magistrati

  • In attesa di Giustizia: quando la giustizia è stupefacente

    Continua a tener banco la querelle sui test psico attitudinali per i magistrati e quel buontempone di Nicola Gratteri, Procuratore della Repubblica di Napoli, si è detto favorevole a condizione che vengano introdotti anche per altre categorie “a rischio” tra qui – neanche a dirlo – i politici e con l’aggiunta di alcol e narco test.

    La storia che stiamo per raccontarvi gli dà (in un certo senso) ragione e anche a chi, come chi scrive, sostiene che i test dovrebbero essere periodici e non solo somministrati al momento di entrare in servizio dopo il superamento del concorso. Accade in Calabria, proprio la terra in cui Gratteri è nato ed ha esercitato le funzioni per la quasi interezza della sua carriera, che un giudice sia stato appena riammesso in ruolo dopo una sospensione di un anno  seguita ad un certificato abuso di droga, cocaina ed anfetamine…e non era il primo provvedimento disciplinare inflitto a costui che, dal 2003 (sì, ventuno anni!) quando, ubriaco alla guida, ha anche percosso un passante: più volte segnalato per avere guidato in stato di ubriachezza e, per non farsi mancare nulla, di violenza e minacce nei confronti di appartenenti alle Forze dell’Ordine.

    Non vogliamo né possiamo giudicare: la evidente fragilità di quest’uomo, i problemi personali irrisolti che lo hanno condotto nel baratro delle dipendenze suggeriscono quella pietas di romana memoria…però è sconcertante che, a fronte di fenomeni di recidiva, gli sia stato consentito di proseguire nel suo delicatissimo ministero amministrando giustizia sotto i postumi di una sbornia o di qualche altra sostanza.

    I motivi di una deriva possono essere molteplici e la vita, poi, può essere crudele: solo per fare un esempio estremo torna alla memoria il caso di un grande giudice e giurista milanese che, alla fine degli anni ’70, andandola a trovare, trovò il cadavere fatto a pezzi a colpi di scure della anziana madre; il delitto rimase irrisolto, e divenne un alcolizzato: la umana comprensione non si discute, non fu destituito ma assegnato ad un ruolo (in collegio con altri due) nel quale non poteva nuocere ma, anzi, portare la sua esperienza e competenza che continuavano ad affiorare nei momenti di lucidità non infrequenti.

    Ed allora, Procuratore Gratteri, suvvia Presidente dell’ANM, è più responsabile riconoscere che i magistrati non sono superuomini e soffrono delle medesime debolezze e patologie di tutti, soprattutto di tutti coloro che devono giudicare; fu Davigo, negli anni ’90, a sostenere che i giudici sono il meglio della società ed i pubblici ministeri il meglio del meglio del meglio: infatti si è vista la fine che ha fatto.

    Per par condicio è giusto riferire che il Consiglio di Disciplina di Bologna ha di recente sospeso dalla professione un’avvocata che remunerava le sue praticanti (forse bisognerebbe definirle “aspiranti”) con generose righe di cocaina e questo accadimento consente di stagliare la differenza con il destino analogo di un magistrato: per un avvocato una lunga sospensione comporta non solo perdita di avviamento ma anche prestigio ed affidabilità pur senza sapere le ragioni del provvedimento perchè la selezione la fa il “mercato”, un politico è sottoposto al giudizio degli elettori mentre un magistrato è sostanzialmente inamovibile grazie, in buona misura, alla tradizionale indulgenza della Sezione Disciplinare del C.S.M..

    In questo quadro desolante, nei giorni di Pasqua, la splendida preghiera del penalista scritta dall’Avvocato Francesco Maisano di Bologna può aiutare ad alimentare la speranza in quella giustizia cui i difensori offrono un contributo essenziale:

    O Signore, Tu che hai detto “Beati i perseguitati a causa della giustizia” fai che io possa assolvere con spirito di fratellanza e carità il compito di difendere chi si affida a me; fai che sia, per chi mi cerca nel bisogno, quel che il Cireneo fu per te lungo la via dolorosa. Assistimi quando prenderò le ragioni di chi spera e lascia che io stesso speri in te quando la tua amorosa difesa mi salverà dal male.

  • In attesa di Giustizia: bene ma non benissimo

    Carlo Nordio ha preannunciato che questa settimana porterà in Consiglio dei Ministri la bozza di disegno di legge che prevede la somministrazione di test psico attitudinali per i magistrati che dovrebbero consistere sostanzialmente in una terza prova da sostenere dopo avere superato quelle scritte e l’orale del concorso.

    L’ Associazione Nazionale Magistrati, non c’è bisogno nemmeno di dirlo, strepita sostenendo che si tratti di una prova irragionevole e – forse – non ha tutti i torti seppure per ragioni diverse da una trasparente tutela della casta.

