Legge

  • In attesa di Giustizia: con sprezzo del ridicolo

    Ma…non si dice “sprezzo del pericolo”? E’ vero, ma nulla vieta di utilizzare – se opportuna – la locuzione modificata e così come nel titolo è perfetta se riferita alle preoccupazioni, prepotentemente lamentate dall’Associazione Nazionale Magistrati a proposito della modifica della Costituzione intesa a separare le carriere tra Giudici e Pubblici Ministeri.

    Ancora?!  L’argomento è già stato affrontato più volte in questa rubrica ma deve essere ripreso perchè il dibattito si fa sempre più infuocato ed alimentato di continuo dal Sindacato delle Toghe, sebbene il disegno di legge che prevede tale riforma per il momento segni il passo: forse quella che è auspicata è una sollevazione popolare che intimidisca per tempo ed a tal punto la politica da suggerire di lasciar perdere con l’unica minaccia efficace cioè a dire quella della perdita di consenso, voti, e con essi potere. Ma si sa, l’elettorato ha la memoria corta e le prossime elezioni appaiono lontane.

    Dunque, con sprezzo del ridicolo si è sostenuto che con la separazione delle carriere il P.M. finirebbe sotto il controllo del Governo: il pensiero che ciò possa accadere munendo, oltretutto, di formidabili poteri un pinocchietto come Fofò Bonafede (il peggiore della storia ma in ottima compagnia con alcuni suoi predecessori) fa accapponare la pelle ma i Magistrati, fingono di non aver letto il testo dell’articolo 104 della Costituzione come previsto da tutte le iniziative di riforma: “L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo e indipendente da ogni potere”.

    La norma costituzionale, così come costruita è di inequivocabile chiarezza anche per un cittadino digiuno di competenze giuridiche ed è stata richiamata proprio perché anche i lettori sappiano di cosa si sta parlando, figuriamoci per i Magistrati del Comitato Centrale dell’ANM che di leggi se ne intendono. O, almeno, dovrebbero.

    Con sprezzo del ridicolo, e qui sembra di assistere ad una pièce di avanspettacolo interpretata da Erminio Macario o da Pinuccia Nava in arte Scaramacai, affermano che il mondo intero invidia il modello italiano, e brama per adottarlo pari pari. Non è necessario essere lettori di questa rubrica per evitare l’emulazione come una malattia infettiva e, in realtà, il sistema a carriere separate, con diverse modulazioni, è vigente in Spagna, Germania, Svezia, Portogallo, Gran Bretagna, Stati Uniti, nella stragrande maggioranza dei paesi del Commonwealth Britannico, in Giappone, solo per citarne alcuni. Absit injuria verbis, noi siamo in compagnia di Turchia, Bulgaria e Romania ed anche della Francia dove, però, il P.M. dipende dal Ministro della Giustizia.

    Un fondo di verità si scorge se si si pone l’attenzione al fatto che in molti di quei Paesi, soprattutto quelli anglofoni, il Pubblico Ministero è sottoposto al Ministro di Giustizia…ma non in Portogallo, per esempio, al cui modello si ispira la nostra proposta di riforma: carriere separate, P.M. indipendente; e cosa c’è che non piace del Portogallo, il baccalà, i pasteis de nata?

    L’ansia da sottomissione alla politica prende, poi, slancio se si parla di “indipendenza interna”, cioè della autonomia del C.S.M., che si duplicherebbe: uno per i Giudici ed uno per i P.M. ma con composizione paritaria tra laici eletti dal Parlamento (da scongiurare assolutamente!) e togati eletti dagli appartenenti all’ordine giudiziario. Ecco, a tal proposito sarebbe opportuna la conoscenza di un po’ di storia – forse appositamente trascurata – ed il ricordo dell’intervento di Giovanni Leone in Assemblea Costituente inteso a sostenere che nel C.S.M. fosse opportuna una equivalenza numerica tra membri laici e togati: “occorre eliminare il timore…che il CSM… possa trasformarsi in organo di casta, intorno al quale si coagulano interessi, intrighi, protezioni, preferenze, tali da costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli giudici…”.

    Era la seduta pomeridiana del 14 novembre 1947: gli avessero dato retta! Altro che inciuci correntizi modello Palamara. E, allora, basta con selettivi vuoti di memoria, basta con lo sprezzo del ridicolo, signori magistrati: se un dibattito è giusto che ci sia che sia serio e corretto.

  • In attesa di Giustizia: la saga dell’esaurito

    E’ diventata una saga quella del Tribunale piemontese che infligge 11 anni di reclusione ad un imputato di violenza sessuale dimenticandosi banalmente di far discutere il difensore: quasi fosse un inutile, anzi, un fastidioso orpello del processo.

    E’ una vicenda di cui ci siamo già occupati ma che ora “mette in onda” una nuova ed inquietante puntata di cui non si può trascurare la cronaca.

