memoria

  • Scrivere a penna anziché al computer migliora apprendimento e memoria

    Secondo una ricerca condotta da un team della Norwegian University of Science and Technology (NTNU), guidata dalla professoressa Audrey van der Meer e basata sull’esame dell’attività cerebrale, i bambini imparano e ricordano di più quando scrivono a penna piuttosto che battere a tastiera. Quando i bambini usano la scrittura a mano, aumenta l’attività della parte sensomotoria del cervello coinvolta nell’elaborazione, nell’attenzione e nel linguaggio. Lo stesso meccanismo è inoltre stato rilevato negli adulti.

    Già nel 2007, una ricerca pubblicata sul British Journal of Educational Psychology da Connell dimostrava che i temi scritti a mano dai bambini delle Scuole Primarie erano migliori rispetto a quelli scritti con una tastiera. Addirittura, dallo stesso studio emerse che i temi scritti al computer sembravano fatti da soggetti il cui sviluppo era indietro di due anni (un bambino di terza scriveva quindi come un bambino di prima).

    Tanto per i bambini quanto per gli adulti, la penna consente connessioni neurocerebrali articolate e raffinate assolutamente imparagonabili con quelle create battendo a testiera. Il movimento della mano che traccia lettere e parole, implica infatti il riconoscimento di linee, curve, spazi, creando, dal punto di vista cognitivo, una connessione visivo-motoria attivando la corteccia parietale preposta alla capacità di calcolo, linguaggio, orientamento spaziale e memoria.  Nei bambini – soprattutto nei più piccoli –  il passaggio dalla penna alla tastiera porta con sé alcuni rischi poiché impedisce il corretto sviluppo di alcuni meccanismi cognitivi fondamentali.

  • Mai più guerra tra fratelli

    Riceviamo e pubblichiamo l’intervento del Presidente di Assoarma Milano, Ten. Arch. Gabriele Pagliuzzi, alla Messa del 25 aprile 2024 al Santuario Arcivescovile S. Giuseppe in Milano

    Milano, 26 aprile 2024

    Cari Presidenti, Care Rappresentanze d’Arma milanesi, grazie a tutti i presenti, oggi pomeriggio nella nostra città, al coperto delle ritualità istituzionali, si leveranno grida di odio e clamori di invettive. Qui, noi, nel Santuario Arcivescovile dedicato a S. Giuseppe, viceversa celebriamo un rito di amore.

    Nella data del 25 aprile scelta come conclusione in Italia della Seconda Guerra Mondiale intendiamo elevare un commosso ricordo di tutti i caduti militari e civili nell’immane conflitto. Di tutte le vittime e di tutte le sofferenze patite.

    Oggi, in un frangente che vede il riaffacciarsi della guerra in territori a noi sempre più prossimi, con decine di migliaia di morti nella popolazione civile, risalta ancora più prepotente il nostro desiderio di pace che non può essere disgiunto, essendo da esso garantito, dallo spirito di unità di Patria. L’Italia, la nostra Italia è culla di civiltà millenaria, è ammirata e invidiata ovunque per l’armonia delle sue bellezze che la natura ci ha voluto regalare, per la grandiosità della sua arte, per il carattere generoso e sostanzialmente mite della sua gente. E qui penso all’esodo dolorosissimo e silenzioso dei nostri fratelli giuliani e dalmati, strappati da terre italianissime con la ferocia di una vera e propria pulizia etnica. Trecentocinquantamila per i quali il 25 aprile è solo l’inizio dell’incubo dell’occupazione dei partigiani comunisti titini con la danza macabra delle vendette. Purtroppo non solo lì.

    Ecco i motivi di unità che ci richiede il nostro compito nel mondo. Ecco i motivi di una vera riappacificazione con la nostra storia.

    “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”.

    Questa citazione di Matteo l’abbiamo voluta iscrivere nel nostro invito perché il suo senso profondamente religioso si dilata nelle forme eroiche della vita. Proprio in questa circostanza di raccoglimento e memoria di cui ringrazio Monsignor Angelo Macchi per la sua sensibilità di padre e fratello, vorrei ricordare due figure, due militari, due giovani che il destino ha indirizzato in due parti avverse.

