Legge

  • Le decisioni della Corte Costituzionale sull’Autonomia Differenziata

    Ovvero un sostanziale giudizio negativo della Consulta sull’Autonomia Differenziata, che, così com’è, non è compatibile con il dettato Costituzionale.

    Finalmente l’attesa decisione che conferma l’incostituzionalità della norma in così tanti punti che, di fatto, equivalgono quasi ad una totale abrogazione.

    Calderoli, come sempre quando è a corto di argomenti, ha appena dichiarato che la Corte Costituzionale ha dato un complessivo giudizio positivo alla legge (?), chiedendo la modifica di alcuni aspetti della stessa (?), per le quali saranno presto trovati i correttivi in Parlamento (?).

    Affermazioni propagandistiche e bugiarde per nascondere la polvere sotto il tappeto. In realtà la Corte Costituzionale ha fatto un ottimo lavoro, individuando una lunga serie di incostituzionalità che hanno demolito totalmente la legge, e non sarà per niente facile apportare modifiche alla stessa, anche perché l’obbiettivo principale della norma, e cioè il mantenimento nei territori delle regioni ricche delle risorse erariali versate dai contribuenti, ne esce totalmente devastato.

    Fine della storia, con buona pace di chi ha tentato l’assalto alla diligenza delle risorse erariali dello stato.

    Tornando alla decisione della Consulta, non è facile dedurre i particolari da un comunicato stampa, essendo possibile ogni doveroso approfondimento solo dopo che saranno depositate nel dettaglio le decisioni della sentenza.

    Ma dal comunicato emergono con chiarezza alcune questioni che erano state al centro delle critiche sulla legge di attuazione dell’Autonomia Differenziata, e motivo di scontri politici e accuse di volere favorire le regioni opulente del Nord, a discapito del resto del Paese.

    Ed è questo il punto che la Corte Costituzionale ha indicato come incostituzionale e cioè la violazione dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione che deve essere interpretato nel contesto della forma di Stato italiana, e cioè che ogni provvedimento adottato, come ad esempio l’autonomia differenziata, deve essere rispettoso dei principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini, oltre che dell’equilibrio di bilancio.

    Calderoli e compagni hanno fatto l’esatto contrario con questa legge, mettendo a rischio la solidarietà tra le regioni, l’eguaglianza e la garanzia dei diritti dei cittadini, gli equilibri di bilancio e soprattutto i principi di Unità della Repubblica.

    Da qui la Corte costituzionale ha ritenuto che la distribuzione delle funzioni legislative e amministrative tra i diversi livelli territoriali di governo, in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, non debba corrispondere all’esigenza di un riparto di potere tra i diversi segmenti del sistema politico, ma debba avvenire in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione. Quindi, a tal fine, individua nel principio costituzionale di sussidiarietà la regola fondamentale di distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni.

    Da qui le diverse cause di incostituzionalità individuate:

    In merito alle intese tra Stato e Regioni, insieme alla successiva legge di differenziazione nel trasferimento delle nuove materie, la devoluzione delle materie da specifiche funzioni legislative non può prescindere da specifiche funzioni legislative e amministrative e deve essere giustificata, in relazione ad ogni singola regione, alla luce del principio di sussidiarietà;

    In merito alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali, occorre che siano prima definiti idonei criteri direttivi, con la conseguenza che la decisione sostanziale deve essere rimessa nelle mani del governo, il che limita il ruolo costituzionale del Parlamento,

    La determinazione dell’aggiornamento dei LEP non può essere effettuata da un decreto (DPCM) del Presidente del Consiglio;

    Così come è incostituzionale la procedura prevista dalla legge n. 197 del 2022 (legge di bilancio per il 2023), per la determinazione dei LEP con DCPM, fino all’entrata in vigore dei decreti legislativi per definire i LEP;

    Va eliminata la possibilità di modificare con decreto ministeriale le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito;

    Va eleminata la facoltatività, piuttosto che la doverosità, da parte delle regioni destinatarie della devoluzione, del concorso agli obiettivi di finanza pubblica, con conseguente indebolimento dei vincoli di solidarietà e unità della Repubblica;

    Va eliminata la parte in cui nella legge dell’Autonomia Differenziata prevede una procedura per le regioni a Statuto speciale, che invece, per ottenere maggiori forme di autonomia, possono ricorrere alle procedure previste dai loro statuti speciali;

    La Corte Costituzionale ha inoltre interpretato in modo costituzionalmente orientato altre previsioni della legge e ribadito che spetta al Parlamento colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento di alcune delle questioni sollevate dalle regioni ricorrenti.

    Insomma, un parere assolutamente condivisibile che costituisce un vincolo difficilmente superabile per la copertura dei vuoti derivanti dalla sentenza.

    L’impianto della norma prevede infatti l’obiettivo di impoverire l’erario nazionale, a favore degli interessi delle regioni ricche di diventare ancora più opulente, con la trattenuta delle risorse erariali versate dai propri abitanti allo Stato, ed è proprio questo aspetto ad essere stato di fatto del tutto smantellato dalle varie incostituzionalità.

    La possibilità quindi di “colmare i vuoti” appare del tutto impossibile stando così le cose, e Calderoli non credo abbia strumenti per superare tale impedimento.