    Dopo che il C.S.M. e la Cassazione si sono occupati del procedimento disciplinare, della vicenda ha dovuto interessarsi anche la Procura di Milano, competente per i reati attribuiti a Magistrati del Piemonte: come i lettori, forse, ricorderanno il Presidente del Collegio, resosi conto del pasticcio che aveva combinato, ha pensato bene di provi rimedio con la classica pezza peggiore del buco  strappando il foglio su cui era stato scritto il dispositivo della decisione presa invitando solo a quel punto la difesa a discutere!

    Non è stato solo un gesto incomprensibile ed ingiustificabile: in questo modo – essendo il dispositivo un atto pubblico di cui si era anche data lettura – si commette un reato che si chiama falso per soppressione. Dettaglio che ad un magistrato del settore penale (e non solo) non sarebbe dovuto sfuggire.

    Atti, allora, giustamente inviati a Milano per procedere ma quella Procura, nota per l’inflessibile rigore, ha velocemente richiesto l’archiviazione che il GIP ha disposto con altrettanta ed inusuale velocità.

    Come giustificare tutto ciò? Si trattò di un erroruccio e mancò l’intento doloso: insomma, roba da Paperissima Show. Non è disponibile (probabilmente lo sarà mai) la motivazione di questa singolare – e generosa – decisione ma, un po‘ per gioco e per alleggerire l’argomento, proviamo ad indovinare mettendoci un pizzico di fantasia. Sua Eccellenza il Presidente avrà strappato la sentenza da lui stesso scritta poco prima perché in quel momento era stato distratto dalle urla del difensore? Un gesto non voluto, un muscolo involontario messo in moto dallo spavento. Potrebbe essere.

    Oppure…oppure… si è reso conto di averla tra le mani e si è spaventato immaginandola scritta da una entità sovrannaturale che in quei drammatici momenti lo aveva posseduto. Eventualità metafisica ma non impossibile.

    Magari ha confuso la sentenza con il Kleenex appena usato per soffiarsi il naso: questa è la più proponibile da immaginare se si conosce bene la rigida giurisprudenza sul dolo del falso per soppressione.

    Ma no, ecco la spiegazione! Incapacità di intendere e di volere temporanea: non si po’ dimenticare che il procedimento disciplinare sta procedendo a carico del solo Presidente (le due donne giudici a latere sono state subito prosciolte adottando il famoso schema argomentativo sviluppato da Totò: “e che so’ Pasquale io?!”) e la sanzione minima inflitta dal  C.S.M., una blanda censura, è stata annullata dalle Sezioni Unite Civili della Cassazione, raccomandando che in un nuovo giudizio si offra maggiore considerazione al fatto, documentato in una perizia,  che il Signor Presidente era stressato dal troppo lavoro.

    L’intera comunità degli avvocati penalisti applaude a questi autorevoli precedenti di cui potranno far uso nella quotidianità professionale, spalancando le porte a successi fino ad ora insperati successi. L’amministratore di società fallita ha bruciato i libri contabili? Fu un fatale errore. Il funzionario delle agenzie delle entrate ha omesso di segnalare l’evasore? Era stressato per il troppo lavoro. E nessuno ci aveva mai pensato!

    A questo punto è doveroso congratularsi con chi ha così brillantemente il povero esaurito: chi mai e chi meglio dell’ex Procuratore Capo di Torino, Marcello Maddalena?

    Applausi a scena aperta mentre viene in mente quello slogan pubblicitario che diceva: “ti piace vincere facile eh?”.

    Senza offesa, ben s’intende.

  • In attesa di Giustizia: il sacro fuoco della giustizia

    Temo che questo possa essere l’ultimo appuntamento con la rubrica “In attesa di Giustizia” perché l’attesa è finita: non tanto grazie alla Riforma Cartabia le cui ombre si allungano sempre più minacciose sulle flebili luci che ne rischiarano gli articolati, quanto agli esempi di indomabile efficienza di chi esercita la giurisdizione.

    O, forse, no.

    Siamo a Catania, una Catania soffocata dal caldo e divorata dalle fiamme che hanno avvinto non solo l’aeroporto ma interi comprensori urbani: ciononostante i baluardi della legalità non smettono di profondere furore intellettuale coniugato a diuturno impegno e accade questo…

    Gianluca Costantino è un avvocato etneo che risiede proprio in una delle zone più colpite dalle fiamme, la sua casa ne è circondata, i trasporti pubblici sono paralizzati, quelli privati rischiosi e l’Avvocato ha udienza penale:riesce, tuttavia, a mandare una mail con la richiesta di rinvio di un’udienza per legittimo impedimento e trova anche un collega che si presenta in aula per sostituirlo e sostenere le ragioni di differimento.

    Niente da fare, il Giudice è inflessibile perché nella sua amministrazione arde il sacro fuoco della giustizia e la macchina non si può fermare per varie ragioni: la prima è rappresentata dal nemico di sempre, la prescrizione del reato che si avvicina e la seconda consiste nel fatto che il rinvio avrebbe imposto ai polpastrelli dei funzionari di cancelleria, ormai piagati a furia di spedire notifiche via pec, di farne altre a coloro che dovrebbero essere avvisati del rinvio; a tacer di questo, nel provvedimento di diniego si legge altresì che l’istanza non è documentata né attesta l’assolutezza dell’impedimento: Costantino poteva, magari, vestirsi con una tuta ignifuga per adempiere al suo dovere e sarebbe stato utile allegare all’istanza il file di un telegiornale recente con i Canadair che sorvolano l’abitazione del professionista.