    Renato Del Din, sottotenente degli alpini, già allievo della Teulié, organizzatore delle prime formazioni partigiane Osoppo-Friuli, caduto il 25 aprile 1944, a 22 anni a Tolmezzo, durante un’ardita manovra contro una postazione nemica.

    Paolo Broggi, sottotenente degli alpini, già volontario nella campagna di Grecia nel Regio Esercito, alfiere del 1° Reggimento Alpini della divisione Monterosa R.S.I., a 21 anni, ferito in un agguato in pattuglia sulle apuane, catturato e quindi passato per le armi.

    Due giovanissimi italiani, due ventenni!

    Mai più guerra tra fratelli, mai più odio ma ammirazione per questo coraggio eroico che è atto puro in sé come categoria dello spirito sopra ogni visione e ogni credo.

    La modernità della scienza ci fa credere tutti immortali e molto le dobbiamo per il prolungamento della vita e il sostegno all’inevitabile decadimento dell’essere ma questo non so se può renderci più forti o invece più fragili e tremebondi.

    E allora, quando sarà il nostro momento, magari in qualche letto anonimo di ospedale, attaccati all’ostinazione delle macchine e alla fredda caparbietà della medicina, pensiamo agli occhi puri di questi ragazzi di allora, al loro coraggio spavaldo, al loro disprezzo del pericolo e della morte.

    Che il loro esempio ci illumini e ci conforti e renda il nostro cammino di uomini e di italiani meritevole di essere vissuto.

    Il Presidente

    Ten. Arch. Gabriele Pagliuzzi

  • La memoria? Presente…

    La memoria non è un dono, va coltivata, il nostro passato deve essere conosciuto  per rimanere monito nel presente, le parole del Presidente della Repubblica sono state chiare ed inequivocabili.

    Ora, dopo le celebrazioni, sacrosante, e le inqualificabili contestazioni, cerchiamo di coltivare la memoria perché l’orrore delle foibe, il dolore dei morti e dei vivi siano presenti nella nostra memoria e nel nostro agire per impedire che, ora  e nel futuro, altri  scempi  siano commessi e i delitti e le stragi dimenticati.

  • Internet riesce a conoscerci meglio di quanto noi conosciamo noi stessi

    Ognuno di noi ha gusti e preferenze e agisce in base ad essi quando compie le sue scelte. Internet, come ha da tempo avvisato il sociologo Derrick De Kerckhove, è in grado di ricostruire questo procedimento selettivo, che è ampiamente inconscio, semplicemente registrando nel tempo cosa facciamo sul web: quali profili social guardiamo, quali ricerche facciamo attraverso Google. E’ il meccanismo, ormai noto a tutti (o quasi), fondato sulla potenza di calcolo degli algoritmi, che sono in grado di profilarci con sempre maggior precisione quanti più dati registrano su di noi, man mano che noi gli forniamo quei dati accedendo al web. Di per sé il meccanismo è pienamente lecito: siamo noi che accediamo liberamente alla rete, nessuno ci obbliga a farlo, e nessuno ci obbliga a seguire i suggerimenti (si tratti di pubblicità di prodotti piuttosto che di appelli o inviti a carattere politico elettorale) che vengono predisposti su misura per noi sulla base dei dati raccolti circa i nostri gusti. Il web non è uno Stato e non può imporci nulla.

    Internet insomma riesce ad avere un’idea di noi forse anche più chiara di quella che noi stessi abbiamo, visto appunto che noi conosciamo i nostri gusti ma fatichiamo a renderci conto di quanto questi ci orientino, inconsciamente appunto, anche solo quando digitiamo la parola o l’insieme di parole per chiedere a Google o ad Alexa o a Siri di fare una ricerca di nostro interesse. Noi questi gesti li facciamo pressoché istintivamente, gli algoritmi li registrano e ci ragionano sopra per associarli e trovare un comun denominatore tra di loro (comun denominatore che è rappresentato appunto dalla nostra personalità).

