mercato

  • Quale concorrenza

    La vicenda ancora irrisolta e relativa alle concessioni balneari ha riportato all’attenzione della politica e dell’economia il principio della concorrenza. Il contenuto di questo principio economico e strategico è di certo importante e può ancora oggi venire considerato fondamentale, tuttavia  il suo continuo e manieristico rimando ad opera di una ormai esausta componente del variegato mondo “liberale”, lo rende ormai distonico rispetto alla complessità dei soggetti economici e dei mercati globali.

    Il continuo e perpetuo riferimento alla semplice applicazione sic et nunc di un concetto scolastico di concorrenza evidenzia in modo inequivocabile la volontà ed il desiderio di coprire una evidente incapacità nella elaborazione di analisi più approfondite della quale purtroppo il mondo liberale non sembra essere esente.

    La sentenza Bolkestein ha ribadito l’importanza quanto la legittimità dell’attuazione di questo principio economico, lasciando tuttavia una macroscopica lacuna relativa alle complesse modalità della sua applicazione in quanto la sentenza non ha assolutamente tenuto in alcuna considerazioni, né doveva farlo, di come all’interno della stessa Unione Europea questo principio, per la sua stessa applicazione, dovrebbe contare sul presupposto di una minima uniformità fiscale. Quest’ultima, infatti, garantirebbe le condizioni minime di base con l’obiettivo di assicurare uno stesso contesto ai diversi soggetti economici in competizione nella aggiudicazione di un servizio su concessione statale.

    In altre parole, il principio di una base comune economica e fiscale dovrebbe rappresentare la condizione minima per permettere l’applicazione equa e corretta dello stesso principio della concorrenza dalla quale proverebbe la sua massima espressione nel know how professionale piuttosto che nella semplice applicazione di un vantaggio fiscale assicurato dalle diverse normative nazionali.

    Viceversa, tanto il mondo politico quanto, a maggior ragionr, quello liberale si dimostrano ancora una volta superficiali nelle analisi e soprattutto estremamente infantili nelle soluzioni le quali si estrinsecano sempre nella semplice individuazione di un principio economico come semplice soluzione di tutti i mali.

    Sembra incredibile come non vengano presi in considerazione i diversi asset normativi e soprattutto fiscali conviventi all’interno della stessa Unione Europea, le cui differenze ex ante rendono impossibile qualsiasi applicazione della concorrenza tra i diversi soggetti economici. Una lacuna soprattutto imputabile a quell’area politica la quale, con molta superficialità, si considera ancora oggi “liberale” e che ha appoggiato le privatizzazioni dei monopoli fisici statali che hanno determinato il disastro della gestione privatistica della società Autostrade fino alla morte di 43 persone con il crollo del Ponte Morandi. Senza dimenticare l’Eni, diventata una società con la sede fiscale in Olanda partecipata dallo Stato la quale, all’interno di una situazione drammatica come quella post pandemica. ha utilizzato le proprie leve speculative all’utenza privata ed industriale nelle forniture di energia.

    Mai come ora la peggiore conservazione politica intesa come l’incapacità di attualizzazione del proprio pensiero economico e politico trova casa presso le vecchie aggregazioni ed istituzioni liberali incapaci anche solo di aggiornarsi ad un mercato sempre più globale in continua evoluzione al quale rispondono con le semplici e scolastiche definizioni di principi economici.

  • Il lusso continua a fatturare: 1.400 miliardi nel 2022

    Il mercato del lusso globale avanza spedito nella sua corsa e, dopo il rimbalzo post pandemico, si appresta a chiudere il 2022 con una crescita del 21% raggiungendo il valore di 1.400 miliardi di euro. In particolare, i beni di lusso personali raggiungeranno quota 353 miliardi (+22%) di fatturato. “L’alto di gamma ha completato il percorso di ripresa, registrando nel 2022 il record storico con risultati oltre le aspettative”. A dirlo è il presidente di Altagamma, Matteo Lunelli, commentando le stime dell’Osservatorio Altagamma, presentato a Milano alla presenza del ministro delle Imprese e del Made In Italy, Adolfo Urso.

