Made in Italy

  • La Molisana ed il terrorismo mediatico

    La furia iconoclasta, espressione del peggiore e fetido talebanismo identificabile nel “politicamente corretto”, sta massacrando il pastificio italiano
    ‘La Molisana’ per avere inserito all’interno della descrizione delle proprie varietà di paste dei riferimenti al littorio ed al periodo coloniale. E’ evidente anche per un bimbo come questa strategia di comunicazione non rappresentasse alcuna intenzione di proporre una apologia di quei periodi, semplicemente si intendeva offrire un riferimento storico (la storicità rappresenta un plus nella comunicazione) per un pastificio che da sempre utilizza solo grano italiano e rappresenta l’eccellenza del made in Italy nel mondo.

    L’interpretazione malevola e figlia di una mentalità malata, che trova la sponda anche all’interno del parlamento in tale Boldrini Laura, ha spinto la direzione marketing del pastificio addirittura a chiedere scusa per il riferimento, quando avrebbe dovuto tranquillamente ribadire il valore del semplice riferimento storico senza nessun riferimento ideologico. Per esplicita responsabilità di questi integralisti vengono esposti ad un ulteriore fattore di rischio, oltre a quello rappresentato dalla concorrenza nel mercato globale, i 207 dipendenti del pastificio ‘La Molisana’, con le rispettive famiglie, a causa delle follie terroristiche mediatiche che il politicamente corretto ormai esprime. Proprio i ridicoli esponenti di questa nuova politica integralista individuano un soggetto sulla base della propria follia ideologia con l’obiettivo di serrare i ranghi dei fedeli ed ottusi seguaci contro un nuovo nemico che oggi è rappresentato da ‘la Molisana’ e domani magari dal Maggiolino Volkswagen voluto e fabbricato su suggerimento di Adolf Hitler.

    La pochezza culturale di questi esponenti rappresenta la metastasi culturale di persone e leader che non trovando argomenti degni di una elementare attenzione preferiscono combattere l’esistente con il fine cosi anche di omettere la propria incapacità di proporre valori e tematiche attuali e contemporanee.

    Mai come oggi “credere, obbedire, combattere” rappresenta il motto della nuova versione di questo pericoloso movimento politico “politicamente corretto” che si manifesta come una semplice e viscida espressione del vuoto culturale. Ormai il nuovo fascismo viene rappresentato da questo integralismo talebano espressione della furia iconoclasta dei periodi più bui dell’oscurantismo culturale.

  • Alibaba: la realtà senza tutele

    Una rassegna fieristica rappresenta l’espressione del livello raggiunto dalle imprese in un determinato settore: in altre parole rappresenta lo stato dell’arte di un determinato settore industriale o di servizi.

    All’interno di due settori trainanti per l’Italia come quello metalmeccanico e tessile-abbigliamento questi momenti fieristici presentano, attraverso la propria produzione, anche il livello di know-how (industriale e professionale) raggiunto dalle aziende ed in termini generali dal made in Italy.

    Prima dell’avvento del digitale, addirittura in occasione degli appuntamenti fieristici, in particolar modo se di prodotti intermedi, come per esempio dei tessuti o filati nel tessile abbigliamento, veniva applicata una sorta di tutela fisica dei prodotti esposti i quali potevano venire semplicemente apprezzati per la “mano” ma nulla più a fronte di tentativi di tagli e strappi finalizzati alla clonazione.

    Con l’avvento del telefonino e dell’economia digitale questi prodotti, espressione complessa di studi e ricerche notevoli, possono venire copiati in un modo istantaneo: in questo senso viene interpretato molto spesso il cartello “no photo” esposto da alcune aziende all’interno dei propri stand. In altre parole, la tutela proprio all’interno di un momento di incontro come una fiera non viene mai meno. Questo risulta fondamentale perché la semplice salvaguardia di un prodotto (finale, intermedio o strumentale non vi è alcuna differenza) rappresenta la tutela dell’intera filiera che contribuisce alla realizzazione, attraverso il proprio know how industriale e professionale, del prodotto esposto soprattutto in una logica di politica di sviluppo economico (https://www.ilpattosociale.it/attualita/made-in-italy-valore-economico-etico-e-politico/).