    Va da sé, però che – come sottolinea De Kerchkove, che questi dati possono finire in mano a persone che ne possono fare un uso illegale: sapendo tutto di noi, possono tracciare un profilo sulle nostra personalità, in termini di orientamenti politici, sessuali e quant’altro, quale le norme sulla privacy e contro la discriminazione vietano di tracciare, tanto a un datore di lavoro quanto alla pubblica amministrazione.

  • Non dimenticare, per non rivivere più le atrocità del passato

    Si può perdonare, ma dimenticare è impossibile.

    Honoré de Balzac

    La scorsa settimana, il 18 aprile, ad Oswiecim, in Polonia, è stata organizzata e svolta la 35a Marcia dei Vivi. Si tratta di un’annuale celebrazione che si svolge sempre lì. Una celebrazione alla quale partecipano migliaia di studenti, ma non solo, da tutto il mondo. I partecipanti marciano silenziosi per ricordare le atrocità subite da milioni di ebrei e di altre nazioni, portati nei famigerati campi di concentramento e di sterminio nazisti durante la seconda guerra mondiale. Un’iniziativa, quella avviata nel 1988, il cui obiettivo è di ricordare quanto è accaduto in quei campi e di non dimenticare tutte le crudeltà messe in atto consapevolmente dai nazisti. Di non dimenticare per non essere poi costretti a riviverle. Si tratta di un’attività, quella della Marcia dei Vivi, che accade ogni anno tra aprile e maggio, subito dopo il Pesach, la Pasqua ebraica. E non a caso è stata scelta quella ricorrenza, essendo il Pesach strettamente legato con l’Esodo: la liberazione degli ebrei e la loro partenza verso la Terra promessa. Le Sacre Scritture testimoniano, con il libro dell’Esodo, come gli ebrei, schiavi in Egitto, sono stati liberati da Dio, che aveva scelto Mosè per guidarli. Dopo aver attraversato, prima il mar Rosso e poi il deserto di Sinai, sono finalmente arrivati vicino alla Terra promessa dal tempo di Abramo, a Canaan, ossia la Palestina, divisa in tre regioni: la Galilea, la Samaria e la Giudea. Una volta arrivati di fronte a Canaan, Mosè chiese a suo fratello Aronne di curarsi degli ebrei mentre lui saliva sul monte Sinai per parlare con Dio e scrivere i dieci Comandamenti. Ma nel frattempo gli ebrei convinsero Aronne a fondere tutti i gioielli d’oro e di forgiare una statua raffigurante un vitello. Un vitello d’oro per essere adorato. “Ecco il tuo Dio o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto” (Esodo; 32;4). Allora Dio disse a Mosè: “non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione” (Esodo; 32; 9-10). E solo dopo l’implorazione di Mosè, “Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al Suo popolo” (Esodo, 32; 14). Ma gli ebrei non sono potuti entrare nella terra promessa di Canaan e secondo le Sacre Scritture hanno trascorso altri quarant’anni nel deserto prima di entrarci.

    Trentacinque anni fa, nel 1988, è stata attuata la prima Marcia dei Vivi, come parte integrale di un programma educativo delle giovani generazioni degli ebrei, ma non solo. Da allora ogni anno la marcia si svolge in Polonia. Si tratta di diverse attività che durano per alcuni giorni, incluse le visite nei diversi campi nazisti di concentramento, nel ghetto di Varsavia, nonché in altri luoghi legati alla storia e alla cultura ebraica. Tutto per non dimenticare. Non si devono mai e poi mai dimenticare le atrocità subite nel passato. Non dimenticare mai per non essere costretti a rivivere e subire di nuovo le stesse o simili crudeltà. E per non dimenticare mai, la Marcia dei Vivi è stata concepita anche per ricordare altre marce, quelle che i nazisti chiamarono le marce della morte. Ossia quei lunghi percorsi fatti a piedi, oppure stipati in vagoni di treno, da migliaia di detenuti partiti dai campi di concentramento verso la parte dei territori controllati dai nazisti. Le marce della morte erano degli spostamenti forzati, soprattutto degli ebrei, ma anche di altri prigionieri, tutti malnutriti e sofferenti, nei primi mesi del 1945, quando le truppe degli alleati stavano avanzando verso Berlino. Sono stati molti i prigionieri che persero la vita durante le marce della morte. E la Marcia dei Vivi, ogni anno, nel periodo immediatamente dopo il Pesach, la Pasqua ebraica, ricorda anche le vittime delle marce della morte. Per non dimenticare mai i crimini, le crudeltà e le atrocità commesse dai nazisti prima e soprattutto durante la seconda guerra mondiale,