    Lo scenario si prospetta positivo anche per il 2023 con una marginalità (Ebitda) delle imprese dell’alto di gamma in crescita in media del 6% e fino all’8% per le aziende il cui target è composto esclusivamente da consumatori ‘ultraricchi’. Il prossimo anno – viene spiegato nello studio – la crescita sarà trainata principalmente dall’aumento dei prezzi e dal miglioramento dei mix di vendita mentre i volumi avranno una crescita più contenuta rispetto agli anni precedenti. Inoltre, la possibile difficoltà a tenere sotto controllo i costi limiterà la potenziale crescita dell’Ebitda. Guardando al lungo termine, nel 2030 il valore di mercato dei beni di lusso personali dovrebbe salire a circa 540-580 miliardi (+60% o più rispetto al 2022) e i consumatori dell’alto di gamma dovrebbero arrivare a quota 500 milioni contro i 400 milioni attuali. In questo scenario “i marchi italiani continuano ad eccellere, malgrado un contesto congiunturale caratterizzato da una forte incertezza”, sottolinea Lunelli, accendendo un faro sulle “numerose sfide” che abbiamo di fronte, a partire dall’aumento dei costi energetici al cuneo fiscale, oltre a quelle più strutturali, come la digitalizzazione, la lotta alla contraffazione e la conquista di nuovi mercati. Sfide che Altagamma intende affrontare “in sinergia con il governo e le istituzioni, in una partnership pubblico-privata”. Dal canto suo, il ministro Urso – evidenziando che per il Made in Italy “ci sono ancora grandi spazi di crescita” – assicura che il governo intende “operare congiuntamente con corpi intermedi e associazioni per consolidare i fondamentali della nostra industria di eccellenza, sostenerla nello sviluppo e promuoverla in tutto il mondo”. Per il ministro, il Made in Italy rappresentato da Altagamma “è il fiore all’occhiello della nostra industria manifatturiera ed è stato capace di mantenere un ruolo da protagonista, dando un contributo al Pil significativo”. Tornando ai dati dell’Osservatorio, quest’anno tutte le categorie vedranno un aumento delle vendite, confermando la leadership degli accessori (+8,5% per la pelletteria e +7% per le calzature). A livello geografico, l’Europa crescerà del 5%, grazie all’aumento dei viaggi internazionali che compenseranno la più debole domanda interna. Anche per gli Stati Uniti si prevede una crescita del 5%, mentre, Cina e Asia sono più difficili da stimare. In particolare in Cina le politiche sul lockdown “potrebbero portare effetti imprevisti”, ma grazie all’effetto rebound, i consumi potrebbero crescere del 9%.

  • Lamborghini cresce ancora e pensa alla Borsa

    Continua la crescita di Lamborghini, che si mette alle spalle i migliori 9 mesi di sempre e si prepara a sbarcare in Borsa. Il fatturato in questo periodo ha raggiunto 1,93 miliardi di euro, in aumento del 30,1% rispetto al 2021. Le consegne da gennaio a fine settembre raggiungono le 7.430 unità (+8% rispetto allo stesso periodo del 2021) e tutte e 3 le macro-regioni in cui la Casa di Sant’Agata Bolognese è presente (America, Asia Pacifico ed Europa-Middle East-Africa) sono cresciute proporzionalmente. Il mercato di riferimento continua ad essere quello degli Usa (+8%), seguito da Mainland China-Hong Kong e Macao (+5%), Germania (+16%), UK (+20%) e Giappone (+26%).

    Anche il risultato operativo ha fatto registrare un incremento del 68,5%, attestandosi a 570 milioni. Il corrispondente Return on Sales (RoS) ha raggiunto il 29,6%, superando il 22,8% raggiunto nello stesso periodo del 2021. “Questi dati in costante aumento dimostrano tutta la solidità di Lamborghini oggi. Abbiamo un portafoglio ordini che copre già il primo trimestre del 2024 e questo ci permette di lavorare con

    serenità guardando, in modo ponderato, alle sfide che il futuro ci impone, come il prossimo passaggio all’ibrido dal 2023», commenta Stephan Winkelmann, presidente e ad della Casa di Sant’Agata Bolognese, dopo che Lamborghini ha celebrato a settembre l’addio al V12 termico puro in attesa della fase di trasformazione epocale che prenderà avvio il prossimo anno con l’ibridizzazione di tutta la gamma entro il 2024.

    Intanto il costruttore italiano di auto di lusso sta sviluppando una strategia per presentarsi agli investitori sul mercato azionario, da ben prima che la casa madre Volkswagen chiedesse a ciascuno dei suoi marchi di elaborare una ipotesi di quotazione. Non solo Porsche, dunque, sta preparandosi all’Ipo. “Abbiamo lavorato su questo aspetto con altre agenzie al fine di creare chiarezza”, ha detto Winkelmann in un’intervista. «Come marchio lo abbiamo fatto per molto tempo, per mostrare il valore che abbiamo. Fino a qualche tempo fa, non era così noto”, ha aggiunto secondo quanto riferisce Bloomberg.

