mercato

  • Il negazionismo evolutivo

    Quello che distingue qualsiasi teoria economica dagli effetti reali nella sua applicazione viene  rappresentato dalla natura e dall’entità  degli aspetti e dei contesti  dell’evoluzione continua e costante del mercato globale all’interno del quale tale teoria viene applicata in forma di  strategia economica.

    In altre parole, per quanto possa sembrare di difficile definizione la teoria dovrebbe attualmente, al suo interno, racchiudere anche uno spazio “evolutivo” e quindi un margine di forte incertezza in relazione ai molteplici effetti  condizionati da un mercato globale  in continua evoluzione. Basti pensare agli scarsissimi effetti della politica “monetaria espansionistica ” della BCE (Tltro e quantitative easing) la  quale intendeva offrire un sostegno ad un sistema economico europeo in crisi e dal raggiungimento di  inflazione al 2% risultasse fondamentale (come da  teoria) inondare il mercato di liquidità. Non avendo previsto, per esempio, come il fattore concorrenziale di un mercato globale determini un livellamento dei prezzi al ribasso (conseguenza dell’eccesso di offerta) contro il quale qualsiasi politica monetaria perda ogni effetto.

    Di conseguenza risulta evidente come il contesto economico reale determini  una forte modificazione dei risultati previsti che le teorie economiche propongono. Questo fattore di incertezza legato alle future evoluzioni di un mercato sempre più complesso, a partire dai numerosi ed incontrollabili fattori che lo influenzano, dovrebbe cambiare o quantomeno procedere ad una evoluzione delle teorie economiche e soprattutto delle loro applicazioni. Un aspetto molto importante specialmente quando l’applicazione di tali e semplicistiche teorie determini a sua volta un aumento del debito pubblico.

    Una delle giustificazioni che il governo in carica avanzava per giustificare la scelta di quota 100 con un conseguente aumento del debito pubblico attorno ai 10 miliardi era relativa alla creazione di nuovi posti di lavoro per la sostituzione dei nuovi pensionati che lasciavano il ciclo economico e produttivo. Ora emerge dai dati come solo il 24,7% delle aziende afferma di voler sostituire (e solo parzialmente) le uscite incentivate da quota 100: dati attesi tanto banali quanto espressione di un incompetenza economica evidenti. Va ricordato infatti come nell’attuale momento economico le imprese stiamo investendo in tecnologia digitale la quale offre una diminuzione dell’intensità di manodopera  per  milione di fatturato. Questa tendenza inevitabile, e giustamente  incentivata fiscalmente, ha  l’obiettivo principale di rendere più competitivo il sistema industriale italiano in un contesto di concorrenza globale. Inoltre offre un altro  effetto parallelo tanto nel medio quanto nel lungo termine perché  diminuendo appunto il costo della manodopera per milione di fatturato a causa della minore intensità, automaticamente renderebbe sempre più vantaggioso il reshoring produttivo, specialmente in un momento storico di forte criticità commerciale tra Stati Uniti e Cina (https://www.ilpattosociale.it/2019/05/22/tempo-reale/).

    Tornando alle ridicole elaborazioni  economiche che hanno ispirato questa strategia del governo in carica si può tranquillamente ricordare come, al di là delle dottrine economiche da cui scaturiscono le conseguenti strategie elaborate, non considerare il contesto evolutivo rappresenti un errore di dimensioni epocali. Questo negazionismo evolutivo si conferma come un ulteriore aspetto di un approccio assolutamente insufficiente alle complesse problematiche  economiche. Un atteggiamento frutto di una ormai datata erudizione economica priva di ogni contatto con i diversi fattori che contribuiscono a rendere il contesto  evolutivo economico imposto dal mondo globale sempre più articolato.