    Il referendum abrogativo a questo punto appare chiaro che non si terrà, mentre occorre mantenere il massimo di attenzione e vigilare sule intenzioni di come vorrà procedere la maggioranza di governo su ciò che resta del provvedimento, che così com’è non produrrà alcun processo di Autonomia Differenziata, ma in compenso grazie alla Consulta sono stati restituiti in pieno i valori, i principi ed i diritti Costituzionali all’intero Paese.

  • Amianto letale per oltre 1.500 italiani ogni anno

    Tra il 2010 e il 2020 ogni anno in Italia sono decedute per mesotelioma in media 1.545 persone, 1.116 uomini e 429 donne. Dei decessi osservati in media ogni anno, 25, (l’1,7%) avevano un’età uguale o inferiore ai 50 anni. Sono i dati riportati nel nuovo rapporto Istisan 24|18 “Impatto dell’amianto sulla mortalità. Italia, 2010-2020” dell’Istituto superiore di sanità (Iss) sulla mortalità per amianto nel nostro Paese. Il rapporto appena pubblicato riporta una diminuzione del numero dei decessi per mesotelioma tra gli under 50 negli ultimi anni, un primo effetto della legge 257/92 con la quale l’Italia vietò l’utilizzo dell’amianto e la produzione di manufatti contenenti amianto. “L’Istituto superiore di sanità – afferma Rocco Bellantone, presidente dell’Iss – è impegnato da anni su questo tema e il problema amianto rimane tra le priorità di sanità pubblica. L’Iss continuerà a contribuire alle attività di ricerca e alla sorveglianza epidemiologica delle malattie amianto-correlate, nonché alla definizione di strumenti per il rilevamento delle sorgenti di esposizione all’amianto ancora presenti nel nostro Paese, e all’implementazione di azioni preventive, fornendo supporto alle istituzioni e ai cittadini, attraverso momenti di interlocuzione e condivisione”.

    Le regioni Piemonte, Lombardia, Valle d’Aosta e Liguria presentano un numero di decessi per 100.000 abitanti maggiore della media nazionale, ma i casi sono distribuiti sull’intero territorio italiano. In totale sono stati registrati su tutto il territorio nazionale quasi 17.000 casi nel periodo 2010-2020. Il numero dei decessi è superiore al numero atteso sulla base della media regionale in 375 Comuni: si tratta di territori con cantieri navali, poli industriali, ex industrie del cemento-amianto, ex cave di amianto. Negli ultimi anni, come indicano i dati del rapporto, si osserva una diminuzione del numero dei decessi, in particolare tra la popolazione con 50 anni o meno (31 casi osservati nel 2010 e 13 casi nel 2020). Le morti per mesotelioma osservate tra i più giovani – come spiegano gli esperti dell’Iss – sono probabilmente dovute a una esposizione avvenuta in età pediatrica in ambienti non-occupazionali, vista la lunga latenza (fino a 30-40 anni) della malattia. La maggior parte delle persone decedute per mesotelioma è stata probabilmente esposta all’amianto in ambienti lavorativi nei decenni passati. Ma l’esposizione può essere avvenuta anche in contesti domestici o ambientali, per inalazione di fibre rilasciate nelle abitazioni oppure nell’ambiente da sorgenti presenti sul territorio.

    Il mesotelioma è un tumore aggressivo, ad alta letalità con una latenza anche di 30-40 anni, che colpisce le cellule del mesotelio, il tessuto sottile che ricopre gran parte degli organi interni. Il mesotelioma nell’80 per cento dei casi circa è dovuto all’esposizione all’amianto. Per il fatto di rilasciare fibre inalabili, l’amianto (chiamato anche asbesto) oltre che del mesotelioma può essere responsabile di asbestosi (una malattia polmonare cronica conseguente all’inalazione di fibre di asbesto) e, seppure con una quota attribuibile più bassa e più difficile da stimare, anche di altre tipologie di tumore, come il tumore polmonare e dell’ovaio. Il 27 marzo del 1992, con 13 anni di anticipo rispetto all’Europa, in Italia entra in vigore la legge 257/92, che stabilisce il divieto di estrazione, importazione, esportazione, commercializzazione e produzione di amianto. “Le morti e le malattie per amianto destano un grande senso di ingiustizia sociale che richiama tutti alla necessità di intervenire – ha dichiarato Marco Martuzzi, direttore del dipartimento Ambiente e Salute dell’Iss – In Italia molto è stato fatto negli ultimi decenni, per cui oggi si vedono i primi effetti positivi”. “Ma l’amianto rimane un’emergenza ambientale e sanitaria – riprende l’esperto – che richiede urgenti interventi di prevenzione, eliminando esposizioni residuali all’amianto ancora presenti nel nostro Paese. Va assicurata un’adeguata assistenza sanitaria e sicurezza sociale agli ex esposti, ai malati per amianto e ai loro familiari”. Si tratta di interventi che richiedono uno sforzo sinergico tra le istituzioni locali e nazionali, le associazioni, il mondo della ricerca.