    In effetti – se quello nei termini riassunti sarà il criterio – la modalità è poco convincente: innanzitutto, se proprio si deve, sembrerebbe meglio che i test vengano somministrati prima di partecipare al concorso e non dopo per così evidenti ragioni che non vale neppure la pena di enumerarle: se, poi, il neo magistrato dovesse mostrare segni di un sopravvenuta inidoneità o squilibrio tutto ciò potrà ben essere rilevato durante il periodo di tirocinio da coloro a cui è affidato con le necessarie conseguenze.

    In secondo luogo, non è da escludere che una deriva psico fisica si possa verificare più avanti nel corso della carriera ed, allora, una soluzione maggiormente sensibile all’esigenza di garantire che il destino giudiziario dei cittadini sia affidato a magistrati compos sui può essere quella ipotizzata già molti lustri addietro da un avvocato piacentino, Carlo Tassi, e proposta senza fortuna nella sua veste di deputato del Movimento Sociale.

    Per quello che, con una certa frequenza, si annota in questa rubrica casi meritevoli di un check up non mancano e, del resto, è nella natura delle cose che un uomo possa subire un decadimento mentale o fisico che lo renda inabile a determinate mansioni: non c’è nulla di cui sgomentarsi, test analoghi sono previsti in altri Paesi come la Francia e la Germania, nel nostro li fanno i militari, gli appartenenti alle forze dell’ordine e nessuno si indigna se viene richiesto di rinnovare periodicamente la patente di guida o il porto d’armi: si tratta solo di prendere le misure necessarie a bilanciare il principio di inamovibilità dei funzionari pubblici prendendo le dovute distanze dal pur brillante pensiero espresso da Erasmo da Rotterdam nel suo “Elogio della follia”.

    Nel frattempo prende quota l’indagine della Procura di Perugia sugli accessi abusivi alle banche dati e il possibile “dossieraggio” ad opera di un militare della Guardia di Finanza distaccato alla Direzione Nazionale Antimafia e dal suo superiore, il P.M. Antonio Laudati: tra sussurri e grida, più che altro uno scaricabarile tra i personaggi coinvolti, spicca la scelta di quest’ultimo di avvalersi della facoltà di non rispondere all’interrogatorio  opportunamente disposto dal Procuratore Capo umbro, Raffaele Cantone.

    Lo abbiamo chiarito più volte: il diritto al silenzio per l’accusato è un canone costituzionale implicito nel secondo comma dell’articolo 27 ed espressamente previsto dal codice; essendo l’interrogatorio un atto di natura essenzialmente difensiva, ognuno ha diritto di difendersi come ritiene più opportuno, anche tacendo.

    L’esercizio di questo diritto spetta, ovviamente, anche a Laudati ma non è trascurabile il dettaglio che al silenzio di fronte a Cantone abbia fatto seguire la distribuzione, tramite il suo avvocato, di una nota scritta in cui, viceversa, risponde dettagliatamente alle contestazioni che erano state formulate nell’invito a comparire in Procura e che avrebbero costituito il fil rouge dell’interrogatorio senza trascurare qualche bordata all’indirizzo dell’allora Procuratore Nazionale…ed il trasferimento di una delicata fase investigativa, che dovrebbe essere scongiurato, dalle aule di tribunale alla stampa a “redazioni unificate” è servito.

    Bene ma non benissimo, anche questa settimana ed in attesa di giustizia le ombre sono più delle luci: non c’era da aspettarsi nulla di buono, particolarmente in periodo di Passione quando si celebra il ricordo del più clamoroso errore giudiziario della storia.

    Buona Pasqua a tutti.

  • In attesa di Giustizia: lo show dei record

    Ci sono primati da Guinness di cui si farebbe volentieri a meno ma tant’è, se non proprio celebrati, devono almeno essere documentati.

    Il merito, si fa per dire, questa volta va ascritto al P.M. anglo-partenopeo Henry John Woodcock, già campione europeo di competenza creativa ai tempi in cui era in servizio a Potenza quando, saccheggiando le riviste di gossip piuttosto che informative (peraltro inesistenti) della Polizia Giudiziaria diede vita alla celeberrima indagine nota come “Vallettopoli”: un feuilleton in salsa Dagospia, frantumatosi in rivoli investigativi distribuiti a manciate in diverse Procure della Repubblica che, dopo aver sbirciato dal buco della serratura delle discoteche alla moda cosa facevano nel tempo libero veline, calciatori, nani e ballerine, ha esitato qualche modesta condanna per piccole cessioni di cocaina ad uso “socializzante” ed, in compenso, uno sputtanamento ad alzo zero per fatti  totalmente privi di rilevanza penale.