  • Esselunga sempre più vincente nelle vendite on line e al dettaglio

    Vendite in negozio e e-commerce in crescita per Esselunga. Nel 2018 il Gruppo meneghino ha realizzato vendite per 7.914 milioni di euro, in crescita del 2,1% rispetto al 2017 (7.754 milioni). “Un risultato ottenuto mantenendo costanti i prezzi a scaffale (quindi inflazione zero), così confermando il primato di convenienza di Esselunga e nonostante un contesto di mercato negativo caratterizzato soprattutto nella seconda parte dell’anno da un calo dei consumi”, analizza l’azienda in una nota. L’e-commerce ha superato i 236 milioni di euro, registrando +28% rispetto al 2017: oramai ogni 100 euro di ricavi, 3 sono realizzati on-line. Il risultato è ancor più rilevante alla luce delle analisi di R&S di Mediobanca, secondo le quali nel 2018 il giro d’affari dell’e-commerce di prodotti alimentari incide ancora solo per il 4% della domanda e-commerce italiana, sebbene sia  cresciuto del 34% rispetto al 2017 raggiungendo un valore di 1,1 miliardi di euro (gli acquisti online di prodotti alimentari da supermercato hanno raggiunto nel 2017 un valore superiore ai 200 milioni di euro con un incremento di oltre il 50% rispetto all’anno precedente), perché gli italiani spendono in media per acquisti alimentari online 500 euro annui contro i 1.850 euro registrati in Francia.

    Nel frattempo, l’operatore della grande distribuzione fondato da Bernardo Caprotti ha dimezzato i debiti: al 31 dicembre 2018 la posizione finanziaria netta è risultata pari a -436 milioni di euro (era -848 milioni di Euro a fine 2017) grazie a una forte generazione di cassa.

  • L’Italia in crisi nel mercato delle automobili

    Il mercato automobilistico sta vivendo sicuramente un periodo molto complesso ed articolato. Con le grandi città che sembrano sempre più ostili verso le auto diesel e benzina, i consumatori si sentono sempre più frastornati in un mercato che ultimamente offre tantissime alternative ma non sempre di livello. Tutto questo si ripercuote ovviamente sulle vendite finali del settore.

    Il 2018 del mercato automobilistico si è concluso con un sostanziale pareggio in Europa, con l’Italia che si caratterizza per una battuta d’arresto più marcata che altrove.

    L’Acea, l’associazione dei costruttori a livello continentale, ha diffuso il bilancio dello scorso anno chiudendo la rilevazione con dicembre. Le immatricolazioni di auto nell’Europa dei 28 più Paesi Efta (Svizzera, Islanda e Norvegia) sono stabili nel 2018 rispetto all’anno precedente: 15.624.486, lo 0,04% in meno del 2017. L’anno si chiude però con un nuovo dato negativo: a dicembre sono state vendute 1.038.984 vetture, l’8,7% in meno dello stesso mese dell’anno precedente.

    In questo contesto, Fiat Chrysler ha immatricolato 1.021.311 auto nel 2018 nell’area, facendo peggio del mercato con un calo del 2,3% sul 2017. La quota è pari al 6,5% a fronte del 6,7%. Tra i brand del gruppo registra un balzo del 55,6% Jeep (168.674 unità vendute). A dicembre la tenuta è stata invece migliore: le auto vendute da Fca sono 60.926, con una flessione del 2,5% e la quota è pari al 5,9% (era 5,5%).

    Ai risultati deludenti dell’Italia si somma il calo di Germania (-0,2%) e Regno Unito (-6,8%) che si contrappone alla crescita di Francia (+3,0%) e Spagna (+7,0%). A sostenere il mercato ed ad evitare un calo ancora più consistente ci sono poi i buoni risultati Romania (+23,1%), Ungheria (+17,5%) e Polonia (+9,4%). Il sesto mercato continentale, il Belgio, segna invece un +0,6%.

    Al primo posto troviamo Volkswagen Group con un +0,4% che deriva dal +2,7% del marchio capofila Volkswagen, dal +3,4% di Skoda, dal +12,8% di Seat e dal -12,4% di Audi. Secondo e in forte crescita è il gruppo PSA che mette a segno un poderoso +32,5%; il merito è del +156,2% di Opel, mentre Peugeot e Citroen si attestano entrambi su un più fisiologico +5,0%. Terzo e in leggero miglioramento è il Gruppo Renault (+0,8%) che contrappone il +11,7% di Dacia al meno entusiasmante -3,9% del marchio Renault classico.

    A riflettere su questi dati sono gli esperti del Centro Studi Promotor, per i quali il bilancio 2018 del mercato auto dell’area Unione Europea e paesi dell’Efta può essere considerato “sostanzialmente positivo”.

    Il presidente Gian Primo Quagliano ha ricordato come ci siano stati fattori che hanno trascinato al ribasso il mercato nel corso dell’anno: “In primo luogo la congiuntura economica, pur rimanendo positiva, è gradualmente peggiorata. In secondo luogo l’introduzione dal primo settembre del nuovo sistema di omologazione Wltp ha fatto si che diverse case avessero problemi di fornitura. In terzo luogo ha pesato sulle vendite la demonizzazione del diesel per motivazioni più ideologiche che di reale tutela dell’ambiente”.

