Made in Italy

  • Gli istituti bancari abbandonano i distretti industriali massima espressione contemporanea del Made in Italy

    Il sistema dei distretti industriali rappresenta la formula vincente per l’unione tra capitale industriale ed umano la cui visione è proiettata ai mercati internazionali (market oriented), e quindi premiano la felice sintesi di know how industriale e umano rendendo il prodotto finale espressione della sintesi culturale attuale del nostro Paese. Questi asset industriali complessi ed articolati, per rimanere in linea con le sfide della globalizzazione, ovviamente necessitano del supporto di una pubblica amministrazione efficiente e veloce ma soprattutto di un sistema creditizio che fornisca gli strumenti finanziari necessari a supportare gli investimenti con il fine di mantenere il livello “premium” dei prodotti espressione degli stessi distretti.

    Da una recente ricerca della First Cisl (sindacato dei lavoratori del sistema bancario e finanziario) emerge come dalla esplosione della crisi del 2008 mediamente i distretti industriali paghino una diminuzione degli sportelli bancari operanti nel territorio del 20%, con una parallela diminuzione del credito del 18% a fronte, viceversa, di un aumento dei depositi del 32%.

    In termini generali questi dati dimostrano come il sistema bancario stia sostanzialmente tradendo la propria funzione istituzionale in quanto a fronte di un aumento del depositi non solo non  corrisponda un aumento dei finanziamenti agli operatori del distretto ma addirittura si debba registrare una diminuzione degli affidamenti. Questa politica del sistema bancario è così l’ulteriore conferma della criticità nel suo complesso in quanto, parallelamente alla crescita dei depositi, viene avviata una politica di dismissioni immobiliari che testimonia come la crisi strutturale dell’intero sistema sia molto lontana dalla propria soluzione.

    Tornando ai numeri, espressione di questa politica di abbandono nel distretto dell’occhialeria di Belluno in testa alla classifica per redditività assieme al distretto del Prosecco di Conegliano-Valdobbiadene e del prosciutto di Parma, si registrano per il primo una calo del -25% delle filiali bancarie mentre per il secondo del -34% ed il terzo del -16%. Parallelamente si riscontrano diminuzioni dei finanziamenti al sistema industriale distrettuale del -13% in riferimento al distretto di Parma ma che arrivano a picchi del -42% a Longarone (vera culla dell’occhialeria bellunese) del -33%  a Pieve di Cadore (sempre provincia di Belluno distretto dell’occhialeria) fino a -31% nel distretto del prosecco di Valdobbiadene.

    Nei distretti del Tessile Abbigliamento di Prato e Carpi le chiusure di filiali arrivano al -29 % e -20% rispettivamente, mentre per i distretti dell’oro come Vicenza, anche a causa della implosione  della Popolare di Vicenza, si registra un calo di filiali del -25% mentre i prestiti segnano un preoccupante -29%. Risultati, del resto, simili all’altro distretto orafo di Arezzo, colpito dalla crisi di banca Etruria con calo delle filiali del -19% e degli affidamenti del -24%.

    Infine il distretto conciario del vicentino evidenza una calo delle filiali del -26% e dei finanziamenti del -23%.

    Quindi ribadendo la funzione centrale del sistema bancario, espressione di un sistema creditizio da sempre istituzionalmente finalizzato al sostegno del  sistema economico e produttivo, quale futuro si potrà mai avviare se il sistema creditizio abbandona il settore industriale ed in particolare le eccellenze dei distretti dell’occhialeria, del tessile abbigliamento e dell’agroalimentare.

    E’ evidente come il sistema bancario italiano sia ormai scollegato completamente dalla realtà oggettiva di un sistema economico industriale perennemente in competizione nel mercato globale.

    Da sempre il tessuto connettivo dell’impresa nel suo articolato complesso viene rappresentato dal sistema creditizio il quale agevola le operazioni di investimento e sconta crediti a medio e lungo termine. Sembra incredibile come di fronte ad una situazione del genere, che vede i principali istituti bancari italiani impegnati in operazioni di dismissione immobiliare confermative di una crisi di sistema, nessuna attenzione maggiore venga dimostrata da parte delle autorità politiche ed economiche.

    Parallelamente alla valutazione della crisi bancaria si dovrebbe affiancare un sistema normativo  statale che potesse supportare le filiere produttive italiane, le uniche che possano assicurare occupazione e retribuzione di medio ad alto livello. Il mancato supporto del sistema bancario alle eccellenze dei distretti industriali dimostra la necessità di affrontare il tema del sostegno creditizio  alla crescita proprio alla luce dei dati emersi dalla ricerca presentata. Un approccio che risulti  espressione di un’impostazione innovativa esattamente come quando si passò dal sistema bancario pubblico a quello privato, con il fine quindi di delineare il nuovo perimetro operativo di un sistema creditizio ideato e realizzato per le reali esigenze del mondo industriale ed imprenditoriale dei distretti.

    Non esiste futuro industriale ed economico per una nazione senza un adeguato sistema bancario sintonizzato con le reali esigenze, nello specifico dei distretti industriali italiani, massima  espressione contemporanea del Made in Italy.

