of Yemen to the Gaza Strip, and yet what happened last Sunday at the southern end of the Red Sea has the potential to dramatically escalate the war between Israel and Hamas.

    According to US Central Command, the division of the US Department of Defence that covers the Middle East, Iranian-backed Houthi rebels in Yemen carried out four attacks on three commercial ships operating in international waters. The attacks involved a combination of explosive drones and anti-ship ballistic missiles.

    The US Navy already had a guided missile destroyer in the vicinity, the USS Carney, which managed to shoot down three of the drones. Others hit their targets, causing some damage but no casualties.

    “These attacks” said the Pentagon, “represent a direct threat to international commerce and maritime security.” In a further statement it added that it believed the attacks from Yemen were “enabled by Iran”.

    The location of the attacks is significant. They took place just north of the strategic chokepoint of the Bab El Mandeb Strait, a 20-mile wide channel that separates Africa from the Arabian Peninsula and through which about 17,000 ships and 10% of global trade pass every year. Any ship passing through the Suez Canal and heading on south to the Indian Ocean has to pass this strait, close to the coast of Yemen.

    So what was behind these attacks and what exactly is the link to Gaza?

    Most of the populated parts of Yemen, including its Red Sea coast, have been under the control of a tribal militia known as the Houthis which overthrew the legitimate, elected Yemeni government in late 2014. They are backed by Iran which has allegedly been supplying them with weapons and training, including drone and missile technology, just as it has with Hamas in Gaza and Hezbollah in Lebanon.

    The Houthi coup triggered a catastrophic civil war that has dragged on for more than nine years, causing thousands of casualties and triggering a humanitarian disaster. While Iran backs the Houthis, Saudi Arabia and the UAE went to war against them in 2015, backed by the US and UK, in an unsuccessful bid to restore the internationally recognised government.

    During this war the Houthis have fired numerous long-range missiles and drones at targets in Saudi Arabia, the UAE and inside Yemen, hitting civil airports, towns and petrochemical infrastructure as well as military targets.

    Following the outbreak of the latest Israel-Hamas conflict in Gaza on 7 October, the Houthis declared their support for what they called “their brothers in Gaza” and have fired missiles and drones towards Eilat and other targets in Israel. These were intercepted by the US Navy’s USS Carney which shot them down.

    But the Houthis have also targeted any shipping which they suspect of having Israeli connections. In November they landed troops by helicopter on the deck of a cargo ship, the Galaxy Leader, and seized it. They have vowed to prevent any Israeli vessels from passing their coast and in a statement on Sunday their military spokesman said the vessels they fired missiles at were attacked because they were “Israeli”. Israel’s military denied any connection between its government and the ships but media reports say there are some private commercial links with wealthy Israeli businessmen.

    The US has said subsequently it is “considering all appropriate responses in full coordination with its allies and partners”.

    In practice, Washington will be reluctant to raise tensions any further in a region already nervous about spill-over from the war in Gaza. But if the Houthis in Yemen continue to fire missiles beyond their borders, then eventually the US may decide it needs to retaliate by targeting those missile launch sites. If that happens then there follows the risk that Iran, which supports the Houthis, could also retaliate, potentially leading to the nightmare scenario of a direct conflict between Iran and the US. For now, this is something both sides wish to avoid.

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