May

  • Questa sera summit europeo sulla Brexit

    Theresa May, la premier britannica, è stata ieri a Berlino e a Parigi, in preparazione del Consiglio europeo straordinario, la conferenza al vertice dei capi di Stato o di governo, che avrà luogo a Bruxelles questa sera, per decidere se concedere o meno una seconda proroga in meno di un mese, al fine di evitare che Londra sia costretta, venerdì prossimo, a uscire dall’UE senza un accordo. Dopo gli incontri si è fatta strada l’idea di una proroga lunga e flessibile che arrivi fino alla fine del 2019 o all’inizio del 2020. La decisione impone l’unanimità dei consensi; tutti i 27 governi dovranno trovarsi d’accordo. E se così non fosse? In questo caso il Regno Unito sarebbe costretto ad uscire dall’Unione europea senza un accordo (ipotesi no deal) alle ore 23 di venerdì 12 aprile. Si tratta però di un’ipotesi remota, che tra l’altro avrebbe la conseguenza di creare forte incertezza sui mercati e di danneggiare gravemente vari Paesi europei, primo fra tutti l’Irlanda. Non a caso il primo ministro irlandese Leo Varadkar ha dichiarato sabato scorso che un Paese UE che ponesse il veto su una proroga di Brexit “non sarebbe mai perdonato” dal governo e dai cittadini irlandesi. Nell’ipotesi in cui si vada invece nella direzione di una proroga, il problema sarebbe quello della sua durata: proroga breve o proroga lunga? Nel primo caso la proroga arriverebbe fino al 22 maggio, alla vigilia delle elezioni europee che si dovrebbero tenere nel Regno Unito, o al massimo, fino al 30 giugno, poiché il 2 luglio il Parlamento europeo eletto terrà la sua prima seduta. Una minoranza di Paesi UE, tuttavia, sembra favorevole a una proroga breve, con il rischio di convocare ripetutamente dei Consigli straordinari per dei rinvii di breve durata, essendo evidente che la May avrebbe grosse difficoltà a trovare un accordo con i laburisti per avere una maggioranza in seno al Parlamento in meno di tre mesi. Tanto più che per Bruxelles l’accordo sottoscritto a fine 2018 non può essere rimesso in discussione. Il compromesso tra conservatori e laburisti, dunque, dovrebbe riguardare soltanto la dichiarazione politica che regola i futuri rapporti tra Londra e Bruxelles. Pare perciò che il Regno Unito sia costretto a rimanere nell’UE a pieno titolo ancora per un periodo di tempo significativo. Da ciò l’ipotesi di una proroga lunga, che richiederebbe però la partecipazione di Londra alle elezioni europee. Ma quale impatto la partecipazione britannica alle elezioni di fine maggio potrebbe avere sugli equilibri politici del prossimo Parlamento europeo? Il rafforzamento dei gruppi politici euroscettici potrebbe disturbare la formazione di una grande coalizione che potrebbe comprendere i popolari, i socialdemocratici, i liberali dell’Alde e i deputati del partito di Macron, che però non hanno ancora deciso. La presenza dei deputati del RU inciderebbe senza dubbio sull’equilibrio previsto dei gruppi politici e ridurrebbe ulteriormente la già frammentata maggioranza europeista. In più, inciderebbe sugli equilibri interni ai due più grandi schieramenti, quello europeista e quello euroscettico. Nel primo aumenterebbero i socialdemocratici con la presenza dei laburisti, mentre i popolari ridurrebbero percentualmente i loro seggi, dal momento che i conservatori britannici non appartengono al PPE. Nel secondo, il gruppo ECR risulterebbe il più grande avendo con sé i conservatori britannici. Che diranno quelli della Lega e del Movimento 5 stelle, che potrebbero essere svantaggiati percentualmente dalla presenza dei conservatori?  Una proroga lunga potrebbe dunque scontentare molti, ma sembra che la maggioranza del Consiglio vi sia favorevole. Come andrà a finire questa sera lo sapremo durante la notte, che dovrebbe portare buon consiglio, con la lettera minuscola. Speriamo che anche quello con la lettera maiuscola sia saggio e ragionevole.

