Legge

  • In attesa di Giustizia: la solitudine dell’avvocato

    Non è più il momento per parlare di processi: agosto e le ferie giudiziarie incombono ed un’attività giudiziaria già agonizzante quando è a pieno regime tende a fermarsi quasi del tutto; e non è nemmeno il periodo ideale per discutere di riforme: grazie alla miope visione politica del Signor Tentenna (cit. Matteo Renzi) già autoproclamatosi “Avvocato degli Italiani” il Governo – e con esso la Ministra Cartabia – è in crisi.

    A volersi fare due risate si potrebbe commentare l’indiscrezione secondo la quale Fofò Bonafede, indimenticato clown pentastellato assurto al soglio di Guardasigilli, intenderebbe candidarsi per arricchire con il suo sottile (molto sottile, praticamente impalpabile) sapere giuridico il Consiglio Superiore della Magistratura il cui rinnovo è imminente: operazione che, se non altro, gli garantirebbe un posticino al sole, dignitosamente retribuito, per altri quattro anni, diversamente reso più problematico da una nuova candidatura con il Movimento Polvere di Stelle alle prossime elezioni politiche.

    E dire che proprio lui, inflessibile fustigatore di ogni malcostume nostrano e censore autorevole dei cacciatori di poltrone era stato autore di una (spernacchiata) proposta di legge che prevedeva il divieto tassativo per parlamentari e membri di governo di accedere a Palazzo dei Marescialli: una sorta di cortocircuito che, in fondo, non deve stupire considerate le recenti  prodezze del suo ondivago mentore e  leader politico.

    Questa settimana in verità non c’è proprio nulla da ridere, soprattutto se si annota che la notizia che ha maggiormente interessato la cronaca giudiziaria sembra essere quella del suicidio di un avvocato, gettatosi nel vuoto da una finestra del Tribunale di Milano.

    Un fatto drammatico, una scelta, per l’uomo, anche emblematica quella di togliersi la vita nel luogo che avrebbe dovuto garantirgli lavoro e sopravvivenza: un uomo che ha lasciato un biglietto tratteggiando in poche righe la sua disperazione per problemi economici e famigliari ed avrebbe meritato un rispettoso silenzio.

    Invece no, i cronisti si sono affannati in una ignobile gara a chi scopriva per primo quali fossero i trascorsi professionali di questo sventurato, la sua storia, i suoi problemi buttandoli tutto in pasto a morbosi lettori con aggiornamenti continui delle testate on line. E ancora se ne parla a giorni di distanza.

    Chiedere rispetto per una morte così tragica non sembra eccessivo: se proprio si voleva approfondire l’argomento perché non si è pensato alla solitudine di quest’uomo che non ha saputo trovare conforto ed aiuto in alcun affetto e che probabilmente ha sofferto senza nemmeno la consapevolezza di soffrire per la mancanza di condivisione dei suoi affanni. Che sono quelli di molti avvocati, sempre costretti a confrontarsi – oltre che con le preoccupazioni personali, sovente messe in secondo piano – con le miserie, le ansie, i dolori grandi e piccoli dei propri assistiti, osservando la regola del segreto e così introiettando, in perfetta solitudine, una massa di negatività che difficilmente viene metabolizzata ma sedimenta nell’animo.

    Qui, su queste colonne non ci sarà dunque alcuno spazio se non per quella pietas che non richiede commenti ed una critica asperrima verso coloro che non la sanno praticare in nome dell’attrattività che solo il gossip sa generare e con essa un maggior numero di copie vendute.

    A quei cronisti possiamo solo suggerire di non riflettere su queste considerazioni, se mai le leggeranno,  evitando di guardarsi dentro se hanno paura del vuoto.

    Ti sia lieve la terra, infelice Collega.

  • In attesa di Giustizia: scandalo!

    Una recentissima decisione della Corte di Appello di Torino ha provocato indignazione generalizzata:, la Boldrini – tra gli altri – ha subito commentato che si tratta di una sentenza scandalosa  perché, riformando una condanna del Tribunale per violenza sessuale, ha assolto  l’imputato.

    Vi è da dubitare che, come la Boldrini, molti altri commentatori (se non tutti) ignorino il contenuto del fascicolo e neppure la competenza tecnica per fare valutazioni giuridiche: è, piuttosto, ben possibile che si siano affidati a brandelli di motivazione pubblicati dai giornali alla ricerca di incongruenze argomentative. Neppure alla redazione de Il Patto Sociale conosciamo la vicenda e tantomeno i giudici: è, però, noto che la Corte fosse presieduta da una donna (il che, qualcosa può significare) e, come di consueto, in questa rubrica  non si tratterà  di processi senza cognizione di causa ma di ben altro.

    E’, invero, opportuno riflettere su quella che è la  coazione a ripetersi di un corto circuito mediatico che in tema di processi per violenza sessuale segue un copione immodificabile.

    Una prima riflessione è che in questo Paese la notizia di una assoluzione, in generale, desta allarme, non parliamo poi se ciò accade in appello dopo una condanna in primo grado,  per quegli stessi fatti ed in base al medesimo materiale probatorio: tutto ciò è percepito come il segno di una grave anomalia.