    E in questa direzione di sinergia va il Progetto Sepra (Sorveglianza epidemiologica, prevenzione e ricerca sull’amianto), finanziato dall’Inail e coordinato dalla Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano. Nell’ambito di Sepra, presso l’Iss oggi si tiene il workshop aperto esclusivamente a ricercatori coinvolti nel Progetto e a rappresentanti delle associazioni, dal titolo “L’impatto sulla salute dell’amianto in Italia: sorveglianza epidemiologica, prevenzione e supporto agli ex-esposti: stato dell’arte e strumenti innovativi di ricerca e intervento. Il Progetto Sepra”. Durante il workshop saranno discussi i dati del rapporto dell’Iss e le attività in corso del Progetto tra rappresentanti delle associazioni e ricercatori coinvolti in Sepra. Obiettivo della collaborazione tra le diverse istituzioni, le reti accademiche e gli enti coinvolti è la condivisione delle conoscenze e dei dati delle diverse fonti informative, come quelli della mortalità presentati dall’Iss e i dati del Registro Nazionale Mesoteliomi in modo da rafforzare gli strumenti disponibili per l’eradicazione delle malattie da amianto nel Paese e per il supporto ai malati e ai loro familiari.

  • In attesa di Giustizia: la legge è uguale per tutti?

    Sembra di poter dire che al peggio non c’è mai limite e non c’è limite alla impunita strafottenza con cui la corporazione dei magistrati si stringe sistematicamente a tutela dei propri adepti e privilegi: ecco a voi due storie, una particolarmente sgradevole, sulle quali riflettere.

    Chi segue questa rubrica ricorderà che più di una volta sono stati segnalati episodi relativi a sentenze che si erano scoperte come decise prima della fine del processo (e chissà quante non vengono disvelate, considerato che non possono essere accadimenti episodici): ebbene, per uno di questi fatti, si è da pochi giorni arrivati ad una decisione della rigorosissima sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.

    Accadde a Firenze nel febbraio scorso che un difensore, chiedendo di consultare il fascicolo che lo interessava mentre il Collegio era impegnato in camera di consiglio per un altro processo – probabilmente a fare colazione, facendosela portare dal bar, visto l’andazzo – scoprì che all’interno si trovava la sentenza già scritta, motivata e ben definita con la condanna e la determinazione della pena: tutto ciò senza che avesse discusso non solo l’avvocato ma neppure il Pubblico Ministero. Quasi, quasi, sarebbe preferibile una bella ordalia.

    Qualcuno si sarebbe, forse, dovuto prendere la briga di sequestrare immediatamente tutti i fascicoli, almeno quelli del giorno, verificando se altri contenessero qualcosa del genere. Invece, niente: anzi, il Tribunale si accanì contro il difensore perchè aveva osato esercitare il suo diritto di consultazione, debitamente autorizzato dal P.M. a cui era stata fatta la richiesta ed era presente in aula. Solo per la presa di posizione della Camera Penale di Firenze la vicenda è finita al C.S.M.

    Ed ecco, dopo pochi mesi, l’Organo di Autogoverno (che più spesso impiega anni a decidere in guisa da far raggiungere serenamente la pensione agli incolpati e poi chiudere il disciplinare con un nulla di fatto) eccezionalmente sollecito a decidere sulla richiesta di trasferimento di quei magistrati per incompatibilità ambientale; neanche chissà che: avrebbero solo dovuto fare le valigie ed andare altrove a fingere di fare i giudici invece di essere spediti a calci nel sedere a fare i fattorini per Glovo.

    Il Consiglio ha deciso di archiviare il tutto perché l’accaduto è (testuale) “privo di ricadute nell’esercizio indipendente ed imparziale sulla giurisdizione”: il richiamo all’imparzialità in questo caso più che un insulto all’intelligenza è asserto da voltastomaco ed in un Paese civile tutti i cittadini, quelli nel cui nome viene esercitata la giustizia, avrebbero dovuto essere adeguatamente informati di questa duplice vergogna e, traendone le conclusioni, prendere d’assalto Palazzo dei Marescialli come fosse la Bastiglia; ogni altro commento è lasciato a voi lettori.

    La seconda vicenda è un po’ meno stomachevole: si tratta del risarcimento per ingiusta detenzione riconosciuto (giustamente va detto) dalla Corte d’Appello di Milano a Pasquale Longarini, già Procuratore della Repubblica di Aosta, vittima di una giustizia (?) che ha impiegato anni per assolverlo da accuse infamanti di induzione indebita, violazione del segreto di ufficio e favoreggiamento. Nessuno nega che a quest’uomo sia stata rovinata la vita, la carriera e che abbia subito l’onta di due mesi di arresti domiciliari ma…la riparazione per ingiusta detenzione è prevista proprio solo per le carcerazioni preventive rivelatesi ingiuste a seguito di assoluzione e la domanda che ci si deve porre è perché al Dott. Longarini siano stati corrisposti circa 800 euro per ogni giorno di prigionia domestica (in totale quasi 50.000). Infatti, per un comune mortale la “tariffa” non arriva a 120 euro/giorno: 1/7, più o meno…più meno che più se si considera che recentemente ad un imprenditore di Frosinone per due anni e otto mesi di carcere e cinque mesi di arresti domiciliari sono stati versati 160.000 euro. Soldi, comunque, di noi contribuenti: evidentemente l’abito non fa il monaco ma il tipo di toga indossata fa il risarcimento.

