Israele

  • Un altro e preoccupante conflitto in corso

    La guerra non restaura diritti, ridefinisce poteri.

    Hannah Arendt

    Circa tre mila anni fa era una regione popolata da tribù nomadi. Ma anche da diverse popolazioni che si sono stabilizzate in una vasta area, parte della quale era desertica. Popolazioni che erano ben organizzate dal punto di vista sociale e della gestione del potere. In quella vasta regione c’erano però anche degli insediamenti urbani molto più antichi. Dati storici affermano comunque che circa 3200 anni fa in quel territorio si stabilirono, altresì, dei coloni che arrivarono dalla vicina isola di Creta. In quel periodo tutta la regione era controllata dagli egizi. Poi è stata occupata e dominata da diversi invasori durante l’antichità. Sempre dati storici alla mano, risulta che i primi sono stati gli assiri dall’830 a.C.. In seguito, nel 597 a.C., la regione è stata occupata dai babilonesi fino al 332 a.C., quando sono arrivati i macedoni di Alessandro Magno. Nei secoli successivi parte della regione entrò sotto il controllo di alcuni sovrani della Grecia antica. Poi, nel 63 a.C., arrivarono i romani. Circa sette secoli dopo la regione cadde nel dominio degli arabi. Un dominio, quello arabo, che è stato interrotto dall’arrivo degli eserciti del Impero ottomano nel 1517. All’inizio del ventesimo secolo, quando l’Impero ottomano cominciò a indebolirsi, la regione entrò sotto il controllo del Regno Unito. Ed è proprio quella regione dove si svolgono tutte le storie, dove vivono ed operano tutti i personaggi, profeti e santi, compreso anche Gesù Cristo, che sono state molto bene testimoniate nelle Sacre Scritture. Una regione, nota anche come la Terra Santa dalle tre maggiori religioni monoteiste, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, dove, per circa tre mila anni, hanno vissuto gli ebrei ed i palestinesi.

    Per dei motivi ben noti, testimoniati dalle Sacre Scritture e legati alla vita, alla crocifissione e alla risurrezione di Gesù Cristo, gli ebrei sono stati perseguitati e costretti a lasciare i territori in cui hanno vissuto per molti secoli. Mentre i palestinesi sono rimesti in quei territori che condividevano anche con gli ebrei. Molti degli ebrei sono arrivati in Europa ed in Russia. In molte città dove si sono insediati hanno vissuto quasi sempre confinati in quelli che sono noti come i ghetti degli ebrei. Ma dalla seconda metà del diciannovesimo secolo cominciò un ritorno degli ebrei nelle terre dei loro antenati. Tutto è dovuto ad una proposta, fatta nel 1840, dall’allora primo ministro del Regno Unito, Lord Palmerson. Egli lanciò l’idea di istituire un insediamento permanente per gli ebrei nel territorio della Palestina. Secondo il proponente, quel rientro degli ebrei nei territori da loro lasciati sulla costa orientale del mare Mediterraneo doveva permettere al Regno Unito di mantenere sempre aperta “la Porta d’Oriente per i commerci e le truppe inglesi”. Passarono non più di una ventina di anni e si verificarono i primi flussi di rientro degli ebrei, molti dei quali partiti dalla Russia, nei territori dove la maggior parte della popolazione era quella arabo palestinese. Loro, una volta arrivati, compravano dei territori e lì si stabilivano. All’inizio tutto progrediva tranquillamente, ma i palestinesi, con il passare del tempo, cominciarono a preoccuparsi di un simile e crescente flusso di rientro degli ebrei. Era il 1891 quando ebbero inizio le prime proteste dei palestinesi contro la vendita dei terreni agli ebrei. Tre anni dopo in Francia scoppiò uno scontro politico e sociale, noto come Affaire Dreyfys (Affare Dreyfus). Uno scontro che continuò dal 1894 al 1906. Tutto era legato ad un processo giudiziario contro un capitano dell’esercito, di origine ebrea, Alfred Dreyfus, condannato con l’accusa di tradimento e spionaggio a favore della Germania, il nemico storico della Francia. Già dall’inizio del processo erano non pochi coloro che difendevano e proclamavano innocente il capitano ebreo Alfred Dreyfus. Tra loro anche Émile Zola, che il 13 gennaio 1898 scrisse una lettera aperta nel giornale L’Aurore, intitolata J’accuse (Io accuso). Con quella lettera aperta il noto scrittore francese difendeva l’innocenza di Dreyfus. Ebbene dovevano passare ben dodici anni prima che venisse riconosciuta finalmente l’innocenza di Dreyfus. Prendendo spunto dall’Affare Dreyfus, un altro scrittore, l’ungherese Theodor Herlz, scrisse e pubblicò nel 1896 un libro intitolato “Lo Stato degli ebrei”. Un libro con il quale l’autore si metteva contro un crescente movimento antisemita in Europa e auspicava che gli ebrei potessero avere uno Stato indipendente nella loro “Terra dei padri”. Nel frattempo in diversi Stati europei  era nato il sionismo, un movimento politico e religioso che chiedeva la costituzione di “uno Stato ebraico sovrano ed indipendente” in cui potevano ritornare per ricongiungersi tutti gli ebrei che si trovavano in vari Paesi europei, in Russia ed altrove. Ebbene, soltanto un anno dopo la morte di Theodor Herlz, il settimo congresso internazionale sionista decise che lo Stato indipendente degli ebrei doveva essere costituito in Palestina. In quel periodo Israel Zangwill, uno dei dirigenti del movimento sionista affermava che “La Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra”. Mentre David Ben Gurion, il fondatore, il 14 maggio 1948, dello Stato d’Israele ed il suo primo ministro, affermava circa all’inizio delle attività del movimento sionista, che la Palestina era “primitiva, abbandonata e derelitta”. Da dati ufficiali risultava che nel 1906 in Palestina si trovavano circa 645.000 arabi palestinesi e 55.000 ebrei. Bisogna sottolineare che per gli ebrei la “Terra dei padri” era proprio la “Terra promessa” di cui si fa ampiamente riferimento nelle Sacre Scritture. Gli ebrei rientrati nel territorio della Palestina nel 1909 istituirono il primo villaggio in cui gli abitanti condividevano la terra che lavoravano insieme. Quel tipo di villaggio è stato nominato kibbutz (parola ebraica che significa comune, riunione; n.d.a). Da dati storici risulta che tra il 1908 ed il 1913 sono state istituite nel territorio palestinese undici nuove colonie di ebrei. Il che suscitò delle forti reazioni dei palestinesi che erano diventati convintamente contrari alla vendita dei terreni agli ebrei. Ragion per cui, sempre dati storici alla mano, i rapporti tra gli arabi palestinesi e gli ebrei, che prima convivevano pacificamente, con il passare del tempo, diventarono sempre più agguerriti. E la storia ci insegna che dall’inizio del secolo scorso ad oggi i rapporti tra le due popolazioni sono tutt’altro che pacifici.

