Legge

  • In attesa di Giustizia: facciamo chiarezza

    Ormai da settimane gli indignati in servizio permanente effettivo, affiancati da pseudo giuristi in mala fede e dai ben informati tramite Google sproloquiano in materia di intercettazioni censurando ogni parola spesa sull’argomento dal Ministro della Giustizia: sia chiaro da subito che non è consentito a tutti di parlare di qualsiasi argomento. C’è un limite naturale, che è dato dalla complessità della discussione e non c’entra nulla la libera espressione del pensiero: a Bonafede, per esempio, dovrebbe essere permesso commentare, tutt’al più, l’almanacco di Topolino ma, per fortuna, sembra sparito dal proscenio.

    Quello delle intercettazioni telefoniche è un tema delicatissimo sul quale occorre evitare infuocati rodei in tv, sui media e sui social. Proviamo, invece, a mettere ordine per una corretta informazione.

    Partiamo dalla Costituzione, articolo 15: la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. Per limitare quel diritto fondamentale occorre un atto motivato dell’autorità giudiziaria nel rispetto delle “garanzie stabilite dalla legge”. Queste ultime, proprio perchè derogano ad un canone costituzionale, non potrebbero mai essere governate dal principio di utilità. Certo che ascoltare persone sospette di commettere reati torna utile agli investigatori; ma poiché questo interesse confligge con un diritto di rango costituzionale dovrà necessariamente essere assistito da una tutela affievolita rispetto al primo. I tifosi della sicurezza – che è cosa diversa dalla giustizia, e qui si parla di giustizia – vista come interesse primario occorre se ne facciano una ragione, fino a quando si intenderà rispettare il patto costitutivo della nostra società.

    Le intercettazioni possono essere autorizzate solo durante le indagini per alcuni reati, considerati di maggiore allarme sociale e solo quando già sussistano “gravi indizi” (non il mero sospetto) che quei reati siano in fase di commissione o siano stati commessi; hanno una durata limitata nel tempo ed eventuali  proroghe devono essere motivate; gli esiti degli ascolti sono inutilizzabili se non pertinenti e rilevanti. Quanto alle cosiddette ambientali, le “cimici” non possono essere piazzate in luoghi di privata dimora, se non vi è fondato motivo di ritenere che proprio in quei luoghi si stia svolgendo un’attività criminosa con  eccezione per alcuni gravissimi delitti, principalmente di  criminalità mafiosa. Quanto poi al c.d. trojan, che trasforma il cellulare in un microfono, così da rendere impossibile predeterminare in quali luoghi esso intercetterà, questa micidiale intrusione, ancora una volta, potrà riguardare solo reati di eccezionale gravità.

    La domanda che sorge spontanea è se queste regole sono effettivamente rispettate e la risposta è negativa: essenzialmente per la scarsa indipendenza e terzietà del giudice delle indagini preliminari, che tende ad assecondare acriticamente la richiesta del P.M., soprattutto delle Procure forti politicamente e mediaticamente (i dati sulle percentuali di rigetto delle richieste dei PM sono, ad oggi, un segreto inviolabile); vi è, poi, una costante deriva all’uso indebito delle intercettazioni “a strascico”, quelle che vanno oltre l’ambito autorizzativo del giudice; vi è anche un uso disinvolto della nozione di “rilevanza” della conversazione. Per non farsi mancare nulla ecco, infine, la furia giustizialista del legislatore che ha esteso smisuratamente il catalogo dei reati per i quali è consentita la captazione e l’uso del trojan. Dunque, un quadro che necessita interventi mirati a restituire questo strumento investigativo ai confini della sua eccezionalità, sanzionando efficacemente la pubblicazione delle intercettazioni, almeno nella fase delle indagini. Si tratta di proposte che, diversamente non sono avanzate da fiancheggiatori della criminalità ma appartengono ad ampi strati del pensiero giuridico liberale e democratico, anche nella magistratura. Se i polemisti di accatto leggessero, insieme alla migliore dottrina processual-penalistica, qualche recente sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione o qualche altrettanto recente intervento di magistrati come Nello Rossi o Alberto Cisterna, la discussione potrebbe prendere la piega giusta. Il fatto è che, oltre a leggere quegli scritti -cosa che già non fanno- dovrebbero poi anche comprenderli. E qui l’impresa diventa disperata.

  • In attesa di Giustizia: la certezza della pena ai tempi del diritto illiberale

    Qualcosa si muove sul piano delle riforme della Giustizia, almeno così pare, sebbene il fallimento annunciato degli elaborati della Commissione Cartabia conosca per il momento solo un poco utile rinvio a fine anno e le prime iniziative del Governo appaiano meno che convincenti, costringendo la Corte Costituzionale ad evitare di decidere sull’ergastolo ostativo rinviando alla Cassazione il compito di interpretare “gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni di legittimità sollevate”; nel frattempo sono già iniziate le audizioni dei tecnici per rimediare – in sede di conversione – allo sconclusionato decreto di contrasto ai rave parties.