    Il risultato del 2018 – sottolinea il Csp – non è negativo anche perché chiude in crescita la maggior parte dei mercati nazionali e in sostanziale pareggio (-0,8%) il gruppo dei cinque maggiori mercati che valgono il 71,7% delle immatricolazioni dell’area.

    Proprio per il mercato italiano, Promotor sottolinea che il 2018 segna un battuta d’arresto. Al calo maggiore che negli altri Paesi, Gran Bretagna a parte, si somma che le previsioni per il 2019 non sono positive sia per l’andamento dell’economia sia per le misure sull’auto recentemente adottate dal Governo.

    Il sistema di bonus-malus, secondo il Centro Studi Promotor, determinerà un calo delle immatricolazioni.

    Resta da vedere quali incentivi saranno introdotti per il rilancio di tutto il settore.

  • Dazi danno per la Cina e boomerang per gli Usa, i due giganti cercano un’intesa

    Cina e Stati Uniti si sono dati tempo fino al 2 marzo per chiudere un nuovo trattato, secondo quanto il presidente Usa Donald Trump, e quello cinese, Xi Jinping hanno concordato a Buonos Aires, a margine del G20, per evitare una nuova ondata di tariffe su 267 miliardi di dollari di prodotti cinesi. 

    Il round tenutosi a Pechino tra le delegazioni dei due Paesi nei giorni scorsi attesta quantomeno buona volontà su entrambi i versanti. Pechino, infatti, deve fare fronte a un calo di appeal dei suoi prodotti sui mercati mondiali e i dazi americani certo non aiutano, Washington di contro deve fare i conti col fatto che proprio l’adozione dei dazi ha spinto chi commercia con la Cina ad accelerare gli scambi, prima di incorrere in nuove misure penalizzanti varate dall’amministrazione americana.

    L’avanzo commerciale della Cina con il mondo si è ridotto lo scorso anno a 351,76 miliardi di  dollari in calo di oltre il 16% dal surplus di 422,51 miliardi del 2017 quando si era contratto del 17%, secondo i dati diffusi dalle Dogane cinesi, le esportazioni totali cinesi nell’anno sono aumentate del 9,9% a 2.480 miliardi mentre le importazioni sono aumentate del 15,8% attestandosi a 2.140 miliardi. In controtendenza, lil surplus commerciale della Cina con gli Usa, grazie alla robusta domanda americana di beni cinesi, ha raggiunto, i 323,32 miliardi nel 2018, con un balzo del 17% rispetto all’anno precedente.

    Come rilevato da Il Transatlantico di Andrew Spannaus seguendo il round negoziale sino-americano dei giorni scorsi, «Sullo sfondo di trattativa e guerra di parole rimangono le domande più importanti, sul futuro della politica economica cinese. Queste riguardano prima di ogni altra cosa le prospettive di apertura del mercato agli investimenti esteri, da cui dipendono in parte le riforme del sistema cinese. L’apertura del settore bancario e finanziario, ad esempio, innescherebbe un profondo cambiamento nelle attività d’investimento in Cina e nelle attività cinesi all’estero. Il presidente Xi ha già annunciato da tempo tale apertura, ma le resistenze sono ancora molte. Come minimo si dovrà attendere la fine delle trattative commerciali con Washington (che dietro le quinte riguardano da vicino anche questo punto), per vedere cambiamenti sostanziali. Sulla stessa onda viaggiano le speranze e le aspettative delle riforme industriali in Cina. Da un lato Pechino vuole affrontare un cambiamento epocale e divenire realmente competitiva su un piano di respiro globale; dall’altro Washington vuole assicurarsi i vantaggi, che in parte già possiede, necessari per continuare a essere il principale partner commerciale della Cina e sfruttare in modo espansivo un mercato potenziale di oltre un miliardo di consumatori».

  • Il Natale torna a far girare l’economia in Lombardia

    A Natale, si sa, siamo tutti più buoni. Nonostante le promesse di non spendere troppo, ognuno di noi alla fine non rinuncia mai ad un regalo per i propri parenti e amici, e spesso anche per se stessi.

    Nonostante le stime a livello nazionale parlino di un Natale con i consumi sottotono, in Lombardia il trend sembra realmente diverso. Sono 66mila le imprese lombarde legate al Natale, il 14% delle 473mila aziende che in tutta Italia fanno affari durante le feste natalizie.

