Made in Italy

  • La filiera T/A tra export oriented ed e-commerce: sterili strategie

    Il nostro sistema industriale ha dovuto sopportare il peso ed i costi delle improduttività della pubblica amministrazione ai quali molto spesso ha ovviato nel corso degli anni 80 e 90 con la svalutazione competitiva. Nell’ultimo ventennio, invece, amplificandosi tali diseconomie legate alla pubblica amministrazione, il tentativo di mantenere in equilibrio il sistema industriale viene ricercato anche attraverso la compressione dei costi di produzione molto spesso trasferendo parte della stessa all’estero (TPP), strategia supportata dalla mancanza di una articolata normativa che sia in grado di tutelare l’articolata filiera espressione del made in Italy, come una recente ricerca giornalistica ha ancora una volta dimostrato (https://made-to-measure-suits.bgfashion.net/article/16242/65/Why-the-Italian-fashion-factories-go-bankrupt). Tale strategia del sistema industriale, assolutamente legittima, tuttavia ha sempre posto in secondo piano l’attenzione per il mercato e la domanda e quindi la disponibilità economica degli stessi consumatori italiani, quest’ultimi di competenza della classe politica e dirigente. In particolar modo per il sistema tessile abbigliamento ci se è illusi che la crescita internazionale potesse mantenere in equilibrio il sistema complessivo. In altre parole, si sperava che la forte capacità delle nostre imprese export oriented potesse sopperire al continuo calo della domanda interna legata ad una disponibilità economica sempre minore combinata ad una compressione della propensione al consumo, espressione cristallina dell’incertezza politica del nostro paese, come dimostrano l’aumento in 10 anni dei depositi bancari del 75% (https://www.ilpattosociale.it/2018/12/03/la-crescita-dei-depositi-bancari-in-dieci-anni-75/).

    I terribili dati relativi al primo trimestre 2019 indicano come la domanda interna per quanto riguarda l’abbigliamento risulti in flessione del -8,1% e come oltre un terzo delle aziende intenda ricorrere alla cassa integrazione per far fronte a questa drastica diminuzione dei consumi. Questi dati dimostrano essenzialmente come fosse miope ed assolutamente illusoria la sola visione che individuasse nella salvezza del settore l’unica strategia export-oriented. Al tempo stesso risulta  altrettanto banale quanto superficiale individuare e giustificare la crisi del dettaglio indipendente solo ed esclusivamente legato all’e-commerce, quindi per questo quasi accettata  in quanto considerata espressione dell’innovazione tecnologica applicata alla distribuzione e perciò inevitabile secondo buona parte del mondo politico ed economico.

    La crisi politico-istituzionale che si trascina nel nostro Paese dal momento della crisi del 2008 lo sta portando al collasso economico. In questo senso infatti va considerato il paradosso del costante (e per questo indice di una sempre maggiore insicurezza) aumento dei  depositi bancari legato viceversa ad una diminuzione dei consumi e del denaro circolante. In più, in questo incredibile corto circuito economico nel quale la ricchezza prodotta non viene più messa in circolo e di conseguenza non diventa essa stessa veicolo di sviluppo esiste ancora chi pensa ad una ulteriore riduzione del contante per combattere l’evasione fiscale. Ulteriore conferma dell’assoluto distaccamento tra l’economia percepita da parte della classe politica e quella reale vissuta quotidianamente dagli operatori economici.

    La responsabilità di tale corto circuito economico nel quale la ricchezza prodotta non viene utilizzata per ricreare a sua volta nuova ricchezza a cascata (effetto leva) ma solo come strumento difensivo attraverso il deposito bancario va interamente imputata alla classe politica e dirigente.

    La prima dimostra giorno dopo giorno la propria incompetenza in ambito economico e politico giovandosi della irresponsabilità che il mandato elettorale regala. La seconda completamente lontana dal sentiment dei consumatori da non prevedere tale situazione e tanto meno pensare a soluzioni per invertire questo trend.

    Ancora una volta i dati economici dimostrano come la crisi del nostro Paese non sia economica ma soprattutto culturale.

     

  • Italia verso l’autarchia nella produzione di riso

    L’obbligo di indicare l’origine in etichetta farà aumentare le semine di riso Made in Italy per circa 3500 ettari nel 2019, secondo quanto emerge da una analisi della Coldiretti divulgata in occasione della presentazione dell’iniziativa “Abbiamo riso per una cosa seria” organizzata insieme alla Focsiv a favore dell’agricoltura familiare in Italia e nel mondo.