    Il diritto di difesa, come si vede, non è poi una garanzia così assoluta ma ad assetto variabile e la decisione del Tribunale di Catania propone solo un interrogativo – e non ci sono parole migliori – cioè se sia frutto di crassa ignoranza piuttosto che di schietta malafede.

    Per i lettori, infatti, è opportuno ricordare la regola in base alla quale il corso della prescrizione viene sospeso se un differimento del processo è determinato da impedimenti o esigenze dell’imputato o del suo difensore. Ma se anche così non fosse, la domanda da porsi è se l’incolumità di un avvocato possa valere meno della prescrizione di un reato che, se è da ritenersi prossima durante il giudizio di primo grado non può essere che frutto di inerzia del P.M. durante la fase delle indagini oppure di malfunzione, congestione, inefficienza del Tribunale…ah, già, la risposta è sì: uno di meno.

    Parliamo ora delle notifiche con cui il Giudice temeva di onerare la cancelleria oltre il sopportabile: tanto per cominciare, l’avviso di un rinvio non deve essere fatto a chi è presente in udienza (nel nostro caso neppure all’avvocato impedito a presenziare essendosi fatto sostituire da un collega) perché riceve contestualmente notizia della data successiva. Viceversa, nel caso in cui non si presenti qualcuno che, invece, deve partecipare all’udienza – per esempio un testimone – la notifica è nuovamente ed in ogni caso dovuta.

    Allora, di cosa stiamo parlando? Se la vicenda non fosse surreale, verrebbe da pensare di essere su “Scherzi a Parte” e ad uno scherzo di cattivo gusto: indigna – come scrive in una nota ufficiale il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania – la mortificazione del diritto di difesa e sarebbe interessante sapere se identica decisione sarebbe stata adottata se analogo impedimento avesse coinvolto un Giudice o un P.M..

    Sarebbe interessante, altresì, conoscere – se mai commenterà l’accaduto – l’opinione del Sindaco di Catania, Enrico Trantino, avvocato penalista di lungo corso. Concludendo, soccorre alla memoria il pensiero di Tito Livio richiamato, proprio in Sicilia, dal Cardinale Pappalardo ai funerali di Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata”. Ma quelli erano i tempi delle guerre puniche.

  • In attesa di Giustizia: violenza chiama violenza

    Recenti, ma purtroppo non inusuali, fatti di cronaca sono lo spunto per la settimanale riflessione sulla Giustizia. La tematica è quella della violenza sessuale, il suo rapporto in termini di prova con principi irrinunciabili del processo penale che ruota, principalmente, intorno ad un presupposto fondante ma altrettanto impalpabile: il consenso.

    ll tema del consenso non può essere relegato ad uno scontro tra opposte linee di pensiero né diventare opportunità per speculazioni di natura politica poichè con il rapporto sessuale si coniuga tramite esiti chiarissimi e parametri condivisi: deve essere esplicito e non equivocabile; il consenso implicito (in un atteggiamento, in un comportamento, peggio che mai in un abbigliamento) è sintomatico di un approccio culturale e sociale indecente ed inaccettabile, che appartiene ad epoche e contesti sociali che sono – o dovrebbero essere – fortunatamente trapassati remoti.

    Ad un consenso esplicito, poi, deve corrispondere una persona in condizioni fisiche e psichiche tali da consentirne la consapevole manifestazione. Questo canone non ha alcuna ragione di essere modificato o derogato se sia stata la vittima stessa a porsi in condizione di incapacità, ubriacandosi o drogandosi perchè un approccio sessuale con una persona in stato di manifesta alterazione, non può trascurare l’ipotesi che il consenso all’atto, ovvero il mancato dissenso, potrebbe essere condizionato proprio da quelle condizioni.

    L’inosservanza di questi criteri discretivi di una libera e consapevole volontà rendono la condotta penalmente rilevante: il che significa che ne entrano in gioco altri ed altrettanto fondamentali del vivere civile, dotati di rango costituzionale equivalente a quello della inviolabilità della libertà e della intangibilità della integrità fisica e morale della persona. Per primo la riferibilità del reato ad un autore che deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio. In secondo luogo, l’onere della prova, quanto mai difficile in questi casi, che è a carico a chi accusa. La peculiarità specifica del tema di prova, la difficoltà della sua ricostruzione con le implicazioni psicologiche, culturali, ambientali, sociali che inesorabilmente lo connotano, non possono invertire ma neppure affievolire il rispetto delle due regole cardinali del processo.

    Nella quotidiana realtà dei giudizi per violenza sessuale non è, purtroppo, infrequente un loro sovvertimento ed è questo è il nocciolo della questione sul quale occorre interrogarsi senza ipocrisie. La percezione della “debolezza” della (presunta) vittima della violenza sessuale, e la forza culturale del (giusto) tema del consenso, determina quella che si potrebbe definire una “autosufficienza probatoria della versione dei fatti” offerta dalla persona offesa. Lo ha raccontato, ripetuto, perché mai dovrebbe mentire? Quindi è successo.