    Avviene, invece il contrario se si è condannati  nel secondo grado di giudizio dopo una prima  assoluzione: in questo caso è la giustizia che ha trionfato, una stortura è stata raddrizzata. Questo riflesso forcaiolo è moltiplicato se il processo ha, per l’appunto, ad oggetto una accusa di violenza sessuale e si espongono al pubblico ludibrio dei giudici che hanno osato assolvere, si scava nella motivazione, la si riduce a brandelli, raspollando ogni locuzione eventualmente infelice utile a dimostrare che il proscioglimento è frutto esclusivo di un modo di ragionare maschilista e misogino.

    Naturalmente, qualcosa di simile può sempre accadere ed è sicuramente accaduto in passato, va detto senza infingimenti, con responsabilità equamente divise tra avvocati e giudici asserviti a becere considerazioni del tipo: “era lei ad essere vestita in modo provocante, dove se ne andava in giro di sera conciata in quel modo, le è piaciuto”, e via dicendo. Sempre più raramente, per fortuna, si ascoltano avvocati che si affidano a simili bassezze, e giudici che mostrino di condividerle.

    E’ intollerabile ed incivile, invece,  che siano giudicati gli esiti di un processo da qualche frase estrapolata qui e là. Anni fa fece storia, in proposito, una sentenza della Corte di Cassazione di cui si valorizzò una frase incidentale che ragionava, tra mille altri e ben più corposi argomenti, anche su quanto fossero stretti i jeans della presunta vittima e come potessero essere stati tolti senza impiegare violenza: si  scatenò subito il linciaggio contro una decisione  molto ben strutturata e meditata basandosi su un dettaglio ininfluente.

    Nulla sembra essere cambiato oggi, e se è sacrosanta la condanna di comportamenti sessuali  alimentati da una subcultura misogina ed ottusamente maschilista, nemmeno si può pretendere, che vi sia una sorta di statuto speciale della prova per i reati di violenza sessuale. Si è disposti ad accettare il dubbio su un omicidio, ma non su una violenza sessuale. Tema invece, quest’ultimo, delicatissimo quando essa si colloca in quella zona grigia nella quale occorre accertare rigorosamente sia la certezza della mancanza di  consenso al rapporto sessuale, quanto la  percezione di un dissenso da parte di chi avanza l’approccio. Sono dati cruciali, che il giudice deve ricostruire in via induttiva da ogni possibile dettaglio; e se quella ricostruzione pone in crisi l’esistenza dell’uno o l’altro elemento della condotta, si impone l’assoluzione come per qualunque altro reato, anche il più efferato. Il Giudice deve essere libero da ipoteche ideologiche o da ricatti culturali, perché è chiamato semplicemente a ricostruire un fatto. Se lo fa male, c’è il rimedio delle impugnazioni, per fortuna. Ma non si può accettare l’idea che il giudice sia sospetto di aver fatto male il proprio mestiere solo quando assolve: questa sì, è la notizia che dovrebbe allarmare.

  • In attesa di Giustizia: correnti e spifferi

    Il Presidente Mattarella ha indetto per il 18 e 19 settembre le elezioni per il rinnovo del C.S.M.: un Consiglio che arriva faticosamente al suo termine naturale dopo essere stato investito dalle conseguenze dell’”affaire Palamara” che ha determinato – tra l’altro – la necessità di elezioni suppletive causate dalle dimissioni di alcuni componenti che ne erano stati coinvolti, dalle polemiche per la gestione anomala di verbali secretati della Procura di Milano da parte di Piercamillo Davigo, dalla ostinata resistenza di costui alla cessazione della funzione consiliare dopo il pensionamento. Queste, solo per citare alcune delle criticità che hanno interessato il quadriennio più tribolato dell’organo di autogoverno della magistratura che, a memoria d’uomo, si ricordi tra spifferate editoriali sulle modalità di affidamento degli incarichi più prestigiosi e crisi delle correnti (largamente politicizzate) alle quali appartiene la gran parte dei circa 9.600 magistrati ordinari in servizio. Per non parlare della gestione delle indagini contro l’avversario di turno del partito di riferimento, a prescindere dalla fondatezza.

    E se il Consiglio Superiore, anche in passato non ha dato prova del dovuto rigore – in sede disciplinare e non solo – non altrettanto può dirsi delle correnti: lo dimostra la recente pubblicazione su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica, di interessanti documenti relativi al caso Tortora che attestano quanto dura sia stata in allora la presa di posizione di MD nei confronti sia dei magistrati responsabili di quella sciagurata indagine, sia della decisione del CSM di archiviare ogni procedimento disciplinare sui medesimi. Una presa di posizione pubblica di una tale durezza che portò addirittura alla crisi della Giunta di A.N.M., che dovette dimettersi.

    Con questa pubblicazione e il richiamo ad una storia remota ma non dimenticata si rivendica una precisa identità culturale e politica di quella parte della magistratura italiana, proprio in relazione al caso simbolo della malagiustizia italiana. Come dire (e da sempre su queste colonne condividiamo il concetto) che la magistratura italiana non è (o non è stata?) una indistinta espressione di desolanti riflessi corporativi. E le correnti, intese come espressione di pensiero e culture differenti all’interno della giurisdizione, sono (o sono state?) occasione di confronto, di crescita civile, di ricchezza culturale.