    A un anno dall’entrata in vigore, nel febbraio 2018, dell’obbligo di indicare la provenienza in etichetta, la coltivazione di riso in Italia riguarderà 220.670 ettari  (secondo l’ultimo sondaggio dell’Ente Risi a marzo), in controtendenza rispetto agli ultimi tre anni, che hanno portato a perdere quasi 20.000 ettari di superfici seminate a riso (già nel 2018 le importazioni di riso straniero sono crollate del 24%, scendendo a 180 milioni di chili, secondo un’analisi Coldiretti su dati Istat).

    In Europa l’Italia è il primo produttore di riso con 1,40 milioni di tonnellate su un territorio coltivato da circa 4mila aziende che copre il 50% dell’intera produzione Ue con una gamma varietale del tutto unica. Alla valorizzazione della produzione nazionale ha contributo anche lo stop all’invasione di riso asiatico nell’Ue, tramite i dazi imposti da metà gennaio 2019 sulle importazioni provenienti da Cambogia e Birmania/Myamar (quest’ultima ritenuta peraltro responsabile di gravi violazioni dei diritti umani nei confronti della popolazione Rohinya, una minoranza etnica di religione musulmana).

    Nel dettaglio sono previsti dazi solo sul riso Indica lavorato e semilavorato per un periodo non superiore a tre anni, con un valore scalare dell’importo da 175 euro a tonnellata nel 2019, a 150 euro a tonnellata nel 2020 fino a 125 euro a tonnellata nel 2021 ma è possibile una proroga ove sia giustificata da particolari circostanze. Secondo i primi dati aggiornati alla fine di marzo della Commissione Europea, i numeri dimostrano che la clausola di salvaguardia inizia a fare effetto. Le importazioni di semilavorato e lavorato da Cambogia e Myanmar nel mese di marzo in Europa sono calate di 24mila tonnellate (16.000 a fronte delle 40.000 registrate a febbraio e delle 54.000 tonnellate di gennaio).

    Si tratta di una esperienza che dimostra l’importanza della trasparenza dell’informazione ai consumatori per salvare il consumo di suolo in un Paese come l’Italia dove nel 2019 sono scomparsi 100mila ettari di terra coltivata, pari alla superficie di 150mila campi da calcio, a causa del consumo di suolo e della cementificazione ma anche del mancato riconoscimento del lavoro degli agricoltori e dei bassi prezzi pagati per i prodotti agricoli nazionali per la concorrenza sleale delle importazioni low cost di prodotti dall’estero.

  • Coldiretti spaventata dai dazi di Trump

    Coldiretti e Filiera Italia lamentano che i dazi (per 11miliardi di dollari) che gli Usa meditano di introdurre nei confronti dell’Unione Europea comprendono anche importanti prodotti agricoli e alimentari di interesse nazionale come i vini, tra i quali il Prosecco ed il Marsala, formaggi, ma anche l’olio di oliva, gli agrumi, l’uva, le marmellate, i succhi di frutta, l’acqua e i superalcolici tra gli alimentari e le bevande colpite.

    Nel mirino di Donald Trump in particolare è finita, secondo Coldiretti e Filiera Italia, circa la metà (50%) degli alimentari e delle bevande Made in Italy protagoniste di Tuttofood, la World Food Exibition alla Fiera di Milano dal 6 al 9 maggio.

    Gli Usa, ricorda lo studio di Filiera Italia e Coldiretti, sono il principale mercato di sbocco dei prodotti agroalimentari Made in Italy fuori dai confini comunitari. Se con un valore delle esportazioni di 1,5 miliardi di euro nel 2018 il vino è il prodotto Made in Italy più colpito, in pericolo ci sono anche altri prodotti simbolo dell’agroalimentare nazionale a partire dall’olio di oliva con le esportazioni che nel 2018 sono state pari a 436 milioni, ma ad essere minacciati sono anche i formaggi italiani che valgono 273 milioni. E’ il caso del Pecorino Romano con gli Usa che rappresentano circa i 2/3 del totale export mentre per Grana Padano e Parmigiano Reggiano gli Usa sono il secondo paese per importanza, dopo la Germania.

  • I brand del Made in Italy hanno aumentato il loro valore del 14%

    Il valore del marchio “Made in Italy” continua la sua crescita a doppia cifra anno dopo anno, grazie a una solida presenza sulla scena mondiale. È quanto emerge dalla classifica BrandZTM Top 30 Most Valuable Italian Brands 2019 stilata da WPP e Kantar, secondo cui i marchi italiani hanno aumentato il loro valore del 14% negli ultimi 12 mesi raggiungendo i 96,9 miliardi di dollari, nonostante il clima di incertezza economica e politica.