    Da sempre la sintesi dell’azione di una classe politica e dirigente dovrebbe risultare dal doppio obiettivo di una tutela del know-how espresso attraverso i prodotti dal complesso sistema industriale sempre all’interno di una politica di sviluppo. In questo contesto, allora, ecco come l’accordo siglato dal ministro Di Maio e dall’Ice con la piattaforma Alibaba (*), sulla base del quale verranno posti on-line i prodotti (strumentali ed intermedi) del Made in Italy in una piattaforma B2B, rappresenta un autogol clamoroso in assenza di una ferrea tutela del know-how e dei diritti di copyright espressi.

    Si ricorda in tal senso che solo nel settore calzaturiero italiano sono circa duemila (2.000) i marchi clonati da aziende cinesi la cui tutela è impossibile in considerazione della vastità e complessità del sistema giudiziario cinese. A conferma, infatti, solo Zegna, Kartel e Ferrero sono riuscite ad ottenere la tutela dei propri prodotti attraverso una sentenza dei Tribunali cinesi.

    In questo contesto porre on-line il nostro “stato dell’arte” come espressione del livello tecnologico, stilistico e della ricerca raggiunto in ogni settore dal Made in Italy senza contemporaneamente l’introduzione di una chiara e precisa normativa aggiuntiva a tutela di quanto viene esposto offre così la possibilità a tutte le industrie cinesi di copiare in modo ancora più agevole.

    Francamente non si riescono a capire le ragioni dell’entusiasmo di un tale ministro Di Maio incapace di comprendere le problematiche implicite di un accordo con la piattaforma cinese e che espone l’intero settore del made in Italy, privo di tutele aggiuntive, ad un vero e proprio rischio clonazione. E’ incredibile in questo contesto anche il silenzio di Confindustria. Quasi che la tutela delle produzioni dei propri associati risulti secondaria agli accordi politici con il governo.

    Non comprendere le conseguenze delle proprie scelte quando si assumono posizioni di governo non rappresenta più un difetto ma una colpa grave.

  • Ogni euro nella manifattura ne vale 2,1 per l’Italia

    L’industria manifatturiera giocherà un ruolo fondamentale per la crescita economica e consentirà all’Italia di superare la crisi provocata dalla pandemia. Per ogni euro investito nell’industria italiana se ne generano 2,1 per il sistema Paese. Dall’annuale Forum di Ambrosetti a Cernobbio, sul lago di Como, arriva l’immagine futura dell’industria italiana tra resilienza, rilancio dopo la crisi sanitaria globale e competitività di lungo periodo. A causa della crisi economica, rileva uno studio di The European House – Ambrosetti per Fondazione Fiera Milano, il 70% delle aziende italiane ha registrato un calo di fatturato rispetto allo scorso anno e, di questi, quasi la metà ritiene che il proprio fatturato subirà una flessione superiore al 25% nel 2020.  Lo studio evidenzia la necessità di riportare i temi dell’industria al centro del dibattito strategico e dell’agenda d’azione nazionale.

    Il Dna competitivo dell’industria italiana ha consentito al Paese di avere un ruolo chiave per lo sviluppo della manifattura europea e mondiale. A fine 2019, l’Italia rientrava nella top 5 mondiale dei Paesi con surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari; 922 prodotti italiani (su un totale di 5.206) rientravano nelle prime 3 posizioni al mondo per surplus commerciale. Permangono però alcune grandi questioni di fondo che “zavorrano” il potenziale dell’industria italiana: rallentamento della produttività, funzionamento poco efficace della pubblica amministrazione, ecosistema dell’innovazione ancora poco dinamico, diffusione di una cultura antindustriale e progressivo impoverimento delle relazioni tra l’industria e le parti sociali.

    La ripartenza del Paese non può prescindere da un “piano d’azione serio e articolato – emerge dalla ricerca – per colmare il divario di competitività ad attrattività tra l’Italia e i suoi competitor internazionali”.