    La storia, questa grande maestra, ci insegna che le scelte fatte e le decisioni prese, soprattutto dagli Stati grandi ed importanti nell’arena internazionale, nel bene e nel male, sono sempre motivate e/o condizionate da ragioni geopolitiche e geostrategiche. E proprio per garantire una significativa e continua presenza del Regno Unito nel territorio palestinese, il 2 novembre 1917, l’allora ministro degli Affari esteri Arthur James Balfour scrisse una lettera ad uno dei fondatori del movimento sionista, Lord Rotschield. Quella lettera, nota anche come la Dichiarazione Balfour, ormai viene considerata anche come l’avvio dei rapporti di collaborazione tra il Regno Unito ed il movimento sionista. In quella lettera si confermava che “Il governo di Sua Maestà vede favorevolmente la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni”. Bisogna evidenziare che il territorio dove si doveva costituire quel “focolare nazionale per il popolo ebraico” era ancora sotto il dominio dell’Impero ottomano che, in quel periodo, si stava però sgretolando. Era un territorio dove si trovavano quella che ormai è nota come la Cisgiordania, la parte meridionale dell’attuale Libano, la Striscia di Gaza e le alture del Golan. La dichiarazione Balfour è stata una breve lettera, ma molto apprezzata dal movimento sionista. Nel frattempo, più di un anno prima, visto il continuo e vistoso indebolimento dell’Impero ottomano, si sono incontrati i rappresentanti della Francia e del Regno Unito, con il pieno consenso  della Russia. Dovelano prendere delle decisioni geostrategiche, in base alle quali stabilire e sancire anche le zone di influenza nel Medio Oriente. Il 16 maggio 1916 sono stati firmati segretamente quegli che ormai sono noti come gli Accordi Sykes-Picot (dai nomi dei rappresentanti del Regno Unito e della Francia; n.d.a.). Secondo quegli Accordi, il territorio della Palestina viene messo sotto il controllo del Regno Unito. La dichiarazione Balfour è diventata parte integrante anche del Trattato di Sèvres. Con quel trattato, firmato a Sèvres (cittadina francese; n.d.a.) il 10 agosto 1920, si ufficializzava la resa dell’Impero ottomano e si stabilivano i rapporti tra la Turchia e i vincitori della prima guerra mondiale. Anche nel Trattato di Sèvres il territorio della Palestina veniva assegnato e messo sotto il controllo del Regno Unito. Dal primo censimento ufficiale della popolazione, svolto nel 1919, risultava che lì abitavano circa 700.000 arabi e 70.000 ebrei. In seguito, nel luglio 1922 la Società delle Nazioni riconosceva il diritto al Regno Unito, assegnandogli anche un apposito mandato ufficiale, di preparare la costituzione di uno Stato nazionale ebraico. Sempre dati alla mano, tra il 1924 ed il 1928 risulta che più di 60.000 altri ebrei sono rientrati nei territori della Palestina. La storia ci testimonia che da allora si sono accentuati gli attriti tra i palestinesi e gli ebrei. I palestinesi consideravano gli ebrei come degli intrusi ed invasori. Mentre gli ebrei finalmente si ritrovavano nella “Terra dei padri”, nella Terra promessa da Dio.