    Gucci si distingue come il marchio italiano di maggior valore e in maggiore crescita, raggiungendo i 24,4 miliardi di dollari di brand value, valore in crescita del 50% rispetto allo scorso anno. Tra i primi 5 marchi della classifica si trovano TIM, con 9,41 miliardi di dollari di valore complessivo, Enel (7,94 miliardi di dollari), Kinder (6,79 miliardi di dollari) e Ferrari (4,75 miliardi di dollari). Altri quattro brand presenti nella Top 30 hanno visto crescere il valore del loro brand di oltre il 20%. Si tratta di Ferrari (+36%, 4,75 miliardi di dollari), Fiat (+23% con 1,39 miliardi di dollari), Campari (+23% con 591 milioni di dollari) e Fendi (+22% con 1,88 miliardi di dollari). La novità della Top 30 italiana del 2019 è Fastweb (27° in classifica con un valore di 891 milioni di dollari), brand percepito dai consumatori come particolarmente innovativo nel settore delle telecomunicazioni grazie alle sue connessioni veloci e alle offerte trasparenti per i consumatori.

    L’analisi di Kantar ha confermato la presenza eccezionalmente forte dei marchi italiani sulla scena mondiale, con dieci brand nella Top 30 che presentano un’esposizione oltre confine superiore al 90% (come combinazione di fatturato, volumi venduti e profittabilità). Questo approccio internazionale nella costruzione del marchio consente di ampliare la base di clienti potenziali, di diversificare il rischio e di capitalizzare la crescita in mercati in rapido sviluppo. Il Brand Italia in questo senso è un ulteriore valore aggiunto anche grazie al patrimonio, all’autenticità e allo stile di vita associati a molti marchi.

    BrandZ ha inoltre evidenziato che i brand con esposizione oltre confine superiore al 50% hanno aumentato il valore del marchio di circa il 20% anno su anno, mentre il valore di quelli con una presenza all’estero inferiore è rimasto invariato.

    L’Innovazione in Italia è il principale fattore di crescita per il brand. I marchi percepiti come fortemente innovativi hanno aumentato il loro valore del 17% rispetto a una crescita dell’1% dei brand che lo sono meno. Rispetto ad altre classifiche europee di BrandZ, come quella francese, tedesca o inglese, i brand nella Top 30 italiana risultano particolarmente in salute con buoni riscontri in tema di brand purpose, innovazione, comunicazione brand experience e brand love.

  • Made in Italy: il valore ancora oggi sconosciuto

    Sembra incredibile come i medesimi errori strategici ed operativi commessi dalle compagini governative precedenti vengano riproposti in forme e contenuti analoghi dagli attuali responsabili governativi dello sviluppo economico. In altri termini, al di là delle convinzioni e degli schieramenti politici, la storia dei precedenti fallimenti risulta passata inutilmente invece di offrire un termine di paragone per le elaborazioni delle strategie future.

    Una delle più ridicole iniziative dei passati  governi trovò la propria massima espressione nella ideazione e proposta del terribile logo “Italian Taste”, attribuibile interamente alla “cooperazione intellettuale” degli allora ministri Calenda e Martina (https://www.ilpattosociale.it/2018/05/10/made-in-italy-lennesima-sconfitta/). Una iniziativa frutto della incompetenza dei ministri pari solo alla proposta di legge dell’ex ministro Fedeli definita “Italian Quality”.

    In altre parole, ignorando bellamente ogni riferimento reale al mercato, e quindi con esso ignorate le aspettative dei consumatori globali, venne creato un marchio che secondo le univoche opinioni dei responsabili dei Brand mondiali al fine di ottenere un minimo di visibilità avrebbe richiesto un ulteriore investimento di circa quattro miliardi. Per fortuna queste sciagurate iniziative (come la legge proposta dal ministro Fedeli e dal parlamentare del PD Mucchetti) finirono nell’oblio risparmiando ai loro ideatori la responsabilità di spiegarne il ridicolo fallimento.

    Viceversa, ora il governo in carica, sempre nell’illusione di favorire le esportazioni dei prodotti italiani, abbraccia l’idea di creare un nuovo “logo” da affiancare al già noto “Made in Italy” con l’illusione di creare valore e fornire impulso alle nostre esportazioni. Francamente sorge il dubbio se questi illuminati esponenti governativi attuali, come quelli dei precedenti governi, abbiano mai avuto occasione di relazionarsi con i compratori esteri (i buyer per intenderci) e se magari con loro  abbiano mai scambiato delle opinioni relative ai plus che il consumatore estero riconosce ai nostri prodotti ed assolutamente identificabile con uno dei più riconosciuti Brand del mondo: Made in Italy.