  • 2020 da dimenticare, ma non per la produzione di vino

    È vincente l’Italia del vino nell’anno del Covid-19. Nonostante un calo produttivo (-1% rispetto allo scorso anno) e una congiuntura economica non proprio favorevole, lo Stivale è sul tetto del mondo per quantità mettendo a segno 47,2 milioni di ettolitri e in fila le storiche rivali del settore, con la Francia che registra una produzione di 45 milioni di ettolitri e la Spagna, 42 milioni. Buone, se non ottime le aspettative che emergono sotto il profilo della qualità dell’uva, considerata, per alcuni casi, eccellente. Preoccupa invece l’export, sulla base di quanto presentato da Ismea, Assoenologi e Unione italiana vino (Uiv) con il quadro di sintesi e le stime di vendemmia 2020. Secondo infatti gli analisti a una qualità alta e a una quantità leggermente inferiore alla media dell’ultimo quinquennio (-4%) fa da contraltare la particolare situazione economica internazionale, che registra una notevole riduzione degli scambi globali di vino (-11% a valore e -6% a volume nel primo semestre sul pari periodo 2019) e una contrazione, la prima dopo 20 anni di crescita, delle esportazioni del vino made in Italy (-4% nei primi 5 mesi), sebbene inferiore a quella dei principali competitor.

    L’argomento export e consumi entra dunque, gioco forza, nei tavoli di confronto istituzionali con la ministra per le Politiche agricole, alimentari e forestali Teresa Bellanova che, in occasione della presentazione del report Ismea Assoenologi e Uiv, ha annunciato la richiesta al ministro degli Esteri Luigi Di Maio di riaprire il Tavolo sul vino con la partecipazione dell’Istituto commercio estero (Ice) e Farnesina. Bellanova, ricordando che la sua attenzione nei confronti del settore non è in discussione, ha sottolineato che nel “Dl Agosto la misura destinata alla ristorazione del valore di 600 milioni a fondo perduto è ad una sola condizione, gli acquisti di prodotto made in Italy. Una misura importante, capace di generare – ha specificato – fatturato pari al quadruplo dell’importo destinato a ciascuna impresa, e che evidentemente avrà un effetto virtuoso proprio sul vino e proprio nei segmenti di eccellenza particolarmente colpiti dalla crisi”.

    Dal punto di vista di produzione a livello regionale il report economico conferma il Veneto prima regione con una crescita di un +1% e 11 milioni di ettolitri, seguita da Puglia (8,5), Emilia-Romagna e Abruzzo. Tra le principali aree produttive, in un quadro di raccolto di circa il 20% dell’uva al 3 settembre, segno più per Piemonte e Trentino-Alto Adige (+5%), Lombardia e Marche (+10%), Emilia-Romagna e Abruzzo (+7%). Calo della produzione invece in Toscana e Sicilia (-15%), Friuli-Venezia Giulia (-7%) e Puglia (-5%). Più in generale l’annata produttiva vede in leggero incremento il Nord (+3% sul 2019) mentre al Centro e al Sud le quantità si dovrebbero ridurre rispettivamente del 2 e del 7%. Positivi i giudizi degli operatori. “L’annata 2020 – afferma il presidente di Assoenologi Riccardo Cotarella – si presenta con delle uve di ottima qualità, sostenute da un andamento climatico sostanzialmente positivo, che non possono che darci interessanti aspettative per i vini provenienti da questa vendemmia”. “Il settore vitivinicolo italiano – dichiara Raffaele Borriello, direttore generale Ismea – ha dato prova di una straordinaria capacità di ripresa e resilienza riuscendo a reggere l’urto di questa crisi senza precedenti che si è abbattuta sul sistema produttivo globale”. “Il bilancio previsionale della vendemmia – commenta il presidente dell’Unione italiana vini, Ernesto Abbona – si annuncia positivo sia per la diffusa qualità delle uve, con diverse punte di eccellenza, sia per una quantità leggermente inferiore allo scorso anno che ci aiuterà a gestire il mercato in maniera equilibrata”.