    Nel periodo tra le due guerre mondiali, gli ebrei  sono continuati a ritornare nel territorio a loro assegnato. Nel 1936 i palestinesi cominciarono quella che è nota come la Grande rivolta contro il sionismo ed il controllo del territorio da parte del Regno Unito. La reazione britannica è stata molto dura. Nel frattempo però, in Germania prima e poi in altri Paesi europei, dopo l’approvazione nel settembre 1935 delle due leggi di Norimberga, comincia la persecuzione degli ebrei. Purtroppo durante la seconda guerra mondiale gli ebrei hanno subito delle ineffabili atrocità nei campi di sterminio di massa. Ragion per cui in seguito tutti quelli che sono riusciti a sopravvivere, ma anche gli altri che erano riusciti a mettersi in salvo, sentivano il bisogno di avere un loro Paese dove vivere in pace. Ragion per cui, nell’aprile del 1947 l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha nominato una apposita commissione d’inchiesta internazionale, il cui rapporto, in seguito, ha raccomandato la creazione di uno Stato ebraico e uno Stato arabo in Palestina. Il 14 maggio 1948, si costituisce lo Stato d’Israele. Ma da allora molti scontri armati si sono svolti tra gli ebrei e gli arabi, sia quelli palestinesi che di altri Paesi con loro confinanti.

    L’ultimo conflitto armato è stato avviato sabato scorso, 8 ottobre. Un conflitto che è cominciato dopo l’attacco con razzi da parte dei militanti dell’organizzazione Hamas (l’acronimo di Harakat al-Muqawwama al-Islamiyya – Movimento Islamico di Resistenza; n.d.a.). Sono stati centinaia i morti già dopo le prime ore dell’attacco. Soprattutto cittadini israeliani, ma sono stati presi in ostaggio più di cento altri cittadini ebrei e altri con doppia nazionalità. In seguito è stata durissima anche la risposta dell’esercito israeliano che ha causato centinaia di morti nella Striscia di Gaza. Oggi, al quinto giorno di quella che il primo ministro d’Israele ha considerato come una guerra, il numero delle vittime purtroppo sta aumentando, sia israeliani che palestinesi. Ieri, 10 ottobre sono stati trovati morti in un kibbutz anche circa 40 bambini, alcuni di essi decapitati. Orrori della guerra che continua e che, dall’inizio, ha attirando tutta l’attenzione pubblica, politica e mediatica.

    Chi scrive queste righe ha scelto di non riportare le tante e continue notizie che ora dopo ora molte agenzie stanno diffondendo in tempo reale di quest’altro e preoccupante conflitto in corso. Egli, continuerà a seguire gli sviluppi e riferire ai nostri lettori. Chi scrive queste righe, come la storia ci insegna e come affermava Hannah Arendt, è convinto che, purtroppo, la guerra non restaura diritti ma ridefinisce poteri.

  • Difendere Israele e l’Ucraina imperativo per tentare di garantire il futuro di chi crede nella civiltà

    Dopo gli orrori di Bucha  e dei troppi luoghi ove si è accanita la crudeltà e l’efferatezza di alcuni reparti russi, nella criminale guerra di Putin, ecco ora gli orrori che gli islamisti hanno commesso in Israele, trucidando persone inermi e decine e decine di bambini, alcuni di questi, secondo le notizie apparse su diversi media, sono stati sgozzati e decapitati.

    Difficile trovare parole idonee per condannare questo orrore, difficile pensare in modo razionale, non farsi prendere dall’odio.

    Chiedere giustizia sembra ormai inutile perché di fronte al terrore, ad uomini che non hanno remore del dichiararsi terroristi o di comportarsi come tali, di farsi saltare in aria o di mandare a sicura morte altri uomini incuranti di ogni principio comune, di ogni pietà e rispetto, le leggi, le associazioni internazionali sembrano non avere più capacità di intervento, oltre alle solite dichiarazioni.

    Gli antichi dicevano “se vuoi la pace prepara la guerra” e tutto il nostro difficile tentativo, protrattosi nei secoli, per arrivare a una società che riconoscesse la civiltà come bene comune deve riportarci a considerare quella frase, purtroppo, ancora attuale.

    Difendere Israele come difendere l’Ucraina sono imperativi per tentare di garantire il nostro futuro di italiani, di europei, di donne e uomini che credono nella civiltà.

    Il terrore non ci deve impaurire e piegare, non ci sono né se né quando la stessa civiltà è messa in serio pericolo: in poche ore siamo tornati indietro nel tempo prima in Ucraina ed ora in Israele.