  • I maestri di sci…Iliad e i sindacati

    Due o tre stagioni fa si aprì una forte polemica che vide protagonisti i maestri di sci dell’Alto Adige i quali si lamentavano (a ragione) della concorrenza sleale dei loro colleghi con licenze intra ed extra comunitarie in relazione ovviamente alle tariffe che praticavano inferiori dal 50 all’80% .

    L’ultimo dato relativo alla stagione 2017-2018 ha rilevato come i maestri con licenza non italiana che abbiano operato sulle piste italiane siano risultati 2314. Emerge evidente che le rimostranze di allora dei maestri di sci avevano un fondamento economico in quanto anche il solo costo per ottenere il brevetto italiano risulta superiore, e quindi professionalmente molto più qualificante, rispetto a quelli extra europei. I brevetti di maestro di sci extracomunitari di conseguenza sono espressione di dumping normativo sociale e professionale.

    Quando mi venne chiesta una opinione in merito alla concorrenza scorretta quale effetto appunto di questo dumping normativo ed economico innanzitutto ribadii la mia vicinanza al corpo ai maestri di sci. Tuttavia rispetto alle giuste rivendicazioni dei maestri dell’Alto Adige sottolineai come negli ultimi 10 anni questi non si fossero mai preoccupati quando allacciavano le loro giacche a vento e gli scarponi per calzare  gli sci se tali prodotti complessi, che erano la sintesi di una filiera produttiva e quindi di know how, fossero prodotti in Italia oppure nell’etichetta venisse indicato un paese di produzione a basso costo di manodopera.

    In questo modo avrebbero avuto la possibilità di percepire quanti posti di lavoro fossero stati cancellati attraverso le delocalizzazioni produttive.

    Ricordai allora, come riaffermo adesso, che le delocalizzazioni come la concorrenza non si sarebbero fermati al solo settore manifatturiero ma che avrebbero trovato la massima applicazione proprio nel settore dei servizi. L’esplosione di maestri con licenza estera (2314 appunto) conferma questa mia opinione espressa  con meritorio anticipo.

    Ora i sindacati italiani lanciano l’allarme sulla possibilità di ripercussioni occupazionali relativa all’ingresso del mondo della telefonia mobile di Iliad, nuovo esercente telefonico che ha ottenuto un grandissimo successo in

    Francia grazie all’abbattimento delle cifre praticate alla clientela finale. Sembra incredibile come di fronte alle disastrose gestioni della Telecom, per esempio, da parte dei vari gruppi di controllo che l’hanno privata del proprio patrimonio tecnologico ed immobiliare i sindacati tutto sommato abbiamo avuto una posizione di sostanziale attesa. Un tatticismo politico, quello dei sindacati, confermato sostanzialmente con una  posizione ancora una volta attendista in quanto non hanno espresso nessuna opinione quando a delocalizzare risultavano le aziende produttive di estrazione industriale. Una posizione tanto attendista tale da non aver mai fatto prendere nemmeno una iniziativa a livello di sostegno politico alla creazione di una normativa a tutela della filiera del made in Italy .

    A questa miopia si è aggiunta poi la convinzione che mai il principio della concorrenza potesse venire applicato anche al settore dei servizi.

    A puro titolo di cronaca si ricorda che l’intero mondo accademico italiano e politico ha sempre individuato fino al 2011 come la nostra economia fosse basata o dovesse trovare la propria via per lo sviluppo, sui servizi sostanzialmente post-industriali.

    I maestri di sci dell’Alto Adige allora, come sindacati ora, forse riusciranno a comprendere come la concorrenza porti come logica conseguenza ad un maggiore carico lavorativo abbinato ad una redditività inferiore. Soprattutto verrà compreso come il mercato globale e la tecnologia  che lo rende fruibile a tutti i livelli  non presenti limitazione di applicazione al solo mondo produttivo, come molti, in modo assolutamente errato, avevano previsto se non  addirittura sperato.

    Per sua stessa natura la sintesi tra l’applicazione del principio di concorrenza e dello sviluppo tecnologico trova la massima espressione quando, applicata al mercato dei servizi, che risulti professionale o telefonico, non determina alcuna differenza.

  • Centinaio arruola i turisti per lo sviluppo dell’agricoltura

    Il ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio ha illustrato al Parlamento il proposito di puntare sul turismo per sviluppare l’agricoltura. Osservando che il turismo contribuisce per il 13% al Pil nazionale, Centinaio ha dichiarato, senza però entrare in dettagli operativi, di volerlo coinvolgere in «una visione più ampia di Made in Italy» in dialogo con le autonomie regionali e con il Mezzogiorno italiano. Il Sud «rappresenta una delle principali sfide che voglio affrontare con questa nuova impostazione strategica» ha dichiarato sottolineando che il Sud Italia «è e rimane il bacino potenziale più interessante e non sfruttato di questo Paese».