  • Settore manifatturiero in ripresa a luglio

    Torna a crescere in Italia e nell’intera Eurozona l’attività delle imprese manifatturiere che a luglio segnalano un rimbalzo anche superiore alle attese. Il trend è confermato anche dall’Ufficio studi di Intesa Sanpaolo che indica a maggio il momento di svolta. Nel dettaglio secondo i dati diffusi da Ihs Markit, l’indice Pmi del settore manifatturiero italiano è aumentato a 51,9 a luglio da 47,5 di giugno segnando il primo miglioramento in quasi due anni. L’indice Pmi principale è stato il più alto da giugno 2018.”I dati di luglio in generale suggeriscono come il settore sia sulla giusta direzione verso la ripresa, con le previsioni sulla produzione che restano decisamente positive. Detto ciò, dopo uno shock così estremo, la strada verso la ripresa è ancora lunga ed è essenziale che le condizioni della domanda continuino a migliorare”, commenta Lewis Cooper, economista di Ihs Markit, indicando però che l’introduzione di nuove misure restrittive per contrastare la ‘seconda ondata’ della pandemia potrebbe ostacolare la ripresa. “Le aziende manifatturiere e le linee di produzione però – aggiunge Cooper – continuano ad operare al di sotto della loro capacità limitando le ore di lavoro e di conseguenza il livello occupazionale si è ridotto per il quattordicesimo mese consecutivo. Anche la domanda estera rimane debole, gli ordini esteri infatti continuano a diminuire ulteriormente”.In ripresa l’attività di Francia e Germania e nel complesso dell’intera Eurozona con l’indice Pmi europeo è attestato a 51,8 contro la stima flash di 51,1 e quella finale di giugno a 47,4. Ihs Markit segnala che “anche se modesto, il miglioramento generale delle condizioni operative segnalato dal Pmi è stato il primo registrato dall’indagine da febbraio 2019”. “I dati dei prossimi mesi saranno importantissimi nel valutare se la recente ripresa della domanda avrà un seguito, aiutando quindi le aziende a recuperare la produzione persa alleviando il bisogno di ulteriori tagli futuri”, commenta Chris Williamson, chief business economist di Ihs Markit. A confermare la ripresa anche una ricerca curata dalla Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo e da Prometeia che segnala che la fase di recupero è iniziata già a maggio mentre il punto di minimo del ciclo manifatturiero è stato toccato in aprile, quando produzione e fatturato hanno registrato una contrazione superiore al 40% nel confronto con i livelli di aprile 2019. A maggio è partito il rimbalzo, che risulta vivace rispetto al dato di aprile (+54,4% la produzione, +47% il fatturato) ma ancora parziale rispetto ai livelli di maggio dello scorso anno: nel complesso dei primi cinque mesi del 2020, il calo ammonta al 21,6% per la produzione e al 19.3% per il giro d’affari. “Nonostante la rimozione dei blocchi produttivi – sottolinea Intesa Sp – la domanda resta ancora debole, in Italia e sui mercati internazionali”. Anche i player dell’eurozona presentano un ciclo manifatturiero deteriorato, in particolare Francia (-19,9% il calo tendenziale della produzione gennaio-maggio) e Spagna (-17,6%), che hanno adottato misure simili di lockdown per contrastare l’emergenza sanitaria. Meno intensa la caduta della produzione in Germania (-15,9%), dove l’escalation dei contagi e le misure di limitazione sono state più contenute.

  • Un piano salva ulivi per affrontare le pesanti perdite del comparto a causa del coronavirus

    Crack di 2 miliardi di euro per l’olio di oliva made in Italy. Il coronavirus ha messo in ginocchio il comparto che, a causa della chiusura prolungata e della difficile ripartenza di bar, ristoranti, agriturismi, ha visto ridurre sensibilmente le vendite ed il consumo. A questo si aggiungono anche le difficoltà per le esportazioni e il mancato – o ridottissimo – movimento di turisti che da sempre hanno fatto dell’olio extravergine di oliva il prodotto più acquistato durante le vacanze. E’ quanto emerge da uno studio di Coldiretti presentato durante l’assemblea di Unaprol.

    A pesare sul comparto è stato soprattutto il blocco del canale della ristorazione che rappresenta uno sbocco importante per l’olio Made in Italy, sia in patria che all’estero. Un impatto devastante a livello economico, occupazionale e ambientale per una filiera che conta oltre 400 mila aziende agricole specializzate in Italia ma anche il maggior numero di oli extravergine a denominazione in Europa (43 Dop e 4 Igp), con un patrimonio di 250 milioni di piante e 533 varietà di olive, il più vasto tesoro di biodiversità del mondo.