    Le risposte, anche le più cruente, al terrorismo ed alla violenza contro civili, contro bambini, non sono solo giustificate ma necessarie perché le belve umane sono le più sanguinarie e pericolose che esistono e solo rendendole inoffensive, definitivamente, il mondo ritroverà quella civiltà che loro stanno tentando di sopprimere.

  • In attesa di giustizia: un verdetto evitabile?

    In Israele è tempo di pesanti contestazioni per la riforma della Giustizia proposta dal Premier Netanyahu e questa settimana, subito dopo la Pasqua, può essere stimolante ed originale trattare proprio del più famoso e controverso processo mai celebrato in Israele, quello a carico di Yehoshua ben Yosef (Gesù figlio di Giuseppe) e della sua condanna a morte: un argomento che costituisce ancor oggi terreno di scontro tra diverse culture.

    Chi fu l’artefice di quella condanna?

    A chi ascrivere il “peso” di una sentenza finale percepita ancora come massimamente ingiusta?

    Non esiste una risposta univoca e gli stessi Evangelisti diversificano molto il giudizio.

    Matteo, giudeo che scriveva per i giudei, non esita a responsabilizzare in modo diretto non solo il Sinedrio ma tutto il popolo ebraico, reo di aver chiesto che si versasse il sangue del Cristo; Giovanni, invece, offre una rilettura di Pilato in chiave quasi assolutoria tramandando la famosa risposta che Gesù gli diede negli ultimi momenti del loro faccia a faccia: “…chi mi ha consegnato nelle tue mani ha una colpa più grande”.

    La materia è da trattare con grande prudenza, senza dimenticare che un’interpretazione distorta è stata presa a pretesto per la persecuzione di un intero popolo: ma è un ambito in cui le omissioni potrebbero essere esse stesse una colpa.

    Il sistema giudiziario giudaico nel 30/36 d.C. non prevedeva l’esecuzione della pena capitale. O, meglio, il potere di infliggere la pena di morte era riservato alla sola autorità romana, quale forza occupante.

    Conosciamo storicamente l’uso della lapidazione, ma a quei tempi era piuttosto una reazione immediata della gente in caso di flagranza di “delitti religiosi” quali la bestemmia e l’adulterio.

    Gesù, invece, doveva essere innanzitutto processato attesa la mancata flagranza, e l’eventuale condanna capitale non poteva che essere deliberata ed eseguita dall’autorità romana. Su questo non c’è dubbio.

    La richiesta di condanna a morte, tuttavia, giunse – senza un vero e proprio processo – dalla folla che fronteggiava Pilato nel pretorio, chiedendo il rilascio di Barabba e gridando con forza, riferita al Cristo, “crucifige!”.

    Certo, non fu tutta Gerusalemme ma coloro che accolsero il prevedibile invito di Caifa e degli altri notabili del Sinedrio: diversamente non si capirebbe come una intera città che, appena una settimana prima, aveva osannato Gesù mentre percorreva le strade a dorso di mulo gli si fosse rivoltata contro volendolo morto.

    Fatta questa puntualizzazione occorrerà chiedersi se il Governatore romano avrebbe potuto salvare la vita dell’imputato eccellente. In teoria sì, In pratica no.

    Leggendo i Vangeli, si ricava che Pilato tentò sicuramente di “allungare il brodo” (come diremmo oggi). Temporeggiò, trattò, lusingò e l’invio del prigioniero da Erode Antipa fu sicuramente un tentativo di aggirare la caparbietà del Sinedrio. Ma il punto di non ritorno, più che il “crucifige!”, fu costituito dalla frase che la folla gli urlò contro: “Se liberi costui non sei amico di Cesare!”.

    Immaginiamo la situazione: Ponzio Pilato, incaricato dall’imperatore Tiberio (Cesare, appunto) come Autorità Territoriale della Giudea, che viene sostanzialmente minacciato dal popolo di accusarlo per alto tradimento se si ostinerà a difendere un “bestemmiatore” sconosciuto.

    Davanti a tali argomenti e prospettive nulla avrebbe potuto fare Pilato, nulla di diverso da quello che fece.

    Ma Gesù avrebbe potuto veramente salvarsi? La risposta corretta a tale domanda sembra essere negativa.

    Gesù avrebbe potuto salvarsi solo a condizione che “il calice gli fosse passato davanti” senza essere bevuto. Ma quell’amaro calice da bere era il prezzo per il riscatto dell’intera umanità e andava bevuto.

    E questo è, forse, il punto: l’obbedienza di Gesù alla volontà del Padre era un cardine ineludibile. I comportamenti degli uomini furono sicuramente importanti, perché nulla opposero con il loro libero arbitrio, eppure, al contempo, consequenziali segmenti di un piano che trascendeva il loro potere.

    Ognuno tragga le proprie conclusioni sulle responsabilità dei protagonisti che abbiamo ricordato ma, forse, una sola è la certezza: se il verdetto era evitabile, tuttavia Gesù doveva morire.