    Ma è con l’indagine “CONSIP” che sono stati raggiunti risultati da pessima gestione investigativa posti su vertici che mai nessuno aveva mai osato scalare: tutti assolti gli imputati e condannati solo i responsabili delle indagini…game, set, match! Nemmeno quelle Procure che nascondono i testi a discarico, almeno per ora, erano riuscite a tanto.

    Qualche esempio può illustrare plasticamente la manettara approssimazione con cui è stato utilizzato il materiale raccolto, tra l’altro, invadendo l’esistenza dei cittadini con migliaia di costose quanto inutili intercettazioni: secondo Johnny Woodcock in una di queste – sfruttata come caposaldo dell’accusa – sarebbe risultato che in un’azienda fosse stato addirittura istituito il ruolo di “responsabile del crimine”, dunque un’impresa  a matrice esclusivamente delinquenziale.

    Da un magistrato bilingue ci si sarebbe aspettato di meglio: un riascolto dell’intercettazione ha chiarito senza lasciare spazio a dubbi che la funzione cui si alludeva era quella di “responsabile cleaning”, cioè a dire l’addetto alle pulizie. Ci sarebbe da ridere, tutti tranne Woodcock che all’evidenza, ha una conoscenza spannometrica anche dell’inglese, se non fosse che c’è chi sulla base di accertamenti tanto grossolani ha subito mesi di carcerazione come l’imprenditore Romeo: sei in galera ed altrettanti agli arresti domiciliari. Complimenti vivissimi anche al GIP che ha accolto le domande di arresto, per non parlare di quello che ha disposto rinvii a giudizio fondati su di un vuoto torricelliano…

    L’evanescenza dell’impianto probatorio, forse, era palese anche agli inquirenti e sin da subito tanto è vero che sono stati chiamati in soccorso i più fidati lacchè della carta stampata, con fuga pilotata di notizie che avrebbero dovuto restare riservate (inutile fare nomi delle redazioni destinatarie: possono facilmente immaginarsi e, comunque, risultano dalla sentenza): ecco, allora, i titoli cubitali e gli articoli copia e incolla di una informativa degli uomini di Woodcock contenente grossolane falsità.

    Su questa melma sono state scritte paginate di disinformazione e persino un libro; è uno Show dei record che fa inorridire ma non è finita: conclusa questa prima tranche  del processo a Roma, una seconda è ancora in corso a Napoli con immutati protagonisti ed interpreti e può immaginarsi con quale credibilità agli occhi del Tribunale, a tacere del fatto che il P.M. – sempre Enrico l’Inglesino – non ha più l’interesse a stabilire la verità ma quello di ottenere condanne per provare a salvare se stesso.

    E il C.S.M.? Tutto tace, mentre i cittadini si pongono delle domande: che garanzie si potranno mai avere se si dovesse diventare bersaglio in una delle sbilenche inchieste di un magistrato incorso in incidenti di percorso così gravi e senza precedenti nel mondo Occidentale? Se Roma piange, Sparta non ride ma questa è una piccola consolazione solo per la devastata Repubblica della Procura di Milano.

  • In attesa di Giustizia: terno, quaterna, cinquina?

    Anche questa settimana ci sarebbe più materia di commento di quanto lo spazio della rubrica – se non dell’intero Patto Sociale – possa ospitare: del trasferimento di Chico Forti per scontare la pena in Italia, sul quale si è mosso qualcosa che ha offerto più una concreta speranza, tratteremo senz’altro quando il nostro concittadino tornerà in Italia ma il Governatore della Florida ha già firmato il corrispondente provvedimento.

    A Lucca, salta fuori da un fascicolo una sentenza già scritta prima ancora che sia concluso il processo: non è una novità ma la dice lunga sulla insofferenza di ampie fasce della magistratura rivolta alla funzione difensiva vista più come un ostacolo che un contributo a rendere giustizia.

    A tal proposito, naturalmente, meriterebbe almeno qualche riga la vicenda milanese che vede una donna imputata di aver lasciato morire di stenti la propria bimba mentre trascorreva uno spensierato week end con il fidanzato del momento: storia orribile peggiorata dalla scelta inaudita del Pubblico Ministero di indagare il difensore e due psicologhe del carcere di San Vittore supponendo che abbiano cercato di pilotare gli esiti della perizia psichiatrica; detto francamente, non si fa così: si attende la fine del processo e con tutti gli elementi a disposizione si apre un altro fascicolo senza sollevare clamore mediatico ed il rischio di condizionare soprattutto i giudici popolari oltre che il perito nel frattempo incaricato dalla Corte. In Procura sono volati gli stracci, la P.M. coassegnataria, in aperto dissenso con il collega (da cui non era stata neppure informata della iniziativa) ha restituito la delega al Procuratore Capo e gli avvocati di Milano hanno proclamato una giornata di sciopero indicendo nello stesso giorno un dibattito dall’eloquente titolo “Il processo alla difesa, la difesa del processo”.