  • In vigore norme più severe sulla cybersicurezza, ora si tratta di implementarle

    Dal 17 luglio è in vigore in Italia la normativa voluta dalla Ue in materia di cybersicurezza. Gli enti pubblici, principalmente ma non solo, che subiscono un attacco da parte di hacker dovranno segnalarlo entro 24 ore.  Distinguendo tra “soggetti essenziali” e “soggetti importanti”, e imponendo agli uni e agli altri requisiti di sicurezza specifici e obblighi di notifica per gli incidenti informatici, le nuove norme identificano i settori chiave per l’economia del Paese come energia, trasporti, bancario e sanitario,. tutti settori caratterizzati da una progressiva digitalizzazione dei servizi offerti, e prescrive loro sia di effettuare l’analisi del rischio informatico e di adottare misure di sicurezza adeguate per garantire la continuità operativa, sia di segnalare tempestivamente all’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale CSIRT (Computer Security Incident Response Team) o all’autorità competente incidenti che possano interrompere la fornitura di servizi essenziali.In Ita

    Pubblica amministrazione e imprese del Belpaese si stanno adoperando per raggiungere gli standard di cybersicurezza dei Paesi più virtuosi del Vecchio Continente ma, come ha evidenziato anche il condirettore di Leonardo Lorenzo Mariani in un’audizione davanti alla commissione Difesa in Parlamento, è essenziale che l’Italia raggiunga la soglia del 2% di spesa pubblica rispetto al Pil destinato alla difesa, come richiesto a tutti i membri della Nato. In ballo, ha detto Mariani, c’è sia la sicurezza nazionale che il ruolo che l’Italia può avere nel mondo, non solo in termini militari.

    Secondo quanto riferito dall’Agenzia per la Cybersicurezza nell’annuale rapporto al Parlamento, lo scorso anno gli eventi cyber nella Penisola sono stati 1.411, con un incremento di quasi il 30% rispetto al 2022, mentre sono più che raddoppiati gli incidenti, arrivando a quota 303 (per una media di circa 25 al mese). I principali target sono stati la pubblica amministrazione e le aziende dei comparti di telecomunicazioni, trasporti e servizi finanziari.

  • Child marriage ban welcomed in Sierra Leone

    Sierra Leone has brought in a new law banning child marriage with much fanfare at a ceremony organised by First Lady Fatima Bio in the capital, Freetown.

    Invited guests, including first ladies from Cape Verde and Namibia, watched as her husband President Julius Maada Bio signed the Prohibition of Child Marriage Act into law.

    Anybody now involved in the marriage of a girl aged under the age of 18 will be jailed for at least 15 years or fined around $4,000 (£3,200), or both.

    University student Khadijatu Barrie, whose sister was married off at 14, told the BBC she welcomed the ban but wished it had come in to save her younger sibling.

    “I really wish it had happened earlier. I could have at least saved my sister and my friends and other neighbours,” the 26-year-old gender studies undergraduate said.

    Sierra Leone is a patriarchal society and it is common for a father to give his daughter’s hand in marriage forcibly.

    Ms Barrie faced this prospect aged 10. She resisted it and fled the family home after her father disowned her.

    She was lucky enough to find teachers who paid for her school fees and a sympathetic worker from the UN children’s agency who helped her out with accommodation.

    But she says it is difficult for those who live in rural areas to buck tradition and every community will need to be informed about the new law for it to be effective.

    “If everyone understands what’s there waiting for you in case you do it I’m sure this country will be a better one,” Ms Barrie said.

    The ministry of health estimates that a third of girls are married off before they turn 18, accounting for the country’s high number of maternal deaths – among the highest in the world.

    Those who face punishment under the new rules include the groom, the parents or guardians of the child bride, and even those who attend the wedding.

    Mrs Bio, who has been at the forefront in campaigning against sexual abuse since her husband became president six years ago, wanted the signing of the bill to be a big occasion.

    The first lady told the BBC World Service Newshour programme the bill was a “personal battle” as she was almost a victim of child marriage.

    The marriage didn’t go through because the civil war broke out but the experience has remained with her.

    She said that child marriage was like “taking away a child’s dream and destroy them even before they knew who they are”.

    “Even when I am at the position I am now, I still feel that pain. I still hate my immediate family for trying to do that,” she said.

    The first lady said Sierra Leone suffers from a high birth mortality rate because many of those having children are still teenagers.

    “Most of these girls, their body is not ready,” she said.

    Since MPs passed the legislation a few weeks ago, it has not received much coverage locally.

    At the ceremony, President Bio said that his “motivation and commitment to empowering women and girls is firmly rooted in my personal life journey”.

    His eight-year-old daughter was amongst those who watched him sign the bill.

    The 60-year-old president explained how he had lost his father at an early age and had been brought up by his mother and later his elder sister who “supported and encouraged me to pursue my dreams to the best of my ability”.

    He acknowledged his wife’s commitment to championing women’s rights: “Together, we want to build an empowered Sierra Leone where women are given an even platform to reach their full potential. I have always believed that the future of Sierra Leone is female.”

    Mrs Bio told the BBC she hoped this law would end the cycle of “children who will not be educated, who will not be empowered, who cannot contribute to nation-building”.

    She added that there was no excuse for religious or traditional leaders saying they didn’t know the law as she had campaigned across every inch of Sierra Leone for the past six years.

    Rights activists reacted favourably to the law, calling it a watershed moment.

    On their X page, the US Bureau of African Affairs welcomed the passage of the bill saying the “significant milestone not only protects girls but promotes robust human rights protections”.

