Lo si aspettava da tempo, soprattutto per i temi all’ordine del giorno: immigrazione, unione bancaria, unione monetaria. Tutti argomenti che sono sul tavolo da diversi anni e che mai venivano affrontati per una mancanza d’accordo tra i due grandi dell’Unione europea, la Germania e la Francia. Emmanuel Macron, il presidente francese, aveva smosso la acque con l’ormai famoso discorso della Sorbona nel settembre del 2017. Discorso considerato da alcuni come destinato ad entrare nella pluridecennale storia dell’Unione europea alla pari della “Dichiarazione Schuman” del 1950 che diede l’avvio al processo di integrazione. Dopo anni di crisi e di stasi, Macron faceva ripartire il processo con proposte riformiste che avrebbero messo in moto i meccanismi comunitari bloccati dall’inazione dei governi. Era un discorso che criticava coloro che hanno fatto passare l’idea di un’Europa burocratica ed impotente ed attribuito la responsabilità delle scelte e delle decisioni impopolari – tutte decise dai governi in seno al Consiglio dell’Unione – ai tecnocrati non eletti di Bruxelles. “Dimenticando, così facendo, che Bruxelles – affermava Macron – siamo noi, nient’altro che noi”. Abbiamo apprezzato la denuncia del risorgere dei mostri del nazionalismo, dell’identitarismo, del protezionismo, del sovranismo, tutte idee perniciose che credevamo sconfitte per sempre e perciò sottovalutate. Ma sono idee risorte che possono persino prevalere e che hanno permesso a due partiti italiani, contrapposti tra l’altro ideologicamente, di vincere le elezioni e di installarsi al potere. Sembrava allora che il discorso fosse l’inizio di una nuova fase della storia dell’UE, ma l’indebolimento di Angela Merkel, avvenuto prima sul piano elettorale e poi nella ricostituzione della “Grande coalizione” con i socialdemocratici, essi pure sonoramente sconfitti alle elezioni del 24 settembre 2017, non ha permesso sino ad ora un accordo con Macron sulla prospettiva da lui tracciata alla Sorbona. Pare ora che su alcuni punti, riguardanti l’emigrazione e l’Unione bancaria, l’accordo con la Germania ci sia. In preparazione dell’avvenimento ci sono stati diversi incontri tra Macron e la Merkel e di entrambi con il presidente del Consiglio italiano Conte, dai quali sembravano emersi accordi sulle richieste italiane relative ad una gestione europea dell’accoglienza dei migranti. Questo tema era stato catapultato in primo piano dalla decisione del ministro degli Affari interni Salvini di vietare l’approdo ai porti italiani di una nave tedesca che trasportava 656 rifugiati gestiti dalle ONG, gesto che aveva indotto il presidente francese ed il portavoce del suo partito ad insultare il ministro italiano. La crisi che ne era scaturita nei rapporti con la Francia sembrava essersi risolta con la visita del presidente Conte al presidente Macron, il quale aveva dichiarato che i suoi giudizi sul comportamento del governo italiano non avevano assolutamente l’intenzione di colpire il ministro Salvini o chicchessia. Sembrava, dicevamo, stando a quanto riferivano i giornali sulle conclusioni dell’incontro. La Francia è d’accordo con l’Italia sulla futura gestione dell’accoglienza e riconosce che quest’ultima, da sola, non può sobbarcarsi il carico e l’onere dei migranti che scelgono le sue rive per trovare rifugio dalla miseria e dalle guerre. Sembrava, ripetiamo, perché ora, alla vigilia della riunione del Consiglio europeo, è trapelato il testo di un progetto francese che renderebbe responsabili della gestione i Paesi di prima accoglienza. L’Italia, quindi, essendo il primo dei Paesi di prima accoglienza, potrebbe vedersi rispedire i rifugiati che altri Paesi europei decidessero di respingere. Apriti cielo! Il governo italiano grida che non vuole essere turlupinato, che Macron e la Merkel avevano lasciato intendere la loro disponibilità per una gestione comune, non per la libertà di decisione in ordine al respingimento verso il Paese di prima accoglienza. Di fronte a questo eventuale voltafaccia il presidente Conte minaccia di non partecipare alla riunione del Consiglio europeo. “L’Italia non può essere presa in giro” e lascia intendere che potrebbe uscire anche dall’accordo di Schengen. Non si sa con quali risultati concreti, ma la minaccia è questa. Il Consiglio europeo dunque si preannuncia burrascoso, con o senza l’Italia presente. Ci domandiamo, tra l’altro, a cosa servirebbe la politica della sedia vuota. Nessuno, in assenza dell’interlocutore principale, potrebbe conoscere con esattezza la posizione italiana in ordine al problema all’ordine del giorno. La presenza invece permetterebbe di far conoscere al sistema dei media ed all’opinione pubblica europea, oltre che mondiale, che cosa