    Marzo del 1989, all’indomani della definitiva assoluzione di Enzo Tortora: la denuncia contro gli uffici giudiziari napoletani viene estesa anche alla oscura gestione dell’inchiesta sull’omicidio del giovane giornalista Siani e  MD chiede con determinazione che il CSM dia seguito a severi provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati responsabili “del più dirompente caso della vita politico-istituzionale italiana”. Denunciano l’assurdità che uno di essi, il dott. Felice di Persia, sia stato nel frattempo eletto proprio al CSM. Tutto inutile, il CSM archivierà ogni accusa e Magistratura Democratica non mancò di registrare che “la logica corporativa non tollera che dall’interno della magistratura vengano critiche alla gestione degli uffici giudiziari o allo stesso CSM”.

    C’è, dunque, anche nobiltà della storia del correntismo all’interno della magistratura, ma ciò che dobbiamo domandarci oggi è cosa sia rimasto di quelle spinte ideali, di quella indipendenza di pensiero, e soprattutto di quella attenzione alle garanzie ed ai diritti nei processi; e semmai, come poterli recuperare. Il Paese ha attraversato anni di drammatica alterazione degli equilibri costituzionali, con una esondazione catastrofica del potere giudiziario in danno del potere politico e la superfetazione del potere  incontrollato delle Procure. Vi è da sperare che almeno una parte della magistratura italiana sia  attraversata da una riflessione critica ed autocritica su questi temi? O quella bella pagina “napoletana”, tra spifferi e correnti,  resterà solo un lontano  ricordo, da guardare con malinconica trepidazione, come si fa con gli album di famiglia?

  • In attesa di Giustizia: tanto rumore per nulla

    Mentre la Ministra Cartabia si affanna tra le polemiche, supportata da Commissioni tecniche, a riformare il sistema giustizia – anche per non perdere i fondi del PNRR – sembra che ci si sia dimenticati che quella delicata branca della Pubblica Amministrazione non è fatta solo di strumenti, codici e protocolli ma di uomini: molti dei quali sono autentici servitori dello Stato, cioè dei i cittadini…beh, non proprio tutti, alcuni un po’ meno.

    Il riferimento è a coloro – pochi, comunque non sono – che sono stati coinvolti nello “scandalo Palamara”, figure emerse dalle sue chat intercettate dalla Procura di Perugia e dal racconto che egli stesso ne ha fatto e trasfuso in un best seller firmato con Alessandro Sallusti.

    Già, che fine hanno fatto quei magistrati che, a voler usare un eufemismo, si autopromuovevano seguendo canali preferenziali per ottenere incarichi direttivi in importanti Uffici Giudiziari quando non diversamente impegnati a processare l’avversario di turno della parte politica di riferimento con indagini dall’impianto probatorio traballante?

    Esclusi i pochi (una “mezza sporca dozzina”) che sono stati protagonisti di un incontro spartitorio di incarichi durante una serata conviviale all’Hotel Champagne di Roma (tra questi, il medesimo Luca Palamara) del destino di tutti gli altri si hanno poche e frammentarie notizie.

    Cerchiamo di capire come mai. Può darsi, ma è solo una eventualità per amor di Dio, che ciò dipenda dal risultato di una raffica di circolari adottate dal Procuratore Generale della Cassazione, che è il titolare della iniziativa disciplinare nei confronti dei magistrati.

    Una prima di queste chiarisce che l’autopromozione ad incarichi apicali mediante appoggi correntizi non costituisce illecito disciplinare. Con buona pace della Costituzione che prevede procedure concursuali  e valutazione di titoli e merito e non traffico di influenze e raccomandazioni.

    Una seconda circolare chiarisce che anche con riguardo a condotte scorrette gravi l’illecito può non essere configurabile se il fatto è di scarsa rilevanza. Qualcuno, però, dovrà illuminarci su come possa essere considerata di scarsa rilevanza una condotta gravemente scorretta. Ossimori.

    Sono state poi secretate le motivazioni alla base delle archiviazioni dei procedimenti disciplinari intervenute direttamente senza neppure approdare al C.S.M. per un vaglio più approfondito.

    Al C.S.M., viceversa, qualcosa – con riguardo ai pochi fascicoli pervenuti – si muove ma vediamo come: di recente, dopo aver graziato Donatella Ferranti, oggi magistrato alla Corte  di Cassazione, un altro giudizio benevolo è toccato ad Anna Canepa della Direzione Nazionale Antimafia che nel biennio 2017-2019 aveva interloquito con Luca Palamara pregandolo di intercedere per evitare che a capo della Procura di Savona approdassero, in alternativa, due P.M. definiti nella chat “dei banditi” e sollecitando l’appoggio ad un terzo.

    Tanto rumore per nulla, un po’ come in una celebre commedia di Shakespeare: nei casi che ci interessano si è trattato evidentemente solo di esagerazioni moralistiche riferite ad un fatterello del tutto marginale ed inconsistente.