  • In attesa di Giustizia: nel paese del diritto è talvolta buio fitto

    Nel libro dell’Apocalisse, il giorno del giudizio viene fatto coincidere con la fine del mondo; spigolando in un decreto legge in fase di emanazione proprio in quella che viene considerata la sua culla si direbbe che si voglia far corrispondere la fine del mondo del diritto e del giusto processo con il giorno in cui si celebra l’ultimo grado di giudizio e più nella sede giurisdizionale più alta del nostro sistema: la Corte di Cassazione, le cui decisioni sono finalizzate ad interpretare della legge e valutare la sua corretta applicazione.

    Così è se vi pare, e se non vi pare è così lo stesso: l’articolo 12 del Decreto Infrastrutture, intitolato modifiche al codice di procedura penale per l’efficienza del procedimento penale senza considerare che efficienza non è sinonimo di efficacia (che sarebbe preferibile), può ritenersi una sorta di iniezione letale somministrata al terzo grado del processo che trasforma la solennità della discussione davanti alla Corte di Legittimità, che si vorrebbe ricca di spunti e approfondimenti in contraddittorio, l’ultima fermata in attesa di giustizia, in un anodino scambio di e-mail tra i difensori, il Procuratore Generale ed il Giudice Relatore. Siamo di fronte alla mutazione genetica della Corte in un sentenzificio.

    I lettori penseranno: ma con le infrastrutture tutto questo cosa c’entra? Secondo le peggiori tradizioni della nostrana sciatteria normativa, questa disciplina che impatta sull’effettività del diritto di difesa è frammista, anzi in coda, alla regolamentazione di concessioni autostradali, al rafforzamento della capacità tecnica della fondazione lirico sinfonica Petruzzelli e Teatri di Bari, alle misure per il sostegno della presenza delle imprese italiane nel continente africano ed altre disposizioni totalmente disomogenee rispetto al rito penale.

    Una tecnica (parola grossa) normativa che richiama alla memoria la riforma del Testo Unico sugli stupefacenti comportante notevoli aggravamenti delle pene che fu inserita in un decreto legislativo avente ad oggetto aspetti organizzativi delle Olimpiadi Invernali del Sestrière con un eccesso di delega che non sarebbe dovuto sfuggire neppure a chi avesse studiato diritto costituzionale alle scuole serali…al buio ma che provocò per anni decine di migliaia di sentenze illegali prima che qualcuno se ne accorgesse ed alle quali fu solo in parte possibile porre rimedio. Andatelo a raccontare a chi ha scontato lunghe detenzioni a causa di una legge che, semplificando il concetto, non poteva neppure essere emanata. Non in quel modo, perlomeno, e fu fatta a pezzi dalla Corte Costituzionale.

    Parola d’ordine, dunque: efficienza, l’efficacia può attendere. Pervenire ad un tale risultato è impossibile in un sistema in perenne debito d’ossigeno con le risorse umane ed economiche e allora cosa c’è di meglio che sfrattare – un termine diverso non sovviene – gli avvocati dalle aule di cui sono considerati, all’evidenza delle riforme e della prassi, un orpello fastidioso, purtroppo costituzionalmente irrinunciabile, che fa perdere tempo tanto è vero che vi è stato anche chi, recentemente e con la solennità derivata dello scranno di provenienza, ha sollecitato i difensori alla massima sintesi perché con la discussione sottraggono tempo alla camera di consiglio ed alla ponderata decisione dei ricorsi. Tradotto: cari avvocati, non servite a niente.

    Ed allora, addio alle aule sostituendo un turbinoso intreccio di posta elettronica ai difensori che le scriveranno con impegno e passione non meno che amarezza mentre i Sostituti Procuratori Generali potranno redigere requisitorie severe ma giuste da spedire comodamente dal terrazzo di casa mentre sorseggiano un limoncello dopo cena e la lettura delle quali stimolerà il furore intellettuale dei Giudici relatori che potranno esprimere la loro diuturna applicazione allo studio estendendo ponderate relazioni anche dalla vasca idromassaggio.

    Tutto o quasi può, quindi, farsi senza l’incomodo di dover far presenziare gli avvocati in udienza e  – in barba al diritto di difesa – sono stati anche sensibilmente ridotti i termini di legge per la proposizione di motivi di ricorso nuovi e memorie: così “si fa prima”. Il segnale che viene dato non è equivocabile.

    Sia dunque benvenuto “l’avvocato in Costituzione” per garantire l’effettività della tutela dei diritti e quello inviolabile alla difesa come proposto da un’altra riforma messa in cantiere ma purché lo faccia senza disturbare più di tanto il manovratore che ha già tanti pensieri che alimentano il tormento della decisione. Come diceva qualcuno: nel Paese del diritto è talvolta buio fitto.

  • Supreme Court briefly issues opinion allowing Idaho abortions

    The US Supreme Court appears ready to allow abortions in cases of medical emergencies in Idaho, after briefly publishing – and then deleting – an opinion on its website.

    According to a report on Bloomberg, the court will rule that the state cannot deny emergency abortions to women whose health is in danger, despite a near-total ban.

    In a statement, the court said that its final decision had “not been released” and that a document was “inadvertently and briefly” uploaded to its website.