propone in concreto l’Italia per contribuire a risolvere “l’invasione” dei migranti, con tutte le conseguenze che ne derivano, per la presenza massiccia di clandestini, per la sicurezza e per la legittima tutela dei valori culturali dei Paesi d’accoglienza. E sugli altri temi in agenda, quale sarebbe l’atteggiamento del governo italiano? Il fiscal compact rimane sempre tabù, o si avrà il coraggio politico di emendarlo? Lo stesso dicasi per il “bail-in”. Anche questi sono temi scottanti. L’assenza è sempre una presa di distanza che non giova ai nostri interessi, i quali vanno difesi tutti i giorni attraverso la funzione della diplomazia e dei comportamenti virtuosi. Se su questi temi non saranno prese decisioni definitive, anche le riforme auspicate da Macron alla Sorbona si allontaneranno nel tempo e la crisi europea contribuirà a rendere meno credibili le istituzioni dell’Unione, il che, in vista delle elezioni del 2019, non ci sembra una buona prospettiva.
Macron
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Il prossimo Consiglio europeo e il disaccordo italiano
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In Germania c’è il nuovo governo (e in Italia?). Ma l’Europa non si muove
Sono occorsi oltre cinque mesi per fare il nuovo governo in Germania, a seguito delle elezioni politiche del 24 settembre dello scorso anno. Angela Merkel è stata eletta cancelliere per la quarta volta e il nuovo governo, dopo il fallito tentativo con i liberali ed i Verdi, è stato fatto di nuovo con i socialisti dell’SPD, riesumando la cosiddetta “Grande Coalizione” che sembrava impossibile a farsi dopo le elezioni. E’ stato un percorso accidentato quello di questi cinque mesi, con morti e feriti metaforici, con cambiamenti d’orientamento quasi improvvisi, con il timore di portare sostegno indiretto ai populisti dell’ultradestra dell’AFD (Alternativa per la Germania), con il timore di sminuire il valore della stabilità e della governabilità, considerati sacri dalla tradizione politica tedesca dopo i disastri di Weimar. La prima vittima, reale e non metaforica, è stata il leader dell’SPD Martin Schulz, dimissionario dalla presidenza del partito e scartato poi per il ministero degli Esteri nel nuovo governo. Sembra scomparso d’un colpo dalla vita politica e i media hanno smesso di fare il suo nome. Anche Angela Merkel è rimasta ferita lei, per fortuna, metaforicamente. Al momento della sua elezione alla Cancelleria le sono mancati al Bundenstag 34 voti. “Franchi tiratori”, ha detto la stampa italiana, assuefatta a questa nascosta presenza nel nostro parlamento da decine di episodi simili durante la vita accidentata della prima Repubblica. Ma anche a governo installato, voci discordanti di alcuni ministri, come quello dell’Interno, si sono discostate dalle posizioni assunte dalla CDU nel precedente governo sulla questione dei migranti e dell’accordo di Schengen e sul delicato e sensibilissimo problema della presenza dell’Islam in Germania. L’Islam fa parte della Germania – aveva dichiarato la Merkel. Ora le si precisa: I musulmani fanno ormai parte della Germania, non l’Islam, che è incompatibile con i nostri valori e le nostre tradizioni cristiane. Un governo, quello nuovo con, al suo interno, posizioni diverse su temi sensibilissimi. Ciò non ha tuttavia impedito alla Merkel di incontrare il presidente francese Macron per una rapida scorsa dell’attualità mondiale e europea e per esprimere un certo timore sui risultati delle elezioni italiane che sembrano, appunto, sancire l’ingovernabilità e l’instabilità per la mancanza di una maggioranza e confermare timori in ordine ai rapporti con l’Unione europea per la vittoria elettorale di forze politiche euroscettiche o assolutamente contrarie all’Euro. Non è mancata tuttavia la dichiarazione comune sulla necessità di riformare l’Europa, ma non è stata presa nessuna decisione operativa immediata. Quindi un po’ di delusione è stata espressa da quanti da mesi attendevano la soluzione del problema governo in Germania per consentire all’Europa di fare passi avanti e di uscire dal guado. Senza la Germania – si diceva – non è possibile progredire verso una stagione di riforme. Il che rimane vero, com’è altrettanto vero che la Germania di oggi non è più quella coesa e determinata di ieri. La riduzione del peso della CDU-CSU e dell’SPD hanno lasciato segni d’incertezza, non nel senso che la Germania è meno europeista di una volta, ma nel senso che sarà più difficoltoso e irto di ostacoli il cammino che porta a decidere riforme, in accordo con la Francia e con chi ci sta, per rimettere sui binari dell’integrazione questa Unione europea un po’ stordita da quanto le è successo in questi ultimi due o tre anni.