    Secondo il C.S.M., infatti, nel “caso Canepa” va bene così perché non ci sarebbe stato alcun turbamento negli uffici e nello svolgimento delle funzioni. Noi, miseri utenti del servizio giustizia, vorremmo almeno sapere perché in quel di Savona la Procura della Repubblica rischiava di essere amministrata da due presunti banditi e di quali crimini si sarebbero macchiati costoro: viceversa, il finale di questa come di altre vicende analoghe è amaramente comico per le motivazioni impiegate e faticosamente costruite con il contributo di  maggioranze raccogliticce, secondo le utilità del momento e per salvare l’insalvabile.

    Se, poi, nel lieto fine abbia anche avuto un ruolo l’essere stata Anna Canepa Segretaria di Magistratura Democratica, e Donatella Ferranti ex parlamentare del PD, è altro aspetto che non sarà mai chiarito, sebbene a pensar male si faccia peccato ma…insomma fatevene una ragione: con le riforme arriveranno anche i fondi del PNNR per la Giustizia, tuttavia la sensazione è che, gattopardescamente, nella sostanza cambierà tutto per non cambiare nulla.

  • In attesa di Giustizia: commenti post partita

    Le premesse, c’erano tutte: in un Paese dove si fatica a far votare il 50% degli elettori alle elezioni politiche il raggiungimento del quorum di un referendum costituisce pia illusione e il clamoroso fallimento di quelli sulla giustizia non deve sorprendere né trovare scusanti considerata anche la scarsa informazione in proposito che vi è stata e la tradizionale incomprensibilità dei quesiti.

    Così è stato che, traendo spunto dalla lettura dei giornali ed ascoltati i commentatori, in una sola domenica, l’Associazione Nazionale Magistrati  è passata da esercito borbonico in fuga, a terza potenza mondiale, e il suo Presidente da comandante della Costa Concordia a capo della Spectre.

    Sul versante opposto, gli avvocati che si erano spesi per la raccolta di firme ed erano stati ammirati  per il loro impegno sono stati scaricati e ritenuti corresponsabili del flop mentre è proprio oggi che andrebbero ringraziati per essersi esposti per le loro idee e aver tentato di fare comunicazione, pur sapendo che alle urne sarebbe stata durissima.

    Dunque, viene da pensare che al cittadino medio, tutto sommato, della giustizia interessi poco.

    Dipende: un recentissimo fatto grave di cronaca ha scatenato polemiche e dibattiti, soprattutto tra i “leoni da tastiera” che non hanno trovato di meglio che scagliarsi contro il difensore di Martina Patti,  la mamma catanese accusata dell’omicidio della piccola Elena, attaccato in modo violento sui social.

    In tal modo risultano affermati  due controprincipi:

    1) chi si macchia di delitti terribili come l’omicidio di una creatura innocente non ha il diritto di essere difeso e non ha neppure ad un processo;

    2) l’avvocato che decide di assistere una simile persona dimostra affinità con il crimine commesso, mentre dovrebbe prenderne le distanze rifiutandosi di difendere.

    Sono attacchi che provengono da soggetti  che culturalmente dimostrano povertà e ignoranza.

    I cittadini sanno,  o almeno dovrebbero sapere, che l’avvocato non difende il delitto ma il diritto, il diritto di ognuno ad avere un processo svolto secondo le regole.

    Questi commenti, questa violenza verbale, vien da pensare che non siano frutto solo di ignoranza ma anche di rabbia e odio e forse anche di impotenza e frustrazione di fronte a situazioni familiari che maturano ed esplodono in contesti sociali degradati.

    Nessuno dei commentatori, tuttavia, focalizza il vero  problema: quello del fallimento dello Stato sociale e della inefficienza – non sarebbe la prima volta – dei servizi territoriali che hanno fatto mancare supporto ad una famiglia che ne era evidentemente bisognosa. Per ora sono tutti concentrati a massacrare la donna mostro, senza fermarsi neppure un attimo a riflettere sul disagio che possa avere alimentato un gesto così innaturale e sulla prevenzione mancata.

    La giustizia sembra, allora, essere un interesse a corrente alternata: almeno fino a quando non si incappa nelle sue maglie o non vi è qualche morboso interesse a ficcanasare in vicende di cui si conosce solo l’esteriorità… e dei referendum chissenefrega anche solo di sapere a cosa miravano.

    Nel frattempo nei bar tengono banco la nazionale e il calciomercato.

  • In attesa di Giustizia: tutto il mondo è paese

    Tutto il mondo è paese: non che il “mal comune mezzo gaudio” debba essere davvero motivo di consolazione ma è corretto registrare che anche altrove l’amministrazione della giustizia alimenta polemiche di ogni genere.

    Probabilmente in California non è mai giunta l’eco delle prodezze e dei programmi di intervento di Pubblici Ministeri come Piercamillo Davigo (“rivolteremo l’Italia come un calzino”) ma, tant’è, vi è stata recentemente una vera e propria sollevazione contro quella che si è definita “politica permissiva” di alcuni Procuratori distrettuali, come quello di Los Angeles che è stato addirittura destituito attraverso un referendum popolare: cosa possibile, perché nel sistema americano, i pubblici ministeri sono un organo politico eletto direttamente dal popolo e il popolo ai referendum va a votare.

    Al “District Attorney” della Città degli Angeli è stato attribuito l’aumento della criminalità di strada – quella maggiormente percepita dalla popolazione – perché con la sua politica avrebbe ridotto la sicurezza pubblica.