    Nel caso alla compagine governativa risultasse ignoto, innanzitutto i compratori esteri delle eccellenze italiane definite per comodità ‘delle 4 A’ (1.Tessile-abbigliamento-calzaturiero-pelletteria, 2. Agro alimentare 3. Arredamento 4. Automazione-meccanica-gomma-plastica) richiedono, ma al tempo stesso pretendono, che i nostri prodotti risultino nella loro evoluzione produttiva (la fiera produttiva da monte a valle per intenderci) l’espressione delle diverse professionalità e know-how industriali che contribuiscono alla realizzazione del prodotto finale. In altre parole i prodotti diventano espressione della cultura contemporanea italiana ed espressione del tanto apprezzato Italian way of life.        

    Inoltre gli stessi operatori internazionali stigmatizzano fortemente qualsiasi nuova iniziativa che vada a sovrapporsi o peggio a sporcare quello che loro ritengono il principale Brand di comunicazione complessa sul mercato: Made in Italy. 

    Per cui, tornando alle ridicole iniziative di governi precedenti e che ora vengono riproposte dalle medesime professionalità al governo possiamo solo constatare che la storia non insegna niente e soprattutto non esiste nessuna capacità di apprendere dalla stessa.

    L’Italia è l’unico paese che rappresenta e soprattutto viene rappresentato nelle sue eccellenze attraverso un unico Brand come il Made in Italy. Rappresenterebbe una scelta suicida e frutto di una pericolosa superficialità affiancare a questo Brand di livello mondiale, alla cui forza hanno contribuito le innumerevoli imprese e professionalità che partecipano alle diverse filiere produttive,  altre iniziative espressioni di mediocri competenze ma soprattutto di una mancanza assoluta di conoscenza del mercato attuale e della sue prossime evoluzioni. Un mercato globale nel quale la comunicazione compulsiva alla quale contribuiscono anche i social media determina non poco a disorientare il consumatore e nello specifico l’introduzione di un nuovo logo in affiancamento al Made in Italy risulterebbe un ulteriore elemento di incertezza e confusione.

    La storicità di un brand come il Made in Italy rappresenta invece un valore economico e commerciale per gli operatori economici come conseguenza del valore di sicurezza che esercita per i consumatori. Emerge evidente a chiunque abbia contribuito alla elaborazione delle diverse strategie per la certificazione normativa (di competenza europea) e consolidamento della filiera a monte del made in Italy come le attuali soluzioni alternative proposte dal governo in carica, come dai precedenti, risultino espressione di una incompetenza imbarazzante. Ennesima conferma di un mix pericoloso tra mancanza di riferimenti con il mercato e supponenza dal quale scaturiscono  iniziative legislative che danneggiano la reputazione e la credibilità di un dei principali brand quale è il Made in Italy, il cui valore rimane a tutt’oggi per lo più sconosciuto nelle proprie potenzialità in un mercato globale.

  • Agricoltura: l’Italia cede il passo all’innovazione

    L’Istat ha recentemente diffuso per la prima volta una stima preliminare dell’andamento del settore agricolo nel suo insieme per l’anno appena trascorso. Nel 2018 la produzione dell’agricoltura è aumentata dell’1,5% in volume. Una crescita buona si è registrata per alcune produzioni da coltivazioni arboree, in particolare vino (+14,3%) e frutta (+1,4%). Tra le coltivazioni erbacee gli aumenti più rilevanti risultano quelli delle piante industriali (+7,0%), delle coltivazioni cerealicole (+3,5%) e degli ortaggi e i prodotti orticoli (+2,1%).

    Nonostante questi dati incoraggianti, l’Italia rimane ancora arretrata per quanto riguarda l’innovazione e l’uso di nuove tecnologie nell’agricoltura. In Europa, nell’innovazione agricola, la leadership è dei Paesi Bassi, seguiti da Belgio, Germania e Danimarca. L’Italia si colloca soltanto a metà classifica. Questo è il quadro sull’innovazione nel settore agroalimentare italiano secondo l’Agrifood Innovation Index, che Nomisma ha presentato a Roma in un incontro organizzato dall’Associazione Luca Coscioni e Science for Democracy.

    I risultati dello studio sono riassunti in un indice, appunto, monitorabile nel tempo e che misura (da 0 a 100) il grado di innovazione del settore primario italiano sulla base dei dati di performance produttiva e ambientale delle imprese agricole. L’indice, che mette a sistema indicatori di produttività delle colture e degli allevamenti e indicatori di sostenibilità ambientale, assegna il primo posto all’Olanda con 88 punti, seguono il Belgio e la Germania con 62, la Danimarca con 56 e, quindi, l’Italia con i suoi 49 punti.