  • Brexit: un altro passo avanti ma non definitivo

    E’ accaduto tra la notte di mercoledì e giovedì, durante una lunga votazione alla Camera dei Comuni, che si è espressa contro un’uscita dura del Regno Unito dall’Unione europea, cioè contro un’uscita no deal, vale a dire senza accordo. Uno stop al no deal era già stato votato altre volte, ma il voto era soltanto indicativo. Ora invece si tratta di una legge vincolante, approvata con un solo voto di maggioranza (313 a 312) ed ottenuta con un appoggio trasversale. Questa legge, che deve passare anche alla Camera dei Lord, impone alla premier Theresa May di chiedere un altro rinvio all’UE, nel caso in cui il 12 aprile si prospettasse l’incubo del no deal. E questo incubo diventerebbe reale se prima del Consiglio europeo straordinario del 10 aprile non si raggiungesse un accordo. Il nuovo rinvio, tuttavia, sarà accettato dall’UE solo in cambio di un’estensione lunga (almeno 9 mesi come ha fatto capire il presidente della Commissione Juncker) che preveda per il Regno Unito nuove elezioni generali o un secondo referendum sulla Brexit, oltre alle sempre più probabili elezioni europee di fine maggio. Con il voto di ieri notte e le prospettive che ne scaturiscono i fautori della Brexit sono ridotti in un angolo, con poche possibilità di risalire la china e di imporre le loro vedute. A meno che il Consiglio europeo non accetti la nuova proposta di rinvio, aprendo le porte alla sola soluzione no deal. E’ uno scenario che ci sembra irrealistico, ma in politica … mai dire mai! Il no deal, auspicato dai Brexiters, è temuto invece da tanti altri personaggi britannici. Tra questi, ancora ieri, il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, aveva dichiarato che il rischio no deal era ancora molto alto e che sarebbe stato impossibile riuscire a controllarne le conseguenze. Con il nuovo voto questo rischio è scomparso e lo scenario è cambiato radicalmente, poiché acquistano importanza i negoziati bipartisan iniziati ieri con un colloquio tra i due leader della maggioranza e dell’opposizione.  May e Corbyn si sono detti soddisfatti del primo incontro, anche se il leader laburista ha aggiunto che è stato inconcludente. Il che vuol dire che le distanze tra i due sono ancora notevoli e che quindi non c’è da essere ottimisti sulla brevità dei negoziati stessi e sulla condivisione dei risultati. Del contenuto del negoziato non è filtrato nulla, ma gli orientamenti per una eventuale intesa potrebbero essere quelli già dichiarati pubblicamente nel dibattito parlamentare di queste due ultime settimane: l’unione doganale citata da Corbyn e l’allineamento al mercato unico come vuole il Labour; no, invece, come vuole la May, alla libera circolazione delle persone e a un secondo referendum. Questo auspicato accordo bipartisan, ammesso che si realizzi, sembra la via d’uscita più concreta per attuare una Brexit ordinata.  Il governo non ha accolto con favore il risultato del voto di ieri notte, perché, essendo vincolante, limiterebbe la sua capacità di negoziare l’estensione prima del 12 aprile. Ma i più delusi sono i Brexiters, che hanno parlato di scandalo costituzionale. Le tensioni sono ancora molte, i ripicchi non si faranno attendere, ma aver fissato un punto fermo legale e vincolante ci sembra un passaggio dal quale non si può più recedere, a meno che, come dicevamo senza crederci, sia l’Europa ora a rifiutare una nuova estensione. Da Bruxelles intanto fanno sapere che lavoreranno sino all’ultimo minuto per evitare il no deal. Che sia la volta buona?