    Nel frattempo a Perugia, accompagnata dalla tradizionale fuga di notizie, si allarga l’indagine sul presunto dossieraggio commissionato non si sa da chi e finalizzato non si sa a che cosa ad opera di funzionari della Direzione Nazionale Antimafia con il coinvolgimento del P.M. Laudati. Ricorda un po’ lo scandalo Telecom di qualche anno fa (in quel caso il capro espiatorio fu Giuliano Tavaroli, responsabile della sicurezza dell’azienda, un altro che dei dossier non se ne sarebbe fatto nulla) e vedremo come andrà a finire.

    E, mentre a Brescia si apre la fase preliminare del processo di revisione a carico di Olindo Romano e Rosa Bazzi, il C.S.M., dando un buon esempio di cui questa volta non si sentiva il bisogno e ad una velocità sinora sconosciuta ha già comminato la censura a Cuno Tarfusser, il magistrato che aveva osato presentare la richiesta di revisione senza interpellare prima il suo superiore. Colpevole di lesa maestà per il mancato rispetto di bizantine circolari interne di cui non è nemmeno certa l’esistenza. Qualcun altro, per marachelle più sostanziose sta, invece, attendendo in pensione un pronunciamento dell’Organo di autogoverno che varrà meno della carta su cui è scritto: non luogo a sanzione perché non più appartenente all’Ordine Giudiziario.

    Tuttavia, la giustizia quando vuole trionfa: Marco Travaglio è stato condannato per una evidentissima diffamazione nei confronti dell’attuale Vice Direttore del TG1 Grazia Graziadei sebbene ci sia voluto un po’ di tempo, per l’esattezza quattordici anni. Anni serviti per vedere uscire prima il terno sulla ruota di Roma con tre sentenze consecutive di assoluzione in udienza preliminare ed altrettanti annullamenti dalla Cassazione.

    Solo al quarto tentativo c’è stato un rinvio a giudizio ma non è bastato: condannato in primo grado, l’assoluzione è arrivata in appello ma ha subito un ulteriore annullamento della Cassazione (roba da Guinness dei primati) e nel giudizio di rinvio vi è stata una nuova condanna…non ancora definitiva.

    La decisione è teoricamente ricorribile in Cassazione questa volta, facendo cinquina, dal paladino della libertà di stampa che spesso confonde con quella di diffamare. Dunque, dopo quasi tre lustri, potrebbe non essere ancora finita e del resto come dicono gli americani “un bravo avvocato conosce la legge, un ottimo avvocato conosce i giudici” e la cricca del Fatto Quotidiano, autentico house organ delle Procure, li conosce molto bene tanto è vero che il pluripregiudicato Direttore continuerà a predicare la morale e la verità sulle colonne del suo giornale e nelle ospitate televisive senza che nessuno noti la stranezza di intere trasmissioni in cui i conduttori pendono dalle labbra di un diffamatore seriale.

    In attesa di Giustizia, noi de Il Patto Sociale, se anche dovessimo rimanere gli ultimi, andiamo avanti con il nostro sorriso ed il coraggio di raccontare e combattere.

  • Separazione delle carriere: se ne parlerà a Milano in occasione della presentazione del libro del Sostituto Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Caltanissetta, Gaetano Bono

    Mercoledì 6 marzo 2024, dalle ore 15.30 alle ore 17.30, presso la Biblioteca “Avv. Giorgio Ambrosoli” al Palazzo di Giustizia di Milano sarà presentato il libro Meglio separate. Un’inedita prospettiva sulla separazione delle carriere in magistratura, del dott. Gaetano Bono, Sostituto Procuratore Generale alla Corte d’Appello di Caltanissetta, incentrato sulla divisione delle carriere dei Magistrati.

    Dialogheranno con l’autore l’Avv. Antonino La Lumia, Presidente dell‘Ordine degli Avvocati di Milano, il Dott. Fabio Roia, Presidente del Tribunale di Milano, il Dott. Marcello Viola, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, l’Avv. Valentina Alberta, Presidente Camera Penale di Milano, il Dott. Giuseppe Santalucia, Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, l’Avv. Giovanni Briola, Consigliere Tesoriere dell’Ordine degli Avvocati di Milano. L’incontro sarà Introdotto dall’Avv. Daniele Terranova, Commissione Giustizia Tributaria dell’Ordine Avvocati Milano e moderato dall’Avv. Alessandro Mezzanotte, Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Milano.

    L’evento, gratuito, è organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Milano attraverso la Fondazione Forense, nell’ambito del programma di formazione continua per gli Avvocati.