  • Prezzi delle case a livelli record: nel primo trimestre 2022 sono cresciuti del 4,&%

    Da oltre un decennio i prezzi delle case non salivano così. L’Istat registra un aumento dell’indice relativo alle abitazioni acquistate dalle famiglie dell’1,7%, nel primo trimestre, rispetto al trimestre precedente, e del 4,6% rispetto a un anno prima. Non aveva mai rilevato un incremento dei prezzi annuo così ampio a partire dall’inizio di queste serie storiche, nel 2010.

    Segnano un record anche i prezzi delle abitazioni esistenti (+4,5% annuo), mentre per quelle nuove il rialzo è del 5%, sull’onda dei rincari dei costi di costruzione. Tutto il territorio nazionale, secondo i dati preliminari, è coinvolto in questi rialzi.

    La voglia di casa emersa con la pandemia sembra così continuare. Istat sottolinea che “nonostante il clima di incertezza e preoccupazione dovuto al conflitto in Ucraina, si conferma e si consolida il trend di crescita dei prezzi delle abitazioni avviatosi nel terzo trimestre 2019”.

    L’istituto di statistica vede inoltre una “persistente e vivace crescita dei volumi di compravendita” e cita l’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle Entrate che ha registrato un aumento degli scambi del 12% nel primo trimestre, dopo il +15,7% del trimestre precedente.

    I dati si riferiscono ancora ai primi tre mesi dell’anno, prima della stretta sui tassi di interesse annunciata per luglio dalla Banca centrale europea che sta rendendo l’accesso ai mutui più costoso. Già a maggio, secondo gli ultimi dati dell’Abi-Associazione bancaria italiana, i tassi dei nuovi mutui hanno raggiunto i massimi da tre anni, a partire da febbraio 2019, attestandosi in media poco sotto il 2% (1,93%). Un anno prima erano pari all’1,4%.

    A sostenere il mercato, sono soprattutto i più giovani, con l’aiuto delle agevolazioni del governo per la prima casa. Secondo l’analisi del Barometro Crif, a maggio, le richieste di mutui immobiliari da parte dei ragazzi under 35 sono salite al 35,4% del totale in un contesto in cui la domanda complessiva è calata del 16,8% rispetto all’anno precedente. La flessione è marcata soprattutto per surroghe, viste le condizioni di mercato meno convenienti.

    L’Istat calcola che la crescita acquisita dei prezzi delle abitazioni per il 2022, ovvero quella che si avrebbe in caso di variazioni nulle nel resto dell’anno, è del 2,8%. Ma l’incertezza è elevata e un primo allarme sul mattone è arrivato dalla presidente della Bce, Christine Lagarde, la settimana scorsa. Con gli aumenti dei tassi di interesse e l’erosione del reddito reale delle famiglie per l’inflazione, “il rischio di una correzione dei prezzi degli immobili sta aumentando”, ha detto Lagarde in un’audizione al Parlamento europeo.

  • Vendite immobiliari in crescita del 34%, nel 2021 trainano Genova e Roma

    Il mercato immobiliare residenziale esce dallo stallo della crisi pandemica e riprende con uno slancio delle compravendite su tutto il territorio. Secondo il Rapporto immobiliare residenziale realizzato dall’Osservatorio del mercato immobiliare dell’Agenzia delle Entrate in collaborazione con Abi, il 2021 si è chiuso con quasi 750mila transazioni, per le quali, più della metà degli acquirenti, ovvero 366mila ha acceso un mutuo ipotecario. Si registra quindi un incremento delle cessioni di abitazioni pari al +34% rispetto all’anno precedente. Tra le grandi città, i maggiori rialzi del numero di compravendite si osservano a Genova e Roma (rispettivamente +32,2% e +31,4%). Nei 12 mesi presi in esame, gli istituti di credito hanno erogato complessivamente quasi 50 miliardi di euro, in media circa 136mila euro per ogni compravendita assistita da mutui.