E l’Italia? Sarà in grado di ritrovare stabilità e governabilità? E’ ormai certo che la legge elettorale usata per queste ultime elezioni è quanto di meno indicato per garantire questi due valori. Se avessero incaricato degli specialisti per redigere una legge così anomala, mai sarebbero riusciti a produrne una così perfetta nella sua negatività. Ma i politici allo sbando sono geni nel trovare soluzioni complicate ed impossibili. Le procedure comunque sono avviate, dopo la nomina dei presidenti di Camera e Senato. Attendiamo, fiduciosi a metà, che le procedure continuino, nella speranza che, se riusciranno a trovare una soluzione di governo, anche l’Italia non rinunci a dire pacatamente la sua, non contro, ma accanto a Francia e Germania per migliorare questa Europa un po’ infiacchita e senza immaginazione. Confidare in Macron e nella Merkel, dopo le loro dichiarazioni, ci sembra quasi naturale, ma non vorremmo che l’Italia rimanga soltanto al traino. I suoi interessi, in numerosi campi, coincidono con quelli franco- tedeschi, ma in altri ci distinguiamo per la nostra particolarità di produttori e di tessitori di rapporti che possono giovare all’intera comunità di destino. Siamo geograficamente a Sud dell’Europa, ma la nostra vocazione non è mediterranea ed africana soltanto, è continentale, tanto a livello culturale che a quello economico, anzi, per quest’ultimo la nostra visione è globale ed universale come quelle di Francia e Germania. Le quali, ci piace pensarlo anche se non è del tutto vero, non possono non attendere la formazione del nostro governo, prima di consultarlo e/o di lanciare nuove iniziative. Ma tutto ciò dipenderà anche dal governo che riusciremo ad imbastire.
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I paletti della Commissione per il prossimo bilancio della Ue annunciano tempesta nel confronto con gli Stati Ue
La Commissione europea propone un budget Ue a lungo termine più ampio per l’era post-Brexit rispetto a quello attuale, da concordare prima delle elezioni europee del maggio 2019, secondo quanto il commissario al bilancio Guenther Oettinger ha rivelato lo scorso 14 febbraio. Oettinger ha detto ai giornalisti che il prossimo budget settennale per il periodo 2021-2027 dovrebbe essere compreso tra l’1,1% e l’1,2% del reddito nazionale lordo dell’UE, rispetto all’1% per cento attuale e ha sottolineato che in media, su 100 euro guadagnati dai cittadini dell’Ue, 50 sono assorbiti dalle tasse ma solo un euro finisce a finanziare l’Unione europea.
La Commissione intende rimarcare ai leader dell’Unione che se vogliono che il bilancio si concentri su nuove priorità – come la protezione delle frontiere, l’immigrazione, la difesa e il mantenimento di una significativa politica agricola e di coesione che aiuti le regioni più povere – i singoli Stati dovranno fornire maggiori contributi (un’idea maturata a Bruxelles punta su una rimodulazione dell’Iva). Di contro, Paesi come l’Austria sono schierati sul fronte esattamente opposto: ridurre quanto gli Stati devono procacciarsi per sostenere l’Unione.