    Secondo Nomisma, a penalizzare l’agricoltura italiana sono diversi fattori: solo il 15% dei nostri agricoltori ha meno di 44 anni e solo il 6% ha una formazione agraria completa. Con un valore di produzione di circa 43mila euro, inoltre, le imprese agricole italiane hanno una dimensione economica tre-quattro volte inferiore rispetto a quelle in Regno Unito, Francia o Germania. Siamo anche agli ultimi posti per investimenti in ricerca e sviluppo: spendiamo solo lo 0,52% del Pil, rispetto a una media Ue dello 0,72%. La spesa pubblica in Italia per l’R&D in agricoltura è di appena 4,5 euro a persona, rispetto ai 20,2 euro dell’Irlanda.

    “All’Italia non basta essere nella media europea per tasso di innovazione agricola. La patria della Dieta Mediterranea, patrimonio mondiale Unesco, può diventare leader nel progresso agroalimentare in Europa, ma deve finanziare di più Ricerca & Sviluppo su tutta la filiera”. Così Deborah Piovan, portavoce di Cibo per la mente, il Manifesto per l’innovazione nel settore primario che riunisce 14 associazioni dell’agroalimentare italiano, ha commentato il risultato dell’Agrifood Innovation Index di Nomisma. “Innovazione, investimenti, impresa, infrastrutture, internet, istruzione, informazione: l’Italia deve puntare su queste ‘7 I’ per colmare il gap agricolo con Olanda, Germania e Francia. Ripartiamo dall’Indice di misurazione di Nomisma e speriamo di registrare i primi progressi già dall’anno prossimo”, ha aggiunto Piovan.

    L’import in Italia di mais, una delle due filiere considerate da Nomisma, è salito nel periodo 2006-16 del 71%, con un parallelo -68% di export. Nello stesso arco di tempo il valore della produzione è diminuito del -23,1%.

    L’autoapprovvigionamento, che alimenta la filiera d’eccellenza dei prodotti DOC, DOP e IGP, è sceso dall’80% al 60%. Intanto, sono aumentati il valore della produzione per ettaro (+23,2%) e la resa (+13,5%), mentre le superfici sono scese da oltre 1,1 milioni di ettari a 660mila ettari (e 614mila nel 2018, dato Istat).

    “Produrre di più e meglio da meno è il messaggio chiave di Cibo per la mente – ha concluso Deborah Piovan, “ma è necessario farlo in base a una scelta consapevole, condivisa e coordinata da parte di filiere, politica e istituzioni, informando in maniera adeguata e trasparente i consumatori sul valore dell’innovazione in agricoltura”.

  • In Italia obbligatoria l’etichettatura trasparente per gli alimenti. Ma in Europa molto ancora si deve fare

    Dopo 15 anni sembra essersi concluso il contenzioso tra  Italia ed Unione europea in tema di etichettatura trasparente con il decreto legge Semplificazioni nel quale vi è l’obbligo di indicare in etichetta l’origine di tutti gli alimenti. Questo obbligo raggiunge due obiettivi prioritari: difendere, valorizzare la produzione  nazionale e consentire al consumatore scelte consapevoli ed informate, specie in un periodo nel quale si spacciano per Made in Italy alimenti che non hanno nulla a che vedere con la produzione italiana.

    Al termine dell’iter di approvazione tutti i prodotti alimentari avranno obbligatoriamente un’etichetta con il luogo di provenienza geografica, questa nuova norma rappresenterà un grande passo avanti anche nella prevenzione delle frodi, nella tutela della proprietà industriale e nel contrasto della concorrenza sleale. Finalmente si conoscerà, ad esempio, la provenienza della frutta  utilizzata per succhi di frutta, marmellate etc, dei legumi in scatola, della carne utilizzata per insaccati e prosciutti. La misura tiene anche conto che in questo modo possa diminuire il numero degli allarmi dovuti agli scandali alimentari nell’Unione europea  che nel 2018 sono stati circa 20 al giorno.

    L’obbligo dell’etichettatura d’origine dovrebbe essere esteso a tutti i prodotti alimentari. Non possiamo dimenticare che l’etichettatura trasparente sarebbe  necessaria per  tutti i manufatti e se questo importante traguardo non si è ancora realizzato è per l’opposizione della Germania e dei paesi del nord Europa che, ancora nella scorsa legislatura europea, nonostante il voto favorevole del Parlamento, si erano opposti a discutere in Consiglio il regolamento proposto dalla Commissione europea e, con migliorative modifiche, approvato dal Parlamento. L’Italia resta all’avanguardia per norme di trasparenza alimentare ma ancora resta molto da fare anche per punire chi ancora produce ed etichetta in modo scorretto o falso. In Europa la strada alla trasparenza è iniziata dopo la crisi della mucca pazza, nel 2002, e non è ancora finito il percorso di tutela dei consumatori che, secondo la loro organizzazione europea, Beuc, per più del 70% vogliono conoscere cosa mangiano.