    Il Ministro Nordio, tuttavia, tenendo fede ad una promessa frutto di una sua antica (e condivisibile) convinzione, incontrerà tra pochi giorni i rappresentanti dei Sindaci per dare avvio ai lavori di modifica dell’abuso di ufficio: un reato che negli anni è stato modificato almeno quattro volte senza mai pervenire ad una formulazione che non consista in vaghe fumisterie da cui origina quella che è stata definita “burocrazia difensiva” e cioè a dire un immobilismo operativo degli enti locali volto ad evitare facili incriminazioni, sebbene assai raramente seguite da condanne ma accompagnate da blocco di lavori pubblici e dispersione di fondi. Sarebbe un piccolo passo ma foriero di effetti positivi.

    Ed è proprio il timore di Sindaci ed Assessori di essere prima indagati e poi sottoposti, prima di una condanna, al maglio della “Severino” che paralizza anche l’impiego di risorse del PNRR destinati ad importanti opere sul territorio; come se non bastasse il TAR della Puglia che ha fermato i lavori locali per l’alta velocità – finanziati con denari europei – accogliendo un ricorso di associazioni ambientaliste che invocano la salvaguardia di alcuni mandorli e carrubi presenti sul tracciato. Degni del massimo rispetto, però…

    Quello che manca nel nostro sistema e l’abuso d’ufficio è un esempio eclatante – prima ancora degli operatori in numero adeguato che lo facciano funzionare – sono la certezza del diritto e della pena venuti meno negli anni per la marginalità culturale del legislatore e la debolezza della politica quali concause della destituzione dello Stato di diritto cannibalizzato da una magistratura intesa a dilatare e mantenere la propria acquisita posizione di potere sul presupposto di una supposta superiorità morale che – come si è visto ed accertato oltre ogni ragionevole dubbio – non c’è.

    Ben venga, allora, per dare inizio ad una stagione di autentiche riforme quella dell’abuso di ufficio che avrebbe anche il merito di proporsi come una normativa bandiera finalizzata a porre un primo argine al tempo del terrore giudiziario, fondato sulla brutalità proterva della cultura del sospetto.

    Certezza del diritto, dunque: principio giuridico cardine in base al quale una norma deve essere formulata in modo chiaro ed essere soggetta ad una interpretazione univoca, un obiettivo cui il legislatore deve tendere in fase di produzione delle leggi e certezza della pena da intendersi non come certezza del carcere quanto prossimità della sua espiazione il più vicino possibile al delitto commesso ed attribuito: solo così sarà giusta ed utile.

    Come si nota, risalendo al pensiero illuminista alle teorizzazioni di Beccaria e Cattaneo, tali concetti risultano assai diversi e lontani dalle opzioni di politica sanzionatoria illustrate, da ultimo nel c.d. Contratto del “Governo del Cambiamento”: un  autentico manifesto del diritto illiberale che poteva essere partorito solo da cervelli disabitati come quelli dell’azzimato damerino di Volturara Appula e del buffo Muppet travestito da Guardasigilli

    Ora ad un cambiamento vero bisogna credere, anzi, più che crederci  bisogna pretenderlo.

  • In attesa di Giustizia: cahiers de doleances

    Non c’è pace tra gli ulivi: tutti si lamentano di qualcosa che non funziona nella amministrazione della Giustizia; d’altronde, anche questa rubrica costituisce, in un certo senso, il bollettino settimanale delle storture che caratterizzano quel settore e, proprio nel numero precedente, si è occupata di una vicenda paradigmatica trattando il caso di un processo per gravi reati in corso a Roma nel corso del quale il Tribunale ha cambiato composizione ad ogni udienza, con buona pace della conoscenza effettiva dei fatti da giudicare da parte di chi è stato, infine, chiamato a decidere.

    Dopo, ma solo dopo “Il Patto Sociale”, ne hanno parlato anche i quotidiani e la Camera Penale della Capitale è scesa in campo, lamentando l’incredibile accaduto e proclamando un’astensione di protesta per il 2 novembre. Giustissimo: peccato essersi dimenticati di fare la dovuta comunicazione all’Autorità Garante con la conseguenza che è stato necessario annullare l’iniziativa per quella data e rinviarla al  giorno 9…peccato anche che, nel frattempo, gli avvocati – fiduciosi del buon governo della protesta da parte dei propri rappresentanti – abbiano annullato le citazioni di testimoni e non si siano preparati per udienze che non si sarebbero dovute celebrare e invece si faranno. E lo stesso vale per i Pubblici Ministeri e i Giudici impegnati nel medesimo giorno. Il tentativo di far apparire il rinvio come giustificato dalla esigenza di rendere più articolata la giornata di protesta è stata la classica pezza peggiore del buco.

    Si lamentano anche i Procuratori Generali scrivendo al Guardasigilli Carlo Nordio chiedendo di rinviare  l’entrata in vigore quantomeno di una parte della “Riforma Cartabia” che dovrebbe entrare in vigore il 1° novembre creando significativi disagi organizzativi agli Uffici con la conseguenza di un ulteriore, catastrofico, aggravamento della gestione del carico di lavoro. Non hanno tutti i torti, va detto con chiarezza, tanto è vero che quando questo articolo verrà pubblicato sembra che lo sarà – in Gazzetta Ufficiale – anche un decreto d’urgenza volto ad accogliere le richieste della Magistratura.