    In tal modo si perviene ad una forma di attendibilità pregiudiziale, si potrebbe dire preconcetta e ad oltranza del “soggetto debole”, che indebolisce sia il principio dell’onere probatorio che quello dell’oltre ogni ragionevole dubbio. E ciò anche attraverso una sorta di stigma di indegnità da attribuire ad ogni tentativo difensivo di metterla in dubbio.

    Tutto ciò ha anche un nome: la confutazione della credibilità della versione accusatoria, viene immancabilmente bollata come “vittimizzazione secondaria”. Una categoria, questa, certamente rilevante sotto il profilo sociologico, ma tanto inconcepibile quanto suggestiva nelle dinamiche del processo penale.

    La parola di uno contro quella dell’altro: quale altra difesa potrebbe avere, allora, un imputato se non insinuando il dubbio, se ve ne sono gli estremi, che la propria versione dei fatti, e non quella della (presunta) vittima, sia quella giusta? Il controinterrogatorio di chi accusa, costituzionalmente normato, serve proprio a questo e laddove soccorrano indicatori di mendacio deve essere anche duro per far risaltare la falsità del dichiarante.

    Il tema del consenso resti, dunque, intangibile: e che sia un consenso esplicito ed inequivocabile al rapporto purchè questo principio di civiltà non diventi il grimaldello volto a pretendere e, talvolta, ottenere, un processo con regole probatorie modificate per i reati di violenza sessuale.

    In tal modo si aggiunge dolore al dolore, violenza alla violenza, ingiustizia all’ingiustizia.

  • Il diritto non è una linea retta

    Le reazioni spesso scomposte relative all’impugnazione della trascrizione della seconda madre per dei bimbi di una famiglia omogenitoriale dimostra ancora una volta come spesso la stessa parola, nello specifico “diritto”, venga interpretata in modi assolutamente diversi.

    All’interno della Costituzione Italiana i tre poteri, legislativo, esecutivo e giurisdizionale, risultano autonomi per assicurare un contrappeso l’uno rispetto agli altri due.
    In particolare l’indipendenza dell’attività della magistratura viene assicurata anche da un organo di autodisciplina interno, il CSM. Come semplice e logica conseguenza rappresenta un controsenso istituzionale accusare il governo di voler colpire le comunità LGBT+, in quanto l’azione della procura di Padova nasce dalla semplice applicazione del quadro normativo in vigore.
    In più, rappresenterebbe sostanzialmente la convinzione della capacità di un governo di influenzare e dirigere la stessa azione di una procura, quindi non più indipendente come stabilito dalla costituzione. (*)

    In secondo luogo, non viene tolto nulla al bimbo, ma, semplicemente applicando la legge vigente, si elimina la figura ancora legalmente non riconosciuta di una seconda madre, come confermato anche dalla recente sentenza della Corte di Cassazione.

    Il mancato riconoscimento della figura della seconda madre probabilmente nasce da una vacatio legis, la quale va imputata a tutti i governi che dal 2016 in poi si sono succeduti alla guida del Paese ed non hanno affrontato il problema normativo.

    In questo contesto, poi, emerge sovrano il protagonismo del sindaco di Padova Giordani, il quale, pur potendo contare su degli ottimi consulenti legali in forza al comune, ha dato ulteriore prova di un delirio di onnipotenza spingendolo oltre il limite delle norme vigenti, come confermato dall’azione della procura padovana.

    Il quadro sconfortante che scaturisce da questa vicenda dimostra sostanzialmente come buona parte delle persone che rappresentano persino delle figure istituzionali e dirigenti di importanti partiti siano sicuri che il diritto sia, ancora oggi, una linea retta.

    (*) l’argomento principale utilizzato per negare la teoria di un accanimento delle procure contro una compagine politica.

  • In attesa di Giustizia: Cantonate

    Si sa, la giustizia degli uomini è per sua natura imperfetta: tuttavia è motivo di riflessione che questa rubrica non sia mai a corto di argomenti e, talvolta, sia necessario farne una selezione e qualcun’altra – come questa settimana – una sia pur sintetica rassegna.

    Abbiamo un triplete di notevoli cantonate (ogni riferimento a fatti o persone realmente esistite NON è puramente casuale) che rende difficile la scelta da quale partire: la Procura di Milano, però, dà sempre soddisfazioni e merita la citazione d’esordio.

    Andrea Padalino è un magistrato che ha esercitato le sue funzioni anche a Milano, oltre vent’anni fa come giudice per le indagini preliminari impegnato in delicate indagini del filone “Mani Pulite”, per quanto “delicato” non sia il termine che meglio si adattava ai metodi di quella Autorità Giudiziaria.