  • In attesa di Giustizia: la fabbrica dei reati

    Lo scorso fine settimana si sono tenute le cerimonie di apertura dell’Anno Giudiziario: per prima a Roma e subito dopo in tutti gli altri capoluoghi di Corte d’Appello. In un momento dedicato alla sintesi del lavoro svolto nei diversi territori, i dati sulla produttività degli Uffici sono stati commentati con l’accompagnamento di una sorta di fil rouge rappresentato dalla diffusa (e comprensibile) lamentazione sulle carenze di organico tanto della magistratura quanto delle funzioni amministrative.

    Il Ministro della Giustizia ha rassicurato che – con il concorso già in essere per 400 posti – e quelli prossimi venturi entro un paio d’anni le scoperture relative a giudicanti e requirenti saranno colmate: beato lui che ci crede ancora mentre, con qualche lodevole eccezione come il Distretto di Perugia, il piatto piange e si consolidano pendenze ed arretrati che – viceversa – si sarebbero dovuti abbattere con le riforme approvate per conseguire gli agognati fondi del PNNR. Tanto per la cronaca, Roma è in testa a questa classifica di demerito. Dimentica, però, il Guardasigilli che proprio la sua proposta di istituire un Collegio Giudicante per decidere sulle richieste di arresto assicurando maggiori garanzie agli indagati ha suscitato le perplessità della Ragioneria dello Stato perché non si sa bene dove rovistare in fondo alla cavagna per pagare gli stipendi del maggior numero di giudici necessario che andrebbero a sommarsi a quelli già oggi mancanti.

    In tutto questo, e se ne è già trattato in precedenti occasioni, il legislatore esita a dare il via libera ad una corposa ed ancor possibile depenalizzazione, che libererebbe da penosi incombenti la Polizia Giudiziaria e sgombrerebbe Procure e Tribunali dalla gestione di una moltitudine di “reati nani” che riguardano comportamenti di nessun allarme sociale e nessun disvalore meritevole della sanzione penale, tutt’al più di una multa al pari del divieto di sosta: dall’esercizio abusivo della professione di custode di condominio alla falsificazione del marchio “salame di Varzi”, tanto per fare un paio di esempi (ma sono centinaia).

    Per soprammercato, mentre il sovraffollamento carcerario torna ad essere un’emergenza, quella che può definirsi “la fabbrica dei reati” sforna a ciclo continuo nuove e fantasiose fattispecie di delitto che hanno come capostipite l’inutilissimo e confuso decreto anti rave party cui hanno fatto seguito l’omicidio nautico, l’abbandono scolastico, la resistenza passiva a Pubblico Ufficiale e molte altre ancora che trovano i loro spunti opportunistici nei più disparati fatti di cronaca contribuendo solo ad abbassare, se esistesse, il PIL del diritto penale liberale di cui Carlo Nordio è sempre stato un alfiere…ma qualcuno, evidentemente rema contro e – pochi lo sanno, poco se ne sa ed ancor meno se ne parla – il suo Capo di Gabinetto, un Magistrato chiamato a quel ruolo cruciale per la dimostrata capacità organizzativa del Tribunale di cui era Presidente, ha rappresentato l’intenzione di dimettersi anche per le continue ingerenze del suo vice.

    Nel frattempo, l’Associazione Nazionale Magistrati, invece di offrire un contributo costruttivo, sembra preoccupata solo di criticare l’operato del Guardasigilli, preoccupata essenzialmente di scongiurare la separazione delle carriere.

    A proposito di ANM: in questi giorni si è conclusa la revisione del processo in favore di Beniamino Zuncheddu (anche di questa vicenda si è occupata la rubrica) che, con 33 anni di carcere da innocente ha conquistato il triste Guinness dei Primati di settore e che dovrebbe essere nominato senatore a vita diventando la memoria per il nostro futuro perché, come dice Primo Levi, chi dimentica il passato è condannato a riviverlo e nessuno vuole che si ripetano vicende come quelle di Enzo Tortora e Beniamino Zuncheddu. Ma a costui, risultato vittima di conclamata insipienza, incompetenza, inadeguatezza di chi lo aveva malamente giudicato, l’ANM non chiede scusa, difendendo la bugia secondo cui la responsabilità dei giudici mortificherebbe la loro indipendenza, sempre pronta a protestare se si prova a negare alla magistratura un potere assoluto ed incondizionato che schiaccia gli individui nella morsa tra la fabbrica dei reati e quella parodia di Stato di diritto che siamo diventati.