    Limitandosi a uno spot, Centinaio ha parlato di «una serie di iniziative coordinate» che saranno «imperniate sulla valorizzazione delle specificità territoriali, fondate sul binomio enogastronomia e turismo, sul mare, sulle coste ma anche e soprattutto sulle aree interne che, se sviluppate adeguatamente, diventerebbero uno dei fattori di maggiore attrattività del nostro Paese».  E ha rapidamente concluso: «Il lavoro che abbiamo davanti non sarà poco, ma sarà un lavoro connotato dalla forte determinazione a far prevalere la nostra posizione. La mia, per la difesa del Made in Italy nel dibattito in Europa, è molto chiara anche in ambito turistico oltre che in ambito agricolo».

  • Il simbolismo oscurantista

    Il XX secolo di fatto ha portato le società occidentali alla secolarizzazione intesa come forma della supremazia del pensiero umano in relazione alle  religioni ma anche alle ideologie rispetto alle vecchie culture ormai obsolete. Il distacco tra stato civile e religione viene salutato come un passaggio fondamentale nello sviluppo delle società occidentali verso la modernità e con essa verso un benessere economico conseguente che rappresenta la principale forma di libertà del singolo cittadino.

    Il XXI secolo invece vede incredibilmente il ritorno di un “simbolismo oscurantista” come nessuno avrebbe  mai potuto prevedere successivamente alla secolarizzazione della società civile del secolo precedente. L’Italia, la sua cultura ed il suo “way of  life” rappresentano un punto di riferimento “dell’arte del buon vivere” unito alle eccellenze del tessile-abbigliamento-calzaturiero e dell’arredamento (insieme all’automazione rappresentano infatti le eccellenze delle 4A). La bontà del sistema agroalimentare italiano viene ampiamente confermata anche attraverso l’età media degli italiani, ben al di sopra della media mondiale, come dimostra del resto la continua ricerca dell’INPS di un equilibrio a fronte di un aumento dell’età media appunto.

    Viceversa, l’ONU e l’organizzazione Mondiale della Sanità (in questo supportati anche da gruppi di acquisto della grande distribuzione europei), esattamente come fece l’Inghilterra l’anno scorso, intendono ‘bollinare’ tutte le magnifiche espressioni del buon vivere e del sistema agroalimentare italiano attraverso l’applicazione di un semaforo dalle tre luci di diverso colore. Il simbolo del semaforo diventa la manifestazione più oscurantista e anticulturale, perfettamente in linea con quanto deciso in Europa attraverso l’applicazione di fotografie scandalosamente trucide di persone ammalate sui pacchetti di sigarette. Invece di trovare una normativa che offra la possibilità ai consumatori di comprendere gli ingredienti e le quantità all’interno di un determinato alimento, sia esso il Parmigiano Reggiano o un junk food, si preferisce bypassare la volontà e la possibilità di scelta dei consumatori attraverso l’applicazione di un simbolo.

    Quindi, in una società civile che va verso l’abolizione dell’intermediazione commerciale ed anche culturale grazie alle nuove tecnologie, si interpone una nuova figura terza che dovrebbe, attraverso la propria attività e giudizio (e quindi arbitrio), esprimere il proprio parere relativo all’alimento attraverso l’apposizione di un colore del singolo semaforo. Questo rappresenta un fatto antistorico nell’evoluzione della società iperconnessa e tecnologica odierna.

    L’ONU dovrebbe preoccuparsi di prevenire le guerre, attività nella quale ha fallito clamorosamente mentre l’organizzazione Mondiale della Sanità, invece di riconoscere le peculiarità dell’alimentazione e dei prodotti italiani, diventa il braccio armato che ha la funzione, ancora una volta come già in altri settori, di annullare tutte le specificità del sistema agroalimentare del quale l’Italia ne rappresenta l’eccellenza mondiale assoluta.

    Paradossale poi, andando a verificare gli effetti di queste strategie basate semplicemente sulla scelta di un simbolo, come quella europea già citata, “ideata” con l’obiettivo di arginare il consumo di sigarette, che in Italia, per esempio, tale consumo risulta aumentato del 1,2%, arrivando al 11,4% ed è soprattutto in forte crescita presso gli adolescenti, dimostrando così l’assoluta inefficacia della strategia europea.

    La campagna europea contro il fumo dimostra ancora una volta come queste patetiche strategie di comunicazione vengano ideate e realizzate da professionalità assolutamente distaccate dalla  società contemporanea ed espressione di una presunzione senza limiti. Paradossale poi che i risultati non vengano mai verificati e passino direttamente nell’oblio.

    Tornando al ridicolo sistema di bollinatura “a semaforo”, già adottato in Inghilterra e in altri paesi dell’America Latina, si dimostra, ancora una volta, come le autorità politiche nazionali, internazionali e mondiali rappresentino la conferma di declino culturale rispetto all’evoluzione delle società delle quali loro non risultano sicuramente più espressione.