  • Il valore della filiera by Ducati

    All’interno di una azienda come si può calcolare il valore di una filiera intesa nella sua definizione più ampia, cioè dalla ideazione fino alla realizzazione del prodotto complesso finito? E abbastanza complesso individuare delle figure professionali all’interno di una struttura aziendale che abbiano le capacità di valutare e comprendere la percezione del valore che una filiera riesce a trasmettere accrescendo il valore reale ma contemporaneamente quello percepito della sintesi di prodotto e brand nella complessa strategia di comunicazione. Contemporaneamente risulta anche difficile trovare i fattori di calcolo che possano indicare il valore economico “aggiunto” di ogni passaggio della filiera. Tuttavia, all’interno di un prodotto complesso, l’interruzione della catena articolata che compone la filiera provoca un danno economicamente rilevante, indipendentemente  dal valore del bene “esternalizzato” rispetto alla filiera.

    La scelta, a mio avviso scellerata, da parte della direzione della Ducati di utilizzare per la propria Scrambler, modello iconico degli anni ’70, dei telai prodotti in Vietnam rappresenta l’apogeo della dimostrazione della incapacità di comprendere il valore della filiera intera. Gli aspetti di una simile incomprensione risultano sostanzialmente due.

    La prima sicuramente è legata al sentiment che il marchio Ducati suscita per i cultori e centauri come espressione non solo italiana ma soprattutto della meccanica emiliana che ruota attorno all’asse di Borgo Panigale. In altre parole, Ducati rappresenta la specificità unica nella sua espressione motoristica, cioè non solo della tecnologia italiana ma di una microzona che partecipa alla filiera complessa della moto e che ruota attorno all’Emilia, patria delle passioni motoristiche.

    La seconda può risultare addirittura offensiva nei confronti dell’azienda che ha visto perdere la fornitura dei telai e degli operai che ci lavorano (la Verlicchi) relativa alla motivazione sostanzialmente economica che ha spinto Ducati a scegliere un fornitore vietnamita.

    Al di là della difficoltà di mantenere collegamenti continui relativi a possibili aggiornamenti che non possono sempre venire sostituiti con rapporti digitali ma sempre più spesso attraverso riunioni ed aggiornamenti, la motivazione che ha spinto Ducati a scegliere un fornitore esterno rispetto a quello italiano è sostanzialmente rappresentata da un risparmio del 10% per singolo telaio.

    Rispetto, infatti, ai settanta (70) euro che l’azienda bolognese richiedeva per la produzione del telaio della Scrambler si è preferito un fornitore vietnamita che ne richiedeva sessantatré (63). Un risparmio netto di sette (7) per  telaio che per  una produzione di 10.000 arriva a settantamila (70.000) euro: il prezzo finale di poco meno di sette moto.

    Anche se probabilmente questa scelta ha reso un migliore equilibrio finanziario (nel breve tempo) rispetto al precedente è evidente che il danno d’immagine di contenuti e di sostanza per il brand Ducati di Borgo Panigale risulti incalcolabile in relazione proprio alla tipicità del prodotto che non è solo un prodotto espressione del made in Italy ma viene anche percepito come l’espressione di una area che ruota attorno a Borgo Panigale, della cui sintesi la moto ne risulta espressione.

    Quindi, a fronte di un vantaggio finanziario immediato espresso da un  risparmio del 10% sul singolo componente, con  questa strategia si dimostra sostanzialmente la mancanza di cultura che impedisce di comprendere il valore economico per l’azienda bolognese attribuito alla interruzione della filiera nella sua complessità ed articolazione.

    Soprattutto, una volta ancora, viene dimostrato come non si riesca a comprendere che un prodotto sempre più dai consumatori venga percepito come espressione di un processo culturale, cioè la sintesi felice del know-how professionale ed  industriale il cui valore percepito cresca anche con l’apporto del brand, a suo volta espressione di immagine e storia.

    Snaturarne  la natura attraverso minime sinergie di costi rappresenta una follia anche per le ricadute economiche che sinceramente non si pensava possibile a Borgo Panigale.