  • Per la Brexit ancora pazienza

    La scadenza del 12 aprile, data fissata dalla prima proroga per evitare le elezioni di fine maggio, si avvicina rapidamente e porta con sé l’incubo dell’uscita no deal, cioè senza accordo, del Regno Unito dall’Unione Europea. Ma la May si dà da fare e non perde un attimo senza pensare all’uscita che si deve fare. Lo ha ripetuto anche ieri, dopo una riunione del Consiglio del ministri durata sette ore. “Il mio obiettivo – ha ribadito nel corso di una conferenza stampa – è far uscire il Regno Unito dall’Unione europea in modo ordinato – La Brexit si deve fare”. Già, ma come? – Dopo tutti i tentativi andati a vuoto in queste ultime settimane. Il margine delle possibilità si riduce sempre di più. Oggi la May avrà un’altra riunione del Consiglio dei Ministri per tentare ogni via d’uscita dall’impasse in cui il parlamento ha cacciato la Brexit, oltre che il governo tutto intero. Un’ipotesi da tentare sarebbe la richiesta di una proroga limitata nel tempo e la collaborazione del leader laburista Jeremy Corbyn. Per proporre che cosa di nuovo all’Unione Europea? La permanenza nell’Unione doganale? Un secondo referendum? Ma non sono tutte ipotesi già valutate e respinte più di una volta dal parlamento? Indifferente alle richieste delle sue dimissioni, la May probabilmente vorrà riportare in parlamento il suo piano. Il ministro per la Brexit, Stephen Barclay, ha dichiarato che la Camera potrebbe ancora approvare il piano May in questa settimana. Giovedì 4 aprile sarebbe la data più probabile per una nuova votazione sul testo. Il 10 aprile, mercoledì prossimo, il Consiglio europeo straordinario valuterà una possibile richiesta di un ulteriore rinvio della Brexit, che potrebbe essere concesso solo se si troverà un accordo su una prospettiva che sia chiara, nel caso di nuove elezioni, ad esempio, o di un secondo referendum. “Se ci sarà una maggioranza sostenibile del Parlamento sull’accordo di ritiro entro il 12 aprile, allora la UE è pronta ad accettare una proroga di Brexit. Se la Camera dei Comuni non si pronuncerà, nessuna proroga breve sarà possibile, perché questo minaccia il buon funzionamento dell’Unione e le stesse elezioni europee”. Questa la risposta del presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, data ieri al Parlamento europeo, alla proposta della premier britannica di ieri dopo la riunione del Consiglio dei Ministri. Oggi la May dovrebbe incontrare Corbyn, che nel corso del question time alla Camera dei Comuni ha giudicato come benvenuta la volontà della May di scendere a compromessi. Sarà possibile dunque un accordo trasversale per una Brexit meno dura? Il ministro Barclay, un brexiteer pragmatico, ha aggiunto che l’obiettivo è ora un compromesso che possa permettere al RU di uscire dall’UE il 22 maggio e che la richiesta di ulteriore rinvio sarà presentata a Bruxelles la settimana prossima, dopo i colloqui May-Corbyn ed eventuali nuovi voti indicativi ai Comuni. Il ministro ha poi precisato cha la premier non pone precondizioni sulle richieste chiave di Corbyn (unione doganale e rispetto degli standard europei sui diritti dei lavoratori), ma ha ribadito d’essere personalmente contrario a un secondo referendum confermativo sulla possibile intesa. Oggi la May dovrebbe anche incontrare la leader scozzese Nicola Sturgeon, disponibile a recarsi immediatamente a Londra. Il Partito Nazionale Scozzese ha costantemente cercato un accordo trasversale per mettere fine al caos della Brexit, appoggiando anche l’dea di un secondo refrendum. Il ministro degli Esteri irlandese, Simon Coveney, intervenendo a sostegno della May, ha detto che l’Irlanda sosterrà la probabile richiesta della May di una proroga breve della Brexit al vertice del Consiglio europeo del 10 aprile. Tutto è ancora in alto mare, dunque, ma almeno ci sono “svolte” che fanno bene sperare e che potrebbero rimediare all’incapacità del parlamento di darsi una maggioranza su qualsiasi soluzione. Il suo narcisismo politico non ha dato frutti e ha messo in forse la sua credibilità. La “testardaggine” della May invece potrebbe – ce lo auguriamo – risolvere la questione Brexit senza i danni paventati e con accordi ragionevoli.

  • Il terzo no liquida definitivamente l’accordo May con l’UE

    E’ la terza volta che la maggioranza della Camera dei Comuni respinge l’accordo negoziato dalla May con l’UE per l’uscito del Regno Unito dall’Europa. 344 sono stati i no e 286 i sì, più delle due volte precedenti, ma di gran lunga insufficienti per l’approvazione. Sembrano avere una simpatia particolare per il no i parlamentari britannici. Soltanto due giorni fa, in un solo giorno hanno detto no otto volte, senza mai proporre alternative. Tutte le ipotesi in ballo sono state sonoramente bocciate. Questo ultimo e definitivo no è arrivato, nonostante la premier avesse offerto le sue dimissioni se i si avessero avuto la maggioranza. Di fronte a questo ennesimo rifiuto, il leader laburista Corbyn ha reiterato la sua richiesta di dimissioni del governo, che ci sarebbero state se l’accordo sull’uscita fosse stato approvato. Ma anche il Labour ha una grande responsabilità in tutto quanto di caotico e di incomprensibile è avvenuto. Il suo continuo atteggiamento negativo, senza proporre mai alternative serie alle proposte del governo, lo rende corresponsabile della situazione attuale. Di fronte a questa situazione di stallo, resta in piedi solo un mini rinvio limitato al 12 aprile, data entro la quale il RU dovrà decidere se chiedere a Bruxelles un ulteriore allungamento della proroga, purché debitamente motivata, oppure procedere a un’uscita no deal, cioè senza accordo. L’ulteriore proroga, però implicherebbe la partecipazione britannica alle elezioni europee. Non a caso, subito dopo il voto, la May ha definito “quasi certa” la partecipazione alle elezioni di maggio, ritenendo grave la decisione negativa dei Comuni ed evocando la richiesta di un rinvio prolungato all’UE. La May inoltre ha rinfacciato alla Camera di non avere un piano alternativo maggioritario, avendo detto no all’accordo, ma anche a un no deal, a una no Brexit e a un referendum bis. Nonostante tutti questi no contradditori, la premier ha insistito sul fatto che il governo continuerà ad agire affinché la Brexit sia attuata. Il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, intanto, ha deciso di convocare un vertice UE il 10 aprile. Negli ambienti di Bruxelles si prevede uno scenario no deal a partire dalla mezzanotte del 12 aprile. Sembra la soluzione più probabile e in una nota la Commissione si rammarica del voto negativo della Camera dei Comuni. “L’UE resterà unita ed è pienamente preparata ad una hard-Brexit” si afferma nella nota di Bruxelles. La situazione è pesante e gli osservatori si chiedono, senza avere una risposta, che cosa potrebbe creare una maggioranza parlamentare. Nemmeno la proposta di Corbyn sembra raccogliere la maggioranza. La May deve andarsene indicendo subito nuove elezioni, l’accordo da lei sottoscritto va cambiato. La May deve consentire al Paese di decidere il suo futuro attraverso elezioni generali – ha dichiarato Corbyn ai Comuni. Benissimo! E la Brexit? Come si attuerà? Chi ha la formula magica da proporre? E’ l’ulteriore dimostrazione che i no alla May erano riservati alla sua leadership. La Brexit non era, non è che un pretesto per eliminarla dal potere.