  • Troppo pochi magistrati minorili, oltre 100mila casi di minorenni in difficoltà restano in alto mare

    Bambini che si drogano, adottandi dimenticati, figli lasciati a genitori che li maltrattano. Sono le conseguenze del deficit di forza lavoro togata che affligge i tribunali minorili del Belpaese. Secondo quanto ricostruito dal Corriere della Sera a firma di Milena Gabanelli e Simona Ravizza, i 29 tribunali minorili italiani hanno 110mila casi pendenti che non riescono a smaltire per carenze d’organico. A Milano ci sono 13 giudici invece dei 18 che dovrebbero essere in servizio, a Roma 12 invece di 16, a Genova 5 invece di 7, a Bari 7 invece di 10. Ne consegue che a Milano vi sono 12.662 casi pendenti: nel tribunale minorile lombardo, che è il più produttivo d’Italia, ogni magistrato minorile deve gestire 974 fascicoli arretrati per anno e nello stesso tempo arrivano 562 casi nuovi, a Roma le pendenze sono 8.368, a Napoli 5.531 e a Bologna addirittura 10.106. In tutta Italia, ci sono 108.876 vicende che coinvolgono minorenni e che richiedono l’intervento dello Stato che attendono di essere definite perché mancano le toghe. L’emergenza non è sfuggita all’ex guardasigilli Marta Cartabia ma resta il fatto che le norme introdotte per far fronte al problema continuano a scontrarsi con la carenza materiale di personale che si occupi di applicare le norme del caso a minorenni in situazioni di difficoltà.

  • A che punto è la notte

    Leggendo il titolo di un inquietante saggio di Alessandro Barbano, “La gogna. Hotel Champagne, la notte della giustizia italiana”, spontanea sorge la domanda mutuando quello di un romanzo noir firmato da Fruttero e Lucentini nel 1979.

    La risposta non è di quelle confortanti: siamo nel cuore di una notte senza luna né stelle; il nuovo anno porta con sé una legge finanziaria che dota con una manciata di spiccioli il settore della giustizia. In compenso bisognerà confrontarsi con la Riforma “Cartabia” finalmente (?) a pieno regime per gli aspetti legati alla informatizzazione del processo penale rispetto alla quale il personale degli uffici non è ancora adeguatamente preparato all’impiego del “Portale” dedicatovi: una mastodontica accozzaglia di malpensati e malfunzionanti software che plasticamente rappresenta la figura del cretino elettronico capace di impicciare e rallentare vieppiù il lavoro di strutture che da sempre sono in debito d’ossigeno con la produttività.

    Questa proverbiale incapacità di dotare il sistema di strumenti in grado di efficientarlo non si spiega in altro modo che con un originario maleficio, una fatwa, una misteriosa iattura che produce – addirittura – l’effetto contrario di complicare ulteriormente le cose, talvolta con il contributo di fastidiosi poltergeist trasferiti direttamente dalla consolle di una discoteca allo scranno di Guardasigilli o di altri figuranti meno bizzarri ma non meno perniciosi.

    L’anno che verrà non sembra, per ora, autorizzare profezie consolatorie come nella lirica di Lucio Dalla se è vero come è vero che le riforme liberali preannunciate dal Ministro Nordio sono parcheggiate su un binario morto e tenute sotto tiro non solo dalla potenza balistica dell’Associazione Nazionale Magistrati ma anche da fuoco amico; il tutto mentre, anche volendo, si possono ritoccare solo marginalmente gli assetti recentemente dati al processo penale dopo aver fruttato solo ciò che realmente interessava:  fondi del PNRR.

    Qualcosa, per esempio, si sta cercando di fare con riguardo ai limiti imposti alla facoltà di impugnazione con l’intento manifesto di ridurre il carico soprattutto delle Corti di Appello.  Il che, tradotto, non significa dotare il Paese di una giustizia che lavora meglio ma di uffici giudiziari che lavorano meno grazie ad una disciplina riformatrice che grida vendetta e la cui incostituzionalità risulterebbe chiara anche ad uno studente del secondo anno della scuola alberghiera.

    Un altro terreno di scontro, ormai da decenni, è quello della prescrizione, il cui regime è già stato modificato quattro volte negli ultimi diciotto anni, ed a cui si sta ponendo nuovamente mano: emblema di una giustizia che rassomiglia sempre più alla tela di Penelope, da fare e disfare come prezzo da pagare al processo penale divenuto terreno di scontro politico e di acquisizione del consenso elettorale.

    E non si torni a dire che la prescrizione è il vergognoso istituto che salvaguarda ricchi e potenti dal meritato castigo per le loro malefatte perché di vergognoso c’è solo un apparato che – come accaduto a Napoli e reso noto dai media – non riesce a terminare un processo alla criminalità organizzata in meno di vent’anni e dopo tre dalla conclusione non sono ancora note le motivazioni della sentenza. Una giustizia che arriva dopo un quarto di secolo non è degna di questo nome né per gli accusati né per le vittime…ma anche un tempo minore indigna: a Torino ne hanno impiegati sedici (di cui nove solo per fissare una data il giudizio di appello) per una violenza sessuale, a Milano un fascicolo relativo a gravi fatti di concussione è rimasto, insieme ad altri, a fare le ragnatele in un armadio per quasi quattordici anni prima di essere riesumato dal Magistrato “erede” del ruolo di un P.M. che prima di andare in pensione era ossessionato esclusivamente dall’indagare sulle cene eleganti ad Arcore.