    Questa strategia in più si dimostra, ironicamente, anche in assoluto ritardo, oltre ad essere antifunzionale, in quanto chiunque abbia la patente verifica quotidianamente come per la maggior parte delle reti viarie, specialmente urbane, vengano eliminati sempre più i semafori che rappresentano un’imposizione che regola in modo asettico e rigido i tempi di passaggio e di attesa a favore delle rotonde che risultano autoregolamentate una volta comprese, da parte degli automobilisti, le regole fondamentali.

    Questo dimostra ancora una volta come la conoscenza completa del prodotto, dalla dichiarazione sulla confezione della filiera produttiva e del contenuto interno dell’eccellenza italiana, rappresenti l’unica soluzione per rendere  responsabile il cittadino del proprio acquisto e consumo.

    Mai come ora queste nuove strategie si dimostrano espressione di un nuovo “simbolismo  oscurantista” che meriterebbe una nuova secolarizzazione per riportare al centro dello sviluppo consapevole la conoscenza come nuova ed unica vera forma di secolarizzazione della società e dei mercati moderni e globali. Una conoscenza espressione di una cultura che rappresenterebbe anche un approccio “iconoclasta” nei confronti dei nuovi simboli di questo oscurantismo. Solo la conoscenza libera ed obiettiva può portare ad  un progressivo processo e così rendere consapevole e libero il consumatore nella propria scelta.

  • Bertolli: il patrimonio italiano disperso

    L’inconsistenza economica, unita ad una visione strategica che come termine temporale non va oltre il weekend, ha regnato sovrana all’interno delle compagini governative degli ultimi vent’anni. Tutti i ministri, come i diversi Presidenti del Consiglio associati ad economisti da fiera di paese, hanno sempre individuato nell’acquisizione di aziende e brand italiani da parte di gruppi esteri o private Equity come un fenomeno positivo che manifestava “il valore e l’apprezzamento delle nostre imprese”, come, senza dignità, affermò l’ex presidente del consiglio Renzi, spalleggiato dai suoi Centurioni Calenda e Padoan.

    Contemporaneamente, queste meravigliose espressioni della cultura economica e politica italiane affermavano, senza pudore, di voler combattere “l’italian sounding”, considerato giustamente come un fenomeno che arreca un danno patrimoniale, economico e di immagine ai prodotti italiani scimmiottando la provenienza dall’italico Paese.

    Nel frattempo il gruppo spagnolo Deoleo, titolare del marchio Bertolli, ha deciso di aprire uno stabilimento di produzione di olio d’oliva sulla East Coast degli Stati Uniti. La California rappresenta infatti il 15% delle quote di mercato e, legittimamente, i titolari spagnoli utilizzano il brand italiano per rendere più appetibile la propria produzione di olio la quale, lontana dal luogo di origine storico del brand, ovviamente non proporrà alcuna peculiarità di prodotto espressione del Made in Italy (classico esempio di italian sounding anche se assolutamente legittimo).

    Sembra incredibile come questa operazione, assolutamente legittima in quanto i capitali investiti devono risultare liberi da qualunque vincolo per poter adottare ogni strategia che consenta di ottenere maggior remunerazione (Roe), rappresenta l’ennesima sconfitta di una classe politica ed economica incapace di vedere oltre le proprie immediate “maledette provvigioni di vendita”, che siano politiche o economiche, incapaci di comprendere il danno economico e d’immagine per il patrimonio storico e industriale del nostro Paese di cui il marchio Bertolli rappresentava sicuramente un esempio.

    Se poi a questo aggiungiamo la folle iniziativa di votare a favore delle importazioni di olio tunisino, che solo nel primo trimestre di quest’anno risultano quadruplicate, abbiamo il quadro completo di una classe politica dirigente ormai ridotta a livello di piazzisti di quarto ordine. Sembra incredibile come, per disonestà intellettuale o per incapacità culturale, da trent’anni a questa parte, in nome di una ipotetica internazionalizzazione delle aziende, vengano svenduti interi pilastri degli asset industriali italiani senza valutare il danno economico e patrimoniale per l’intero sistema economico italiano.

    Un sistema economico che dovrebbe trovare invece il proprio sostegno finanziario per un’opera di internazionalizzazione da parte in un sistema creditizio e bancario in linea con le necessità delle aziende italiane che si trovano a combattere contro i colossi mondiali senza avere nessun supporto finanziario e figuriamoci fiscale.

    Un sistema politico e bancario che hanno viaggiato all’unisono negli ultimi decenni, incapaci, inconsapevoli o semplicemente ignorando il valore patrimoniale dell’industria italiana la quale, anche nella sua declinazione sottocapitalizzata delle PMI, rappresenta il futuro del nostro Paese. Viceversa, la storia di Bertolli e della dispersione del suo patrimonio è l’esempio impietoso della misera visione strategica e della più assoluta inconsistenza della classe politica e dirigente italiana.