    Come? Alleggerendo, per esempio, i requisiti per la cauzione e in tal modo rendendo più facile per i presunti autori di reati tornare liberi ed anche rifiutandosi di perseguire determinati reati, come il vagabondaggio o la prostituzione: altra cosa possibile, sì,  perché, sempre nel sistema americano, l’azione penale è facoltativa e non obbligatoria come da noi, dove Travaglio – per un’iniziativa simile – avrebbe scatenato  una sorta di guerra civile.

    Eppure è un dato statistico costante che, in America, negli Stati dove vige la pena di morte il tasso di criminalità è addirittura più elevato rispetto a quelli dove quella massima è l’ergastolo.

    Anche oltre Oceano, quindi, il denominatore comune del populismo è lo stesso che da noi: più repressione uguale più sicurezza.

    Forse non sarebbe sbagliato riconsiderare che il problema non nasca  da un facilitato accesso  alla libertà su cauzione ma vi sia un rapporto causa/effetto nella coincidenza temporale fra l’inizio della pandemia e l’aumento della criminalità di strada. Il populista medio, però, fa un uso normalmente contenuto della elaborazione del pensiero.

    Tutto il mondo è paese: è cronaca di questi giorni il susseguirsi di reati contro il patrimonio tipicamente “da strada”, soprattutto a Milano e – forse non a caso – in coincidenza con la fiera del mobile e del design; evidentemente vi è un malessere diffuso, un problema sociale che non può essere risolto attraverso il sistematico ricorso al diritto punitivo ed il tintinnare delle manette che non svolgono alcuna reale funzione deterrente…e giustizia e sicurezza sono concetti adiacenti ma non analoghi ed i rigori della prima non possono essere la soluzione della seconda per la quale il rimedio è la prevenzione.

    Prevenzione che – a certi livelli – si realizza anche con interventi che pertengano la salvaguardia dell’occupazione e l’adeguatezza della retribuzione dei lavoratori. L’impoverimento è la prima causa di devianza, particolarmente della microcriminalità  e non si contrasta né con il carcere né con misure quali il reddito di cittadinanza che non è una cura ma un cerotto su una ferita.

    Indipendentemente dall’esito dei referendum nostrani di sicurezza e di problemi della giustizia si continuerà a parlare perché la verità è che la politica tende ad ignorarli sebbene si abbattano sui cittadini e che ai magistrati interessa più la loro politica interna, correntizia, piuttosto che quella del Palazzo. E la prova è che tutti parlano da sempre dei mali dell’amministrazione dei tribunali senza che sia mai stata trovata una soluzione. Anzi,  l’impressione è che, più se ne parla, meno si fa e più i mali della giustizia si aggravano. Prendiamo il sovraffollamento carcerario che si ripropone a cadenze regolari di qualche anno o la lunghezza dei processi che sembravano eterni già negli anni Settanta ed oggi durano ancora di più. La ragione di tutto questo? Sciatteria, è la prima parola che viene in mente.

  • In attesa di Giustizia: finché c’è Cuno c’è speranza

    Cuno Tarfusser, classe 1954, meranese: è un Magistrato che ha iniziato la sua carriera come avvocato (il che, forse, spiega molte cose…) e dal 1985 l’ha proseguita come Sostituto Procuratore della Repubblica a Bolzano dove nel 2001 è divenuto Procuratore Capo. In quella veste ha diminuito i costi ed aumentato l’efficienza dell’Ufficio tagliando le spese per le intercettazioni e ottenendo fondi europei per assicurare la liquidità necessaria al funzionamento ottimale della Procura che lo Stato non gli garantiva; la sua gestione è stata presa come modello…parrebbe non seguito da molti.

    Nel 2009 è stato eletto giudice della Corte Penale Internazionale, su proposta del Governo Italiano,  e dopo una dozzina d’anni circa passati a L’Aja, ora è Sostituto Procuratore Generale a Milano.

    Cuno Tarfusser è l’arkè socratico del Magistrato, è uno di quelli che offrono conforto alle speranze di chi è in attesa di Giustizia e a chi – giustamente – pensa che non tutti sono come Piercamillo Davigo o i compagni di merende dell’Hotel Champagne le cui gesta sono state svelate da Luca Palamara: anzi, è uno che si è detto onorato perché il C.S.M. lo ha escluso dalla “corsa” al ruolo di Procuratore Capo di Milano perché definito un “eretico” (in realtà perché non inserito in alcuna corrente).

    Da quando è a Milano, sia pure in un ruolo diverso, ha fatto molto parlare di sé anche se quasi solo negli ambienti giudiziari: al di fuori se ne sa poco, ma vediamo di riassumere con qualche esempio cosa è stato in grado di fare ultimamente contribuendo a ridare credibilità ad un Ordine Giudiziario in totale dissesto.

    Tarfusser è colui che – nel 2021 – era talmente convinto della innocenza di alcuni imputati per traffico di farmaci avariati (condannati in Tribunale a pene pesantissime) che ne chiese lui stesso l’assoluzione quando il processo giunse in Appello e contro la sentenza di conferma della Corte propose anch’egli ricorso per Cassazione allineandosi alla difesa: cosa assolutamente inusuale ma che dovrebbe essere una regola se si vuole essere organo di giustizia e non un inquisitore vincolato al ruolo a prescindere. E la sentenza è stata annullata dalla Suprema Corte come chiedeva Tarfusser.