    E per non dimenticare mai le vittime della barbarie e della crudeltà nazista, diverse nazioni del mondo celebrano “le Giornate/i Giorni della Memoria”. Sono delle ricorrenze che ricordano tutte le atrocità subite soprattutto dagli ebrei ed attuate dai nazisti fino al 1945. Per indicare lo sterminio ed il genocidio degli ebrei perpetrato dai nazisti, dal 1933 si usano le parole shoah ed olocausto. Dal punto di vista etimologico il termine ebraico shoah significa catastrofe, distruzione e, riferendosi alle Sacre Scritture, tempesta devastante. Con questa parola si definisce anche lo sterminio degli ebrei dovuto al genocidio nazista. Mentre la parola olocausto, che deriva dal greco antico e significa “bruciato interamente”, definisce un atto di sacrificio religioso usato dai greci antichi e dagli ebrei, durante i quali degli animali venivano uccisi e poi bruciati completamente sugli altari dei templi, in modo che poi nessuna parte commestibile dell’animale sacrificato poteva essere mangiata. Da qualche decennio però, viene sempre più usata la parola shoah invece della parola olocausto. Questo soprattutto perché, riferendosi al genocidio nazista, non necessariamente è legato ad un sacrificio inevitabile come l’olocausto.

    Sempre per non dimenticare le crudeltà dei nazisti, ma non solo, prima e durante la seconda guerra mondiale, il 24 gennaio del 2005 si svolse una sessione speciale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il motivo era quello di celebrare il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi nazisti di sterminio e la fine di quell’orribile periodo storico. Circa nove mesi dopo, e proprio il 1° novembre 2005, si è svolta la 42a sessione plenaria dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Durante quella sessione è stata approvata la Risoluzione 60/7 con la quale si stabilì che ogni 27 gennaio si celebrasse il “Giorno della Memoria”, una ricorrenza internazionale per ricordare ed onorare tutte le vittime della Shoah. E non a caso fu scelta quella data. Era proprio il 27 gennaio 1945 quando sono stati liberati tutti i detenuti rimasti nel famigerato campo di Auschwitz (il nome nella lingua tedesca riferita alla città polacca di Oświęcim nel sud della Polonia; n.d.a.). Un campo costituito nell’aprile del 1940, sfruttando le strutture di una vecchia caserma ad Auschwitz che si estendeva in un’area di circa 200 ettari. In quel campo furono portati i primi prigionieri politici polacchi nel giugno dello stesso anno. Ma siccome la superficie del campo non bastava più per i sempre crescenti flussi di prigionieri, soprattutto ebrei, allora fu deciso di allargarlo. Si costruì quello che è noto come il campo di Birkenau, costituendo quello conosciuto come il campo Auschwitz-Birkenau, il più grande campo di sterminio nazista del Terzo Reich. All’entrata del campo, sulla porta di ferro, era stata scritta in tedesco la frase “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi; n.d.a.). Una cinica e diabolica idea quella di riferirsi alla “libertà” mentre si entrava in un luogo di crudeli torture e di morte. Una scritta, quella sull’ingresso del famigerato campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, che offende la memoria delle vittime e la capacità di intendere, pensare e giudicare delle persone normali.

    Riferendosi ai dati, risulterebbe che nel campo di sterminio di Auschwitz siano stati sterminati, uccisi, bruciati vivi e morti per altre cause oltre un milione di persone. Sempre riferendosi ai dati, circa il 90% delle vittime erano degli ebrei arrivati nel campo dalla Polonia e da diversi altri Paesi europei. Ragion per cui il campo di Auschwitz-Birkenau è stato considerato come una “fabbrica della morte”. Una “fabbrica della morte” per mettere in atto quella che cinicamente e crudelmente veniva chiamata la “soluzione finale”. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, nel 1947, sul territorio della “fabbrica della morte” è stato costituito un museo memoriale, mentre nel 1979 il campo di Auschwitz-Birkenau è stato iscritto come “luogo di memoria” nell’elenco dei siti tutelati come Patrimonio mondiale dell’Unesco.