    Il business nazionale mensile è di circa 5 miliardi di euro, ma in Lombardia il giro d’affari mensile è di 1,5 miliardi, di cui circa 1 milardo generato a Milano. Questo vuol dire che il 20% del business natalizio a livello nazionale si concentra nel capoluogo lombardo. E’ quanto emerge da un focus della Camera di Commercio di Milano dedicato al business del Natale, ricerca basata sui dati del Registro Imprese relativi al terzo trimestre 2018.

    La ristorazione è il settore con più imprese legate al Natale: sono 51mila le aziende della ristorazione in Lombardia, circa 338mila in Italia. Seguono gli alloggi con oltre 4mila imprese in Lombardia su 53mila in Italia; tour operator e agenzie viaggi con 2,4 mila posizioni su 16mila in Italia. A seguire commercio di fiori e piante (2mila in Lombardia), gioiellerie (1,7 mila), profumerie (1,4 mila). Il settore che cresce di più, sia in Lombardia che in Italia è quello della pasticceria fresca: +8,2% su scala nazionale e +6,4% in regione.

    La provincia che in Italia conta il maggior numero di imprese dell’aggregato natalizio è quella di Roma (41mila), ma a livello regionale domina la Lombardia che con le sue 66mila aziende stacca Lazio (52mila), Campania (47mila), Veneto (36mila). Da notare la differenza tra imprese presenti sul territorio e business creato dalle stesse, dove abbiamo visto che la Lombardia è ancora senza rivali.

    Per quanto riguarda i lavoratori, infine, su circa 1,8 milioni di addetti totali in Italia, la Lombardia copre il 19% con 347mila persone coinvolte; poi ci sono Veneto (187 mila), Emilia Romagna (185 mila) e Lazio (171 mila).

    Negli ultimi anni hanno contribuito ad aumentare questi numeri anche i numerosi mercatini natalizi che si sono moltiplicati in tutta la regione. Alle fiere più importanti e famose come l’Artigiano in fiera, si sono aggiunte diverse manifestazioni sempre più frequentate dai cittadini. Oggetti da regalo, lavorazione artistica di marmo, pietre, ceramica e vetro, bigiotteria e gioielleria, orologi, prodotti tessili ma anche casalinghi, arredamento e cosmetici: sono quasi 21mila, al terzo trimestre 2018, le attività di artigiani e ambulanti di prodotti artistici presenti in Lombardia e legate ai mercatini di Natale di questi giorni, il 12,5% del totale italiano.

    Gli ambulanti sono più di 16mila, concentrati maggiormente nella vendita di tessuti, abbigliamento e calzature (nel complesso 8.400 imprese) e nel commercio al dettaglio ambulante di chincaglieria e bigiotteria (1.900), si contano quasi 1.800 sarti e circa 1.300 designers in tutta la Lombardia.

    Nei settori dell’artigianato artistico lombardo a crescere di più sono le attività di design di moda e design industriale, +5,2% in un anno e le attività di fabbricazione di strumenti musicali, +3% in un anno.

    In Italia sono quasi 167mila le imprese coinvolte nei mercatini. Prima Napoli con 14.865 imprese (+0,7%), poi Roma (10.501, +1,1%) e Milano (9.119), seguite da Caserta (6.118, +0,8%), Torino (5.196), Palermo (5.109), Salerno (4.641).

    In Lombardia, come provincia, Milano pesa per il 44% del settore, Brescia e Bergamo il 10% circa e Monza l’8%%. In crescita Sondrio (+2,3%).

  • Commission hopes euro can challenge greenback’s reserve currency status

    As part of its effort to bolster its international standing amid spats with the United States of tariffs and foreign policy, the European Commission is hoping to promote the euro as an alternative to the supremacy of the dollar for all international transactions, including those involving energy, commodities, and aircraft manufacturing, as well as in derivative operations.

    As part of the drive, the Commission also announced that will also strive to convince African states to denominate their public debt in euros in what would be the first serious challenge to Washington’s economic leadership, which Brussels sees as a way to counter the unilateralist “America First” policies of the Donald J. Trump administration.

    Europe’s efforts to establish a clearinghouse known as a Special Purpose Vehicle (SPV) to safeguard the 2015 Iran nuclear deal – which the US pulled out of earlier this year after accusing Tehran of being in violation of the terms of the agreement, which prompted Washington to re-impose crippling economic sanctions on the Islamic Republic – have fallen completely flat.