  • La Brexit è ancora in alto mare

    Nonostante la sfilata di più di un milione di persone tra le strade Londra per dire no alla Brexit, nonostante la raccolta di più di 5 milioni di firme per revocare l’art. 50 del Trattato UE che regola la data d’uscita, nonostante la richiesta di un secondo referendum, nulla per ora è cambiato nel bailamme politico che da tre anni attenta alla reputazione del Parlamento e della classe politica del Regno Unito. E’ dal 23 marzo 2016, cioè 1.007 giorni fa, che il Regno Unito si è espresso per referendum per uscire dall’Unione Europea. Ma un conto è decidere l’uscita e un conto è scegliere il modo per realizzarla. L’uscita è stata decisa, ma il modo lo stanno cercando ancora, perché quello intrapreso dalla Premier Theresa May e confermato dal suo governo, vale a dire un’intesa negoziata con l’UE che regola anche i rapporti tra le due parti, una volta effettuata l’uscita, è già stato respinto due volte dal Parlamento. L’accordo, siglato il 25 novembre scorso dal Governo di Londra e dai 27 Paesi dell’UE, è un documento diviso in due parti. La prima è formata da 585 pagine legalmente vincolanti, che stabiliscono i termini del divorzio dall’UE. La seconda parte, di 26 pagine, non legalmente vincolante, riguarda le relazioni future tra Regno Unito e UE in ambiti rilevanti, quali commercio, sicurezza, difesa. E’ previsto anche un periodo di transizione di due anni, dal 29 marzo 2019 al 31 dicembre 2020 ed è applicabile soltanto se entra in vigore questo accordo. Nell’avvicinarsi della data d’uscita stabilita nel 29 marzo prossimo, in applicazione del citato art. 50, il Parlamento ha votato una mozione per affermare che non vuole un’uscita senza accordo, un’uscita “no deal”, dopo aver votato due volte contro l’accordo negoziato dal governo. E in vicinanza del 29 marzo, per non uscire senza accordo, la May ha chiesto all’UE una deroga alla data d’uscita, ottenendo in cambio quella del 22 maggio, a condizione che entro il 12 aprile il RU indichi con chiarezza le sue scelte, le scelte del parlamento, non del governo che poi è messo in minoranza. Se così non fosse, per allungare la deroga, il RU dovrà partecipare alle elezioni europee di fine maggio, creando altri problemi sulla legalità dell’evento. Tutto si muove nei corridoi del Parlamento e nelle aule dei gruppi parlamentari, ma tutto rimane fermo. La sola novità è rappresentata dal voto di un emendamento, osteggiato dal Governo, avvenuto nella serata di lunedì 25 marzo. Con 329 voti a favore e 302 contrari si è deciso di passare al Parlamento il compito di votare prioritariamente le sue proposte “indicative” di piani alterativi alla linea May, ribaltando in questo modo l’equilibrio delle istituzioni democratiche, come la May aveva scongiurato di non fare prima del voto. Da sempre, infatti, è il Governo che decide cosa deve trattare il Parlamento, ma trenta deputati conservatori si sono ribellati e tre sottosegretari hanno dato le dimissioni per poter votare a favore dell’emendamento secondo coscienza. La May dopo il voto ha dichiarato che non intende rispettare la volontà del Parlamento anche se ci fosse una maggioranza a favore di un’opzione alternativa al suo accordo. Ha detto esplicitamente che si opporrà a qualsiasi tentativo di restare nell’Unione doganale o di indire un secondo referendum. Il voto del Parlamento di lunedì sera è indicativo e non vincolante, quindi la May può rifiutarlo, ma non può dimenticare il rischio di esacerbare le divisioni e di aggravare la crisi politica in atto. “Continuo a credere – ha insistito la May – che la strada da me tracciata è l’unica percorribile e che il percorso giusto sia lasciare la UE il prima possibile con un accordo entro il 22 maggio”. C’è da chiedersi tuttavia se, per come stanno le cose in Parlamento, c’è ancora abbastanza sostegno per ripresentare l’accordo per un terzo voto significativo. Ciascuno, per ora, rimane fermo sulle posizioni di partenza. L’impegno del governo rimane quello della difesa dell’accordo convenuto, già respinto. La May attenderà le proposte “indicative” del Parlamento, ma aggiunge che se i deputati non fossero in grado di approvare qualche strategia positiva differente dalla sua intesa, entro il 12 aprile, Bruxelles non accorderebbe una deroga più lunga, con la conseguenza di andare incontro al traumatico sbocco del “no deal”, come epilogo automatico, che la Commissione europea considera a questo punto sempre più verosimile. L’UE e gli Stati membri, infatti, hanno completato i preparativi per far fronte e ridimensionare gli effetti del contraccolpo. Tra i Conservatori nel frattempo si discute di possibili vie d’uscita con le dimissioni della May, o meglio, di un suo possibile impegno a farsi da parte fra qualche mese con una exit strategy dignitosa  e responsabile. Ma la premier si rifiuta di parlarne e risponde agli avversari dicendo che “c’è un lavoro da fare e intendo continuare a svolgerlo”. Situazione di stallo, abbiamo detto. Per quanto ancora? Riuscirà il Parlamento a fornire soluzioni “indicative” che possano sbloccare la situazione? Se fino ad ora non è riuscito a trovare una maggioranza risolutiva, ci riuscirà ora senza che nessun progetto sia stato discusso o presentato? Qualunque opinione di abbia sulla Brexit, una cosa appare certa nel caso britannico: il referendum del marzo 2016 ha avuto un indubbio potenziale disgregativo rispetto al parlamentarismo, che fino ad ora è stato incapace di trovare il modo di realizzarlo, dando un’immagine negativa della funzione legislativa e una cattiva reputazione della storica istituzione.