    Il Rapporto elabora anche un indice di accessibilità che sintetizza l’analisi dei vari fattori (reddito disponibile, prezzi delle case, andamento, tassi di interesse sui mutui) che influenzano la possibilità per una famiglia media di acquistare un’abitazione al prezzo medio di mercato, contraendo un mutuo. Secondo l’analisi fatta anche nel 2021 le condizioni di accesso delle famiglie all’acquisto di un’abitazione contraendo un mutuo sono rimaste sostanzialmente stabili sia rispetto ai livelli dello scorso anno sia a quelli del 2019 che rappresentava il valore massimo delle condizioni di accesso nell’intero orizzonte temporale osservato: più precisamente nella media del 2021 l’indice di accessibilità risulta pari al 14,9%, in lieve miglioramento rispetto alla media. A favorire la tenuta dell’indice hanno concorso il permanere di un livello contenuto dei tassi di interesse, anche se in lieve crescita, e il sostanziale recupero dei livelli pre-pandemici del reddito delle famiglie italiane, grazie all’azione di sostegno anticiclica della politica fiscale. A peggiorare le condizioni invece una crescita dei prezzi delle case del 2,2% nella media del 2021 che ha fatto seguito alla crescita del 2,4% dell’anno precedente. L’incremento delle compravendite si è verificato in una misura molto simile in ogni area territoriale del Paese, superando ovunque il 30% rispetto al 2020 e il 20% rispetto al 2019. La Lombardia è la regione con il maggior numero di compravendite registrate nel corso dell’anno (oltre 159mila), ma è il Molise la regione con il maggior incremento del numero di compravendite di abitazioni, con poco più di 3mila scambi e una crescita dell’42,3%. Seguono la Liguria (+38,1%) e la Calabria (+37,9%). Tra le grandi città, invece, spiccano Roma (+31,4%) e Genova (+32,2%), seguite da Firenze (+28,9%) e Torino (+28,2%). Bene anche Napoli (+27,6%), Milano (+24,4%) e tutte le altre principali città.

  • Il significato ancora incompreso dello spread

    Era il novembre 2011 quando lo spread toccò i 575 punti base e qualcuno ancora oggi crede che vada attribuito alla “competenza” del governo Monti la successiva  riduzione, quando invece fu proprio Draghi, come presidente della BCE, attraverso l’acquisto al mercato secondario di tutti i titoli invenduti del debito pubblico italiano, a permettere la sua riduzione fino a quotazioni accettabili. Una strategia del presidente della BCE che vide la netta opposizione della Germania tanto da richiedere una discussione animata al Bundestag risolta con una approvazione obtorto collo alle politiche monetarie operate dalla Banca europea.

    In pratica questo atto di generosità “europea” altro non fu se non l’anticipazione di quel Quantitative  Easing, poi adottato dal 2016 dalla BCE, a favore di tutti i titoli europei del debito pubblico con l’obiettivo di fornire gli strumenti finanziari all’incremento della crescita economica.

    L’andamento del valore dello spread, quindi, o meglio della differenza dei rendimenti tra i bund tedeschi ed i titoli del debito pubblico italiano, indicava sostanzialmente, allora come oggi, il livello di credibilità attribuibile alla guida politica e governativa del nostro Paese.

    In più questa  valutazione si estende alle conseguenti strategie adottate dall’Italia espresse da quel mondo finanziario al quale il nostro Paese si rivolge per finanziare il proprio debito.

    L’altalenante andamento del valore dello spread è stato spesso  “interpretato”  dalla classe politica italiana  a proprio uso e consumo, talvolta è stato persino indicato anche come uno strumento di pressione nei confronti di un particolare schieramento politico alla guida del Paese.

    Queste imbarazzanti e sostanzialmente povere di contenuti analisi altro non rappresentavano che le espressioni di competenze quantomeno parziali e probabilmente anche di piccoli interessi di bottega politica. Queste sempre legittime interpretazioni oggi  si sciolgono come neve al sole nel periodo storico in cui alla guida del nostro Paese siede  la massima espressione del potere finanziario europeo e mondiale del recente passato: Mario Draghi.

    Come non ricordare le teorie complottiste di esponenti politici, ancora oggi all’interno del governo, i quali vedevano nell’andamento dello spread la volontà di influenzare le scelte del nostro Paese e della sua maggioranza a sostegno del governo. Quando, invece, l’andamento dello spread  rappresentava solo una classica espressione di sfiducia nei confronti di tutti i governi che dal 2011 ad oggi si sono alternati alla guida del nostro Paese i quali, seppure con alcune specificità, hanno sempre e solo aumentato la spesa pubblica contemporaneamente alla pressione fiscale.

    Andrebbe ricordato agli autori di tali tesi come la finanza,  specialmente se speculativa, non esprima alcun sesso o genere né tantomeno un senso di appartenenza ad uno specifico contesto politico ma semplicemente si allea alternativamente basandosi solo ed esclusivamente sul parametro del proprio interesse  immediato e magari speculativo.