  • Anche il made in Italy in etichetta può essere ingannevole

    Alcune importanti aziende italiane sono finite nel mirino dell’Antitrust per avere commercializzato prodotti alimentari vantando impropriamente il Made in Italy. L’infrazione sta nel fatto che l’etichetta era ingannevole in quanto il rimando all’italianità del prodotto alimentare era in realtà riferito al luogo di trasformazione del cibo, Italia appunto, ma non alla sua provenienza. Mancava cioè l’origine del prodotto, e capita così che spesso fagioli, pomodori o riso, in confezioni in cui appare un piccolo tricolore, inducano il consumatore, che negli ultimi anni si è fatto più attento in materia di lettura dell’etichetta, a credere che quanto sta per acquistare, e consumare, sia italiano al 100%. Di tali inganni, e perciò infrazioni, parla la relazione annuale del Garante della Concorrenza, presentata al Senato, e ciò ha consentito all’Antitrust di fare il punto sugli interventi adottati nel 2017 (anno di riferimento della relazione) e in generale sulla giurisprudenza nel settore agroalimentare a tutela del consumatore. Secondo la normativa vigente dell’UE, come ha sottolineato il Garante, Pitruzzella, “il paese d’origine o il luogo di provenienza non figurano tra le indicazioni obbligatorie in etichetta” e quindi, ai fini del Codice del consumo  “la valutazione dell’idoneità di un’etichetta a indurre in errore l’acquirente va operata in relazione all’aspettativa di un consumatore medio, informato ed attento circa l’origine e la provenienza del prodotto alimentare”. Scopo dell’intervento dell’Antitrust, quindi, è quello “di orientare gli operatori al rispetto di elevati standard di chiarezza e trasparenza sotto il profilo delle informazioni da veicolare al consumatore tramite l’etichetta dei prodotti alimentari, anche al di là della conformità della stessa alle specifiche prescrizioni poste dalla normativa di settore”. La corretta informazione nel settore agroalimentare è fondamentale e per questo è necessario che così come sia adeguatamente indicata la provenienza geografica allo stesso modo loghi o immagini che rimandano ad un made in Italy ingannevole, cioè solo per la trasformazione dei prodotti, non siano di proporzioni così vistose. La conseguenza è un pessimo servizio che si offre al consumatore.

  • La priorità dimenticata: la tutela del Made in Italy

    All’interno dello stonato coro composto da tutti i soggetti politici italiani dell’opposizione e della maggioranza, nel quale ognuno canta a squarciagola la propria filastrocca con tematiche politiche ma soprattutto economiche assolutamente stonate, si assiste a evoluzioni molto importanti che esulano dai temi consueti e risultano assolutamente dimenticate o per negligenza o per ignoranza da entrambi gli schieramenti.

    Nel 2016 i parlamentari europei italiani che votarono l’abolizione dei dazi sulle importazioni di olio tunisino giustificarono tale scelta con la volontà di offrire un sostegno economico ma anche politico alla nascente democrazia tunisina. Nel primo trimestre di quest’anno tali importazioni di olio “democratico” tunisino risultano quadruplicate (oltre 20.000 tonnellate nel 1° trimestre del 2018), rendendo ancora una volta l’intero settore dell’olivicoltura italiano l’unico a farsi carico di una nascente democrazia nord africana, quando invece scelte di tali portata politico-economica andrebbe equamente suddivise tra tutti i cittadini italiani e non ricadere sulle spalle di un unico settore, peraltro già in difficoltà con la crisi della xylella. Una scelta ed una strategia politica perfettamente in linea del resto con quella adottata dal governo Renzi nel 2015  il quale, per permettere la realizzazione di uno stabilimento Piaggio in Vietnam, tolse i dazi al riso vietnamita mettendo in grave difficoltà la risicoltura italiana (prima nel mondo qualitativamente) la quale si è fatta carico da sola della volontà di espansione di un privato imprenditore senza peraltro avere nessun tipo di ricaduta occupazionale su suolo italiano.

    Nelle ultime settimane poi in Europa Carrefour e Tesco hanno deciso di formare un unico Gruppo d’Acquisto in modo da creare delle sinergie di costi che si manifesteranno mediamente con un risparmio di circa 400 milioni di euro all’anno. Una scelta che va verso la sempre maggiore centralizzazione dei Gruppi d’Acquisto che paradossalmente è assolutamente in controtendenza con la localizzazione e le richieste di riconoscimenti localistici della politica. La decisione dei due gruppi internazionali della distribuzione tutto sommato rientrerebbe nella logica del controllo dei costi  ma evidenzia, ancora una volta, come l’Italia abbia rinunciato a giocare un proprio ruolo nel settore della distribuzione. Una scelta miope imputabile esclusivamente all’imprenditoria italiana che ha dismesso tutte le catene distributive italiane evitando di proporsi nel mercato europeo.

    La notizia purtroppo del nascente Gruppo d’Acquisto porta però con se un aspetto molto più serio in quanto Carrefour e Tesco hanno deciso di adottare l’etichettatura a semaforo, nel senso cioè di apporre esattamente come in Inghilterra il colore rosso, giallo e verde a seconda del contenuto calorico e di grassi. In questo senso basti pensare che il Parmigiano Reggiano, da sempre miglior formaggio al mondo, verrà adornato con il classico colore rosso del semaforo. Di fatto questo tipo di alleanza commerciale provocherà i suoi maggiori effetti proprio nei confronti delle eccellenze del settore agroalimentare italiano.