Al confronto con gli Stati, la Commissione si presenterà con alcune cifre: per rafforzare il controllo delle frontiere occorreranno risorse da 8 a 150 miliardi di euro per un periodo di 7 anni, a seconda del rafforzamento che si vorrà realizzare, mentre per le politiche comuni di agricoltura e coesione (che rappresentano il 70% dell’attuale bilancio) verrà chiesto di scegliere oculatamente chi merita di essere sostenuto, perché tale scelta comporta un risparmio di 95-124 miliardi di euro nell’attuale programma di 370 miliardi di euro (la scelta si preannuncia dura per i Paesi contributori netti più sviluppati, le cui regioni più ricche oggi beneficiano anch’esse del fondo).
L’Ue deve inoltre affrontare il buco annuale da 12 a 15 miliardi di euro nel futuro quadro finanziario pluriennale (QFP), conseguente all’uscita della Gran Bretagna. Oettinger ha escluso il taglio del budget della commissione, ricordando agli ascoltatori che, negli ultimi 7 anni, l’amministrazione dell’Ue è stata ridotta del 5%.
Infine, nella ricerca di una mediazione tra le posizioni tedesche e francesi, la Commissione prevede una “funzione di stabilizzazione” separata per i membri dell’area dell’euro dalle crisi (il presidente francese Emmanuel Macron ha ipotizzato l’anno scorso un bilancio separato della zona euro, ma la Germania non lo vuole) e sta esaminando come subordinare il sostegno finanziario agli Stati all’osservanza dei principi dello Stato di diritto da parte di quegli stessi Stati (le crescenti preoccupazioni per Ungheria, Polonia, Romania e Malta rendono questa idea piuttosto plausibile, ma la questione è politicamente molto delicata perché per l’adozione del bilancio occorre l’unanimità dei membri della Ue).
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Il prossimo Parlamento europeo avrà 46 seggi in meno, la Commissione europea invita Macron a scegliere in quale gruppo stare nel PE
Gli eurodeputati hanno deciso di ridurre il numero di 46 seggi per il periodo parlamentare euro 2019-2024 in seguito alla Brexit, con la ridistribuzione di altri 27 seggi, che appartenevano al Regno Unito, tra i 14 paesi dell’Ue attualmente sottorappresentati. Le nuove norme entreranno in vigore in tempo per le elezioni europee del 2019, ma dovranno essere approvate dal Consiglio europeo. Il numero massimo di eurodeputati consentito dai trattati dell’UE è 751
Gli eurodeputati hanno invece bocciato la relazione elaborata dalla Commissione per gli affari costituzionali per la parte in cui proponeva di istituire un collegio elettorale congiunto che includesse l’intera Ue per votare sulle liste elettorali pan-europee, che affiancasse i seggi assegnati a ciascun paese. La proposta è stata cancellata dopo che il Ppe ha contestato l’assenza di basi legali per simile lista. Emmanuel Macron, sostenitore della lista pan-europea, ha detto che continuerà a sostenere l’idea facendo presente che i capi di Stato europei devono ancora votare sulla questione, in vista delle elezioni del Parlamento europeo del maggio 2019. «La Francia continuerà a difendere questa idea in futuro perché contribuirebbe a rafforzare la democrazia europea creando dibattiti sulle sfide europee e non rigorosamente su questioni nazionali emesse durante le elezioni europee», ha fatto sapere tramite una nota.
Nel frattempo la Commissione europea ha invitato i partiti politici a dichiarare a quali gruppi europei al Parlamento europeo aderiranno dopo le elezioni del maggio 2019. «I partiti politici nazionali e regionali dovrebbero posizionarsi in modo chiaro e distinto sulle principali questioni in gioco nel dibattito europeo», ha affermato in un documento pubblicato il 14 febbraio, sollecitando anche a indicare il proprio candidato (a livello di raggruppamento politico europeo) per la presidenza della prossima Commissione europea («È importante nominare un candidato leader il più rapidamente possibile», ha detto il presidente della commissione Jean-Claude Juncker in conferenza stampa, presentando il rapporto).
L’invito a scegliere in quale raggruppamento europeo collocarsi è parso rivolto in particolare proprio a Macron, il cui partito, La Republique en Marche, non si è ancora affiliato a nessuno dei gruppi dell’assise continentale, né ha reso nota l’eventuale intenzione di dare vita a un nuovo gruppo.