    Il  fatto che oggi, poi, questo valore espresso dallo spread (200 punti base) abbia sempre come riferimento il titolo tedesco in un momento nel  la quale la stessa Germania sta vivendo uno dei periodi più difficili degli ultimi decenni,  anche a causa della propria esposizione nell’approvvigionamento energetico, dimostra quanto questo valore, relativamente basso,  debba invece venire  considerato molto negativo  per il nostro Paese. Quindi non così distante da quella sfiducia espressa nel novembre 2011 con i 575 punti base al governo dell’epoca. A maggior ragione se poi, proprio da oltre un anno,  alla guida del nostro Paese si trovi una delle massime espressioni di quel  “potere finanziario” il quale dimostra ancora una volta la propria natura terza non  praticando alcuno sconto, oggi come allora.

    Sembra incredibile come la storia economica, anche recente, del nostro Paese non insegni nulla alla classe politica e dirigente italiana.

  • Pmi: strategie per uscire dalla crisi (2a parte)

    Gentilissimo Dott. Ielo, nella nostra precedente intervista ha descritto una situazione delle PMI in Italia tutt’altro che rosea. In particolare ci ha ricordato come i molteplici vincoli normativi, l’ingente pressione fisale (tra le più alte in Europa) e l’arretratezza del “sistema Italia” sul piano commerciale rappresentino degli ostacoli difficilmente superabili se non si attuano rapidamente delle riforme fiscali ed economiche lungimiranti e se, nel breve periodo, le aziende non si rivolgono a professionisti esperti. Cosa intende per una riforma fiscale lungimirante?

    In genere si dice lungimirante quella persona che ha la capacità di prevedere gli sviluppi futuri di una o più situazioni. Nel nostro caso, definisco una riforma fiscale lungimirante quell’insieme di norme che possono mantenere e far accrescere la ricchezza degli italiani tenendo conto di come gli orientamenti produttivi e dei consumi (per costume e per necessità) stiano cambiando rapidamente e radicalmente in questo Paese e nel Mondo.

    Il debito italiano è di circa 2.700 miliardi di euro e l’evasione fiscale è stimata (e ripeto, stimata) intorno ai 100 miliardi di euro all’anno. Questo è il presente. E il futuro? Di certo sappiamo che la spesa per affrontare le emergenze ambientali, agricole, alimentari, sociali ed economiche aumenteranno. Di conseguenza, per essere lungimiranti, qualunque azienda o persona orienti le proprie attività per migliorare questa situazione deve essere fortemente aiutata sul piano fiscale, oltre che incentivata o finanziata. Al contrario, chi non fa nulla in questa direzione deve essere disincentivato. Ogni euro non speso per la tutela dell’ambiente, o per la tutela della salute, equivale a cento, mille, diecimila euro di spesa pubblica per cercare di risolverlo. E ancora, tassare in modo esponenziale chi produce, indifferentemente da cosa e come lo produce, e, di contro, dare sempre più sussidi direttamente a chi non produce nulla (è fuori dubbio che ci sono persone che ne hanno davvero diritto) senza avere adeguati strumenti di controllo e senza alcuna reale progettualità, alla lunga porterà dei grossi scompensi economici. Sono alcune delle contraddizioni che credo meritino di essere affrontate con urgenza e con lungimiranza, appunto.

    Se lei domani fosse nominato Ministro delle Finanze, che cosa farebbe da subito?

    Partendo dal presupposto che siamo in emergenza e che è tempo di essere italiani ancor prima che appartenenti ad un partito politico, istituirei innanzitutto un tavolo di lavoro per condividere le informazioni sulla situazione attuale e futura delle casse dello Stato con i più importanti enti di rappresentanza del mondo del lavoro (a livello nazionale e regionale) e non solo (penso anche al terzo settore). Scopo di questo tavolo quello di elaborare in tempi brevi una strategia condivisa sui più urgenti interventi di correzione, in positivo, delle proiezioni più negative. In secondo luogo istituirei un altro tavolo di lavoro, composto da comprovati professionisti, per raccogliere, studiare ed analizzare i “sistemi fiscali” di altri paesi. E lo scopo dell’iniziativa è quello di creare un confronto su scala internazionale sul tema perché oggi non esiste solo il “pianeta” Italia ma esiste un sistema economico globalizzato e globalizzante con il quale è impossibile non fare i conti. In terzo luogo creerei un altro tavolo di lavoro per studiare il modo per alleggerire e semplificare tutto il sistema fiscale delle PMI e delle partite iva. La vera forza economica e culturale di questo paese. All’analisi darei corso fattivamente ad una strategia attuativa.

    Più che una riforma del fisco mi sembra una vera e propria rivoluzione. Non pensavo fosse così ottimista.