    In altre parole la tutela dei prodotti del Made in Italy  viene ancora una volta posta in seria difficoltà attraverso  l’importazione dell’olio tunisino e la creazione di un Gruppo d’Acquisto che adotterà un’etichettatura sostanzialmente contraria alle eccellenze agro-alimentari del nostro Paese. Due fattori quindi che dimostrano l’assoluta inconsistenza, a livello strategico ed economico, della classe politica italiana tanto della maggioranza quanto dell’opposizione risucchiate da tematiche che nulla hanno a che fare con il vero sviluppo economico italiano.

    Tutto questo in perfetta continuità con gli ultimi governi che a partire dal 2015 avevano assicurato una dotazione di 34 milioni per la lotta all’“italian sounding” della quale si è persa ogni traccia. Per non parlare della ridicola iniziativa “italian taste” attribuibile ai ministri Calenda e Martina (già ampiamente trattata  https://www.ilpattosociale.it/2018/05/10/made-in-italy-lennesima-sconfitta/) ed eccessivamente cassata dall’Unione europea stessa in forza della competenza relativa al made in.

    Possono risultare divisi dagli approcci politici e dalle priorità etiche tuttavia il governo e l’opposizione sono le due facce della medesima medaglia, cioè della incapacità di leggere in una prospettiva economica futura gli avvenimenti attuali e con loro gli effetti che questi riusciranno a determinare nel medio come nel lungo termine.

  • On line i bandi per la XXI edizione dei Premi di Laurea del Comitato Leonardo

    Tornano anche quest’anno i Premi di Laurea del Comitato Leonardo, i prestigiosi riconoscimenti che premiano i giovani e le tesi più innovative nei diversi settori dell’eccellenza Made in Italy: sport, moda, gioielleria, meccanica, innovazione tecnologica, sostenibilità, nautica, farmaceutica, internazionalizzazione. Nato nel 1993 su iniziativa comune dell’ICE, di Confindustria e di un gruppo d’imprenditori, tra i quali Gianni Agnelli e Sergio Pininfarina, il Comitato Leonardo è presieduto oggi dall’imprenditrice Luisa Todini e ha come obiettivo primario la promozione dell’Italia come Sistema Paese attraverso varie iniziative finalizzate a metterne in rilievo le doti di imprenditorialità, creatività artistica, raffinatezza e cultura che si riflettono nei suoi prodotti e nel suo stile di vita. Quella del 2018 è la XXI edizione dei Premi che da sempre ricevono sostegno e collaborazione da parte di numerose aziende Associate al Comitato Leonardo. Grazie a questo sodalizio infatti nel corso degli anni oltre 150 giovani neolaureati provenienti da istituti e Università di tutta Italia hanno beneficiato di un supporto concreto per i propri studi.

    Anche per il 2018 alcune prestigiose aziende italiane, Associate al Comitato, contribuiranno all’assegnazione dei Premi di Laurea. 12 i bandi indetti: 8 borse di studio del valore di 3.000 euro e 4 tirocini retribuiti, questi ultimi offerti da Bonfiglioli Riduttori, Damiani, Perini Navi ed SCM Group presso le loro sedi.

    I bandi di questa edizione sono: Premio “Clementino Bonfiglioli” Bonfiglioli Riduttori SpA “Digitalizzazione di sistemi in ambito industriale”,  Premio “Alfredo Canessa” Centro di Firenze per la Moda Italiana “La Moda e il Made in Italy”, Premio CONI “Sport ed economia: il turismo sportivo opportunità di sviluppo dei territori e di crescita del Paese. dati, analisi e trend del turismo sportivo in Italia e nel mondo”, Premio Damiani SpA “Gioielleria Made in Italy di marca ieri, oggi e domani: evoluzione nelle modalità di consumo della gioielleria di marca dagli anni ’60 ad oggi e prospettive future”, Premio Dompé Farmaceutici “Effetti dell’assunzione di Amminoacidi Ramificati (BCAA) durante l’esercizio fisico di resistenza sulla percezione della fatica, danno muscolare e metabolismo energetico”, Premio G.S.E. – Gestore Servizi Energetici “Sviluppo di sistemi energetici in ambito agro-alimentare per promuovere nuovi modelli di bio-economia circolare”, Premio Leonardo SpA “Soluzioni e tecnologie innovative nel campo della autonomia dei sistemi”, Premio Gruppo Pelliconi, “L’impatto di industria 4.0 sugli aspetti organizzativi aziendali”, Premio Perini Navi S.p.A, “Come far convivere l’anima Perini Navi in due progetti di stile MotorYacht e SailingYacht con stesse dimensioni tra i 50 e i 70 mt”, Premio SCM Group “Sensoristica MEMS per macchine utensili: tipologia, utilizzo, integrazione e bus di campo”, Premio SIMEST S.p.A. “Le imprese italiane e i mercati internazionali. La finanza del “Sistema Italia” per lo sviluppo della competitività”, Premio Vetrya “Applicazioni di intelligenza artificiale e machine learning”.