  • Earliest evidence of opium use found in burial site in Israel

    Evidence of the earliest use of the narcotic opium has been found in an ancient burial site in Israel.

    Traces were discovered by archaeologists in pottery vessels at the complex in Yehud, about 11km (7 miles) south-east of Tel Aviv.

    They say the containers date back about 3,400 years, apparently having been used in local burial rituals.

    The site was used by inhabitants during the period when the land was known as Canaan.

    The vessels had been unearthed in 2012 when the site was excavated by the Israel Antiquities Authority (IAA), but the latest findings are the result of a new study by the IAA, Tel Aviv University and The Weizmann Institute of Science.

    It is believed the opium was grown in what is modern-day Turkey and brought to Yehud via Cyprus. The receptacles themselves were made in Cyprus, the report says. Described as Base-Ring juglets, they were part of a number of pottery vessels thought to have been given to accompany the dead into the afterlife.

    They are shaped like inverted closed poppy flowers, which had long ago given rise to the hypothesis that such vessels were used in rituals for the drug. The discovery at Tel Yehud marks the first time actual traces have been found in this type of jug.

    “It may be that during these ceremonies, conducted by family members or by a priest on their behalf, participants attempted to raise the spirits of their dead relatives in order to express a request, and would enter an ecstatic state by using opium,” said Dr Ron Beeri of the IAA.

    “Alternatively, it is possible that the opium, which was placed next to the body, was intended to help the person’s spirit rise from the grave in preparation for the meeting with their relatives in the next life.”

    Two years ago, researchers identified as cannabis a substance found in a 2,700-year-old temple in Tel Arad in south-east Israel. They said it might have been used in religious rituals by ancient Israelites.

  • Allarme in Europa: l’antisemitismo cresce con la pandemia

    Tre generazioni dopo l’Olocausto, l’antisemitismo in Europa continua a crescere e arriva a toccare livelli sempre più allarmanti. Nell’anniversario della ‘Notte dei lunghi cristalli’ – i pogrom antisemiti che scoppiarono su scala nazionale nella Germania nazista nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 – papa Francesco e l’Unione europea hanno fotografato una situazione peggiorata durante la pandemia. In questo periodo, secondo il rapporto pubblicato dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali (Fra), sono emersi, specie sul web, nuovi miti antisemiti e teorie del complotto che incolpano gli ebrei della diffusione del Covid.

    “La minaccia dell’antisemitismo che ancora serpeggia in Europa e altrove – ha ammonito il pontefice in un tweet postato in occasione della ricorrenza dei pogrom del 1938 – è una miccia che va spenta. Impegniamoci a promuovere una educazione alla fraternità, così che i rigurgiti di odio che vogliono distruggerla non prevalgano”.

    Ma a esprimere la grande preoccupazione con cui l’Ue guarda al fenomeno è stato soprattutto il vicepresidente della Commissione europea, Margaritis Schinas, durante il suo intervento all’Europarlamento su questo tema. Durante la pandemia, ha detto Schinas, quella ebrea è stata “una delle comunità più attaccate”, accusata “oltraggiosamente e falsamente di aver creato il virus”. Inoltre, ha aggiunto, “le misure di salute pubblica sono state paragonate a misure che hanno portato allo sterminio della maggior parte degli ebrei europei, banalizzando così l’Olocausto”.

    I dati snocciolati dal vicepresidente della Commissione sono significativi. Nove ebrei su dieci ritengono che l’antisemitismo sia in aumento nel proprio Paese, e il 38%, spinto dalla crescente percezione di insicurezza, ha preso in considerazione l’idea di migrare altrove. Un quadro allarmante che emerge anche dal documento diffuso dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali. Sebbene i lockdown possano aver portato a un contenimento fisiologico degli episodi di antisemitismo negli spazi pubblici, “la proliferazione delle cospirazioni antisemite online – si legge nel rapporto dell’Agenzia – mostra come il numero di incidenti registrati non sia indicativo della situazione. Dai sondaggi effettuati emerge infatti che gli attacchi contro gli ebrei sono fortemente sottostimati e che l’odio sul web, incluso l’antisemitismo, ha messo saldamente radici nelle società europee.

    E proprio per ricordare le violenze e i morti di una delle pagine più buie della storia d’Europa, l’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) ha invitato le 21 Comunità distribuite su tutto il territorio ad accendere una luce in tutte le sinagoghe e i luoghi ebraici d’Italia. “Un gesto di memoria, ma anche un messaggio di identità ebraica viva, di luci ancora accese e di testimonianze – si legge in una nota – che continuano a trasmettersi attraverso le generazioni, nonostante i propositi di chi allora perseguiva la distruzione dell’ebraismo europeo”.