    Alla gogna mediatica per quattro anni mentre era in servizio a Torino ed essendo finito sotto processo proprio a Milano, che è competente per i reati attribuiti ai magistrati piemontesi, il Dott. Padalino è stato assolto con una motivazione ampiamente esaustiva della pochezza delle accuse mossegli principalmente fondate sulle cosiddette “intercettazioni a strascico”. Cioè non quelle riferibili direttamente l’indagato ma di altri.

    Non paga, la Procura di Milano ha proposto appello contro l’assoluzione di Padalino (qui le assoluzioni danno i mal di pancia) ma, pervenuto il processo in Corte d’Appello, il rappresentante della Procura Generale vi ha rinunciato: né più né meno che quello che era successo con l’opaca indagine ENI – NIGERIA di cui questa rubrica si è occupata ed ancora con la Procura Generale a mettere un argine alle cantonate dei P.M..

    Nel frattempo, a Palermo, qualcuno si è accorto, dopo due anni, che un uomo che era stato assolto non è mai stato scarcerato, sia pure dagli arresti domiciliari ove si trovava. Un destino beffardo, per un signore per di più affetto da problemi psichici, ha voluto che il suo difensore morisse subito dopo la sentenza ma l’onere di disporre la scarcerazione non competeva certamente a lui, che poteva solo comunicare la buona notizia, bensì all’Ufficio Giudiziario che lo aveva giudicato, avvisando all’Autorità di Polizia addetta ai controlli perché venisse formalmente notificata. Invece, niente! Poco male, penserà qualcuno, tanto c’era il covid ed era meglio stare a casa anche quando non si era obbligati: quasi, quasi questa cantonata è stata un bene.

    Insomma, non proprio: tecnicamente è un reato che si chiama sequestro di persona e qualcuno (o più di uno) ne dovrà rispondere partendo dagli accertamenti sulla possibile mancanza di comunicazione tra la cancelleria del tribunale e le Forze dell’Ordine destinatarie dell’ordine di scarcerazione.

    Per finire (ma potrebbe non finire qui, è solo questione di spazio): a Perugia si chiude, anzitempo ed a sorpresa con un patteggiamento, il processo a carico di Luca Palamara.

    Dopo anni di indagini, la contestazione di reati gravi ed infamanti che autorizzarono  l’inserimento del captatore informatico (il famigerato trojan) nel cellulare dell’indagato con un costo investigativo elevatissimo, proprio alla vigilia del dibattimento la Procura ci ripensa e presta il consenso alla richiesta di accordo sulla pena avanzata dalla difesa dell’ex dominus dell’ANM previa modifica dell’imputazione in traffico di influenze: che altro non sarebbe che il vecchio millantato credito, cioè un reato da imbroglioncelli di periferia che può dirsi adeguatamente punito con un anno di reclusione e la condizionale che il Tribunale ha ratificato. Per Palamara, così ha dichiarato, è solo un modo per liberarsi dal peso dei processi senza ammettere alcuna responsabilità. Un po’ come la Juve, sostanzialmente.

    I malpensanti hanno già sospettato che sia soluzione gradita un po’ a tutti perchè argina l’estrazione di ulteriori sassolini dalle scarpe che Palamara avrebbe potuto far culminare in una terza puntata, dopo quelle andate in onda nel salotto di Sallusti, durante pubbliche udienze. O, forse, a Perugia avevano semplicemente preso una Cantonata dall’inizio ed era ora di porvi rimedio.

  • In attesa di Giustizia: E tre!

    Per la terza settimana di fila questa rubrica si occupa di processi per gravissimi disastri in cui sono contestati reati colposi: e cosa ciò significhi, per il profano, si è tentato di spiegarlo con parole semplici proprio nel numero precedente. Questa volta è di scena il giudizio per crollo del Ponte Morandi con la cronaca – ed il commento – di una delle ultime udienze.

    Cronaca che staglia la distanza sempre più profonda che si va creando tra ciò che un processo penale dovrebbe essere, nel rispetto delle regole costituzionali ed ordinarie che lo istituiscono e lo governano, e ciò che si vorrebbe invece che diventi. E’ una cronaca che fa capire quale sia l’unica garanzia rispetto ad una montante deriva illiberale: e cioè l’indipendenza, la libertà morale e l’autorevolezza del Giudice.

    In aula vi è stata tensione altissima ed un durissimo botta e risposta tra la pubblica accusa ed il Tribunale, scaturita da una intemerata del P.M. il quale, azzardando un po’ di calcoli sul numero dei testimoni ancora da esaminare ed il ritmo delle udienze, prevede che l’istruttoria dibattimentale possa concludersi non prima del dicembre 2025, quando “alcuni dei reati più gravi” potrebbero essere già prescritti, sollecitando perciò un aumento del ritmo di celebrazione del processo, cambio di passo: un boccone ghiotto su cui la stampa si  è buttata a pesce, gridando a giustizia negata, alla prescrizione strumento di salvezza dei ricchi e dei potenti, eccetera. Il Presidente del Collegio si limita a giudicare troppo allarmistiche le previsioni del P.M. ma la mattina successiva ritorna sulla questione e definisce quello del PM un “proclama offensivo nei confronti del Tribunale” (che ha sospeso la trattazione di gran parte degli altri processi, per celebrare questo), e tocca il punto, che in questa, come in altre analoghe vicende processuali, viene sistematicamente ignorato. Se si ha a cuore l’aspettativa di una tempestiva risposta giudiziaria ad una simile tragedia “magari bisognava effettuare scelte processuali diverse e non contestare, ad esempio, un milione di falsi che devono essere accertati uno per uno” e conclude: “Se poi in quest’aula c’è qualcuno che ritiene che le sentenze si facciano senza processo, sbaglia”.