    The spokesman said that a ruling would be released in due course.

    The inadvertent publication of the opinion comes two years after the leaking of the court’s decision to overturn the national right to abortion access, known as Roe v Wade.

    Since then, a patchwork of abortion laws have been established as more conservative states, such as Idaho, restrict rights to the procedure.

    The document posted online on Idaho suggested that the court would rule that it should not have become involved in the case so quickly, Bloomberg reported.

    The report added that the court would reinstate an order that permitted Idaho hospitals to perform emergency abortions to protect patient’s health.

    If that is the case, the case would continue at a federal appeals court.

    The Biden administration sued Idaho over its near-total abortion ban in 2022, with Department of Health and Human Services Secretary Xavier Becerra saying that “women should not have to be near death to get care”.

    Idaho countered, saying that the federal law – known as Emergency Medical Treatment and Labour Act or Emtala – cannot supersede state law.

    The court’s nine justices appeared divided during earlier arguments on the case.

  • In attesa di Giustizia: 2 giugno

    E’ iniziata, con prima tappa a Cagliari il 29 maggio, la maratona oratoria a livello nazionale della durata di due mesi organizzata dall’Unione delle Camere Penali: avvocati, docenti universitari, garanti dei detenuti e rappresentanti di associazioni, con interventi della durata di un’ora ciascuno, si alterneranno a staffetta per giornate intere davanti ai Tribunali per informare e coinvolgere la società civile sul tema delle condizioni e dei suicidi nelle carceri che sono già oltre trenta da inizio anno.

    Vigilando redimere era il motto del Corpo degli Agenti di Custodia prima che venisse trasformato in Polizia Penitenziaria e, senza scomodare Cesare Beccaria, dice tutto: il carcere deve essere un luogo destinato alla rieducazione e non una discarica umana nella quale rinchiudere uomini e donne – in attesa di giudizio, così come i condannati – a marcire con la punizione aggiuntiva della mancanza di igiene, spazi vivibili e strutture adeguate sia sanitarie che volte al recupero per restituirli migliorati alla libertà.

    La Repubblica festeggiata il 2 giugno è, purtroppo, lontana da quella pensata e disegnata dai Padri Costituenti, è una Repubblica sotto processo che negli ultimi trent’anni ha visto sfumare la funzione essenziale della Giustizia attraverso il conflitto tra magistratura e politica e poi – o, meglio, nel frattempo –  quello interno all’Ordine Giudiziario con rese dei conti e contrapposizioni che sono emerse in una realtà ancor più desolante e preoccupante di quanto si era immaginato dopo le rivelazioni di Luca Palamara e l’analisi impietosa che dell’indagine a carico di costui ha fatto Alessandro Barbano (licenziato dopo solo un mese dalla direzione del “Messaggero”, forse perché troppo liberale) in un libro in cui illustra come il regime delle intercettazioni distrugge vite e sovverte le regole del potere.

    Ecco, da trent’anni a questa parte le riforme, quelle strutturali e ragionate, l’adeguamento degli istituti penitenziari ai canoni costituzionali, il rispetto per le vite umane, hanno subito l’effetto di bracci di ferro come quello tra i magistrati e Berlusconi la cui morte non ha chiuso la partita; e poi, populismo normativo con leggi che sono meri spot elettorali, l’assalto al Quirinale con la sconclusionata inchiesta sulla Trattativa Stato-Mafia, le lotte intestine alle correnti per l’aggiudicazione delle Procure più ambite e chi più ha memoria più ne metta.

    Come dire: la storia d’Italia degli ultimi decenni si è scritta di più nei tribunali che nelle aule parlamentari e la deriva giustizialista non conosce confini: un esempio recentissimo si rinviene nella motivazione con cui è stata respinta la richiesta di scarcerazione dell’ex presidente dell’Autorità Portuale di Genova, Paolo Signorini: “perché non si è mostrato consapevole del disvalore della sua condotta”, insomma non si è pentito a sufficienza, stia in galera. Il ragionamento è più da Stato etico che di diritto e ben potrebbe essere uscita dalla penna di un GIP di Teheran come se il carcere dovesse servire a questo.

    Vittime di un sistema, questo sì autoritario ed arroccato nella protezione del proprio debordante potere,   sono state le centinaia di persone arrestate e assolte durante la stagione di Mani Pulite o sarebbe meglio dire mani grondanti di sangue se si considerano i quarantuno suicidi senza risposta risalenti all’epoca di Tangentopoli che ha segnato un modo di intendere la carcerazione preventiva che continua a mietere capri espiatori senza colpa né peccato mentre in carcere si continua a morire per una disperazione che non di rado è frutto della consapevolezza di patire ingiustamente quel tormento in condizioni che hanno indignato i partner europei o per sfiducia nella giustizia.

    Troppe sono le morti di chi lo Stato dovrebbe salvaguardare e recuperare, morti che sono delle ferite inferte alla democrazia e non solo “possibili fonti informative perdute” come ritiene, mostrando ripugnante insensibilità Piercamillo Davigo.

    Ma lo spirito di Einaudi e di quelli come lui che costituirono la classe dirigente del miracolo del dopoguerra è pur sempre nel DNA di questo Paese e dovrà pure tornare a manifestarsi insieme a quella disciplina ed onore che la Costituzione pretende dai cittadini, dunque anche i magistrati, cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di impiegare nel loro adempimento…in attesa di Giustizia.