    “La cultura fa sempre la differenza: per chi si appresta ad entrare nel mondo del lavoro ma anche per chi ha già un’occupazione e magari è a capo di una grande azienda. Il Rapporto Istat sulla Conoscenza, pubblicato per la prima volta quest’anno, lo dimostra. Una buona scolarizzazione è quindi garanzia di migliori performance lavorative in ogni settore e ad ogni grado” – è il commento di Luisa Todini, Presidente del Comitato Leonardo. “Con l’iniziativa dei Premi di Laurea, il Comitato Leonardo e le aziende Associate, si impegnano da 21 anni a spronare le nuove generazioni, offrendo un aiuto concreto alla realizzazione di progetti brillanti ma anche un’occasione di confronto diretto con prestigiose realtà aziendali. Un impegno che si traduce in un investimento per il futuro, in quanto i giovani laureati di oggi saranno i manager preparati di domani.”

    I bandi integrali ed i moduli di partecipazione sono disponibili nella sezione “Premi di Laurea” del sito: http://www.comitatoleonardo.it/it/categoria-premi/premi-di-laurea-comitato-leonardo/

    E’ inoltre possibile partecipare ad uno o più bandi inviando la documentazione richiesta alla Segreteria Generale del Comitato Leonardo (c/o ICE, via Liszt 21, 00144 Roma, tel. 06 59927990-7991) entro e non oltre il 6 novembre 2018.

    La premiazione si svolgerà alla presenza del Presidente della Repubblica nel corso della prossima cerimonia di conferimento dei Premi Leonardo.

  • La cultura diventa impresa in Italia

    Non di solo pane, dice il proverbio. Quando si parla di cultura però bisogna fare i conti anche coi dati economici, come ben sanno tutte le amministrazioni comunali e non solo.

    La vera notizia è che in Italia il sistema produttivo culturale e creativo (composto da imprese, Pubblica amministrazione, no profit) genera più di 92 miliardi di euro e muove complessivamente ben 255,5 miliardi, ovvero il 16,6% del valore aggiunto nazionale. La cultura quindi produce grande ricchezza in Italia, crea occupazione ed è davvero produttiva nonostante il pensiero comune sia in molti casi differente.

    Questi sono i dati economici registrati dal rapporto 2018 “Io sono cultura: l’Italia della qualità e della bellezza sfida la crisi”, elaborato da Fondazione Symbola e Unioncamere con il sostegno di Regione Marche. Il rapporto, presentato a giugno al ministero per i Beni e le attività culturali, racconta diverse realtà. Il sistema produttivo culturale e creativo assicura 1,5 milioni di posti di lavoro, ovvero il 6,1% del totale degli occupati in Italia. Posti che sono cresciuti nel 2017 dell’1,6%, più della media nazionale (+ 1,1%). Symbola e Unioncamere propongono un concetto volutamente trasversale di sistema produttivo culturale e creativo, includendo diverse categorie a cui molti non penserebbero. Infatti nel rapporto vi sono architettura, comunicazione, design, cinema, editoria, musica e videogiochi, audiovisivo, e naturalmente il patrimonio storico-artistico (musei, siti storici e archeologici). A queste macro categorie si aggiungono le performing art e arti visive, ma anche le imprese creative-driven, affidate a un creativo, come l’artigianato artistico e la manifattura evoluta. L’idea di allargare le categorie nasce dal voler far capire che larga parte del Made in Italy, dalla nautica al mobilio, sarebbe impensabile senza il collegamento con il design e le altre industrie culturali e creative.

    L’area metropolitana di Milano è al primo posto nelle graduatorie provinciali per l’incidenza di ricchezza e occupazione prodotte, con il 9,9% e il 10,1%. Potrebbe quindi definirsi la capitale culturale d’Italia. Roma è seconda per valore aggiunto (9,8%) e terza per occupazione (8,6%), Torino si colloca, rispettivamente, terza (8,8%) e quarta (8,4%). Più di un terzo della spesa turistica nazionale, il 38,1%, è attivata dalla cultura e dalla creatività.

    Tutto questo è ancora più apprezzato all’estero, dove troppo spesso l’Italia è stimata più di quando lo sia tra gli stessi italiani.

    Per Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola, “la bellezza è uno dei nostri punti di forza. Secondo un’indagine della rivista Us News e dell’Università della Pennsylvania, siamo il primo Paese al mondo per l’influenza culturale. L’intreccio caratteristico dell’Italia, tra cultura e manifattura, coesione sociale e innovazione, competitività e sostenibilità, rappresenta un’eredità del passato ma anche una chiave per il futuro”.

    Forse per questo, scorrendo il rapporto, si scopre che secondo Kpmg, una delle quattro maggiori società internazionali di revisione aziendale, Made in Italy è il terzo marchio più conosciuto al mondo dopo Coca Cola e Visa.