    Non può sfuggire il valore di questo accadimento, che va ben oltre la singola vicenda processuale, la quale ha peraltro tutti i crismi della parabola. Gli ingredienti ci sono tutti: processo di enorme impatto mediatico, aspettativa di condanne esemplari, diritti delle vittime dei reati rappresentati come incondizionatamente prevalenti sui diritti di difesa e sulla presunzione di non colpevolezza. Sullo sfondo, la fosca ed un po’ prematura previsione di una prescrizione salvifica. Sono già pronti i forconi, insomma. Ma ecco, diciamoci la verità, inatteso, un Giudice che – pur in un processo ad altissima esposizione mediatica – fa, imperterrito, il Giudice e sposta l’asse di quella lamentela del PM, come sempre occorrerebbe fare ma nessuno mai fa. Cominciamo a ragionare piuttosto – dice – su quanto siano durate le indagini, e se le scelte operate dalla Procura nell’esercizio dell’azione penale abbiano considerato la dimensione e l’impatto dell’accusa anche sui tempi del conseguente processo. Se si individuano 60 imputati e decine e decine di imputazioni, protraendo le indagini per anni, poi non si pretenda che gli imputati non si difendano con tutta la pienezza dei propri diritti. Ma è la seconda affermazione che merita ancora più ammirazione: questo Tribunale non è disposto a pronunciare sentenze senza processo. Nessuno si illuda – sostiene quel Giudice – di fare pressioni indebite, paventando populisticamente scenari drammatici che si vorrebbe addossare, alla fin fine, alla responsabilità del Tribunale da un lato, e del diritto di difesa degli imputati dall’altro. Parole dure che danno la esatta dimensione della solennità di ciò che il Giudice può e deve saper rappresentare nel giudizio penale, della indispensabilità della sua indipendenza da ogni forma di condizionamento, da ogni riflesso conformistico, da ogni sudditanza nei confronti di tutte le parti processuali. Ciò che, peraltro, deriva in termini di disillusone per chi è in attesa di giustizia è quando un accadimento come questo ci appare come una notizia straordinaria, quando invece dovrebbe essere una noiosa e scontata ovvietà. Ma il destino delle parabole è proprio questo: farti comprendere, quasi raccontandoti una favola, l’amara durezza della realtà nella quale ti trovi a vivere.

  • In attesa di Giustizia: inutili rimedi

    Quella verificatasi a Cutro non è la prima e non sarà, purtroppo, l’ultima tragedia del mare cui dovremo assistere a causa della inarrestabile fuga dai paesi di origine di migranti oppressi da guerra, povertà e stenti di ogni genere e quello dei flussi migratori irregolari è un problema molto serio a prescindere da esiti fatali delle traversate cui non è facile per il Governo – qualsiasi governo – trovare un rimedio.

    Certamente non può esserlo, come è stato recentemente fatto, l’aumento delle sanzioni previste per gli scafisti: anzi, è l’ennesima iniziativa del tutto inutile adottata mettendo mano al codice penale.

    Per meglio illustrare quale sia lo spunto di riflessione che la rubrica offre questa settimana, è innanzitutto necessario comprendere bene chi siano davvero i c.d. “scafisti”, intesi come coloro che timonano un malconcio naviglio carico di poveri sventurati verso la destinazione. La figura finisce con il sovrapporsi, confondendosi, con quella dei trafficanti di esseri umani e la differenza non è banale.

    Nella realtà gli organizzatori di questi indegni e lucrosi traffici si guardano bene, come dovrebbe essere facilmente intuibile, anche solo dal mettere un piede su quei barconi della disperazione  condividendo con i passeggeri  i rischi altissimi della traversata: i veri, unici “scafisti” che meriterebbero di essere individuati e severamente puniti sono proprio costoro che, tutt’al più, scortano le carrette del mare fino ai limiti delle acque territoriali del Paese di partenza per poi fare rapido rientro a casa, sui loro motoscafi, abbandonando quei disperati al loro destino. Ecco: questi sono i veri criminali e non li abbiamo mai visti, né mai li vedremo nella assoluta impossibilità di identificarli chiedendo improbabili forme di cooperazione dalle Autorità Giudiziarie del Paese di provenienza.

    Ebbene, la nostra ennesima crociata contro il male che si annuncia con i tradizionali squilli tromba (“stretta sugli scafisti”, “pene più severe per gli scafisti”, “nuovi reati contro gli scafisti”), serve giusto giusto per poter scrivere titoloni sui giornali facendo mostra con i cittadini che anelano giustizia e sicurezza di una muscolatura che a quei delinquenti non fa nemmeno il solletico.