  • Il Consiglio europeo proroga la Brexit al 22 maggio

    Il Consiglio europeo, cioè la conferenza al vertice dei capi di Stato o di governo dei 27 Paesi dell’Unione europea, ha risposto a Theresa May, primo ministro del Regno Unito, che chiedeva una proroga della data d’uscita dall’UE fissata al 29 marzo. Chi ha seguito le vicende della Brexit, ricorderà che la May ha sottoposto al voto della Camera dei Comuni, per ben due volte, il testo dell’accordo stabilito con l’Unione Europea, e approvato del suo governo, riguardante il periodo successivo all’uscita dall’Europa. E per ben due volte la Camera dei Comuni ha respinto l’accordo con maggioranze molto forti. Avendo fatto votare anche se il parlamento accettava un’uscita senza accordo e mancando ormai il tempo per rinegoziare il tutto, ammesso che l’UE avesse accettato il rinegoziato, i Comuni si sono espressi contro il “no deal”, cioè contro il non accordo. Non hanno accettato l’accordo negoziato dal loro governo, ma non accettavano neppure di uscire senza accordo, per di più non hanno proposto un accordo alternativo, lasciando il governo in balia dell’incertezza e senza sostegno alcuno. Giunti alla vigilia della data d’uscita, la May ha chiesto allora una proroga, per avere il tempo di aprire nuovi negoziati. Il Consiglio europeo di ieri ha risposto favorevolmente, ma la scadenza limite è stata fissata al 22 maggio e condizionata al voto positivo dei Comuni (non solo del governo) sull’accordo d’uscita. In caso di bocciatura Londra dovrà indicare entro il 12 aprile come intende comportarsi con il voto delle elezioni per il Parlamento europeo. Donald Tusk, presidente del Consiglio europeo, nel corso della conferenza stampa che ha avuto luogo al termine dei lavori, ha sottolineato che le conclusioni sono state raggiunte all’unanimità e che la Premier britannica Theresa May ha accettato gli scenari di proroga proposti dai 27 leader UE. “Fino al 12 aprile – ha spiegato – rimangono aperti tutti gli scenari. Londra avrà ancora la possibilità di un accordo, di una Brexit senza intesa, di una lunga estensione, o di revocare l’uscita”. Per il presidente della Commissione UE, Jean-Claude Juncker, Bruxelles ha fatto tutto il possibile, rassicurando più volte il RU sul “backstop” per il confine interno all’Irlanda. Ha concluso il suo intervento, precisando che l’Unione è pronta ad affrontare qualsiasi scenario che il governo del Regno Unito le presenti. Theresa May ha confermato che Londra uscirà dall’UE e che spetta al Parlamento d’essere all’altezza di questo impegno preso con il popolo britannico. “Ora è giunto il momento delle decisioni” – ha dichiarato – “e la cosa giusta è uscire dall’UE con un accordo, senza revocare l’art. 50” e annullare così la Brexit. La scelta dell’UE – ha detto la May – sottolinea l’importanza che il Parlamento approvi l’accordo sulla Brexit la settimana prossima, in modo da poter mettere fine all’incertezza. In ordine alla decisione di partecipare eventualmente alle elezioni europee, la premier ha spiegato che “sarebbe sbagliato chiedere alla gente di partecipare a queste elezioni tre anni dopo aver votato la decisione di lasciare l’Unione”. E torniamo da capo. Voterà, il Parlamento, l’accordo che ha già respinto due volte? Accetterà di uscire senza accordo, dopo aver votato contro? E’ possibile la richiesta di una lunga estensione, che comprenderebbe la partecipazione alle elezioni europee di fine maggio? E un secondo referendum, nell’ipotesi di una maggioranza che rifiuti la Brexit, è realisticamente proponibile? Sono tutti punti interrogativi, senza risposta, per ora. L’incertezza permane!