    Certo, potevano anche accorgersene prima di una manciata di giorni dal “via”: la “Riforma Cartabia” tra luci ed ombre (forse queste ultime sono in numero maggiore) soffre del fatto che il lavoro è frutto di equilibrismi e compromessi per soddisfare quella componente della allora maggioranza che l’ha approvata e faceva rimpiangere i tempi in cui in Senato sedeva il cavallo di Caligola  e che rispondeva alle linee guida sulla giustizia dettate da un comico che non fa più ridere e di un disc jockey che è stato molto meglio rimandare alla consolle.

    Infine anche Antonio Ingroia si lamenta e proprio del fatto che sia Carlo Nordio  il nuovo Ministro della Giustizia affermando che “sa di muffa e di regolamento di conti”: un giudizio durissimo la cui opportunità e fondatezza dovrebbero essere posticipate ad un vaglio dell’operato del Governo e dei suoi Ministri e non espresso prima ancora che abbiano iniziato a lavorare.

    Da Ingroia, peraltro, non c’era da aspettarsi di meglio essendo un uomo facile al pregiudizio e – viceversa –  impermeabile a tutte le evidenze: come quelle che attestano i suoi personali fallimenti da quello come Pubblico Ministero, il cui ricordo è legato essenzialmente al ruolo di coordinatore dell’indagine per la cosiddetta “Trattativa Stato – Mafia”, finita come è noto in una bolla di sapone, a quello come politico di indiscutibile insuccesso, per finire con la professione di avvocato esercitata principalmente “correndo dietro alle ambulanze” nel tentativo di accaparrarsi la difesa delle vittime di qualche disastro, anche in questo caso senza molta fortuna: un triplete di cui non andare fieri e che suggerirebbe un più dignitoso silenzio abbandonandosi a quell’oblio che il destino ha già inesorabilmente segnato.

    Sipario.

  • In attesa di Giustizia: magistrati dietro le sbarre

    Francesco Maisto era – ora è andato in pensione – un magistrato illuminato o, più semplicemente, un magistrato come dovrebbe essere un magistrato: noto tra l’altro per lo straordinario equilibrio con cui determinava la pena da infliggersi a coloro che doveva condannare.

    Maisto soleva dire che, nel quantificare la reclusione tra il minimo ed il massimo previsto dalla legge, teneva conto di una serie di fattori aggiuntivi di afflittività come il sovraffollamento carcerario, la mancanza di igiene, la pessima qualità del cibo e la scadente assistenza sanitaria, la ridotta capacità delle strutture penitenziarie di fornire strumenti di rieducazione.

    Francesco Maisto non aveva mai sperimentato la privazione della libertà personale nelle patrie galere ma aveva quella coscienza e consapevolezza delle condizioni in cui versava (e tuttora versa) la popolazione carceraria che tanto un giudicante quanto un inquirente dovrebbero avere. Così, purtroppo non è e – francamente – potrebbe non essere neppure necessario sperimentare quanto hanno fatto recentemente cinquantacinque tra giudici e Pubblici Ministeri belgi: sarebbe, forse, bastevole non prestare orecchio al blaterare sconclusionato dell’avvocaticchio degli Italiani, dei suoi (fortunatamente ridotti) seguaci e del megafono mediatico affidato alla direzione di Marco Travaglio.

    Ma, chiederete voi, cos’è successo a Bruxelles e dintorni? Che quei magistrati hanno volontariamente scelto di essere incarcerati per un certo periodo, per la verità di non lunghissima durata nel carcere di Haren, di nuovissima edificazione e non ancora ufficialmente aperto (quindi deserto), per comprendere meglio le condizioni di vita dei detenuti.

    A parere del Guardasigilli belga, Vincent Van Quickenborne, ciò varrebbe anche a migliorare – mediante i suggerimenti dei “detenuti”  sperimentatori – ad ottimizzare il funzionamento della struttura penitenziaria. Giustissimo, sebbene ci sia una notevole differenza tra chi entra in un carcere nuovo di zecca, vuoto e con la chance di uscirne a richiesta quando vuole e chi ci deve effettivamente scontare una pena o una carcerazione preventiva. Tuttavia, piuttosto che niente è meglio piuttosto.

    Qualcosa di simile è, viceversa, impensabile alle nostre latitudini dove si annovera un unico precedente di questo tipo, volontario e lontanissimo nel tempo: quello del giudice Pasquale Saraceno che chiese espressamente di entrare in carcere per alcuni mesi dando modo a Piero Calamandrei – uno dei padri costituenti – di trattarne l’elogio nello scritto “Bisogna vedere, bisogno starci, per rendersene conto”.

    In epoche più recenti, quando alla direzione della Scuola Superiore della Magistratura c’era il Professor Valerio Onida, era stata prevista la frequenza dei giovani a “stage penitenziari” della durata di soli quindici giorni. Non stupirà che, per le polemiche e opposizioni di varia natura provenienti dall’Ordine Giudiziario, non se ne fece poi nulla perdendo un’occasione di crescita umana e professionale.