  • In attesa di Giustizia: R.I.P.

    Se il Governo, per la parata del 2 giugno, avesse fatto sfilare la portaerei Trieste nel Mar Nero e sbarcare il Battaglione San Marco a Odessa avrebbe generato meno apprensione che approvando il D.D.L. sulla separazione delle carriere dei giudici e pubblici ministeri…almeno tra la magistratura associata e nelle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano.

    Così è, se vi pare: dopo decenni di discussione dopo la promulgazione del codice che regola il processo penale nel 1989 con cui meglio si adatterebbe, quella che è una regola ordinamentale in molte democrazie occidentali di tradizione liberale, come il Regno Unito, sembra che stia per diventare legge anche da noi.

    L’Associazione Nazionale Magistrati, in nome della indipendenza ed autonomia della magistratura si paluda da intemerato paladino di questi principi che non sono messi in discussione da un progetto di riforma che, per il divieto imposto da più di un articolo della Costituzione, non potrebbe neppure sottoporre il Pubblico Ministero al controllo del Ministro della Giustizia condizionando o impedendone le iniziative.

    Ma, allora, se questa riforma non è un rischio per la democrazia – non è credibile che gentiluomini che i genitori hanno fatto studiare e praticano la giurisprudenza non lo comprendano – qual è o può essere il timore che attanaglia un gran numero (non tutti…) di appartenenti all’Ordine Giudiziario?

    A pensar male si fa peccato ma, a volte, non si sbaglia: le ansie sono, forse, di natura diversa? Magari quella perdita di chance che deriva dal poter transitare da una funzione all’altra senza insormontabili ostacoli traguardando l’obiettivo di sempre nuovi incarichi direttivi che sono anche la rampa di lancio verso prestigiose e ben remunerate posizioni fuori ruolo, elezioni al C.S.M, candidature…?

    In due parole può essere una questione di denaro e potere legati al raggiungimento di questi risultati di carriera per i quali il merito conta molto meno degli accordi spartitori tra le correnti della magistratura. Queste ultime sono tutte guidate da Pubblici Ministeri che – a loro volta – acquistano visibilità grazie ad inchieste gestite senza rispetto della riservatezza e spesso sviluppate applicando al contrario il criterio di Eudosso – un matematico dell’Asia Minore del V secolo A.C. – utilizzato per calcolare la superficie di figure geometriche irregolari: delimitano e misurano la superficie del teorema accusatorio come se gli indagati fossero già colpevoli conclamati, poi iniziano a centellinare dettagli alla stampa lasciando credere che si stiano avvicinando sempre più ad una verità assoluta facendo crescere interesse ed indignazione moralistica negli specialisti dei giudizi a priori e dando l’impressione che la quadratura del cerchio sia ormai prossima.

    La separazione delle carriere, ahimè, prevede la creazione di due C.S.M.: uno per i giudicanti e l’altro per gli inquirenti con la conseguente perdita di controllo dei P.M. sui giudici, subalterni ai poteri correntizi (profondamente politicizzati) che, allo stato, ne gestiscono incarichi e progressi in carriera per le ragioni dette. E poi, senza vergogna, parlano di timore di finire sotto il controllo del Governo…

    Il Guardasigilli, presentando la riforma, ha ricordato che la separazione delle carriere era stata auspicata da Giovanni Falcone, suscitando incomprensibile indignazione, tra gli altri, quella di Alfredo Morvillo (ex giudice) che ha negato vibratamente che suo cognato abbia mai sostenuto la separazione delle carriere ed anche che: “sia gravemente offensivo definire i giudici come passacarte delle procure, influenzabili solo per aver fatto lo stesso concorso. Ma risponde ad un’operazione portata avanti negli ultimi anni per diffondere sfiducia nella giustizia e quando in un paese viene meno la fiducia nella giustizia cominciano ad essere in pericolo anche le libertà democratiche”.

    Ecco, un pizzico di allarme fascismo non guasta mentre Morvillo, a proposito di sfiducia nella magistratura, sembra non avere mai sentito parlare dell’affaire Palamara né letto il documentatissimo libro “La gogna” di Antonio Barbano, soprattutto sembra non ricordare chi disse queste parole: “Il P.M. non deve avere nessun tipo di parentela con il giudice e non deve essere, come è oggi, una specie di paragiudice. Chi, come me, chiede che giudice e P.M. siano invece due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico della indipendenza del Magistrato, un nostalgico della discrezionalità dell’azione penale, desideroso di porre il P.M. sotto il controllo dell’esecutivo”.

    Questa riflessione appartiene a proprio a Giovanni Falcone: riposi in pace a patto di non guardare cosa accade quaggiù all’interno di quell’Ordine Giudiziario di cui è un martire e con il quale non ha nulla a che spartire.

  • In attesa di Giustizia: chi tocca i fili muore

    E’ questo l’avvertimento affisso ai piloni che sorreggono condotte di elettricità ad alta tensione ed un analogo monito viene rivolto a chi si permette di far buon governo del diritto di critica nei confronti della magistratura; monito che – come i lettori possono constatare – scivola senza attrito sui binari della indifferenza della redazione de Il Patto Sociale.