  • Made in Italy sotto attacco

    No a bollini allarmistici o a tasse per dissuadere il consumo di alimenti come olio extravergine, Parmigiano Reggiano o prosciutto di Parma che, dal Sudamerica all’Europa, rischiano di essere ingiustamente diffamati da sistemi di etichettatura ingannevoli e politiche fiscali che sostengono modelli alimentari sbagliati. E’ quanto afferma la Coldiretti in riferimento al progetto di risoluzione che “esorta gli Stati Membri a adottare politiche fiscali e regolatorie” che dissuadano dal consumo di cibi insalubri che è stato presentato a Ginevra dai sette Paesi della “Foreign Policy and Global Health (Fpgh)” che verrà discusso dall’Assemblea Generale Onu a New York entro l’anno. Una iniziativa promossa da Brasile, Francia, Indonesia, Norvegia, Senegal, Sudafrica e Thailandia che contraddice il documento approvato il 27 settembre scorso al Terzo Forum di alto livello delle Nazioni Uniti sulle malattie non trasmissibili in cui – sottolinea la Coldiretti – grazie al pressing esercitato dall’Italia non sono stati menzionati strumenti dissuasivi su prodotti alimentari e bevande. Il nuovo attacco punta a colpire gli alimenti che contengono zuccheri, grassi e sale chiedendo di predisporre apposite etichette nutrizionali e di riformulare le ricette, sulla base di un modello di alimentazione artificiale ispirato dalle multinazionali che mette di fatto in pericolo – denuncia la Coldiretti – il futuro prodotti Made in Italy dalle tradizioni plurisecolari trasmesse da generazioni di agricoltori che si sono impegnati per mantenere le caratteristiche inalterate nel tempo.
    Un patrimonio che è alla base della dieta mediterranea che ha consentito all’Italia di conquistare con ben il 7% della popolazione, il primato della percentuale più alta di ultraottantenni in Europa davanti a Grecia e Spagna ma anche una speranza di vita che è tra le più alte a livello mondiale ed è pari a 80,6 per gli uomini e a 85 per le donne. Un ruolo importante per la salute che – continua la Coldiretti – è stato riconosciuto anche con l’iscrizione della dieta mediterranea nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco il 16 novembre 2010.
    Un corretto regime alimentare – sostiene la Coldiretti – si fonda infatti sull’equilibrio nutrizionale tra i diversi cibi consumati e non va ricercato sullo specifico prodotto. Non esistono cibi sani o insalubri, ma solo diete più o meno sane.
    Il rischio – precisa la Coldiretti – è che vengano promossi in tutto il mondo sistemi di informazione visiva come quello adottato in Cile dove le si è già iniziato a marchiare con il bollino nero, sconsigliandone di fatto l’acquisto, prodotti come il Parmigiano, il Gorgonzola, il prosciutto e, addirittura, gli gnocchi e le esportazioni del made in Italy agroalimentare sono crollate del 12% nei primi sette mesi del 2018 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. O come il caso dell’etichetta a semaforo adottata in Gran Bretagna che finiscono per escludere nella dieta alimenti sani e naturali che da secoli sono presenti sulle tavole per favorire prodotti artificiali di cui in alcuni casi non è nota neanche la ricetta. Vengono infatti promossi con il semaforo verde cibi spazzatura con edulcoranti al posto dello zucchero e bocciati elisir di lunga vita come l’olio extravergine di oliva considerato il simbolo della dieta mediterranea, ma anche i principali formaggi e salumi italiani. Ad essere discriminati con quasi l’85% in valore del Made in Italy a denominazione di origine (Dop) che la l’Unione Europea e le stesse istituzioni internazionali dovrebbero invece tutelare. L’etichetta a semaforo inglese invece indica con i bollini rosso, giallo o verde il contenuto di nutrienti critici per la salute come grassi, sali e zuccheri, ma non basandosi sulle quantità effettivamente consumate, bensì solo sulla generica presenza di un certo tipo di sostanze, porta a conclusioni fuorvianti come il ‘Nutri-score’ francese che a differenza classifica gli alimenti con cinque colori secondo il loro contenuto di ingredienti considerati “cattivi” (grassi, zuccheri) ‘ma anche buoni” (fibre, frutta, verdura).
    Il bisogno di informazioni del consumatore sui contenuti nutrizionali – sostiene la Coldiretti – deve essere soddisfatto nella maniera più completa e dettagliata, ma anche con chiarezza, a partire dalla necessità di usare segnali univoci e inequivocabili per certificare le informazioni più rilevanti per i cittadini mentre sistemi troppo semplificati cercano di condizionare in modo ingannevole la scelta del consumatore. Bisogna dunque evitare il rischio di alimentare una pericolosa deriva internazionale che può portare alla tassazione di prodotti particolarmente ricchi in sale, zucchero e grassi ma anche all’apposizioni di allarmi, avvertenze o addirittura immagini shock sulle confezioni per scoraggiarne i consumi. Un pericolo rilevante per il Made in Italy agroalimentare che nel 2018 – conclude la Coldiretti – ha messo a segno un nuovo record delle esportazioni con un +3% nei primi sei mesi dopo il valore di 41,03 miliardi del 2017.