    Come se non bastasse, le imprese olivicole italiane hanno visto ridurre del 44% i prezzi pagati ai produttori (per un dato simile bisogna risalire al 2014) a causa della circolazione sul mercato mondiale di abbondanti scorte di olio ‘vecchio’ spagnolo, spesso pronto a essere spacciato come italiano a causa della mancanza di trasparenza sul prodotto in commercio, nonostante dal primo luglio 2009 sia obbligatorio indicare per legge l’origine in etichetta come prevede il Regolamento comunitario n.182 del 6 marzo 2009. Sulle bottiglie di extravergine prodotto con olive straniere in vendita nei supermercati, inoltre, è molto difficile leggere le scritte “miscele di oli di oliva comunitari”, “miscele di oli di oliva non comunitari” o “miscele di oli di oliva comunitari e non comunitari” per le dimensioni assai minuscole e per il posizionamento per nulla in vista accentuando così la poca consapevolezza del consumatore.  Il danno economico e di immagine all’Uliveto italiano è molto grave e, se unito alla conseguenze della crisi provocata dal coronavirus, rischia di rovinare gli ottimi risultati, in termini di produzione, ottenuti durante l’ultima campagna olearia in cui sono stati prodotti 365 milioni di litri, con le regioni del Sud dove il raccolto è in qualche caso addirittura triplicato.

    Per rilanciare il settore Coldiretti ha elaborato un piano salva ulivi con un pacchetto di misure straordinarie a sostegno delle imprese agricole e frantoi che operano in filiera corta, quelle oggi maggiormente a rischio, con lo sblocco immediato delle risorse già stanziate per l’ammodernamento della filiera olivicola, anche attraverso la semplificazione delle procedure. Servono poi meccanismi di flessibilità per la certificazione delle produzioni di qualità a partire da Dop (Denominazione di origine protetta), Igp (Indicazione di origine protetta), biologiche e Sqnpi (Sistema di Qualità Nazionale di Produzione Integrata). Una misura importante per l’Uliveto Italia e per la salute dei cittadini l’acquisto di extravergine italiano al 100. Nell’immediato vanno poi assicurati sostegno a fondo perduto per le imprese produttrici di olio totalmente made in Italy per compensare la riduzione delle vendite e un aiuto integrativo per gli oli certificati Dop e Igp in giacenza, sfusi o confezionati non venduti alla data del Dpcm dell’11 marzo.

  • Dall’UE via libera all’etichettatura d’origine per i salumi Made in Italy

    L’Unione Europea ha finalmente dato il via libera all’etichetta Made in Italy su salami, mortadella, prosciutti e culatello per smascherare l’inganno della carne straniera spacciata per italiana. Ad annunciarlo la Coldiretti che ha fortemente sostenuto il provvedimento dopo la scadenza del cosiddetto termine di “stand still”, periodo di 90 giorni dalla notifica entro il quale la Commissione avrebbe potuto fare opposizione allo schema di decreto nazionale interministeriale (Politiche Agricole, Sviluppo Economico e Salute) che introduce l’indicazione obbligatoria della provenienza per le carni suine trasformate. In questo modo sarà accontentato quel 93% di cittadini che ritiene importante conoscere l’origine degli alimenti, come rileva l’indagine on line del Ministero delle Politiche agricole, e si darà linfa vitale ai 5mila allevamenti nazionali di maiali messi in ginocchio dalla pandemia e dalla concorrenza sleale. E, dopo tante battaglie, sarà salvo il prestigioso settore della norcineria che in Italia, dalla stalla alla distribuzione, vale 20 miliardi.

    Secondo un’analisi Coldiretti, dall’inizio dell’emergenza sanitaria le quotazioni dei maiali italiani si sono quasi dimezzate, scendendo a poco più di un euro al chilo, mettendo a rischio le imprese e il Made in Italy che vanta 12,5 milioni di prosciutti a denominazione di origine (Dop) Parma e San Daniele prodotti in Italia.