  • La Commissione presenta la prima strategia dell’UE volta a combattere l’antisemitismo e a promuovere la vita ebraica

    La Commissione europea presenta la prima strategia dell’UE volta a combattere l’antisemitismo e a promuovere la vita ebraica. Di fronte all’inquietante aumento dell’antisemitismo, in Europa e altrove, la strategia definisce una serie di azioni incentrate su tre pilastri: prevenire ogni forma di antisemitismo; preservare e incoraggiare la vita ebraica; promuovere attività di ricerca, istruzione e commemorazione dell’Olocausto. La strategia propone misure volte a rafforzare la cooperazione con le imprese online per contrastare l’antisemitismo online, proteggere più adeguatamente gli spazi pubblici e i luoghi di culto, istituire un polo europeo di ricerca sull’antisemitismo oggi e creare una rete di siti in cui si è consumato l’Olocausto. Tali azioni saranno rafforzate dalle iniziative internazionali dell’UE volte a guidare la lotta mondiale contro l’antisemitismo.

    Verso un’Unione europea libera dall’antisemitismo

    La strategia definisce misure incentrate sui seguenti aspetti: 1) prevenzione e lotta contro ogni forma di antisemitismo; 2) tutela e sostegno della vita ebraica nell’UE; 3) attività di istruzione, ricerca e commemorazione dell’Olocausto. Queste azioni sono integrate dalle iniziative internazionali dell’UE per contrastare l’antisemitismo.

    Tra le azioni chiave della strategia figurano le seguenti.

    • Prevenzione e lotta contro ogni forma di antisemitismo: nove ebrei su dieci ritengono che l’antisemitismo sia aumentato nel loro paese, e l’85% di essi lo considera un problema grave. Per affrontare il problema la Commissione mobiliterà fondi dell’UE e aiuterà gli Stati membri a elaborare e attuare le loro strategie nazionali. La Commissione sosterrà la creazione di una rete europea di segnalatori di fiducia e di organizzazioni ebraiche per eliminare l’illecito incitamento all’odio online. Sosterrà inoltre lo sviluppo di narrazioni volte a contrastare i contenuti antisemiti online. La Commissione collaborerà con l’industria e le società del settore informatico per prevenire l’esposizione e la vendita illegali di simboli, oggetti commemorativi e letteratura online legati al nazismo.
    • Protezione e promozione della vita ebraica nell’UE: il 38% degli ebrei hanno preso in considerazione l’eventualità di emigrare perché non si sentono sicuri in quanto ebrei nell’UE. Per garantire che gli ebrei possano sentirsi al sicuro e partecipare pienamente alla vita europea, la Commissione accorderà finanziamenti dell’UE per proteggere più adeguatamente gli spazi pubblici e i luoghi di culto. Il prossimo invito a presentare proposte sarà pubblicato nel 2022, con la messa a disposizione di 24 milioni di €. Gli Stati membri sono altresì incoraggiati ad avvalersi del sostegno di Europol per le attività di lotta contro il terrorismo, sia online che offline. Per promuovere la vita ebraica, la Commissione adotterà misure per salvaguardare il patrimonio ebraico e sensibilizzare in merito alla vita, alla cultura e alle tradizioni ebraiche.
    • Attività di istruzione, ricerca e commemorazione dell’Olocausto: attualmente un cittadino europeo su venti non ha mai sentito parlare dell’Olocausto. Per mantenerne viva la memoria, la Commissione sosterrà la creazione di una rete di luoghi in cui si è consumato l’Olocausto, che non sempre sono noti, ad esempio i nascondigli o i luoghi di esecuzione. La Commissione promuoverà inoltre una nuova rete di giovani ambasciatori europei incaricati di promuovere la memoria dell’Olocausto. Con i finanziamenti dell’UE, la Commissione favorirà la creazione di un polo europeo di ricerca sull’antisemitismo contemporaneo e sulla vita ebraica, in cooperazione con gli Stati membri e la comunità di ricerca. Per valorizzare il patrimonio ebraico, la Commissione inviterà le città che si candidano a Capitale europea della cultura ad interessarsi alla storia delle loro minoranze, compresa la storia della comunità ebraica.

    L’UE utilizzerà tutti gli strumenti disponibili per invitare i paesi partner a contrastare l’antisemitismo nel vicinato dell’UE e oltre, anche attraverso la cooperazione con le organizzazioni internazionali. Assicurerà che i fondi esterni dell’UE non possano essere indebitamente assegnati ad attività che incitano all’odio e alla violenza, anche nei confronti degli ebrei. L’UE rafforzerà la cooperazione con Israele nella lotta contro l’antisemitismo e promuoverà il rilancio del patrimonio ebraico in tutto il mondo.

    La strategia verrà attuata nel periodo 2021-2030. La Commissione invita il Parlamento europeo e il Consiglio a sostenere l’attuazione della strategia e pubblicherà relazioni complete sulla sua attuazione nel 2024 e nel 2029. Gli Stati membri si sono già impegnati a prevenire e combattere tutte le forme di antisemitismo attraverso nuove strategie o misure nazionali nell’ambito delle strategie e/o dei piani d’azione nazionali esistenti sulla prevenzione del razzismo, della xenofobia, della radicalizzazione e dell’estremismo violento. Le strategie nazionali dovrebbero essere adottate entro la fine del 2022 e saranno riviste dalla Commissione europea entro il 2023.