    Con gli amici spesso ci diciamo che “In Italia è bello vivere solo da turisti”. È solo una battuta che cela la tanta amarezza e tristezza che alberga nei nostri cuori. Stiamo ritornando ad essere un paese di emigranti. Stanno via via scomparendo i piccoli agricoltori custodi di biodiversità, i piccoli artigiani custodi di multiculturalità e tutti i piccoli geniali inventori che hanno fatto di questo paese uno dei più belli e ricchi al mondo. C’è qualcosa che non va. Mi trovo perfettamente d’accordo con Piero Angela quando afferma che l’Italia è un paese morto perché non ci sono punizioni per chi sbaglia né premi per chi merita. Tuttavia, alla possibilità di sedermi nel punto più alto della scala decisionale, come ha potuto sentire, non mi tirerei di certo indietro e cercherei di fare di tutto per rianimare questo paese allo stremo.

    Per lavoro è molto spesso a Roma ma vive in una città del Sud. Cosa farebbe se diventasse assessore delle attività produttive della sua città? 

    Si, vivo a Messina, una delle principali culle storiche della cultura mediterranea. Mi concentrerei, nelle stesse modalità poc’anzi descritte, per rilanciare nell’immediato la cultura della “condivisione” fra imprenditori (in primis di obiettivi di sistema) per procedere all’istituzione di un sistema di offerta integrata in grado di proporsi sui mercati domestici e locali (con particolare riferimento a quello dell’indotto turistico) e sui mercati internazionali dei paesi cosiddetti “ricchi” dove ancora il made in Italy è sinonimo di eccellenza qualitativa ed il rapporto dei prezzi è per noi maggiormente vantaggioso. È solamente uniti e con obiettivi comuni che si può concorrere e vincere! Affermo con fermezza che è arrivato il momento di abbandonare le retoriche di difesa (di cosa poi? i nostri imprenditori e le famiglie ad essi collegate hanno perso praticamente tutto in questi ultimi anni). Vanno abbracciate nuove logiche di rinascita economica, soprattutto a livello locale, degne di rappresentare la nuova vera opportunità che tutti quanti aspettiamo.

    Strategie di breve periodo per uscire da questa cristi energetica ed economica?

    In Italia siamo esperti risparmiatori ma pessimi investitori. Dalla singola persona fino ad arrivare, purtroppo, ai piani alti. Si stima che nelle nostre banche ci siano depositati quasi 1.200 miliardi di euro e che a dichiarare un reddito annuo sotto i 30.000 Euro siano circa la metà degli Italiani. Per quanto il divario tra ricchi e poveri stia aumentando i conti non tornano (o meglio, i soldi non girano, per lo meno in Italia). C’è una situazione di stallo. Tra le incertezze sul futuro e la pressione fiscale, fare impresa o investire in questo Paese diventa molto difficile. Tuttavia io sono tra quelli che pensa che è proprio in questi momenti che bisogna avere il coraggio di impiegare le proprie risorse, anche economiche, in progetti che portino i loro frutti a medio e lungo periodo. E non mi riferisco solo a iniziative imprenditoriali o a prodotti finanziari e bancari (per i quali, come detto anche nella prima parte dell’intervista, bisogna rivolgersi solo a persone di comprovata esperienza) ma anche a piccoli progetti di miglioramento della propria vita (dal fare l’orto al fare ginnastica, dall’abbonamento a teatro alla beneficienza di quartiere). Se tutti quanti, infatti, facciamo “girare” anche piccole somme di denaro destinate alla salute, alla cultura e all’ambiente ne gioverà da subito la nostra persona e le persone a noi più care famiglia e a medio periodo anche tutto il sistema perché una lungimirante prevenzione rimane sempre una delle forme di risparmio più intelligente a tutti i livelli.

  • Quale globalizzazione?

    A margine della tragedia della guerra e dei successivi approfondimenti relativi alle terribili conseguenze, molti commentatori, tra i quali anche il Ceo di Blackrock, un fondo privato con una dotazione finanziaria pari a tre volte il PIL italiano, concordano nell’affermare come il conflitto ponga la parola fine all’interno del vorticoso processo di ampliamento dei mercati definito “globalizzazione”.

    Tutte queste legittime analisi, tuttavia, esprimono un approccio francamente superficiale e soprattutto generato dalle nuove ed inattese difficoltà di approvvigionamento energetico, ma anche del settore primario, per la prima volta dal dopoguerra ad oggi, nella vecchia Europa in quanto la Cina ha già firmato un accordo con la Russia per assicurarsi la fornitura di gas mentre gli Stati Uniti, viceversa, avendo raggiunto l’autonomia energetica diventano adesso esportatori di energia.

    A queste difficoltà di approvvigionamento energetico si somma la problematica gestione delle filiere produttive le quali, negli ultimi decenni, hanno avuto uno sviluppo tentacolare ma disarticolato.