    Ivan Lo Bello, presidente di Unioncamere, sottolinea che “l’obiettivo del Rapporto è superare la convinzione che la cultura sia soprattutto qualcosa da conservare piuttosto che una componente dello sviluppo produttivo su cui puntare”.

    Per il ministro Bonisoli “il lavoro nel settore culturale c’è e sta crescendo e non è banale che riguardi in particolare giovani in possesso di un titolo universitario. Questo è ancora più importante in prospettiva futura, se si considera che le professioni creative e le capacità umane saranno ancora più valorizzate in un contesto dove robotica e intelligenza artificiale difficilmente potranno sostituirsi all’uomo”. Bonisoli è tornato anche sull’economia: “La ripresa degli ultimi anni è stata trainata dall’export, in gran parte costituito da prodotti dell’industria creativa, e dal turismo in entrata, che nel nostro Paese ha ragioni prevalentemente culturali”.

  • Il lusso fa ricca l’Italia

    L’Italia è da sempre considerata la patria dei prodotti di qualità, eccellenze in molti settori che ci invidiano nel resto del mondo. Basti pensare che nel 2016, delle 100 aziende top del lusso mondiale, l’Italia è il primo per produzione. Secondo il “Global Powers of Luxury Goods 2018”, nuova edizione del report pubblicato da Deloitte che prende in esame i bilanci dell’anno fiscale 2016 (chiusi entro il 30 giugno 2017) delle 100 aziende top dell’alto di gamma, con 24 aziende l’Italia ha il primato del numero di produttori del settore. Seguono a distanza gli Stati Uniti con 13, il Regno Unito con 10 e la Francia con 9. Per capire l’importanza di questi numeri, specifichiamo che le 100 aziende hanno venduto beni per ben 217 miliardi di dollari.

    Un primato importante, che però perdiamo se si guarda la dimensione e il volume di vendite medie di tali aziende: la Francia (dove si trovano il primo e il quinto dei gruppi leader del lusso mondiale, Lvmh e Kering) ci batte con un fatturato medio di 5,8 miliardi di dollari, a fronte dei nostri 1,4.

    Bisogna costatare che le nostre aziende sono più piccole e il nostro tessuto produttivo più frammentato, tanto che nella top 10 delle aziende mondiali si trova solo un’italiana, Luxottica, al quarto posto. I successivi sono Prada al 19esimo posto e Giorgio Armani al 24esimo. Queste tre aziende, si legge nel report, raccolgono circa la metà delle vendite del lusso made in Italy della top 100. Una frammentazione, in mano principalmente alle famiglie fondatrici, che non è negativa nel momento in cui, nota lo studio, “le famiglie operano un forte controllo sulla coerenza del design”, uno dei punti di forza del made in Italy.

    Un deciso segnale di ottimismo, però, si rileva scorrendo la classifica delle 20 aziende che nel 2016 hanno avuto la crescita più veloce, e nella quale ben sei sono italiane: a guidarle è Valentino (le sue vendite sono più che raddoppiate fra 2013 e 2016, superando la soglia del miliardo di euro), seguito da Furla (il solo marchio di borse e accessori) e da Moncler, unico italiano anche fra le cinque aziende che nel 2016 hanno registrato una crescita a doppia cifra delle vendite e degli utili. A sostenere l’industria italiana del lusso è anche il costante primato della categoria “abbigliamento e calzature”, con 38 aziende nella top 100, cresciuta però solo dello 0,2%, a fronte del boom del segmento “cosmetica e profumi”, +7,6%.

    Per l’export italiano, però, arrivano altre buone notizie dall’Oriente. Armando Branchini, vicepresidente di Fondazione Altagamma, ha anticipato un’importante decisione di Pechino: “Dal 1° luglio i dazi imposti sull’importazione dall’Europa di prodotti come abbigliamento, accessori, complementi d’arredo, verranno dimezzati. Al momento, a seconda della categoria esatta, i dazi sono tra il 15,7% e il 19 per cento. Ridurli della metà significa avvicinarli molto a quelli che Bruxelles impone alla Cina”. Da anni si chiede a Pechino un allineamento con i dazi imposti dall’Unione europea, ora l’obiettivo sembra raggiunto.

    L’associazione Altagamma riunisce oltre cento eccellenze di dieci settori di «bello e ben fatto in Italia»: dalla moda e design alla gioielleria, dall’alimentare e automotive al wellness, passando per ospitalità ed enogastronomia. Tutti settori che si rivolgono al mercato globale dei beni di lusso personale, che Fondazione Altagamma, nata nel 1992, e Bain&Company monitorano da almeno due decenni.

    Si prevede quindi che in Cina gli acquisti di beni di lusso cresceranno tra il 20 e il 22%. Senza il possibile effetto dazi, questo porterà la quota del mercato cinese sul totale globale circa al 10% (era l’8% nel 2017). Ma la percentuale triplica se si considerano gli acquisti da parte di cinesi nel mondo. Il taglio dei dazi favorirà quindi chiunque produca in Italia ed esporti in Cina, ma il tessuto produttivo italiano dovrà farsi trovare pronto sotto ogni punto di vista.

     

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