    E vi è di più: negli ultimi dieci anni sono stati arrestati e processati oltre 2500 “scafisti”. Posto che costoro non sono soliti indossare la divisa immacolata ed il cappellino da capitano, essi vengono, a regola, individuati – con intuibile ampio margine di approssimazione – tramite le dichiarazioni degli stessi migranti e dei superstiti, quando accadono naufragi. Orbene, in gran parte dei casi, coloro che sono stati indicati  (ammesso che fossero davvero imbarcati a timonare) altro non sono che migranti come gli altri, che per le più varie ragioni – ed essendo capaci di guidare un natante – si sono detti disposti ad accettare l’incarico dell’ associazione criminale di condurre il barcone; facile immaginare che questo accada per ottenere uno sconto sul costo del viaggio; oppure sono disperati disposti a rischiare la vita ed il carcere per guadagnare qualcosa.

    Per quelli che finiscono nelle nostre mani, spesso individuati con larghissimi margini di incertezza, è tra l’altro già prevista una pena fino a cinque anni di reclusione ma basta che le persone trasbordate siano più di cinque, cioè la normalità del fenomeno, per far scattare l’ipotesi aggravata, un minimo di cinque ed un massimo di quindici anni. Se poi c’è naufragio si aggiunge (almeno) l’omicidio colposo plurimo. Dunque, una aspettativa punitiva già altissima, senza alcun bisogno di novità normative.

    Nel nostro Paese, però, va così: se accade un fatto grave che, magari, interessa anche possibili responsabilità istituzionali, una sola è la risposta: nuove figure di reato, o inasprimento delle pene. E’ un riflesso populista, patrimonio comune dei governi di qualsivoglia colore politico, che usano il diritto penale non per raggiungere un seppur minimo e concreto risultato in termini di dissuasione dal delinquere, ma per lanciare tramite la narrazione mediatica il messaggio di uno Stato che reagisce con implacabile severità. Quale mai sarà il migrante che si rende disponibile a pilotare il barcone perché altrimenti non avrebbe il denaro sufficiente per imbarcarsi, o il disperato che non sa come altrimenti guadagnare nella vita, che recederà dall’intento venendo a sapere (da chi, poi?), che la pena che sta rischiando non è più di 15, ma di 20 anni?

    In compenso va in onda la consueta liturgia dello “Stato che reagisce con fermezza”, ed in attesa che giustizia sia fatta saremo tutti più tranquilli. O, forse, no.

  • In attesa di Giustizia: le settimane della indignazione

    La presunzione di innocenza è un concetto che, canonizzato in Costituzione prima ancora che inserito in una direttiva della UE ed in successivo decreto legislativo che la recepisce, fatica a radicarsi nella opinione pubblica; la settimana scorsa l’indignazione è stata provocata dall’esito del processo “Ruby ter”, di cui questa rubrica si è interessata, questa volta tocca a quello che vedeva numerosi imputati per il crollo di un albergo a Rigopiano: cinque condanne – a pene piuttosto miti – e venticinque assoluzioni.

    La rabbia ed il dolore dei parenti delle vittime è stato umanamente comprensibile, meno lo sfogo del Ministro Salvini: “29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è giustizia, questa è una vergogna. Tutta la mia vicinanza e la mia solidarietà ai famigliari delle vittime innocenti”.

    Diversamente dalle esternazioni, anche molto dure, dei famigliari, quelle di un Ministro della Repubblica pesano in ben altro modo e chi le ascolta pensa che se un Ministro ragiona così, così staranno le cose: una vergogna, un’attesa di giustizia vanificata.

    Deve premettersi che chi cura questa pagina di questo processo non sa nulla ma altrettanto deve supporsi di Matteo Salvini: tant’è che alla vicenda giudiziaria in sé non verrà fatto neppure un accenno ma la esecrazione “al buio” merita qualche spunto critico, partendo proprio da quello che dei processi non si deve, comunque, parlare senza averne letto una sola pagina del fascicolo. E questo, sì, è inaccettabile.

    Dunque, se si volesse distillare un corollario dallo sdegno di Salvini e da quello – assai più frequente in casi simili – di Marco Travaglio, bisognerebbe dedurne che maggiore è il numero dei condannati, maggiore è la garanzia che giustizia è stata fatta. Al contrario, ad un più elevato numero degli assolti corrisponde la vergogna per la Giustizia; il che ne sottende un concetto più simile alla sua valorizzazione statistica che al riconoscimento della Giustizia stessa come categoria dello spirito comportante vincoli etici e valori inderogabili.

    Un concetto diffuso è che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, e la condanna il suo trionfo ma sarebbe preferibile che rimanesse confinato, se proprio deve, nei bar, già meno sui social o – peggio ancora – nei talk-show televisivi.

    Il processo serve proprio a questo: a verificare se un’accusa sia fondata o meno e capita, certo capita, che ve ne siano anche di insostenibili in giudizio, un colpevole a tutti i costi non è ciò che ci si aspetta dalla giustizia, non quella che conosciamo (o vorremmo conoscere) noi, l’alternativa è il ritorno alle ordalie, al Giudizio di Dio.