    Nel mese di agosto sempre del 2021 fu mandato per un brevissimo periodo a Lecco in veste di Procuratore Capo facente funzioni: il C.S.M. infatti tardava a nominare il nuovo vertice dell’Ufficio ed al termine del suo incarico scrisse una durissima lettera indirizzata proprio al Consiglio Superiore ed inoltrata tramite il Procuratore Generale di Milano: un “addio ai monti” che fotografava lo stato di abbandono di quell’Ufficio Giudiziario definito in  “una situazione desolante… nel disinteresse di chi dovrebbe ovviarvi…paradigmatica del fallimento del cosiddetto autogoverno della magistratura: un organismo del tutto incapace di gestire in modo anche solo decente i suoi amministrati in modo da metterli in grado di garantire un servizio giustizia degno di questo nome”. In undici punti elenca, poi, tutte le manchevolezze registrate durante la sua permanenza a Lecco concludendo con un ringraziamento a tutti coloro che con lui hanno collaborato affrontando difficoltà di ogni genere nel rispetto e considerazione che si devono ai cittadini. Poi è inutile chiedersi perché al C.S.M. non è particolarmente amato.

    Pochi giorni fa è intervenuto in merito al programmato sciopero proclamato dalla Associazione nazionale magistrati per protestare contro le riforme della Ministra Cartabia (che, pure, dice non piacergli particolarmente) definendolo “sovversivo” perché è la protesta di chi esercita un potere dello Stato contro un altro potere dello Stato.

    Afferma ancora che “è come se in vista di un processo che non sta procedendo verso l’esito atteso, il Governo o il Parlamento decidessero di scioperare contro la magistratura” e conclude considerando anche che “le modalità con cui oggi i magistrati si autovalutano non so se sono più ridicole o vergognose”.

    Finchè c’è Cuno c’è speranza, quindi: e come lui ve ne sono molti altri, è giusto dirlo e che si sappia: altri che – magari – hanno l’unico difetto di non essere iscritti alla corrente giusta, o alla Loggia Ungheria o, comunque, di non avere potenti padrini (o padroni).

  • In attesa di Giustizia: Bipartisan

    Cauti nella critica e generosi nella lode, in questa rubrica abbiamo magnificato in più occasioni le intraprese del Premier che ha conseguito il titolo di Professore Ordinario con i Punti Fragola dell’Esselunga (qualcuno sostiene con la raccolta, per tempo oculatamente fatta dai genitori, degli indimenticati punti VDB) e del suo discepolo prediletto: l’ilare giureconsulto assurto al seggio di via Arenula.

    Equità vuole che non vengano dimenticate altrettanto mirabolanti azioni di governo, volte a rendere l’Italia un Paese migliore, riferibili ad Esecutivi del passato: questa è una settimana dedicata all’amarcord.

    In una stagione che, climaticamente, inizia ad essere più che mai favorevole agli sbarchi di migranti sulle coste siciliane – tema sempre di attualità – è cosa buona e giusta celebrare come meritano gli interventi di inizio millennio intesi a contrastare il fenomeno.

    La premessa d’obbligo è che, all’epoca, il nostro arsenale normativo disponeva di una legge caratterizzata – se non altro – da una certa chiarezza: la c.d. “Turco-Napolitano” che in quattro punti essenziali affronta il problema. Nei primi articoli statuisce che ai cittadini stranieri sono garantiti i medesimi diritti spettanti agli italiani secondo le convenzioni ed i canoni di diritto internazionale, nonché quello di partecipazione alla vita pubblica locale riservato a coloro che fossero regolarmente soggiornanti. Viene, quindi, fatta una netta distinzione tra regolari ed irregolari.

    L’articolo 4 prevede che l’ingresso nel territorio dello Stato è consentito solo a chi sia munito di un passaporto o valido ed equipollente documento, il successivo contiene la disciplina per il rilascio del permesso di soggiorno e l’articolo 10…i respingimenti di coloro che risultino privi di tali requisiti deputati alla Polizia di Frontiera: in fondo, i medesimi principi enunciati da Matteo Salvini in maniera più pittoresca.

    Legge chiara ma, purtroppo, inefficace perché prevedeva la notifica del decreto di espulsione al soggiornante irregolare (che lo cestinava appena uscito dalla Questura) incorrendo poi nella difficoltà operativa di eseguire materialmente il provvedimento rintracciandolo e rimandandolo al Paese di provenienza.

    Ecco allora, nel 2002, abbattersi sui clandestini la implacabile “Bossi-Fini” con la previsione di nuovi reati, pene più severe e carcere per tutti. Nihil novi sub sole: il ricorso ai soliti strumenti del diritto penale che non fanno paura a nessuno con qualche “curiosità” degna di nota: per esempio la previsione dell’arresto obbligatorio per chi non avesse ottemperato al decreto di espulsione.