    D’altro canto, giovani magistrati cresciuti a “manette e mani pulite” è quantomeno improbabile che possano avere la sensibilità per sottoporsi ad esperienze simili che mortificherebbero quel malinteso senso di superiorità morale inculcato da trentennali sermoni davighiani e da quella generosa giurisprudenza disciplinare, di cui si è occupata di recente questa rubrica, che riconduce a banali marachelle anche grossolani comportamenti e squinternate decisioni che costano libertà, lacrime e onorabilità ai cittadini in attesa di giustizia.

    Qualcosa, forse, vedremo in un prossimo futuro sebbene si tratti di esperienze postume: la Procura di Brescia ha chiesto il rinvio a giudizio dei P.M. milanesi De Pasquale e Spadaro e verificheremo come andrà a finire per questi bricconcelli che sembra (fondatamente) abbiano  nascosto prove a favore di imputati pur di “vincere” un processo sottoponendoli ad oltre un lustro di indagini e giudizi per poi essere assolti. E, per una volta, se l’impianto accusatorio contro questi due P.M. si rivelerà consistente, anche da queste colonne, baluardo di garantismo e rispetto della libertà  si leverà un grido: in galera!

  • In attesa di Giustizia: non ci resta che piangere

    Verrebbe persino da ridere con talune letture se non fosse che si tratta delle decisioni – e ancor più delle motivazioni – di talune sentenze del C.S.M. in materia disciplinare: in realtà,  non ci resta che piangere.

    Vediamone qualcuna: per esempio non commette illecito disciplinare il magistrato che, avendo saputo di essere indagato ed avvalendosi di relazioni di ufficio con il personale di cancelleria, si fa consegnare il fascicolo che lo riguarda ancorchè secretato. E perché mai, direte voi? Il motivo, secondo il Consiglio Superiore risiede nel fatto che il poverello era evidentemente turbato e, in ogni caso, il fatto deve considerarsi di lieve entità perché ha pure restituito il fascicolo medesimo dopo averlo diligentemente fotocopiato per intero.

    Provateci voi a fare una cosa del genere – più o meno turbati e legati da vincoli amicali con i funzionari di cancelleria – e troverete i Carabinieri ad attendervi fuori dalla copisteria e non certo per ringraziare di non avere dato fuoco alle carte.

    Non è illecito neppure il comportamento del giudice che, giustamente preoccupato per il destino della propria moglie, ne discute amabilmente con il P.M. che la sta inquisendo chiedendo notizie: e che sarà mai? In fondo si tratta solo di un modesto gossip giudiziario, probabilmente scriminato anche dal valore sacramentale del matrimonio.

    Ah! Naturalmente, se si appartiene all’Ordine Giudiziario, ci si può mettere al volante ubriachi ed essere pure condannati per guida in stato di ebbrezza senza incorrere in altre sanzioni: basta che le circostanze del caso inducano a ritenere che il fatto sia di scarsa lesività e non abbia compromesso il prestigio della magistratura: forse perché – ormai – è a livelli talmente bassi che non è un bicchiere di vino in più a fare la differenza. Vi è, tuttavia, da sperare, la sbronza non sia una consuetudine e sia stata smaltita prima di andare in udienza o di mettersi a scrivere una sentenza: ma questi sono solo sospetti e  cattivi pensieri  di noi che siamo brutte persone.

    Sembra scontato, poi, che – senza tema di conseguenze – si possa imputare qualcuno e mandarlo sotto processo per un reato che neppure esisteva al momento della commissione del fatto: suvvia, basta un minimo di elasticità mentale per rendersi conto che, di fronte ad atti complessi, possa esservi qualche innocua disattenzione.

    E voi lettori avete mai saputo di qualcuno cui sia consentito andare nei cinema a luci rosse a molestare adolescenti? Si può, ma solo se sei un magistrato e vivi uno stato confusionale perché durante i lavori di ristrutturazione della casa ti è caduto in testa un legno.

    Si sappia, infine (ma potremmo non finire qui) che va benissimo anche lasciare in galera – persino per un paio di mesetti – qualcuno che dovrebbe, invece, essere scarcerato se il povero giudice è afflitto da non meglio specificati motivi di famiglia: un po’ come capitava a noi quando i genitori ci facevano la giustificazione per le assenze da scuola e non farci incappare in valutazioni negative della condotta.

    Tutti assolti, dunque? Ma certo che no, anche se le decisioni sfavorevoli sono – di solito – di manica extra large e consistono prevalentemente nell’ammonimento o la censura, più di rado nella perdita di anzianità (e, quindi, anche di scatti di aumento dello stipendio). Rarissime sono le rimozioni dall’Ordine Giudiziario.

    Per questa settimana è tutto, e sembra che basti e avanzi.

  • In attesa di Giustizia: alla ricerca dell’efficienza mai avuta

    Con il progredire della campagna elettorale, le forze politiche in campo hanno iniziato a trattare anche temi legati alle riforme della giustizia: il dibattito sembra essere principalmente alimentato dal dualismo creatosi in seno al centro destra tra Giulia Bongiorno e Carlo Nordio:  entrambi seri candidati al ruolo di Guardasigilli, in caso di vittoria, mentre a sinistra tutto tace.