    E proprio lì, ad Oświęcim (Auschwitz), la scorsa settimana, il 18 aprile, si è svolta la 35a Marcia dei Vivi. Una Marcia di alcune migliaia di studenti arrivati da molti paesi del mondo, Italia compresa, nonché dei sopravvissuti della Shoah, per ricordare e commemorare tutte le vittime dello sterminio nazista degli ebrei, ma anche delle vittime di altre nazionalità. Il tragitto che hanno percorso tutti i partecipanti alla Marcia dei Vivi era quello noto come la “strada della morte” che dal campo di sterminio nazista di Auschwitz I arriva a quello di Auschwitz II-Birkenau. Il 18 aprile scorso tra i partecipanti della Marcia dei Vivi c’erano anche gli studenti di tre scuole superiori italiane. Era presente anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, accompagnato dalle due sorelle, Tatiana e Andra Bucci, che sono tra le ultime sopravvissute del campo di sterminio nazista di Auschwitz- Birkenau e che possono ancora testimoniare, per loro sofferte esperienze personali, l’orrore, le atrocità e tutto quello che accadeva nel famigerato campo. Il presidente Mattarella, dopo aver visitato il campo, ha dichiarato ai giornalisti: “Già studiarlo, e l’ho fatto molto a lungo, è impressionante ma vederlo è un’altra cosa, è già straziante leggere e vedere nei video le testimonianze, ma vederlo è un’altra cosa, che dà la misura dell’inimmaginabile”. E poi, riferendosi a quella parte dove erano esposte ammassate le scarpe delle vittime, bambini compresi, ha detto; “Vedere quelle scarpe, vedere quelle scarpette dei bambini, dei neonati sono cose inimmaginabili e bisogna continuare a ricordare e bisogna ricordare che quello che vediamo è una piccola parte”. Il presidente Mattarella, rivolgendosi ad un gruppo di studenti di tre scuole superiori italiane lì presenti, ha detto: “Dovete trasmettere anche voi a vostra volta la memoria. Dovete trasmetterla anche voi a chi verrà dopo”. Ed infine ha dichiarato: “Siamo qui oggi a rendere omaggio e fare memoria dei milioni di cittadini assassinati da un regime sanguinario come quello nazista che, con la complicità dei regimi fascisti europei che consegnarono propri concittadini ai carnefici, si macchiò di un crimine atroce contro l’umanità. Un crimine che non può conoscere né oblio né perdono”.

    L’autore di queste righe ha trattato anche prima l’importanza di non dimenticare per non rivivere quanto è accaduto nel passato. Nel febbraio 2020 scriveva: “Il 27 gennaio scorso è stato ricordato e onorato il “Giorno della Memoria”. Un giorno prima, durante l’Angelus, Papa Francesco, riferendosi alle barbarie nei lager nazisti ammoniva dicendo che “Davanti a questa immane tragedia, a questa atrocità, non è ammissibile l’indifferenza ed è doverosa la memoria” (Drammatiche conseguenze dell’indifferenza; 3 febbraio 2020). Oppure ricordava la frase “Tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo!”, scritta da Primo Levi nel suo libro “Se questo è un uomo” (Deliri e irresponsabilità di un autocrate; 22 febbraio 2021).

    Chi scrive queste righe è convinto, come tanti altri, che bisogna non dimenticare per non rivivere più le atrocità del passato. Egli pensa che nessuno che ha ed esercita poteri, nessun autocrate debba aggredire i diritti innati e acquisiti e le libertà del genere umano, ma anche delle singole persone innocenti. E men che meno, nessuno possa mettere in atto delle atrocità come quelle commesse dalle diverse dittature in ogni parte del mondo. E soprattutto quelle simili alle orribili atrocità, le crudeltà commesse consapevolmente nei campi di concentramento dai nazisti. Ragion per cui si deve evitare a dare qualsiasi appoggio, anche “formalmente protocollare”, alle persone che abusano del potere conferito, agli autocrati. Come per anni e per degli “interessi di Stato” è accaduto con il dittatore russo. Ma anche con altri autocrati in America Latina, in Africa ed in Medio oriente. La storia, anche quella recente, ci insegna. Perciò non si potranno offendere i tanti sacrifici umani, le tantissime vittime crudelmente uccise dai nazisti ma anche da altri dittatori. Perché così si potrà rispettare anche quanto è stato sancito il 1° novembre 2005 dalla Risoluzione 60/7 dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Chi scrive queste righe, riferendosi agli insegnamenti della storia e alle vissute esperienze umane, parafrasando il pensiero di Balzac, pensa che si può perdonare, ma si dovrebbe far di tutto, per quanto possa essere difficile, per non dimenticare. Si, non dimenticare, per non rivivere più le atrocità del passato.