    Questo mercato globale nasce sostanzialmente con l’ingresso della Cina nel WTO innescando un processo di migrazioni produttive verso i paesi a basso costo di manodopera che molti hanno confuso con un nuovo modello economico strutturato e definito con il termine di “globalizzazione”.

    La mediazione dal mondo finanziario dei semplici approcci speculativi, il cui unico obiettivo rimane ieri come oggi la massima remunerazione del capitale, è stata applicata al complesso settore industriale forte di una totale assenza di regole condivise relativa ai flussi commerciali generati, contando quindi anche sulla mancanza di normative e di protocolli stringenti nella realizzare dei prodotti uniti ad una adozione minima di standard qualitativi a tutela dei consumatori e degli addetti alla produzione.

    Questa mia miope illusione speculativa ha determinato la possibilità per gli operatori finanziari, e soprattutto per quelli industriali, di avviare un processo di delocalizzazione produttiva verso Paesi con costi di manodopera irrisori.

    Tale migrazione “industriale” ha comportato l’azzeramento del vantaggio culturale ma per taluni settori manifatturieri si potevano definire come una vera supremazia industriale, quindi espressione culturale di know how professionale ed industriale espressi dall’Occidente come sintesi di un progresso di quasi 200 anni di storia industriale.

    Questo processo di annullamento del vantaggio culturale occidentale ovviamente è stato favorito da una delle classi politiche più miopi che la storia umana possa ricordare la quale, in preda ad un delirio ideologico, individuava, decennio dopo decennio, prima nello sviluppo della new economy, successivamente in una economia definita “post industriale” e recentemente nell’app e gig economy la via allo sviluppo delle nostre comunità. Senza dimenticare le responsabilità gigantesche del mondo accademico il quale, per puro snobismo e presunzione intellettuali, ha sempre definito il settore industriale come la Old Economy quando, viceversa, finalmente la crisi ne ridefinisce il ruolo sempre più centrale nelle politiche di sviluppo e di sostegno alla filiera.

    Il terribile combinato tra delirio ideologico-politico espresso anche attraverso politiche fiscali penalizzanti per i settori industriali unito a quello, anche più ridicolo, accademico e sempre supportati entrambi da una precisa volontà speculativa ha determinato i connotati di questo mercato globale il quale si è rivelato semplicemente come la semplice opportunità di azioni speculative sia finanziarie che produttive entrambe finalizzate a sfruttare il semplice fattore dei minori costi  nei paesi in via di sviluppo. Andrebbe ricordato, infatti, come all’interno di una globalizzazione reale (una sorta di Mec degli anni 70) sarebbe stato fondamentale prevedere l’adozione di una base normativa comune adottata da tutti i membri e fondamentale nella definizione del principio della concorrenza basato così su principi e fattori qualitativi e non semplicemente come è avvenuto negli ultimi 20 anni sulla ricerca del minor costo possibile nella realizzazione di un prodotto.

    La globalizzazione alla quale abbiamo assistito non ha generato ricchezza e benessere diffusi nei paesi all’interno dei quali le produzioni sono state spostate, in più ha reso più poveri i paesi dai quali queste delocalizzazioni sono partite.

    Emerge perciò evidente come, anche in seguito alle conseguenze del confronto bellico attuale, non si possa affermare che sia morta la globalizzazione ma la semplice deregolamentazione di un mercato globale e forse verrà meno una opportunità di speculazioni basata sulla ricerca del minor costo di produzione.

    L’occasione che si presenta ora è quella della nascita di un nuovo modello economico il quale, defunta questa visione di falsa globalizzazione rivelatasi solo come una zona franca globale, possa prosperare dalla ottimizzazione dei costi grazie all’innovazione tecnologica ed anche attraverso filiere più brevi e elastiche al fluttuare della domanda e gestibili all’interno di macroaree geografiche composte da stati con regole comuni non solo economiche ma anche democratiche.

    Non comprendere questa sostanziale differenza ma anche l’opportunità che si presenta dopo due anni di pandemia ed ora in piena economia di guerra definisce il declino culturale della nostra civiltà.