    Gli argomenti affrontati sono molto tecnici: inappellabilità delle sentenze di assoluzione, facoltatività dell’azione penale, separazione delle carriere, ed altri interventi  destinati a dare efficacia soprattutto al settore del sistema penale.

    Un sistema efficace, però deve essere anche efficiente e di questo profilo non sembra che si parli molto sebbene la funzionalità degli uffici giudiziari sia di cruciale importanza ed  – ad oggi –  è affidata ai Capi degli Uffici, cioè a dire a dei magistrati che magari sono degli ottimi giuristi ma non è scontato che siano altrettanto eccellenti organizzatori del lavoro. Prova nei sia qualche “perla” rinvenuta spigolando qua  e là: per esempio la trasmissione in formato elettronico e in via telematica di querele e denunce dai commissariati di Polizia e dalle stazioni dei Carabinieri all’Autorità Giudiziaria salvo mantenere l’obbligo di portare fisicamente anche la copia cartacea nella segreteria della Procura competente (facendo perdere tempo e distraendo agenti e militari da altri impieghi più utili), altrimenti non vengono neppure registrate e le indagini non iniziano;  per non dire della geniale iniziativa di inserire il “link” per richiedere informazioni sullo stato dei procedimenti a carico di minorenni nel portale destinato alle aste giudiziarie. Un velo pietoso, poi, deve stendersi sugli strumenti informatici tutt’ora (non) funzionanti partoriti dalla mente dei consulenti del saltimbanco noto come Fofò Bonafede e che sono l’equivalente di banchi a rotelle, primule ed altri spassosi gadgets governativi targati Cinque Stelle.

    Quello che servirebbe, richiesto da anni ed a gran voce dall’avvocatura, è il Manager del Tribunale e cioè a dire un funzionario non togato che abbia competenze effettive di organizzazione del lavoro ed ottimizzazione delle risorse sia umane che economiche e coordini il suo lavoro con i vertici degli uffici giudiziari sul territorio: tradotto, il Generale Figliuolo della situazione.

    Avverso la creazione di una simile figura si oppone – in maniera più o meno velata – una parte della magistratura che teme, verosimilmente, di  perdere autorevolezza insieme a qualche ben pensante che paventa inesistenti aspetti di incostituzionalità.  E non è da escludere che  giochi un ruolo il problema legato al reperimento dei fondi per pagare lo stipendio di funzionari del genere: meglio destinarli ai navigator, tanto per dirne una mentre i tribunali rischiano la paralisi per mancanza di personale: ultimo in ordine di tempo, quello di Genova.

    Teniamoci allora per svolgere mansioni anche di gestione logistica Primi Presidenti di Tribunale e di Corte d’Appello, Procuratori Capi e Procuratori Generali il cui unico requisito è avere attribuite (per il mero progredire della anzianità di servizio) le cosiddette funzioni direttive anche se – magari –  non saprebbero neppure redigere la lista della spesa dopo aver aperto il frigorifero. E non è colpa loro.

    Qualcuno, non molti, che si distingue per disporre di simili competenze, ovviamente, c’è: proprio in questa rubrica è stato ricordato il caso di Cuno Tarfusser la cui virtuosa organizzazione della Procura di Bolzano era stata presa ad esempio e suggerita come modello da seguire, ma – all’evidenza –  da noi  non si è neppure in grado di copiare e poi, in fin dei conti, delle ricadute sui cittadini e persino dei due  punti di PIL, pari ad una trentina di miliardi, che costa una approssimativa amministrazione della giustizia sembra importare a pochi.

  • In attesa di Giustizia: standard italiani

    Blogger, influencer, tik-toker,  trapper…tra le nuove professioni – ammesso che tali possano chiamarsi – è la desinenza “er” a definire un modello di impiego che, tra l’altro, fa anche tendenza (o, meglio: è trendy).

    Ammettiamolo: il trapper risulta, probabilmente, il più ostico da inquadrare perché non è il rapper (come dimenticarsene) ma neppure una tradizionale figura di escursionista anglofono ed a creare confusione soccorre, oltretutto, un’ulteriore nota caratterizzante: a quanto pare, e per quanto è dato apprendere dalle cronache, i trappers non sono per nulla estranei a forme di devianza criminale che con un genere musicale – altra parola grossa – non dovrebbero avere nulla a che fare. E’ il crepuscolo della società civile.

    Del resto, nel gergo invalso ad Atlanta, da cui il termine deriva, “trap” è il luogo di spaccio: dunque, non deve sorprendere che questi musicisti (??) oltre ad inneggiare alle droghe nelle loro composizioni ne facciano largo impiego e non solo a livello personale; come nel caso di tal Elia 17 Baby, nella cui abitazione romana, non più tardi di qualche mese fa, sono state trovate migliaia di bustine di stupefacenti ed una discreta collezione di coltelli a serramanico.