    Questa strategia manifesta l’impegno dell’UE a favore di un futuro per la vita ebraica in Europa e altrove. Segna l’impegno politico della Commissione a favore di un’Unione europea libera dall’antisemitismo e da qualsiasi forma di discriminazione e di una società aperta, inclusiva ed equa nell’UE.

    In seguito al Convegno sui diritti fondamentali sull’antisemitismo e l’odio anti-islamico del 2015, la Commissione ha nominato la sua prima Coordinatrice europea per la lotta contro l’antisemitismo e la promozione della vita ebraica. Nel giugno 2017 il Parlamento europeo ha adottato una risoluzione sulla lotta contro l’antisemitismo. Nel dicembre 2018 il Consiglio ha adottato una Dichiarazione relativa alla lotta contro l’antisemitismo. Nel dicembre 2019 la lotta contro l’antisemitismo è stata integrata nel portafoglio del vicepresidente della Commissione responsabile per la Promozione del nostro stile di vita europeo, a riprova dell’intenzione di affrontarla come priorità trasversale. Nel dicembre 2020 il Consiglio ha adottato un’ulteriore Dichiarazione sull’integrazione della lotta contro l’antisemitismo in tutti i settori d’intervento.

    Molti dei settori di azione connessi alla lotta contro l’antisemitismo sono principalmente di competenza nazionale. Tuttavia l’UE svolge un ruolo importante nel fornire orientamenti politici, coordinare le azioni degli Stati membri, monitorare l’attuazione e i progressi, fornire sostegno attraverso i fondi dell’UE e promuovere lo scambio di buone pratiche tra gli Stati membri. A tal fine la Commissione trasformerà l’attuale gruppo di lavoro sulla lotta all’antisemitismo in una struttura permanente che riunirà gli Stati membri e le comunità ebraiche.

    Fonte: Commissione europea

  • Il primo vero fallimento di Biden

    Sono passati poco più di 6 mesi dall’elezione di Biden ed i primi effetti, soprattutto in politica estera, sono già evidenti. L’amministrazione Trump aveva stretto un’alleanza, confortata e rafforzata anche sul piano economico, con i sauditi sunniti contro l’Iran sciita.

    Il primo produttore mondiale di petrolio (Usa), infatti, poteva gestire, o quantomeno fortemente influenzare, il prezzo del petrolio grazie all’appoggio della nazione con le maggiori riserve del mondo (Arabia Saudita) con evidenti ripercussioni positive per la strategia energetica statunitense. La evidente marginalizzazione dell’Opec negli ultimi quattro anni dallo scenario internazionale ne rappresenta la evidente conseguenza.

    La pressione politica statunitense era riuscita addirittura a rompere l’isolamento politico di Israele con l’avvio di accordi e rapporti diplomatici con due stati arabi dando inizio ad un processo di normalizzazione interamente attribuibile alla innovativa ma soprattutto decisa quanto chiara politica estera dell’amministrazione Trump.

    Viceversa, ora, l’allentamento della pressione della amministrazione Biden nei confronti del principale finanziatore dei terroristi di Hamas ed Hezbollah, lo stato dell’Iran, ha riportato indietro di vent’anni la crisi israelo-palestinese, tanto è vero che persino il processo di arricchimento dell’uranio ha ripreso slancio.

    La politica, specialmente quella estera, viene determinata da fatti concreti e da alleanze basate sempre più spesso sulla convenienza immediata e su una prospettiva a medio termine.

    In questo contesto sicuramente i proclami inneggianti ad un pacifismo da operetta lasciano lo spazio adeguato a chi persegue il rilancio delle tensioni politiche internazionali.

    L’escalation del conflitto israelo-palestinese e la sua responsabilità vanno attribuiti in parte al cambiamento di atteggiamento nei confronti dell’Iran da parte degli Stati Uniti e dall’ultima sua amministrazione appena insediatasi. Una visione geopolitica contestata da chi individua la ragione di questo nuovo conflitto all’interno di logiche inerenti la politica interna israeliana.

    Sfugge evidentemente ai sostenitori di questa “bizzarra teoria” come durante la precedente amministrazione statunitense guidata da Trump Israele avrebbe ancora una volta fatto ricorso alle nuove elezioni anticipate. Viceversa in quest’ultimo caso il lassismo dell’amministrazione Biden verso lo stato iraniano ha permesso ad Hamas di armarsi e di lanciare oltre 3.000 missili. Una strategia di politica estera che ha trovato, come sempre in queste situazioni, anche l’appoggio dell’Unione Europea, da sempre il ventre molle dello scenario internazionale.

    La fragile tregua imposta ai contendenti proprio dalla amministrazione statunitense conferma la precedente insufficiente pressione politica nello scenario medio orientale.