    A preoccupare è l’invasione di cosce dall’estero per una quantità media di 56 milioni di “pezzi” che ogni anno arrivano nel nostro Paese, soprattutto dal Nord Europa, per essere lavorate ed ottenere prosciutti da spacciare come Made in Italy. Si stima, infatti, che tre prosciutti su quattro venduti in Italia siano in realtà ottenuti da carni straniere senza che questo sia stato fino ad ora esplicitato in etichetta.

    Il decreto sui salumi, che dovrà essere presto pubblicato in Gazzetta Ufficiale per essere operativo, prevede che i produttori indichino in maniera leggibile sulle etichette le informazioni relative a: “Paese di nascita degli animali, “Paese di allevamento degli animali, “Paese di macellazione”. Quando la carne proviene da suini nati, allevati e macellati nello stesso paese, l’indicazione dell’origine può apparire nella forma: “Origine: (nome del paese)”. La dicitura “100% italiano” è utilizzabile dunque solo quando la carne è proveniente da suini nati, allevati, macellati e trasformati in Italia. Se la carne proviene da suini nati, allevati e macellati in uno o più Stati membri dell’Unione europea o da Paesi extra europei, l’indicazione dell’origine può apparire nella forma: “Origine: UE”, “Origine: extra UE”, “Origine: Ue e extra UE”.

     

  • Ostacolo sulla via del trasferimento in Olanda della sede di Campari

    Tegola recesso sul trasferimento della sede legale (non fiscale) di Campari in Olanda. L’operazione, per il momento, sembra allontanarsi visto che il diritto di recesso, concesso ai soci contrari all’operazione, è stato esercitato dal 4% del capitale, per un controvalore complessivo di 385 milioni di euro, valore che supera significativamente la soglia di 150 milioni prevista dalla società quale condizione sospensiva del trasferimento.

    Ora le azioni recedute, pari a circa 46 milioni, dovranno in primo luogo essere offerte (dal 22 maggio al 21 giugno) agli azionisti che non abbiano esercitato il proprio diritto di recesso. Ma, ha sottolineato Campari, “alla luce delle attuali condizioni di mercato, è realistico presumere che – anche tenendo conto dell’impegno dell’azionista di controllo, Lagfin, ad acquistare le azioni fino a un ammontare di 76,5 milioni di euro – il controvalore complessivo delle azioni recedute che è probabile restino non acquistate ecceda significativamente la soglia di 150 milioni prevista quale condizione sospensiva. Qualora si verificasse questa ipotesi, il cda potrà evitare il perfezionamento dell’operazione che genererebbe un costo ritenuto irragionevole per la società semplicemente in virtù del mancato avveramento della condizione sospensiva”. Per cui Campari, pur confermando il proprio impegno a completare l’operazione, ritiene che, vista l’onerosità, non sia oggi nell’interesse della società proseguire con il trasferimento. Il gruppo aveva fissato in 8,376 euro il prezzo di recesso, mentre il corso azionario da fine febbraio a oggi, complice l’emergenza Covid, ha sempre visto il titolo viaggiare ben sotto quella soglia, così molti soci hanno preferito passare all’incasso.

    La decisione di Campari di trasferire la sede legale nei Paesi Bassi era legata, tra l’altro, al potenziamento del sistema di voto maggiorato, già adottato dal gruppo, volto a valorizzare un azionariato con orizzonte d’investimento a lungo termine. Proprio per arginare gli spostamenti delle sedi legali delle società italiane all’estero, il Governo in fase di stesura del Dl Rilancio aveva introdotto il voto plurimo, dando la possibilità alle società quotate di derogare alla regola “one share one vote”, ma la sua introduzione è poi scomparsa nella versione finale del decreto. Già alcune società hanno fatto le valigie per traslocare in Olanda la propria sede legale e sfruttarne la maggiore flessibilità delle regole in materia di governance societaria e un diritto societario estremamente semplificato. Fca, Ferrari ed Exor hanno nei Paesi Bassi la loro sede legale. Sede legale ad Amsterdam è prevista anche per MFE, la holding che raggrupperà le attività italiane e spagnole del gruppo Mediaset, mentre lo è già per la Cementir di Caltagirone. In stand-by, per ora, Campari.