    Vi sarebbe da immaginarsi che un giovine così virtuoso trascorresse le vacanze estive a Regina Coeli ed invece era a Porto Cervo dove, per ingannare il tempo, ha pensato bene di usare una delle sue lame – per motivi assolutamente futili – contro un ragazzo di Sassari che ora rischia la paralisi. Pur restando nei pressi della Costa Smeralda, è ora (ed era ora) ospite del Ministero della Giustizia nel carcere di Tempio Pausania.

    Piuttosto che a Regina Coeli – che non dispone di una sezione femminile – bensì a Rebibbia è finita nei giorni scorsi la ex sarta ultraottantenne di Sofia Loren ed altri noti artisti per avere ferito in maniera non grave ed anche questa volta con un coltello, però uno di quelli trovati là per là in cucina, il marito che l’aveva aggredita: una storia che non ha di certo il sapore della tendenza a delinquere e della pericolosità sociale.

    Bizzarri standard italiani: lo spacciatore per il quale non sarebbe stato dannoso un periodo di riflessione nelle patrie galere era libero, una vecchietta che si è difesa come ha potuto è finita subito dentro.

    Ma…ma…da qualche parte non sta scritto che oltre una certa età non si può essere arrestati? Beh, la legge è fatta per essere interpretata, no? Basterà ricordarsi di Calisto Tanzi che quando finì sotto processo i suoi anni li aveva e veniva portato in tribunale con l’ambulanza, la maschera ad ossigeno e, naturalmente, i piantoni della Polizia Penitenziaria.

    A Londra, intanto, è iniziato un giudizio contro giornalisti del Corriere della Sera rei di avere pubblicato notizie sul presunto coinvolgimento di tal Raffaele Mincione un finanziare italo – inglese nella fosca vicenda degli immobili acquistati proprio a Londra dal Cardinale il cui nome ricorda uno starnuto: Angelo Becciu.

    La difesa ha provato a sostenere che gli articoli incriminati sono stati scritti in italiano e finiti solo sul Corriere, cioè in Italia per un pubblico italiano e che “in Italia si fa così”: Suo Onore il Giudice Davidson ha osservato che non solo quella britannica ma anche la legge italiana vieta la violazione del segreto istruttorio; facciano quello che vogliono nel Bel Paese ma un quotidiano – quale che sia la lingua in cui è scritto – è acquistabile ovunque e leggibile in rete ed in Gran Bretagna degli standard italiani non sanno che farsene: se si offende la reputazione di un cittadino, considerata intangibile sulla base di semplici ipotesi tutte da confermare, si  viene condannati.

    Ed, a proposito di standard italiani, e sorridere almeno un po’ viene da domandarsi perché nessuno finora abbia fatto notare a Flavio Briatore che sulla pizza il Pata Negra non ci va non solo perché viola il capitolato della ricetta tradizionale ma anche perché mettere quel prosciutto pregiatissimo su qualsiasi cosa calda è un crimine e significa rovinarlo. Fare il contrario è, tra l’altro, una cafonata da arricchiti ma a qualcuno va bene così: questione di standard.

  • In attesa di Giustizia: Giustizia, ma quale giustizia? Ma mi faccia il piacere!

    Governo balneare, non è la prima volta, ed una campagna elettorale contratta,  volta a screditare gli avversari più che ad illustrare programmi che dovrebbero orientare la scelta degli elettori e, soprattutto, stimolarli a recarsi alle urne; lo scenario non è confortante, in particolare per uno dei settori cruciali – ma anche più disastrati – della Pubblica Amministrazione del quale sembra che ci si sia quasi completamente dimenticati: la giustizia.

    Nessuno ne parla, probabilmente perché, come si è sostenuto altre volte in questa rubrica, la giustizia non genera consenso (fondamentale più che mai in vista di una tornata elettorale), diversamente dalla sicurezza con la quale – spesso – viene confusa.

    Non per nulla, una delle primissime iniziative della declinante legislatura è stata quella sulla modifica della disciplina sulla legittima difesa che a questa confusione si presta benissimo: il prodotto finale è stato una normativa pasticciata e non priva di profili di dubbia costituzionalità come il Presidente Mattarella non ha mancato di rimarcare in una insolita lettera di accompagnamento alla promulgazione della legge.

    Viene da chiedersi, allora, perché il Garante della Costituzione l’abbia firmata, non certo il motivo per cui la raccomandazione di rivedere alcuni punti sia rimasta inascoltata: perché è caduta nel vuoto in senso stretto, quel vuoto torricelliano di cognizioni (alcune basilari) che caratterizzava una consorteria di analfabeti di ritorno del diritto capeggiata dall’esilarante clown trapanese che risponde al nome di Fofò Bonafede.

    La materia rimane oscura come dimostra il caso recente dell’ambulante nigeriano aggredito ed ucciso senza motivo in pieno giorno a Civitanova Marche: i presenti che avrebbero ben potuto e dovuto intervenire hanno di gran lunga preferito filmare la scena con i telefonini e condividerne l’orrore su whatsapp.