  • La pace in Medio Oriente, e nel mondo, passa per il riconoscimento dello Stato di Israele

    Fino a che non sarà da tutti riconosciuto e rispettato lo Stato di Israele non ci sarà pace in Medio Oriente, non ci sarà pace nel mondo, i palestinese, che hanno anch’essi il diritto di vivere in pace e sicurezza, abbiano la forza di imporre ai lori amici ed alleati il riconoscimento definitivo di Israele ed il coraggio di eliminare ogni frangia terroristica.

  • La cultura dell’accettazione dipende dalla capacità di dialogo tra culture diverse

    Oggi, nel giorno dedicato al ricordo dell’olocausto, dopo avere tutti, speriamo, condannato nell’eternità le atroci, inumane, sadiche violenze del nazismo tramutiamo il ricordo in promessa ed impegno: ciascuno combatterà sempre ed ovunque per contrastare ed impedire qualunque forma di razzismo, di prevaricazione, di ingiustizia. Sia la memoria di quanto è successo ieri monito per impedire che oggi e domani si ricreino situazioni che potrebbero essere l’anticipo di nuovi orrori singoli e collettivi, come purtroppo segnalano molti tragici avvenimenti di questi ultimi anni.

    Ricordiamo, con l’olocausto, anche le troppe vittime, specie di religione ebraica, che altri regimi sanguinari hanno causato e che troppo spesso sono ignorate. Diciamo con voce chiara che la lotta contro l’antisemitismo passa anche dal completo riconoscimento, nel mondo, dello Stato di Israele. Bisogna sapere sradicare ogni tipo di estremismo religioso e politico e sapere che la cultura dell’accettazione e comprensione degli altri, base per una serena convivenza civile, dipende dalla capacità di dialogo tra culture diverse ma che non vi è cultura né civiltà né religione là dove sono negati i diritti umani.

  • Tra Israele e Libano colloqui sui confini marittimi

    Un’altra svolta positiva in Medio Oriente. L’1 ottobre Israele e Libano hanno annunciato in contemporanea il prossimo avvio di negoziati per la definizione dei confini marittimi, nell’intento di dare impulso all’esplorazione e allo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale nella zona. Il presidente del Parlamento libanese Nabih Berri (leader del movimento sciita Amal) ed il ministro degli Esteri israeliano Gaby Ashkenazi hanno menzionato con riconoscenza la mediazione condotta dal segretario di Stato Usa Mike Pompeo.

    Berri ha comunque tenuto a precisare che questo sviluppo è estraneo al graduale processo di normalizzazione fra Israele ed alcuni Paesi arabi, avviato sotto l’amministrazione Trump. Pompeo, da parte sua, ha egualmente auspicato che i colloqui diano un contributo “alla stabilità, alla sicurezza e alla prosperità economica di entrambi i Paesi”, che sono in stato di belligeranza da oltre 70 anni.

    Mediati dagli Stati Uniti, i negoziati dovrebbero iniziare ”verso il 14 ottobre”, secondo quanto ha anticipato alla stampa israeliana il consigliere di Pompeo, David Schenker. Si svolgeranno, ha aggiunto, sotto gli auspici dell’Onu nella sede dell’Unifil (il contingente Onu nel Libano sud) a Naqoura, il punto di valico sul mare fra i due Paesi. Tuttavia Israele si trova in uno stretto lockdown per il coronavirus e non è escluso che i colloqui possano tenersi, almeno nella fase iniziale, via zoom. La delegazione del Libano sarà messa a punto dal presidente Michel Aoun. Per Israele il coordinatore dei colloqui sarà il ministro dell’Energia Yuval Steinitz.

    Gli Stati Uniti, ha precisato Berri, hanno preso nota che “la delimitazione dei confini marittimi dovrà avvenire sulla base del meccanismo tripartito (Israele, Libano, Onu) concordato nel 1996″. Da parte sua Schenker ha confermato che si tratterà di colloqui tecnici e, ha confermato, ”senza nesso alcuno con una normalizzazione fra i due Paesi”.

    Dall’anno scorso gli emissari di Pompeo hanno mantenuto una spola serrata fra Gerusalemme e Beirut per mettere a punto il quadro dei negoziati per delimitare un’area marina di centinaia di chilometri quadrati, nota come ‘Bloc 9’. Questi contatti hanno avuto di recente un impulso per l’aggravarsi della crisi economica libanese (la peggiore degli ultimi 30 anni) e anche per i contraccolpi dell’esplosione di due mesi fa al porto di Beirut. Secondo la radio statale israeliana, è presumibile che la ripresa dopo tre decenni dei contatti israelo-libanesi sia stata approvata, almeno tacitamente, dal leader degli Hezbollah Hassan Nasrallah, strenuo nemico dello Stato ebraico. Ed un allentamento delle tensioni militari nella zona è appunto quanto si attendono le compagnie occidentali interessate allo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale.

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