  • Terzo no del parlamento britannico alla Brexit del governo May

    Dopo i due no del parlamento all’accordo del governo con l’UE riguardante la Brexit, ieri è arrivato il terzo, che rifiuta un’uscita dall’Unione europea senza un accordo. Il voto è avvenuto su una mozione modificata da un emendamento a cui il governo era contrario. La mozione del governo era contraria al “no deal”, ma in termini meno netti rispetto a quelli posti dall’emendamento. 321 parlamentari hanno votato a favore della mozione emendata e 274 contro. La mozione approvata, che non è vincolante, stabilisce che Londra non lasci in alcun caso l’UE senza un’intesa. Il voto che avrà luogo oggi, 14 marzo, dovrà decidere se chiedere una proroga della scadenza dell’articolo 50 che sancisce l’uscita dall’Unione Europea il 29 marzo. In caso affermativo, il 21 marzo l’UE si esprimerà sulla proroga. Nel caso in cui questa proroga non fosse concessa, il Regno Unito uscirebbe dall’Unione senza nessun accordo, nonostante il voto di ieri. E’ un bel rebus, per non dire un grande caos. Due scenari si presentano ora: o elezioni anticipate, oppure un secondo referendum. La prima opzione sembra quella preferita dalle due fazioni principali, Conservatori e Laburisti. La proroga della scadenza servirà dunque per indire nuove elezioni oppure per indire un secondo referendum? Non è esclusa tuttavia l’ipotesi di aprire nuovi negoziati. La mozione approvata fissa a mercoledì 20 marzo la scadenza per i parlamentari per approvare un’intesa sulla Brexit. Se l’accordo non passasse allora il governo avrà bisogno di una proroga più lunga, che imporrebbe al Regno Unito di prender parte alle elezioni europee di fine maggio. L’incertezza, tuttavia, allo stato attuale, è l’elemento predominante. Per uscire da questa situazione caotica la soluzione più democratica e diretta dovrebbe essere un secondo referendum, che taglierebbe di netto tutte le manovre tattiche usate fino ad ora, da una parte o dall’altra, per non dare soddisfazione all’avversario, più che per dare una risposta certa e concreta all’uscita. Ma dopo le fratture nei gruppi politici durante i voti di questi giorni e dopo i timori apparsi nell’opinione pubblica sulle conseguenze della Brexit, tanto tra i Tory che tra i laburisti si è affacciata l’idea delle elezioni politiche anticipate. I primi sarebbero confortati da alcuni sondaggi favorevoli, i secondi perché le hanno sempre chieste durante tutta questa diatriba, ritenendo la May responsabile del caos in cui naviga da tre mesi la politica britannica. Ma nel caso di elezioni anticipate, che ne sarebbe della Brexit? La proroga dovrebbe essere allungata di molto ed i problemi di oggi si ripresenterebbero tali e quali. Ci sarebbe uno sconquasso probabile nei partiti attuali ed i rapporti con l’UE rimarrebbero probabilmente conflittuali, forse con minore intensità, ma sempre viziati dalla questione della sovranità. La questione della permanenza nell’unione doganale si ripresenterà e in caso di vittoria dei laburisti essa potrebbe rappresentare il bandolo vincente della matassa. Con la vittoria dei Conservatori si potrebbe ripresentare l’ipotesi di un’uscita no deal, con tutte le conseguenze del caso. Ma non ci soffermiamo oltre sulle ipotesi. Il voto di oggi probabilmente non contribuirà ad uscire dall’incertezza, ma potrebbe fornire qualche ulteriore indicazione. Staremo a vedere.

  • Secondo no del parlamento inglese all’accordo sulla Brexit (391 contro e 242 a favore)