  • La Ue stoppa un tentativo cinese di clonare lo scooter Vespa

    La Ue stoppa un tentativo cinese di copiare stile della Vespa, icona italiana oltre che marchio aziendale. L’invalidity division dell’Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale (Euipo) ha infatti dichiarato nullo il design registrato a giugno 2019 da un soggetto cinese, usato per giustificare la produzione di scooter simili alla Vespa esposti al salone milanese delle due ruote, Eicma, nel novembre 2019, fatti rimuovere dall’ente Fiera su iniziativa di Piaggio. La registrazione è stata annullata, poiché “incapace di suscitare un’impressione generale differente rispetto al design registrato” della Vespa Primavera, evidenziando che ne rappresentava un illecito tentativo di riproduzione dei suoi fregi estetici.

    Vespa Primavera è protetta dal design registrato dal gruppo Piaggio nel 2013, dal marchio tridimensionale relativo allo scooter Vespa e dal diritto d’autore che tutela il valore artistico della forma di Vespa, icona di stile dal 1946. Non è però il primo prodotto che l’azienda cerca di tutelare con “una più ampia attività di lotta alla contraffazione che il gruppo intraprende da anni e che prevede il costante monitoraggio delle banche dati di design e marchi a livello internazionale, che ha portato tra l’altro a ottenere la cancellazione di oltre 50 marchi registrati da terzi negli ultimi due anni, a seguito di procedimenti di opposizione instaurati da Piaggio”, con sentenze anche fuori dall’Europa, come in Vietnam, e un’azione attiva ad esempio in India. Stavolta però il tentativo è andato oltre. Il contraffattore è arrivato per la prima volta a clonare il design, ovvero la forma, e cercando di farlo apparire legale, ovvero, come spiegano dalla Piaggio, “al tentativo di tutelare il prodotto clone, depositandone il design”. La tutela del design risulta del resto più complessa di quella dei brevetti, per cui viene effettuata a priori una ricognizione del pregresso. Per i design invece l’unica possibilità è a posteriori con azioni di invalidità, come quella con cui Piaggio ha ottenuto ragione.

  • I trend di crescita del Pil Netto

    Buona parte degli esperti di economia continua a proporre come unica soluzione al deficit di crescita economica precedente il covid 19, ed a maggior ragione adesso, la necessità di avviare una politica di investimenti pubblici in un articolato piano infrastrutturale. Ancora una volta si omette di affrontare le cause che avevano relegato il nostro Paese all’ultimo posto nella graduatoria in materia di crescita economica dal 2012 al 2019 compreso. Si spera, ancora una volta, nell’effetto benefico della spesa pubblica finalizzata all’ammodernamento infrastrutturale determinando un’inversione del pericoloso trend di decrescita economica.

    Nessuno nega come nel medio e lungo termine questi investimenti si possano tradurre in fattori di competitività importanti per le aziende che competono nel mercato globale, anche se va considerato l’aspetto gestionale, che diventa fondamentale nell’impatto economico di questa infrastruttura, della rete autostradale che è diventata un fattore fortemente anticompetitivo rispetto alla Germania ed alla Svizzera.

    Va ricordato, inoltre, come per esempio, ad esclusione del ponte di Genova, il codice degli appalti abbia di fatto reso impossibile e soprattutto farraginoso ogni procedura di approvazione di tali opere pubbliche.

    Questa crescita economica, ammesso che si manifesti come nelle volontà di chi la propone, rappresenta tuttavia un mercato “drogato di spesa pubblica” e quindi con scarsa crescita propria ed un rapporto costi/benefici imbarazzante.

    In altre parole non si tiene in alcuna considerazione quella quota di mercato o meglio quella quota di PIL Netto* che viene prodotta da soggetti privati con l’intenzione di soddisfare i bisogni o i servizi di altrettanti consumatori e cittadini. Pur sapendo benissimo che parlare di divisioni nette all’interno di un mercato globale risulta molto difficile tuttavia a livello tendenziale e soprattutto identificativo è netta la distanza tra i due mercati ma soprattutto tra i due PIL, il primo legato alla spesa pubblica rispetto al secondo. L’unico contatto di quest’ultimo con la pubblica amministrazione è relativo alla pressione fiscale crescente necessaria per finanziarie quel mercato drogato al quale si faceva riferimento prima.