    Sono solo alcuni esempi, se ne potrebbero fare altri: molti altri, troppi, egualmente distribuiti su tutto il territorio mentre la politica si affanna a cercare le più improbabili intese per varare riforme gattopardesche… e se qualcuno vi chiedesse a che punto è la notte della giustizia saprete cosa rispondere.

    Buon anno a tutti…

  • In attesa di Giustizia: la Corrida

    Chi non ricorda lo spassoso programma televisivo condotto da Corrado Mantoni in cui entusiasti improvvisatori si cimentavano nelle più disparate performances sottoponendosi al giudizio – più spesso al biasimo – del pubblico armato di pentole, fischietti ed altri originali strumenti di voto?

    Ecco, questa settimana, “In attesa di Giustizia” offre – quasi come una strenna – ai suoi lettori una carrellata di esibizioni degna de “La Corrida” se non fosse che i perfomers non sono dilettanti allo sbaraglio, forse si tratta solo di personaggi (ancora) in cerca di autore che presumono troppo. Preparate i campanacci…

    Cominciamo dai polemisti che da ogni dove hanno attaccato l’avvocato Cuccureddu (una donna, tra l’altro) per come ha condotto il controesame della ragazza che si presume abbia subito violenza da parte di Ciro Grillo e dei suoi amici; una considerazione deve premettersi a tutte le altre: come è possibile che neppure un’udienza “a porte chiuse”, cioè senza presenza di pubblico e/o cronisti proprio per la delicatezza degli argomenti e tutelare al meglio la riservatezza dei protagonisti, risulti così facilmente permeabile e la sostanza dei verbali diventi immediatamente di condiviso dominio di quotidiani e telegiornali?

    “Vegogna, domande da Medioevo, patriarcato! (che è il più recente degli insulti)”… alte si levano le voci degli indignati dalla circostanza che un difensore abbia fatto il suo mestiere che, nei casi in cui tutto si gioca sulla parola di uno contro quella dell’altro, consiste nella verifica della attendibilità dei testimoni e non può essere affidata ad altro che ad un rigoroso interrogatorio, magari sgradevole anche per chi lo fa: però anche essere sotto processo per violenza sessuale è sgradevole: in quello a carico di William Kennedy Smith, nipote del senatore Ted, il solo P.M. incalzò per ben undici ore la denunciante la cui partecipazione emotiva fu così coinvolgente che alcuni giurati svennero. Ma quello era il P.M., erano altri anni, accadeva lontano da noi e nessuno se ne lamentò. Il giovane fu, comunque, assolto.

    Per restare in tema di violenza di genere, è Interessante anche la proposta di Mauro Corona, scudiero da anni di Bianca Berlinguer, il quale interpellato per ottenere una illuminante soluzione alla piaga sociale dei femminicidi ha suggerito come deterrente una modifica del codice penale che richiama quello meno recente di Hammurabi (circa trentotto secoli) e che consiste nel mettere il presunto autore a disposizione dei famigliari della vittima per una settimana, chiusi in una stanza e se ne esce vivo buon per lui. Certo che, se la legge del taglione è la più quotata, non ci si deve stupire se una duplice e due volte inutile riforma ha provocato solo pericoloso smarrimento tra legittima difesa ed autorizzazione alla vendetta sociale, tra Far West e Stato di diritto. Ed anche a questo proposito il bestiario degli insegnamenti a reti unificate è stato ricco e vario.

    Il gran finale di questa puntatona della Corrida non poteva che riservarsi a lui: Piercamillo Davigo, in evidente calo di popolarità al punto che pur di ottenere un’ennesima ospitata – rigorosamente in solitario (guai a mettergli in studio un contraddittore) – si è reso disponibile a partecipare ad una puntata de “Il Muschio Selvaggio”.  Intervistato da Federico Leonardo Lucia è riuscito a sgomentare persino lui che, di sicuro, non è un raffinato giurista.

    L’ineffabile Dottor Sottile, richiesto da Fedez di manifestare il proprio pensiero rispetto alla problematica dei suicidi in carcere, non ha saputo dire di meglio che è davvero un peccato che i detenuti si tolgano la vita perché così vanno disperse possibili fonti di informazione.

    Non pago, a proposito della vicenda che ha portato alla sua condanna a quindici mesi di reclusione, non ha saputo offrire di meglio agli ascoltatori che la lapidaria affermazione “Io non ho commesso reati ma, visto che a Brescia le cose non sempre le capiscono mi hanno condannato”.