    Ieri (12 marzo n.d.r.) si è registrata alla Camera dei Comuni un’altra secca sconfitta della May sull’accordo raggiunto qualche giorno fa con l’UE e modificato sulla questione del confine con l’Irlanda del Nord. Come era prevedibile, i deputati non sono stati convinti dalla nuova versione sull’appartenenza provvisoria dell’Irlanda del Nord all’Unione doganale con l’Europa. Anche il consigliere legale del governo, Geoffrey Cox, ieri mattina, prima del voto, aveva dichiarato che il rischio di restare intrappolati nel “backstop” nordirlandese è in parte ridotto, ma non eliminato del tutto. Il che equivaleva ad affermare che il via vai della May tra Londra e Bruxelles delle ultime settimane per ottenere nuovi vantaggi nel negoziato non era valso a nulla, in quanto l’Europa ci vuole fregare – hanno aggiunto i favorevoli alla Brexit. Secondo loro non era indicata una data per la fine della provvisorietà affermata nel testo. Motivo evidentemente pretestuoso, perché essi stessi non hanno un’alternativa da suggerire. Ma così stanno le cose. Il no del parlamento riporta i giochi alla casella di partenza. Che fare ora? Oggi (13 marzo n.d.r.) vi sarà un nuovo voto. Il parlamento dirà o meno, se è favorevole ad un’uscita senza accordi sul dopo, sul no deal come afferma il linguaggio mediatico. Si presume che il voto sarà contrario a questa ipotesi, poiché si teme che senza regole stabilite l’uscita potrebbe provocare conseguenze deleterie per l’economia del Regno Unito, che si rifletterebbero negativamente anche sull’Europa. Nel frattempo il RU, nell’ipotesi di un’uscita senza accordo, ha tagliato i dazi sulle importazioni. Il regime temporaneo per evitare un balzo nei prezzi per i consumatori, potrebbe durare fino a 12 mesi in attesa di definire un sistema permanente attraverso negoziati. Se il voto sarà negativo, i Comuni affronteranno un altro voto giovedì, probabilmente per decidere se vale la pena di spostare la data dell’uscita dall’UE, che come è noto, è stata fissata per il 29 marzo. Anche questa ipotesi, tuttavia, presenta non pochi inconvenienti. Procrastinare la data per fare che? Per quanto tempo? In vista di quale obiettivo nuovo da raggiungere? L’incognita della durata della proroga comprende la possibilità per il Regno Unito di partecipare alle elezioni del 26 maggio del Parlamento europeo, ha senso eleggere deputati per uscire eventualmente qualche mese dopo? Ma per evitare le elezioni bisognerebbe chiudere la proroga entro la metà di maggio. Per fare che cosa, nel frattempo? Rinegoziare gli accordi respinti ieri? Per sostituirli con che cosa? L’UE probabilmente vorrà conoscere che cosa esattamente vuole il RU prima di aprire nuovi negoziati. Anche ammesso che il governo della May si pronunci su questi nuovi obiettivi, manca il tempo necessario per accordarsi entro la metà di maggio. E quindi le elezioni potrebbero essere obbligate. Non è da scartare, però, un’altra ipotesi, cioè un secondo referendum, che è stato richiesto dai laburisti, dopo ambigui tentennamenti del loro leader, Geremy Corbyn, ed accettato anche da gruppi conservatori. In questo caso si riaprirebbero i giochi e non è escluso che si verifichi quello che la May ha continuato a dichiarare in queste ultime concitate settimane: “Se non approvate l’accordo che ho stabilito con l’UE, c’è il rischio che non si arrivi mai alla Brexit.” Forse potrebbe avere ragione, ancora una volta.

  • La May non molla

    Era stato previsto per oggi (27 febbraio) un ulteriore voto ai Comuni sull’accordo del governo con l’UE, perfezionato nel corso dei negoziati che avrebbero dovuto regolare il problema del confine con l’Irlanda del Nord, ma, come era da prevedere, il voto non avrà luogo. La May non è riuscita, ed anche questo era da prevedere, ad ottenere ora soddisfazione sul tema in discussione ed ha preferito rinviare il tutto al 12 marzo. All’interno del governo alcuni ministri, sulla questione del confine e sul rischio di un’uscita no deal, avevano minacciato le dimissioni, E’ anche sotto questa pressione che la May ha rinviato il voto, apprestandosi ad affrontare altri colpi, più o meno mancini, da parte di alcuni dei suoi e da parte dei laburisti, che ora sono disposti ad appoggiare un secondo referendum. Se il 12 marzo l’accordo sarà di nuovo bocciato, il 13 il governo sottoporrà al Parlamento una mozione in cui si chiederà ai deputati se vogliono lasciare l’UE senza accordo. Il risultato è dato per scontato, poiché i duri della Brexit disposti ad accettare un no deal, in aula sono un gruppo sparuto. Il 14 marzo allora il governo presenterebbe una mozione, che propone un’estensione “breve e limitata dell’art. 50, cioè un rinvio dell’uscita, che ora è prevista per il 29 marzo. Non è escluso che su questa ipotesi il parlamento esprima una maggioranza. Resta allora da stabilire quanto durerà l’estensione “breve e limitata”. Se andasse oltre giugno il RU potrebbe partecipare alle elezioni del Parlamento europeo. Ma molti sarebbero contrari. D’altro canto, questa estensione dovrà essere concordata con l’UE, tenendo presente che essa in ogni caso non può prevenire il rischio di un no deal. Le ipotesi sono molte, ma probabilmente la May conta sul fatto che alla fine, o si punta sul suo accordo, o si va incontro al caos, mettendo a rischio la stessa Brexit. La sua strategia del “prender tempo” è ancora vincente, ma fino a quando? Gli estremisti della Brexit sono furiosi, avendo compreso che la strategia del rinvio, dopo i prossimi voti, porterà acqua al mulino della May. I laburisti, anche nel caso di un’approvazione dell’accordo della May, insistono sul secondo referendum e Corbyn, con le sue ambiguità  e con l’ipotesi di un secondo voto popolare, si è alienato la simpatia dei favorevoli alla Brexit, che gli precluderebbero definitivamente un suo ingresso a Downing Street. Non sarebbe una grave perdita per il RU, ma la crisi del Labour continuerebbe, in attesa dell’apparizione di nuove leadership. La May, invece, contestata da sempre, ora dai favorevoli alla Brexit, ora dai suoi contrari, talvolta bocciata dai Comuni, tal altra promossa con la fiducia, tra un rinvio e l’altro, continua a gestire il mazzo e a distribuire le carte. Vedremo quali assi le rimarranno ancora in mano e come intenderà giocarli.