  • Lvmh investe sull’Italia: 2000 assunzioni entro tre anni

    Il gruppo del lusso Lvmh investe sui talenti dei mestieri d’eccellenza, tra creatività, artigianato e vendita, annunciando oltre 2.000 assunzioni in Italia entro 3 anni in questi settori, e un piano a livello globale da 8.000 nuovi posti nel 2022 e 30.000 entro il 2024, dopo che nel 2021, sempre a livello mondiale, ne sono stati creati 6.000. Lo ha detto Chantal Gaemperle, direttrice risorse umane e sinergie del gruppo, parlando oggi a Show Me al Teatro Odeon, organizzato da Lvmh per celebrare il progetto Istituto dei mestieri d’eccellenza, fondato nel 2014 e dal 2017 attivo anche in Italia: 34 programmi di formazione per 27 mestieri e 39 maison partner in 6 paesi del mondo (1400 gli apprendisti dall’anno di fondazione, di cui il 72% donne). Grazie a questo progetto in Italia, dal 2017 ad oggi, sono stati formati 300 apprendisti, e nel 2022 sono attesi 80 nuovi talenti.

    “In Italia come in tutti i nostri paesi culla dei savoir-faire è urgente rendere attraenti i nostri mestieri d’eccellenza. Mancheranno quasi 50.000 mila professionisti in Italia nel settore moda e pelletteria, secondo i dati di Altagamma. Sempre in Italia il tasso di disoccupazione giovanile è del 30%, perciò

    è urgente far conoscere questi mestieri – ha detto Gaemperle -. Dunque il gruppo Lvmh prevede oltre 2.000 nuove assunzioni in Italia entro 3 anni in questi campi”. Ma il progetto riguarda tutto il mondo: il gruppo, che ha investito 4 milioni di euro in formazione nel 2020, prevede 8.000 assunzioni nel 2022 e 30.000 entro il 2024 nel mondo. “Malgrado la crisi abbiamo mantenuto gli impegni, quest’anno è stato un anno record in cui abbiamo accolto 300 apprendisti nel mondo – ha continuato – ma non ci fermeremo qui, continueremo ad investire. Infatti abbiamo creato una carta per l’impegno nei mestieri di eccellenza”. Si tratta del patto We for me (Worldwide engagements for metiers d’excellence) firmato dalle 75 maison del gruppo per il lancio di una serie di iniziative, tra cui il programma Excellent, al via da quest’anno in Francia e implementato in Italia dal 2022, per sensibilizzare i più giovani e spingerli a scegliere questi mestieri. Ma anche il programma Les Virtuoses Lvmh il cui scopo è individuare i più meritevoli nella propria disciplina (finora sono stati identificati 67 talenti, di cui 17 in Italia).

    Soltanto in Italia il gruppo conta 6.000 collaboratori che svolgono queste professioni di savoir-faire, divisi fra 7 Maison, 246 boutique, 30 siti di produzione locali e una rete di 5.000 fornitori e appaltatori, per un totale di 100.000 persone che lavorano indirettamente su questo territorio. Tra i siti di produzione c’è anche la nuova Fendi Factory, uno stabilimento da 13.000 metri quadri a Bagno a Ripoli, che aprirà a settembre 2022.

  • Globalizzazione: non solo mercato

    Mentre forze politiche e sindacali discutono, più o meno con cognizione di causa, su quali siano gli strumenti per garantire maggiore occupazione vale per tutti ricordare che molte importanti imprese italiane sono passate in mano estera e che, in un mondo globalizzato, questo passaggio dovrebbe essere legittimo solo se a monte esistono regole per garantire che la vendita non si tramuti, dopo un po’, in una marea di licenziamenti. La Bianchi, storica fabbrica di biciclette, è diventata di proprietà svedese, mentre la Atala, altro marchio storico, è diventata olandese come ricorda Mario Giordano in un articolo su Panorama. La Ducati è diventata della Wolkswagen, che ha anche la Lamborghini, la Ferretti, barche di lusso, è diventata cinese, la carta di Fabriano è di un fondo americano, la Riello anche, parte della De Longhi è giapponese, la Parmalat francese, i vini Gancia dei russi, gli oli Sasso e Bertelli degli spagnoli, le fattorie Osella e i biscotti Saiwa di una multinazionale americana, la Peroni è giapponese. La Stock di Trieste, comprata da fondi americani, è stata trasferita nella Repubblica Ceca, la Ideal Standard è stata chiusa dagli americani, e ricordiamo la recente chiusura della Gianetti ruote e della Gkn, diventate di proprietà di fondi britannici che hanno poi provveduto al licenziamento di centinaia di dipendenti.

    Globalizzazione significa maggiore mercato ed opportunità ma solo con regole comuni rispettate e nessun mercato etico, come si suol tanto dire oggi, può prescindere dai diritti dei lavoratori che a loro volta hanno doveri reciproci con l’azienda e il paese. La mancanza di regole comuni e rispettate ci ha portato al caos e all’eterno conflitto, speriamo che la pandemia in concomitanza con la questione ambientale possano diventare, dopo tanta sofferenza, anche l’occasione per creare una terza via di sviluppo.

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