    Fonte: Panorámica – Análisis e Investigación sobre América Latina y la Unión Europea

  • L’arredo-design italiano cerca la sua dimensione sui mercati

    Il settore dell’arredamento e del design in Italia è sempre più florido. A dimostrarlo non solo i numeri sempre positivi di questi anni ma soprattutto le fiere e gli eventi, la Milano Design week su tutte, che riscuotono sempre maggior successo.

    Nonostante questi dati, il settore è sempre alla ricerca della sua dimensione. La chimera che in molti stanno inseguendo è la creazione di un gruppo da un miliardo di euro di fatturato. Se ne parla da tempo, ma solo negli ultimi tre anni – tra fusioni e acquisizioni, l’interventismo dei fondi, l’ampliamento e il consolidamento di vecchie operazioni – le imprese italiane dell’arredo-design intravedono la possibilità di creare holding in grado di reggere la sfida dei mercati globali. Da Design Holding a Poltrona Frau Group, da iGuzzini a Calligaris, solo per citare i più recenti protagonisti di operazioni societarie così complesse.

    Recentemente due casi, diversi tra loro, ma emblematici della vivacità del settore: iGuzzini passata sotto il controllo di Fagerhult e la padovana Saba Italia acquisita da Italian Design Brands (Idb).

    Nel caso della marchigiana iGuzzini – 232 milioni di euro di ricavi, in rampa di lancio per la quotazione in Borsa, ma acquisita a sorpresa dal gruppo di Stoccolma Fagerhult, 500 milioni di euro di fatturato – nascerà un colosso dell’illuminotecnica a controllo svedese.

    Un caso simile a quello di Poltrona Frau Group che, con il controllo del fondo Charme (famiglia Montezemolo), era il perno per la creazione di una holding italiana dell’arredo-design di alto livello (con i marchi Poltrona Frau, Cassina e Cappellini), sul modello di quanto creato nella moda dai francesi Lvmh e Kering. Ma nel 2014, nel pieno del processo, il gruppo è stato acquisito dall’americana Haworth, colosso mondiale del settore di mobili per l’ufficio, con un fatturato di 1,8 miliardi di dollari e molte idee di sviluppo.

    Nel caso Idb-Saba Italia, invece, continua il progetto di aggregazione di brand made in Italy di alto standing: il polo nato tre anni fa e arrivato ora oltre i 100 milioni di euro di fatturato aggregato comprendeva già Gervasoni, Meridiani, Cenacchi International e Davide Groppi. Perché anche le conglomerate a controllo italiano hanno accelerato le operazioni. A settembre c’è stata la creazione di Design Holding, il nuovo soggetto partecipato dai gruppi finanziari Investindustrial (che ha già in portafogli B&B Italia, Flos e la danese Louis Poulsen) e Carlyle, che ha per obiettivo la crescita per acquisizioni internazionali e la quotazione a Piazza Affari entro tre anni (si veda l’intervista accanto).

    Guarda alla Borsa anche l’azienda friulana Calligaris, 140 milioni di fatturato, che a inizio agosto ha raggiunto un accordo con il fondo Alpha per la cessione, da parte della famiglia, dell’80% delle quote dell’azienda che controlla anche Ditre Italia.

    “Sono operazioni sempre più frequenti – dice Claudio Feltrin, presidente di Assarredo e dell’azienda di famiglia, la veneta Arper – motivate dalla necessità di restare competitivi in uno scenario globalizzato. Fino a dieci anni fa un’impresa con 20 milioni di euro di fatturato poteva vivere tranquillamente, ma oggi è necessario crescere e per farlo occorrono grandi risorse”. In un settore dominato dalle imprese familiari, servono professionalità manageriali che spesso possono arrivare soltanto dall’esterno. Anche per questo, osserva Feltrin, “il modello più efficace sembra quello dell’ingresso nel capitale di investitori finanziari e industriali. Vedo un crescente interesse da parte del mondo della finanza nei confronti dell’industria italiana dell’arredo – aggiunge -. Sia perché la finanza in questo momento è ricca di risorse, sia perché il nostro comparto è rimasto indietro e offre molte opportunità interessanti per i fondi e gli altri investitori”.

    Se la qualità del design made in Italy è fuori discussione a livello internazionale, l’appetibilità delle aziende produttrici per gli investitori è, tuttavia, tutta da dimostrare. “La debolezza del settore – dice Antonio Catalani, professore di Management del design alla Bocconi e allo Iulm – affonda le radici in una logica vetero-familiare della struttura con poco supporto di capitale e scarsa internazionalizzazione. Il cambio generazionale ha aiutato pochi brand a rifocalizzarsi tornando sui fondamentali dell’impresa. Ma resta la difficoltà a fare massa critica e contrariamente a quello che si crede i brand davvero appetibili sono al massimo una trentina. C’è molto da fare per riorganizzare la gran parte del sistema”.

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