  • La storia, la memoria per affrontare il presente

    La memoria della nostra storia dovrebbe aiutarci, non soltanto sul piano culturale, ad affrontare meglio il nostro presente ma, purtroppo, la storia si studia sempre meno, non sempre ci è presentata in modo imparziale e la memoria diventa sempre più debole.

    Per tenere viva la nostra storia e la nostra memoria ho pensato di ricordare Marzabotto, un comune dell’Appennino emiliano che rappresenta la nostra storia recente ed antica, così antica da essere parte delle nostre stesse origini.

    La Storia recente ci porta alla Seconda Guerra mondiale: tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 Marzabotto, ed i comuni di Monzuno e Grizzana Morandi, hanno vissuto una delle più tragiche pagine dell’ultima guerra: stragi ed eccidi compiuti da truppe tedesche, specie delle SS, centinaia e centinaia di civili, non solo partigiani, trucidati oltre ad altre centinaia di persone morte per cause di guerra.

    Il feldmaresciallo Kesselring fece sterminare indiscriminatamente la popolazione radendo al suolo paesi e cascine, capo dell’operazione era stato nominato il maggiore Reder.

    Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione disperata si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta dove i tedeschi irruppero uccidendo a mitragliate il sacerdote ed alcuni anziani. Le altre persone furono fatte uscire dalla chiesa, radunate nel cimitero e a loro volta uccise a colpi di mitragliatrice: 197 furono le vittime delle quali 52 bambini. Le stragi continuarono in altri paesi e frazioni, non furono risparmiati né bambini né suore o sacerdoti.

    Tragedie come queste non possono essere dimenticate perché solo la memoria di tanto orrore può aiutarci a vivere impedendo che odio, violenza efferata, ideologie sbagliate possano portarci ad altri orrori.

    Il piccolo paese di Marzabotto ci parla anche di una storia molto antica: proprio nella sua grande parte più pianeggiante, che si affaccia sul fiume Reno, sorgeva un’antica città etrusca, Kainua, fondata nel V secolo a.C. sui resti di un precedente abitato.

    Il fiume Reno, via commerciale tra la Pianura Padana e la Toscana settentrionale, contribuì alla prosperità della città della quale possiamo ancora vedere i resti che si estendono per circa 20 ettari.

    Visitando il museo adiacente, ricco di reperti e molto ben organizzato, si ha la possibilità di avvicinarci alla misteriosa civiltà etrusca che anche per gli antichi romani era fonte di cultura e di particolare interesse per la fama dei suoi importanti aruspici. Nessun comandante romano avrebbe mai intrapreso una battaglia, o preso un’importante decisione, senza aver prima consultato il volere degli dei.

    Verso il terzo secolo a.C. l’arrivo dei celti in Italia porto la città al decadimento.

    Soltanto alla fine del 1800 il conte Pompeo Aria, proprietario dell’area, promosse lo studio e la classificazione dei reperti che aveva individuato grazie agli scavi di esperti archeologi da lui chiamati.

    Nel 1933 l’importante collezione privata fu donata, con tutta l’area, allo Stato italiano, purtroppo durante la guerra, per un bombardamento, una parte dei reperti andò distrutta ma, con perizia e pazienza, il museo è stato ricostruito e rimane una importante fonte per conoscere gli etruschi e la nostra storia.