    Da ultimo è capitato ad Ermes Antonini, ottimo redattore del Foglio, che si è permesso di esprimere il proprio pensiero su un paio di P.M. fiorentini già titolari di indagini tanto strampalate quanto grottescamente insistite.

    Basti dire che uno di questi ha imbastito per anni un’inchiesta su una fondazione supponendo che avrebbe costituito il travestimento di una corrente di partito creato ad hoc per eludere la disciplina sul finanziamento pubblico: si è perso il conto di quante volte la Cassazione, annullando sequestri a raffica, ha ribadito che si trattava di un’idea quantomeno bislacca; alla quarta tirata di orecchi si è aggiunta una decisione della Corte Costituzionale che riteneva illegittimo l’uso che aveva fatto delle intercettazioni di un parlamentare poiché prive di autorizzazione della Camera di appartenenza. Ma il magistrato ha proseguito imperterrito.

    Il Procuratore Capo di Firenze, mentre vengono preannunziate querele, ha chiesto che il C.S.M. apra una pratica a tutela del proprio ufficio perché il giornalista avrebbe fatto trasparire una volontà persecutoria. Forse avrebbe fatto meglio a riflettere sul fatto che siano taluni comportamenti dei sui sostituti a delegittimare la Procura. Un caso quasi affascinante di dispercezione della realtà, di inversione della logica delle cose.

    E dire che, solo una settimana, fa “Giustizia Insieme”, la rivista che si propone l’ambizioso progetto di realizzare una piattaforma di confronto tra avvocati, magistrati e studiosi del diritto, ha organizzato un convegno dedicato al sacrificio di Giacomo Matteotti nel corso del quale si è discusso civilmente di libertà della magistratura e dei criteri di valutazione della professionalità: peraltro, questo subitaneo fiorire di lamenti e querele di alcuni magistrati contro gli autori di articoli di stampa riportano alla dura realtà e quando si nega il diritto alla parola non tira una buona aria. Proprio Matteotti pagò con la vita, un pericolo che oggi fortunatamente non si corre ma anche la minaccia di una azione giudiziaria che si gioca sul “terreno amico” è qualcosa che fa a pugni con la democrazia e quella libertà che si invoca per se stessi: meglio sarebbe considerare che le critiche possono essere costruttive.

    Ciononostante, la magistratura sembra esserne impermeabile se non apertamente irritata, incapace di una seria autocritica come dimostrano le incredibili motivazioni (depositate in questi giorni) con cui la Corte di appello di Roma ha accolto la revisione di quel Beniamino Zuncheddu di cui la rubrica si è già occupata, riconosciuto innocente dopo oltre trent’anni di carcere.

    Neanche due parole di scusa (figurarsi) in quelle pagine in cui ritorna il  leit-motiv del colpevole che l’ha fatta franca e dalle quali traspare il fastidio di aver dovuto riaprire questa vicenda riconoscendo un errore giudiziario marchiano al quale si tenta, tuttavia, di trovare una giustificazione arrivando a sostenere che “la già esile speranza di poter pervenire ad una ricostruzione veritiera ed attendibile dello svolgimento dei fatti dopo trent’anni è stata gravemente pregiudicata dalla forte attenzione mediatica riservata a questa vicenda, tale per cui sono state divulgate disinvolte ricostruzioni dei fatti arricchite da discutibili commenti, giudizi personali, congetture, valutazioni unilaterali prive del dovuto contraddittorio (e quindi lacunose e parziali) che hanno inciso sulla genuinità dei testi, che invece avrebbero forse potuto offrire qualche spiraglio di verità se fosse stato lasciato libero il campo alla memoria di ciascuno di essi, non influenzata da narrazioni preconfezionate”.

    Si sarebbe, quindi, dovuto tacere e non vedere? Zuncheddu non avrebbe dovuto gridare la sua innocenza per trentatre anni? il Partito Radicale e la garante dei detenuti della Sardegna non se ne sarebbero dovuti occupare e i giornali – sempre dopo decenni di sofferenze – non avrebbero dovuto scriverne? È loro la colpa se si sono intorbidate le acque al punto che è “esile speranza” quella di pervenire a una ricostruzione “veritiera e attendibile”. Il fatto che non ci siano prove contro Zuncheddu, che quelle prodotte a suo carico siano state fabbricate, è responsabilità di tutti, ma non dei magistrati che hanno gestito indagini e processo. La Corte, mostrando di dubitare fortemente della innocenza, ha rimarcato che l’assai tardiva assoluzione di questo pover’uomo interviene per quella che una volta si chiamava insufficienza di prove, formula inopportunamente evocata laddove risultano effettivamente subornazioni dei testimoni, ma all’epoca dei fatti e da parte degli inquirenti sardi ed accertamenti investigativi quantomeno carenti. Tanto nessuno paga mai per errori ed orrori giudiziari, neppure davanti al C.S.M. dove la parola magica per addomesticare la giustizia disciplinare è “fatto di scarsa rilevanza” locuzione utilizzata con abitualità che vuol dire tutto e niente. Soprattutto niente e colpevoli che la fanno franca.

    Lasciate allora perdere le querele, le pratiche e a tutela ed al procuratore Gratteri che si chiede perché avere paura di lui e dei suoi colleghi il suggerimento è che si faccia seriamente e non retoricamente la domanda e si dia con serietà una risposta.

Pulsante per tornare all'inizio