    Risulta evidente quindi come questa seconda tipologia di mercato privo degli incentivi della spesa pubblica (salvo talvolta attraverso incentivi fiscali come per il settore dell’auto con la rottamazione) rappresenti sicuramente la migliore espressione di soggetti economici che con la  propria  professionalità partecipano ad una crescita del PIL. In questo contesto quindi i trend che si presentano per la loro crescita dopo la fine del lockdown possono suggerire degli scenari meno catastrofici ma soprattutto delle scelte strategiche importanti.

    I veri trend top.

    1. Innanzitutto l’analisi di quanto sta avvenendo negli Stati Uniti (https://www.bloomberg.com/news/articles/2020-05-02/america-s-retailers-return-to-lure-virus-weary-shoppers-to-malls). I consumatori statunitensi, infatti, successivamente all’annullamento del lockdown  abbandonano i centri commerciali in quanto troppo affollati e quindi esposti ad un maggiore rischio di contagio e tornano al retail tradizionale. Una tendenza molto interessante che dovrà essere tenuta nella debita considerazione da parte delle giunte comunali in quanto questa nuova attenzione alla distribuzione urbana permetterà di ridare nuova luce a tutti i quartieri delle città e così combattere il degrado che anche in alcuni centri storici regna sovrano. Da sempre gli Stati Uniti rappresentano ed anticipano le tendenze mondiali e quindi anche quelle relative al nostro mercato: un segnale certamente incoraggiante.
    2. Laconsapevolezza. Questa  deve coinvolgere ovviamente i soggetti imprenditoriali e quindi le aziende verso una nuova presa di coscienza e conoscenza uniti nel riconoscimento dei valori espressi e dei traguardi raggiunti dal sistema economico italiano anche in tema di sostenibilità. Da queste consapevolezze si deve ripartire per assicurare una nuova stagione di sviluppo (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/10/sostenibilita-efficienza-energetica-e-sistemi-industriali/)
    3. I modelli di organizzazione industriale già ampiamente anticipati all’estero e da società operanti anche sul territorio nazionale come modelli di filiera integrata. Sempre più spesso i modelli economici reali anticipano  la loro stessa definizione (https://www.ilpattosociale.it/2018/09/27/svizzera-e-toscana-i-modelli-di-sviluppo-richemont/).
    4. I valori. Anche in questo caso questi deve venire finalmente riconosciuto tanto dalla classe imprenditoriale quanto da quella politica il valore della tutela delle filiere da monte a valle del made in Italy.

    In questo contesto allora la riduzione della filiera e la tutela della proprietà intellettuale potrebbero rilanciare la nostra economia più del nuovo debito pubblico per realizzare infrastrutture la cui ricaduta è solo nel medio e lungo termine. Una consapevolezza che può essere addirittura supportata attraverso una politica di fiscalità di vantaggio in relazione al reshoring produttivo per riportare lavoro e professionalità  ora delocalizzate in paesi a basso costo di manodopera (https://www.ilpattosociale.it/attualita/made-in-italy-valore-economico-etico-e-politico/).

    Questi mercati composti di aziende produttive e della distribuzione assieme ai consumatori sono fattori fondamentali della crescita del Pil netto e contemporaneamente lontani dagli effetti della spesa pubblica.

    Paradossale poi se si considera invece come proprio questo settore di economia italiana sostenga con la propria capacità fiscale la tanto desiderata politica di investimenti infrastrutturali.

    Anche in questo difficile contesto post pandemia ancora una volta vengono abbandonate le 4° (calzature/tessile/abbigliamento/pelletteria; arredamento; agro-alimentare/vinicolo;  automazione/plastica/meccanica) dalle strategie proposte dal mondo economico e politico italiano in quanto considerate espressione di una Old Economy.

    Mai come ora il prodotto interno lordo che genera ricchezza “manu  propria” dovrebbe ricevere una maggiore tutela.

    (*): indica quota di Pil non direttamente espressione dell’utilizzo della spesa pubblica in investimenti o spesa corrente.

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