    Ma, tant’è: a prescindere dall’irrisorio quoziente di senso civico in generale, la propaganda ha sicuramente prodotto ben altre riflessioni sul significato di difesa legittima nei non addetti ai lavori.

    A caccia di fondi del PNRR, nel frattempo, si è in qualche modo posto mano a riforme del processo sia penale che civile: in parte opinabili dovendosi – ahimè –  tenere conto del voto in aula della compagnia di giro del cabarettista genovese;  innovazioni, peraltro, apprezzate (ma non del tutto…) anche a Bruxelles e allora della giustizia ce ne si può serenamente dimenticare…o, forse, no perchè molto resta da fare.

    Vi è – innanzitutto – la condizione critica in cui versano gli uffici giudiziari a causa della scarsità di risorse umane: trascurando per un momento il tema dell’organico dei magistrati (che risultano difficili da reclutare anche per carenza di nozioni fondamentali della lingua italiana dei candidati, come dimostrato in un recente concorso), quello dell’indispensabile personale amministrativo non è da meno

    E’ storia attuale quella del Tribunale di Monza – il sesto d’Italia per bacino di utenza, quantità e qualità degli affari trattati – che ha visto avvocati e magistrati protagonisti di una agitazione congiunta causata della inefficienza degli uffici per mancanza di cancellieri e segretari.

    Medesima sorte sta avendo la Procura della Repubblica di Piacenza, il cui Capo ha dovuto emanare una circolare con cui prende atto che l’Ufficio è al collasso ed alcuni servizi sono stati, di necessità virtù, sospesi: basti dire che – senza che al momento sia prevista alcuna sostituzione – dodici addetti su trenta sono andati in pensione nel mese di maggio ed a breve toccherà ad altri tre.

    L’elenco potrebbe continuare ma limitiamoci a questi due casi emblematici, a restare in attesa di giustizia, a sperare almeno che qualcuno si ricordi por mano al settore con l’intensità e la competenza necessarie. Possibilmente, non solo in campagna elettorale ma anche dopo.

  • In attesa di Giustizia: Libera Chiesa in libero Stato

    Con queste parole viene definita la concezione separatista in tema di rapporti tra Chiesa e Stato, utilizzata per primo dal politico e filosofo francese Charles de Montalebert, poi ripresa da Cavour al quale ne viene attribuita la paternità dopo la citazione avvenuta in seguito alla proclamazione del Regno d’Italia che portò alla individuazione di Roma come capitale; secondo il pensiero dello statista piemontese, il Papa avrebbe – quindi – dovuto dedicarsi all’esercizio del potere spirituale dimenticandosi quello temporale sui suoi possedimenti con ciò permettendo la convivenza tra Stato e Chiesa. E viceversa.

    Sono passati decenni, si sono succeduti nel tempo i Patti Lateranensi nel 1929, la loro revisione nel 1984 a regolare i rapporti (anche di natura giudiziaria) tra Italia e Santa Sede e con la Costituzione Repubblicana si è abbandonato il concetto di religione di Stato lasciando ai cittadini la libertà di credo.

    Qualche bizzarro cascame da Statuto Albertino, sia pure con qualche “arrangiamento”, si annida peraltro nelle pieghe del nostro sistema penale non meno che nel pensiero di chi  è deputato all’esercizio dell’azione penale: per esempio, la Procura della Repubblica di Crotone che ha ritenuto – non avendo, evidentemente, nulla di meglio da fare – di indagare  per “offesa ad una confessione religiosa” (art. 403 e 404 del  codice penale) Don Mattia Bernasconi,  della parrocchia di San Luigi Gonzaga di Milano.

    Cerchiamo, allora, di comprendere di quale rimproverabile ed indegna condotta si sia reso responsabile questo sacerdote, nei cui confronti sono già stati lanciati strali diocesani: ha celebrato la messa in mare per i giovani della sua parrocchia che aveva accompagnato ad un campo nella cooperativa Terre Joniche – Libera Terra. Nell’ultimo giorno di permanenza in Calabria aveva anche deciso di  portarli in spiaggia invece che in una pineta, originaria destinazione risultata, però, già occupata.

    Qui giunti, essendo domenica, a causa del caldo è maturata la scelta di celebrare la messa in mare utilizzando un materassino come altare.

    Una comprensibile coniugazione tra il rispetto del precetto domenicale e la salvaguardia della salute riparandosi dalle temperature feroci di questo periodo che non ha evitato a Don Mattia le censure dei suoi superiori prima e l’inflessibilità della legge secolare poi; il Procuratore capo di Crotone in persona ha confermato l’apertura di un fascicolo sull’accaduto delegando nientemeno che alla DIGOS lo svolgimento delle indagini. Verranno, quindi, sentiti testimoni, acquisiti filmati e foto della funzione dai telefonini, interpellati vescovi e cardinali, forse anche indagati per concorso nel reato i turisti che hanno prestato il materassino al sacerdote. Questo ci vuole per ridare dignità ad un Paese! Tolleranza zero alla maniera di Rudolph Giuliani: e partendo da una intransigente persecuzione di quelli che sembrano illeciti minori od anche semplici atti devianti che violano norme sociali si andrà realizzare una funzione salvifica e moralizzatrice a tutti i livelli.