    Si discute, poi, molto della necessaria terzietà del Giudice, della sua indipendenza rispetto al Pubblico Ministero (ed anche questo è un precetto costituzionale) ma, a seguire certi ragionamenti, il buon giudice sarebbe solo colui che si allinea alla Pubblica Accusa: allora il processo non serve, ne tenga conto anche il Ministro delle infrastrutture che vive personalmente l’angoscia di un processo a suo carico: sarà una vergogna qualora venga assolto, oltretutto per la seconda volta di fila?

    A noi, a quelli che hanno qualche lustro di vita vissuta in aule che consideriamo sacre (fino a prova contraria…), hanno insegnato che le sentenze non si commentano: se non si condividono, si appellano e dei processi di cui nulla si conosce nel dettaglio non si parla, altrimenti sono solo parole al vento.

  • In attesa di Giustizia: uomini sull’orlo di una crisi di nervi

    Settimana di tregenda, quella appena trascorsa, per Marco Travaglio: al processo Ruby ter sono stati assolti tutti, ma proprio tutti, gli imputati e non solo Silvio Berlusconi.

    Ma com’è possibile, nessun colpevole? Il Direttore de Il Fatto Quotidiano ci aveva sperato fino all’ultimo ed in un articolo dal  titolo velatamente irrispettoso delle coimputate (“il governo assolve B. anche per Puttanopoli) non aveva mancato di manifestare il suo sdegno per la scelta di Giorgia Meloni di revocare la costituzione di parte civile in quel processo: cioè di rinunciare a far concludere l’Avvocatura di Stato richiedendo la condanna dell’ex Premier ed un risarcimento dei danni milionario.

    Scelta ragionevole, invece, perché l’esito degli altri due filoni del processo, già conclusi in altre sedi giudiziarie, sconsigliavano l’insistenza; e così è stato anche anche a Milano, un tempo roccaforte della resistenza anti berlusconiana: dopo solo due ore di camera di consiglio, il Tribunale ha emesso una decisione ampiamente liberatoria. Ma la ragionevolezza, si sa, non è virtù coltivata da Travaglio.

    Fortunatamente, nella redazione del House organ delle Procure sono disponibili dei defribillatori perché questa volta il nostro, al sopraggiungere della ferale notizia, ci stava lasciando le penne: salvato in extremis – pare – anche da una telefonata di conforto di Davigo che gli ha ricordato che in questo Paese non ci sono innocenti ma solo colpevoli che la fanno franca, sebbene sull’orlo di una nuova crisi di nervi, ha commentato compostamente: “E’ la comica finale”, facendo seguire un “pezzo” dedicato a Marco Tremolada (prossimo a subire l’incitazione “dagli all’untore”), Presidente della Sezione del Tribunale che aveva pronunciato quell’obbrobrio scoprendo con sgomento che era lo stesso che si era permesso di assolvere anche tutti gli imputati del processo ENI – Nigeria solo perché il P.M. Fabio De Pasquale aveva – lui sì – taroccato le prove a carico degli accusati. Ma questi sono dettagli, anche se De Pasquale è a giudizio per questa ragazzata. Al Fatto Quotidiano si sentono, ormai, circondati anche perché le truppe pentastellate di cui godeva il sostegno sono in rotta come l’esercito austriaco descritto da Armando Diaz nel bollettino della vittoria e da via Arenula il Ministro Carlo Nordio chiarisce che l’Italia non è un Paese in mano ai P.M..

    Sulla conclusone del processo “Ruby ter” è opportuno fare chiarezza con il contributo di un alto magistrato.

    Non tutti sanno che in base ad una risoluzione del C.S.M. del 2018, ai fini di una corretta comunicazione istituzionale, i capi degli Uffici Giudiziari possono emanare delle note esplicative in merito a determinate decisioni di rilevante interesse: il Presidente del Tribunale di Milano ha ritenuto opportuno redigerne una proprio a margine della sentenza in questione pur precisando che l’illustrazione completa delle ragioni condivise dai tre giudicanti è riservata alla motivazione che sarà successivamente depositata.

    In estrema sintesi, la nota del Presidente chiarisce che in questo caso non si configura la corruzione di testimoni (l’assoluzione, infatti, è stata “perché il fatto non sussiste”) in quanto le ragazze che si dice Berlusconi abbia pagato per mentire all’Autorità Giudiziaria, non lo sono mai state perché dovevano essere, invece, indagate (come poi è successo) fin dall’inizio.

    Elementare Watson? Sì: parliamo di un processo nato morto, il che sarebbe stato chiaro  persino per uno studente del terzo anno di giurisprudenza ma non per certi Pubblici Ministeri, naturalmente non per la redazione de Il Fatto Quotidiano, giornale preferibilmente da destinarsi all’accensione di stufe ed altri  impieghi meno nobili piuttosto che a ricevere una corretta informazione.

    Quanto all’attesa di giustizia, mai disperare: come dimostra il “Ruby ter” in un Paese del G7, per vederla trionfare, può essere sufficiente meno di una mezza dozzina di anni.

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