    Senonchè, il reato era ed è previsto come contravvenzionale e per le contravvenzioni (che non sono quelle per divieto di sosta, che si chiamano sanzioni amministrative, ma una categoria degli illeciti penali) la legge proibisce la carcerazione preventiva…il risultato fu che le Forze dell’Ordine dovevano obbligatoriamente eseguire arresti, compilare verbali, sottrarre risorse ad altri impieghi e trasmettere tutto in Procura dove il P.M. non poteva fare altro che disporre la liberazione immediata dell’arrestato. Questo, almeno, finché qualcuno se ne accorse e la legge fu modificata: nel frattempo aveva tanto inutilmente quanto inesorabilmente intasato i tribunali.

    Non ammonito da riflessioni salutari, il Governo pensò allora di ricorrere diversamente al mito della sanzione penale, ipotizzando il ricorso all’arresto in flagranza del clandestino al momento dello sbarco.

    Orbene, i sostenitori di questa opzione – parliamo di Ministri e Parlamentari della Repubblica – non avevano considerato quanto prevede la Costituzione e cioè che gli arresti in flagranza devono essere convalidati o meno da un giudice entro al massimo 96 ore.

    Alzi la mano chi, anche senza avere dimestichezza tecnica con la materia, ritiene possibile che uno sventurato G.I.P. di Agrigento o di Ragusa (per fare degli esempi) possa celebrare decine se non centinaia di udienze nel volgere di una manciata di ore e redigere anche le ordinanze conseguenti…a tacer del fatto che si sarebbe dovuto, comunque, trovare posto in carcere per queste torme di sventurati nuovi giunti. Forse, si confidava nel fatto che il Guardasigilli – un ingegnere – ne potesse progettare e realizzare di nuove e capienti, a tempo di record.

    A qualcuno, però, nelle stanze dei bottoni venne, fortunatamente ed in tempo utile, di consultarsi con un amico magistrato la cui fragorosa risata offrì risposta al quesito. E spontanea sorge la domanda: ma, i Capi di Gabinetto, gli innumerevoli magistrati fuori ruolo assegnati a Ministeri e Authority, hanno studiano giurisprudenza alle serali al buio?

    I Governi successivi continuarono a ritoccare in qualche modo – e con i risultati che ben conosciamo –   quella che è divenuta una variopinta arlecchinata normativa e gli scafisti, ben compreso con chi hanno a che fare, ringraziano.

    Malcontate, sono circa duecentocinquantamila le leggi vigenti nel nostro Paese (la media negli altri Membri UE è di circa 1/10) ed a queste si aggiungono circolari interpretative, direttive, protocolli di intesa e regolamenti…fatevi una domanda e datevi la risposta del perché la Giustizia non funziona.

  • In attesa di Giustizia: statistica giudiziaria

    Nelle settimane passate, questa rubrica si è interessata a episodi di lassismo ed emblematici abusi di potere da parte di magistrati della Procura volti a verificare la fondatezza di richieste di rinvio di udienze per legittimo impedimento dell’avvocato difensore.

    Come vanno realmente le cose nei nostri tribunali è possibile rilevarlo in base ad una indagine (la seconda, negli ultimi anni) svolta da Eurispes in collaborazione con l’Unione delle Camere Penali.

    Discutere senza dati sarebbe, infatti, un esercizio fine a sé stesso e solo il possesso di riferimenti statistici rende degno di essere affrontato anche il discorso sulla funzionalità giurisdizionale e sui correttivi da apportarvi.

    Il “Secondo Rapporto sul Processo Penale” (visionabile anche su Youtube, per chi fosse interessato ad approfondire) racchiude gli esiti di un lavoro svolto di raccolta durato dalla primavera a fine del 2019: appena in tempo prima della pandemia che ha mutato in maniera significativa, ed in peggio, lo scenario.  Sono raccolti i dati in 32 Tribunali, monitorando il significativo campione di 13.755 processi.

    Da tale indagine sono emersi diversi rilievi: nella stragrande maggioranza dei casi, ossia nel 79,4%, l’imputato è maschio ed i reati sono in prevalenza quelli contro il patrimonio, seguiti da quelli contro la persona e dalle violazioni al codice della strada penalmente rilevanti come la guida in stato di ebbrezza.

    Quanto alla più interessante  gestione delle udienze è emerso che: nel 30,6% di casi i processi subiscono un ritardo anche largamente superiore alla mezz’ora , senza alcuna giustificazione da parte del giudicante, per sessioni di udienza mediamente di circa 6 ore e nel 95,1% dei casi l’orario di chiamata non coincide con quello di originaria fissazione dell’udienza; il ritardo medio di chiamata si attesta attorno ai 50 minuti e nel 74,6% dei casi il processo non si conclude nella stessa udienza, ma è oggetto di rinvio.

    Rispetto a quest’ultimo tema, è stato interessante analizzare le cause, per sfatare alcuni falsi miti o avere conferme. Il rinvio viene infatti disposto principalmente, oltre a motivi non tipizzati (23,9%), per omessa o irregolare notifica all’imputato nel 7,4% dei casi, perché trattasi di udienza per la sola ammissione delle prove nel 14,7%; l’assenza dei testi del Pubblico Ministero provoca un rinvio nel 5,2% dei casi.