  • La Brexit fa vittime e crea un nuovo movimento

    Sono otto i deputati che hanno dato le dimissioni dal partito laburista e tre dal partito conservatore, tutti insoddisfatti di come i loro partiti hanno trattato la questione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. I laburisti accusano anche il loro leader Corbyn di essere stato ambiguo nel corso delle procedure parlamentari per l’approvazione dell’accordo del governo May con l’UE e per non aver mai definito una posizione precisa sulla Brexit. I tre conservatori sono insoddisfatti del modo usato dalla May in parlamento per avere il consenso sull’accordo ottenuto con l’UE. Gli undici in sostanza sono contro la Brexit e l’unico modo per esercitare una pressione per combatterla, ritengono sia l’uscita dai loro rispettivi partiti e la formazione di un nuovo movimento, che sta prendendo forma e che si chiama “Independent Group”.  Con quali prospettive? La situazione è veramente caotica e l’incapacità del parlamento di trovare una posizione maggioritaria che definisse la sua linea definitiva sull’uscita, ha contribuito a creare questo caos e a far correre il rischio di un’uscita senza nessun accordo. In realtà il parlamento, più che a darsi da fare per evitare il peggio, è sembrato più interessato a sfruttare le difficoltà della Brexit per malmenare la May: Corbyn per farla dimettere e giungere a nuove elezioni, buona parte dei conservatori per toglierle la leadership del partito. Di fronte a questa realtà parlamentare surreale, gli undici dissidenti, con la formazione di un nuovo movimento, sperano di rompere la rete delle imboscate parlamentari per mescolare le carte e giungere a un secondo referendum, e comunque a evitare un’uscita “no deal”. Sperano inoltre di far saltare le priorità che ora sono in mano all’Erg, il gruppo che riunisce i falchi della Brexit, e al Dup, il partito nordirlandese che garantisce ai Tory la maggioranza ai Comuni. Theresa May ha detto di essere molto dispiaciuta per la partenza dei suoi tre deputati, nel Labour si dice che bisogna capire chi se ne va e che bisogna curare le insofferenze. Molti tuttavia ritengono che la vendetta non si farà attendere e che si potrebbero preparare delle elezioni suppletive nei collegi dei dissidenti, per farli punire direttamente dagli elettori. Ma per ora i ribelli non sembrano preoccupati delle conseguenze della loro uscita e nella foto di gruppo che li ritrae sorridenti, sembrano invitare altri colleghi a venire con loro. Per quelli che non sopportano più Corbyn, per il suo antisemitismo ed il suo marxismo radicale, e per quelli che non possono più accettare la May, come i liberaldemocratici e molti conservatori, potrebbe forse essere giunto il momento di creare quel partito del 48% (la percentuale anti Brexit al referendum del 2016) di cui si parla da due anni a questa parte senza aver mai fatto niente di concreto. Nel frattempo, quasi a sostegno degli indipendenti, sono arrivati, puntuali come sempre, alcuni sondaggi rassicuranti. Quello del Times indica i Conservatori al 38%, i Laburisti al 28%, misurando in questo modo l’opposizione a Corbyn, e l’Independent Groupe al 14%. I Liberaldemocratici seguono al 7%. Sono sondaggi, non voti, e ai sondaggi molti non credono più. Tuttavia quel 14 per cento veniva sussurrato da molte labbra, accompagnato da complici sorrisi. Nel frattempo la May a Bruxelles faceva gli ultimi tentativi di modificare certe parti dell’accordo con l’UE per evitare il “no deal”. Non è detto che ci riesca, ma alcune modifiche potrebbero servirle per sopravvivere al nuovo voto dei Comuni previsto per il 27 febbraio. Intanto il 29 marzo s’avvicina e niente è certo o scontato. Il 23 marzo, organizzata dal People’s Vote, ci sarà una grande manifestazione a sostegno di un secondo referendum. Ma se il nuovo movimento non riuscirà a imporsi ora, anche la manifestazione potrebbe risultare improduttiva. Staremo a vedere. La Brexit può riservare sempre nuove sorprese.

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