    Saremmo stati, però, ancor più grati al procuratore di Crotone se prima di muoversi e spedire le sue truppe all’assalto, avesse prestato più attenzione a quanto prevede il codice penale e cioè che il reato di offesa ad una confessione religiosa si commette mediante il vilipendio di chi la professa, di un ministro o di oggetti di culto, strumenti liturgici, cose consacrate. Dell’uso, magari fantasiosamente improprio, dei materassini da mare per celebrare messa (da parte di un sacerdote regolarmente ordinato) in mare non si parla.

    Sembra, piuttosto, di poter dire che la scelta di Don Mattia sia stata indicativa del fatto che la fede, la preghiera, il sentimento religioso non sono legati necessariamente ad un luogo o ad un momento ma sono dentro di noi e devono potersi esprimere liberamente.

    Soccorre anche inesorabilmente alla memoria, ed a modo di conclusione, un detto proprio della saggezza popolare calabrese: “Studia, studia, se no finisci a fare il Pubblico Ministero”.

  • In attesa di Giustizia: le procure muoiono ma non si arrendono

    Nei giorni scorsi si sono conclusi due processi che hanno molto interessato cronache ed opinione pubblica: a Cassino quello per l’omicidio di una ragazza, Serena  Mollicone, avvenuto molti anni fa (si sospetta in una caserma dei Carabinieri e ad opera di alcuni di costoro) e definito con l’assoluzione di tutti gli imputati, sia pure rilevando una insufficienza delle prove; il fatto di sangue, sicuramente, rientra tra quelli caratterizzati da depistaggi reali o presunti, opacità del contesto e distanza nel tempo tra gli accertamenti e quanto accaduto. Il che, anche con il supporto delle moderne scienze forensi, non aiuta l’opera  degli investigatori.

    Un’ Assise, peraltro, si è pronunciata e le motivazioni della sentenza saranno rese note solo in autunno; è, quindi, forse un po’ presto per criticare una decisione senza conoscerne gli argomenti a sostegno: Il Procuratore capo di Cassino, peraltro, si è sentito in dovere di fare un comunicato stampa con il quale elogia il lavoro dei propri magistrati, l’impegno e rassicura i cittadini che si è fatto tutto il possibile, preannunciando che verrà in ogni caso proposto appello.

    Orbene, che si sia fatto tutto il possibile per dipanare la matassa e fare chiarezza  su una vicenda oscura va a merito degli inquirenti ma che non si accetti che l’assoluzione sia uno degli esiti possibili della giustizia anticipando l’impugnazione senza neppure avere letto le motivazioni  non è accettabile come non lo è che si debba avere un colpevole ad ogni costo. Come dire: un bel tacer non fu mai scritto.

    Il secondo caso di cui ci occupiamo questa settimana  riguarda invece proprio l’esito di un appello voluto a tutti i costi e presentato dalla Procura della Repubblica contro un’assoluzione: quella di tutti i manager accusati per un presunta maxi tangente oggetto della fallimentare indagine “ENI – Nigeria”.  Assoluzione in esito alla quale il P.M. che le aveva condotte e sostenuto l’accusa in giudizio – bricconcello –  è finito a sua volta sotto processo per sciocchezzuole  tipo nascondere le prove a favore degli accusati e, come sembra, anche falsificarne qualcuna per meglio sostenere le proprie tesi.

    Il Sostituto Procuratore Generale cui era stato assegnato il fascicolo, in udienza ha rinunciato all’appello e per farlo sarebbe bastata una dichiarazione in tal senso chiudendo velocemente la partita con una conferma delle assoluzioni. Tuttavia,  di fronte alla pertinacia del Collega inquirente (e inquisito), ha ritenuto di andare oltre con una durissima reprimenda parlando di “una situazione di illegalità di fondo rispetto alle indicazioni di regolarità del processo, in assenza di qualsiasi prova a carico degli imputati e dell’esistenza solo di chiacchiere e opinioni generiche che hanno tenuto quindici persone e tredici aziende sulla graticola per oltre sette anni senza alcun motivo”.

    Il processo, ha aggiunto, non è la sede per fare sperimentazioni dialettiche e i motivi di appello proposti contro la sentenza di primo grado sono incongrui, insufficienti  e fuori dai binari della legalità, che l’agire della Procura è sintomatico di una sorta di “colonialismo morale” e via picconando.

    Queste due vicende possono essere l’occasione per riprendere a ragionare sulla eliminazione del potere di appello del Pubblico Ministero, che trova il suo fondamento nel rispetto del nostro assetto codicistico e costituzionale per il quale l’unica ragione che dia senso ai successivi gradi di giudizio è il dubbio che l’imputato sia innocente e non colpevole.

    Troppo spesso l’appello del Pubblico Ministero si rivela come la seconda mano di una partita che l’accusa vuole vincere ad ogni costo quasi fosse una scommessa da cui dipenda la credibilità dell’Ufficio di Procura ma non è di scommesse o scommettitori di cui ha bisogno la Giustizia, e meno che mai di giocatori d’azzardo e bari.

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