    La richiesta del termine a difesa è causa del 3,8% dei rinvii, in percentuale quasi equivalente all’eccessivo carico del ruolo (3,6%) e ai tentativi di conciliazione (3,4%). Le percentuali minori riguardano il legittimo impedimento del difensore fermo all’1,8%: una percentuale di poco superiore all’assenza del giudice titolare in udienza (1,6%). A quest’ultimo, però, di solito non mandano i Carabinieri a casa per verificare i motivi di mancata partecipazione…

    Importantissimi sono infine dati sugli esiti del processo: si concludono con sentenza di condanna solo nel 34,1% dei casi; al netto delle ipotesi ritiro delle querele e pochi altri casi determinati da ragioni tecniche diverse, ciò significa che circa il 70% del carico è costituito da imputazioni azzardate ovvero per fatti di marginale gravità che si prescrivono in tempi molto brevi ovvero che si concludono con una conciliazione tra le parti. Come dire, in quest’ultimo caso, che lo Stato potrebbe anche evitare di ricorrere al diritto punitivo per fatti che ricadono strettamente nella sfera di interesse dei privati, che possono diversamente tutelarsi, evitando di intasare gli uffici giudiziari con questioni bagatellari.

    Resterebbe un ultimo dato da valutare, ma gli eventi che ne rivelano l’opportunità sono emersi successivamente all’indagine UCPI/Eurispes: la consistenza dell’organico dell’Ordine Giudiziario rispetto al carico di lavoro al netto di destituzioni, provvedimenti disciplinari, opportuni pre pensionamenti, trasferimenti e arresti.

    La Nemesi, infatti, ha iniziato il suo corso e sembra di assistere alla Sinfonia degli addii di Haydn dove gli orchestrali si allontanano uno a uno lasciando solo, alla fine, il primo violino.

  • In attesa di Giustizia: Avvocati

    Sapete da cosa si capisce se in un incidente stradale è stato investito un cane o un avvocato? Solo nel caso della bestiola, ci sono tracce di frenata. Così recita una vecchia freddura che, probabilmente, fa ridere solo la redazione del Fatto Quotidiano.

    Vero è che non tutti sono dei luminari del diritto, vero che faccendieri nella categoria ce ne sono, ed anche taluni mascalzoni patentati, ma quella dell’Avvocato (con la A maiuscola) è ancor più che una professione, è  un ministero cui adempiono in tutto il mondo uomini la cui nobiltà d’animo è fuori discussione.

    In questo tempo angoscioso in cui il cannone è tornato a tuonare nel cuore dell’Europa, proprio gli avvocati – quelli di Kiev – sono stati tra i primi a battersi per la libertà: questa volta quella della loro Patria arruolandosi volontari ed imbracciando un fucile invece che un codice.

    La Giunta dell’Unione delle Camere Penali, in nome dei penalisti italiani ha inteso far sentire la propria voce con un documento nel quale vi è una netta presa di posizione “al fianco delle donne e degli uomini della Repubblica dell’Ucraina, e del loro diritto alla vita, alla libertà, all’autodeterminazione”.

    Prosegue affermando che “chi come noi ha dedicato e dedica la propria vita professionale alla difesa dei diritti della persona, oggi non può che essere dalla parte di chi vede negati, con violenza feroce e cinica, i più elementari diritti umani: alla vita, alla integrità dei propri beni, alla libera autodeterminazione di un popolo…al tempo stesso, vogliamo esprimere la nostra fraterna solidarietà e la nostra incondizionata ammirazione nei confronti delle colleghe e dei colleghi russi in queste settimane impegnati, con ben immaginabile rischio personale, in difesa dei propri concittadini, destinatari di arresti ed incriminazioni iperboliche solo per aver manifestato il proprio dissenso da quella scellerata iniziativa del proprio Governo. Ancora una volta, laddove si invoca libertà, dovrà esserci un avvocato libero; dove si minaccia o si nega la libertà del difensore, si minaccia o si nega la libertà e la dignità di un intero popolo”.

    Vale, forse, la pena – per restare ancor più in argomento – ricordare una citazione tratta da un testo di letteratura russa: durante un processo ad ufficiali zaristi, il pubblico ministero apostrofò l’avvocato chiedendogli polemicamente “dove eravate voi avvocati mentre i contadini morivano uccisi dai soldati dello Zar?” e l’avvocato rispose: “eravamo a difendere quei contadini che voi perseguitavate in nome della legge dello Zar”.

    Ecco, c’è da essere orgogliosi di vestire la Toga di avvocato, di essere i difensori delle garanzie dei cittadini e della libertà. E quando qualcuno, con contorsioni concettuali degne del casuismo gesuitico del XVI secolo,  plaude al largo impiego dei ceppi perché inducono al pentimento, sono proprio gli avvocati a saper contrastare tali argomenti richiamandosi al pensiero di Pascal che li ha implacabilmente folgorati superandone la parvenza logica: ma si tratta, appunto di una parvenza, di illusioni verbali.

    Ma non andate a dirlo a Nicola Morra, che pure presiede la Commissione Parlamentare Antimafia, al Professore Conte (professore di che, poi? Forse di diritto e rovescio, istituzioni di uncinetto) e meno che mai al suo prediletto allievo, Alfonso Bonafede: non provate a spiegar loro che si tratta di trucchi epistemiologici rinvenibili nei trattati di Vasquez de la Cruz, Fernandez, Suarez o Squillanti perché penserebbero  che stiate citando calciatori dell’Uruguay campione del Mondo nel 1950.

    Viva la libertà.

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