    La vita e la morte, la disperazione e la speranza si intrecciano nella storia e la meravigliosa piana, dove sorgeva la città etrusca, o il monumento in ricordo delle stragi sono luoghi di riflessione e aiutano non solo a conoscere il passato ma anche noi stessi.

    Nel bene e nel male, in modi solo apparentemente diversi, la storia si ripete, Vico lo ricorda con i corsi e ricorsi storici, sta a noi tentare di impedire che il male, sotto qualunque forma, si ripresenti, sta a noi difendere cultura e identità nel rispetto degli altri.

    Buona Pasqua

  • A Volgograd (già Stalingrado) un busto dedicato a Stalin

    Lo spettro di Stalin si aggira per la Russia. Il mito del dittatore sovietico responsabile del Terrore degli anni ’30 e ’40, ma anche leader della resistenza alle truppe d’invasione tedesche e della vittoria su Hitler, rinasce in concomitanza con quella che il presidente Vladimir Putin ha presentato come la lotta ai “neonazisti” al potere a Kiev. Così un busto alla memoria di quello che un tempo la stampa sovietica salutava come ‘il padre delle nazioni’ è stato inaugurato a Volgograd, l’attuale nome di Stalingrado, nell’ottantesimo anniversario della battaglia che in gran parte segnò le sorti della Seconda guerra mondiale.

    Funzionari locali e rappresentanti della città hanno partecipato alla cerimonia, durante la quale alcuni soldati hanno deposto fiori ai piedi della statua di Stalin e di quelle dei due generali che lo affiancano: Alexander Vasilievsky, capo di Stato maggiore e mente delle più importanti battaglie del conflitto contro i nazisti, e Georgy Zhukov, il comandante sul campo che con le sue truppe arrivò fino a Berlino nell’aprile del 1945, portando alla sua conclusione vittoriosa quella che in Russia è ricordata come la Grande Guerra Patriottica e che ancora unisce il popolo nella memoria dell’eroico passato.

    I busti sorgono vicino al museo dedicato alla battaglia di Stalingrado, che nell’inverno 1942-43 vide l’eroica resistenza della città e poi la resa delle truppe tedesche del generale Friedrich von Paulus. Le tre statue sono opera dello scultore Serghei Shcherbakov. «Tutto è stato veloce, abbiamo dovuto eseguire l’ordine in poco tempo», ha raccontato l’artista. Il culmine dei festeggiamenti per l’ottantesimo anniversario della battaglia di Stalingrado sarà domani, quando in città è in programma una parata con la partecipazione di Putin. Per favorire lo svolgersi delle cerimonie e prevenire eventuali problemi per la sicurezza è stato vietato fino a giovedì il transito dei camion, oltre che di treni e veicoli che trasportano “carichi pericolosi”. Oggi e domani, inoltre, sono stati dichiarati giorni festivi per gli impiegati statali della città.

  • La risposta alla noiosa polemica sulla Piazza Carlo Borsani

    Riceviamo e pubblichiamo

    Caro Direttore,
    a Legnano, il comitato antifascista vive solo all’avvicinarsi del 25 aprile creando la stantia polemica della “strada” Borsani, invocando la loro appartenenza alla “democrazia” fondata sulla pace, sull’uguaglianza e sulla libertà. Nati e cresciuti ciucciando dalla mammella del comunismo leninista e stalinista, nonostante l’aver cambiato più volte il nome del loro P.C.I. fino all’attuale P.D., non sono cambiati nel loro modo di fare una politica fondata sulla menzogna e sull’ipocrisia.
    Scrivono che stiamo vivendo i momenti più duri della Storia d’Europa e del Mondo intero, dove un guerra sta mettendo a dura prova la sopravvivenza dei popoli e che come sempre è e sarà pagata dai poveri e dalla popolazione civile, da donne e bambini innocenti! Ed allora in coerenza con la loro storia politica da Stalin ai giorni nostri e della loro interpretazione di Democrazia fondata, a sentir loro, su pace, uguaglianza e libertà, sono io che suggerisco loro, in nome del democratico comunismo che tanto vogliono difendere, di erigere nella “strada” Carlo Borsani, un monumento al primo vero democratico Tiranno d’Europa: Vladimir Putin.

    Carlo Borsani Jr.

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