    Gioco, partita, incontro: sebbene debba annotarsi che l’ultimo palcoscenico dell’ex stratega di Mani Pulite denoti che sia stato, ormai, relegato ad un ruolo di macchietta. Esattamente come il buon selvaggio di Carta Bianca.

    Buon Natale a tutti voi e..meditate gente, meditate.

  • In attesa di Giustizia: lesa maestà

    Ci sono vicende che rendono emblematico il nome che si è dato a questa rubrica: come quella di Beniamino Zuncheddu di cui – bontà loro – si sono occupati recentemente anche rappresentanti della “buona stampa” sia pure senza andare molto oltre i titoli ad effetto.

    La storia è quella di un uomo per il quale sedici mesi sono stati sufficienti per svolgere indagini e celebrare il giudizio di primo grado e quello di appello, conclusi con una condanna all’ergastolo, devastandone la vita; poi sono serviti 32 anni per restituirgli la libertà, l’onore, l’affetto della famiglia.

    Beniamino Zuncheddu entrò in carcere che aveva ventisette anni e ne è appena uscito, alla soglia dei sessanta, liberato in attesa di una decisione, che appare scontata, sulla richiesta di revisione del processo di cui si sta occupando la Corte d’Appello di Roma cui è stata data una netta accelerazione successiva ad una fase iniziale scandita da udienze a distanza di sei/sette mesi una dall’altra anche perché è intervenuto il Garante dei Detenuti della Sardegna organizzando – con il contributo e la perseveranza dei Radicali – sit in davanti ai Tribunali di Roma e di Cagliari ed in questo modo dell’ “affaire Zuncheddu” si è iniziato a parlare.

    Quest’uomo, dunque, fu arrestato nel febbraio del 1991, accusato del triplice omicidio di alcuni pastori ed il ferimento di un quarto. Stiamo, dunque, parlando di un regolamento di conti asseritamente determinato da sconfinamenti di pascolo del bestiame, un movente debole ed un’unica prova debolissima a carico di Zuncheddu: la testimonianza più che ambigua di un sopravvissuto alla strage che in un primo momento disse di non avere riconosciuto nessuno ma in seguito identificò Zuncheddu (sembrerebbe dietro suggerimento di un poliziotto condizionato a sua volta da fonti confidenziali, che gliene sottopose una fotografia) e non senza modificare più volte la propria versione nelle diverse occasioni in cui fu sentito…soprattutto allorchè si avvide che non poteva avere riconosciuto un uomo che – a suo stesso dire – era con il volto travisato.

    Il riconoscimento di attendibilità ad una simile deposizione  non può che essere frutto di quella giustizia miope e impregnata di cascami inquisitori che impone di trovare un colpevole purchessia, che si arresta di fronte alla prima evidenza ancorchè improbabile e che – mutuando un esempio dal tiro a segno – prima spara il colpo e poi vi disegna intorno il bersaglio per dimostrare che è stato fatto centro pieno: quella giustizia per la quale due piatti della bilancia sono insufficienti perché non ci sono solo il torto e la ragione ma ci sono anche il cuore, la follia, il dolore, l’ingenuità, il sogno, l’utopia.

    Un uomo è marcito in carcere per gran parte della sua vita adulta sebbene fosse emerso sin da subito – a prescindere dalla testimonianza oculare ad assetto variabile – che l’autore di quell’eccidio fosse una persona avvezza all’uso delle armi con le quali Beniamino Zancheddu non aveva nessuna dimestichezza, senza contare che, con una spalla fuori uso sin dalla nascita, non avrebbe neppure potuto imbracciare un fucile con la rapidità e sicurezza necessarie per portare a termine un’operazione che le Corti di Assise hanno definito come di livello organizzativo paramilitare e  non alla portata di tutti.

    Prima di Natale è attesa la sentenza che dovrebbe porre termine a questa via crucis e non è fuor di luogo evidenziare che la richiesta di revisione fu sottoscritta oltre che dal difensore di Zancheddu anche dall’allora Procuratore Generale di Cagliari, Francesca Nanni, la stessa che – ora Procuratore Generale a Milano – ha ritenuto di segnalare disciplinarmente al C.S.M. il suo sostituto, Cuno Tarfusser, reo di averne presentata una in proprio per la strage di Erba senza “chiederle il permesso”: probabilmente in qualche comma semi sconosciuto dell’Ordinamento Giudiziario sarà anche scritto che si deve far così così e, forse, Tarfusser nel suo procedere ha saltato questo passaggio meramente formale ma viene da chiedersi se il rispetto della legge, la ricerca della verità, debbano essere vincolati all’ossequio di scale gerarchiche.

    Sono, piuttosto, i lustri ed i decenni in attesa che sia ristabilito il vero ad integrare il crimine di lesa maestà: quella della Giustizia.

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