    The main guarantors of the Iran nuclear deal – Germany, France, and the UK – have refused to host the proposed clearinghouse, which could be used to help match Iranian oil and gas exports against purchases of EU goods in a barter arrangement that would circumvent the US’ sanctions. This would expose to the three European powerhouses to being subject to stiff penalties imposed by the Americans that would have a potentially devastating effect on the French, German, and British economies, while at the same time severely strain relations with the United States.

    Pressure has also been brought to bear on Austria, Luxembourg, and Belgium to host the SPV, but the three governments have serious misgivings about the practical purpose of the Special Purpose Vehicle, particularly as they fear the depth of the US’ expected retaliation.

    Initially, the European Commission hopes to begin closing energy contracts that are denominated in euros as a way to gradually promote the spread to other international commodities that could be traded in Europe’s common currency. At present, more than 80% of contracts for EU energy imports are priced and paid for in dollars, which currently trades at $1.13 to €1.

  • L’interpretazione statistica

    La caduta del livello culturale rispetto alle politiche economiche ed in relazione agli articolati effetti per l’economia reale, che vede contrapposti maggioranza ed opposizione, può venire simbolicamente rappresentata dalle “dotte analisi e deduzioni” scaturite dal grafico riportato.

    Emerge, infatti, come dal settembre 2017 al 2018 si siano persi 184.000 contratti a tempo indeterminato mentre quelli a tempo determinato risultano cresciuti esattamente del doppio: 368.000.

    Nel banale ed avvilente confronto politico questo dato viene presentato come una crescita della occupazione di 184.000 unità, indicatore delle politiche vincenti della coalizione di governo, ora all’opposizione (Governi Renzi e Gentiloni), soprattutto in rapporto agli ultimi dati drammatici  relativi alla crescita economica ed all’aumento della disoccupazione invece imputabili alla compagine governativa in carica.

    Uno dei principi fondativi di qualsiasi rilevazione statistica sul quale il mio professore di statistica all’Università non transigeva veniva indicato su come le rilevazioni dovessero risultare per sistemi ed elementi omologhi con l’obiettivo di ottenere dalle rilevazioni statistiche una foto reale e successivamente diventare un punto di partenza per una analisi più approfondita.

    Nello specifico, tornando al grafico, a fronte di un saldo positivo dei contratti (+184.000) abbiamo la perdita di 184.000 contratti a tempo indeterminato e molto spesso di altrettanti posti di lavoro.

    In altre parole, basterebbe riservare un approccio anche solo leggermente più professionale ed economicamente appropriato per comprendere come un semplice saldo positivo possa nascondere una realtà ben diversa proprio perché vengono confrontati numeri che sono espressione di entità economiche diverse e nello specifico addirittura con ricadute economiche opposte.

    La veridicità di tale analisi emerge dall’andamento dei consumi come del Pil dell’anno in corso che dalle rosee previsioni del Governo Gentiloni (+1,4% ma a novembre 2017 si fantasticava di un +1,6%, sempre con l’appoggio e sostengo del Centro studi di Confindustria) si sia mestamente, trimestre dopo trimestre, ripiegati verso un modesto 1,1/0,9% (confermato anche dall’Ocse), anche per la frenata della domanda estera di prodotti intermedi delle nostro Pmi e del crollo del nostro export, segnale preoccupante della incertezza dei maggiori mercati internazionali.

    Recentemente poi una ulteriore conferma della vera realtà economica che i saldi del grafico non  esprimono (o meglio le interpretazioni di “parte” non valutano) viene invece offerta dai dati relativi ai consumi. Dopo dei trimestri sostanzialmente piatti sul fronte della crescita, e con tassi di incrementi sempre ampiamente inferiori al tasso di inflazione, gli ultimi dati indicano chiaramente un crollo dei consumi del -2,5% con un allarmante flessione dei consumi alimentari (la prima dal 2012) dello -0,6%.

    Recentemente, infatti, il direttore di una della più importanti catene di distribuzione italiane alla domanda a cosa mai attribuisse il calo della spesa media rispose con il candore della conoscenza diretta dell’economia reale, indicando nell’esplosione dei contratti a tempo determinato la responsabilità di  tale preoccupante calo. A conferma di tale analisi va infatti ricordato come un consumatore non determini il proprio volume di acquisti in relazione alla disponibilità attuale ma soprattutto alle aspettative di guadagno future. In questo senso l’impatto economico di nuovi  contratti a tempo indeterminato risulta sicuramente superiore in quanto offre uno scenario futuro positivo e gestibile ed anche per l’accesso al credito al consumo che diventa uno strumento per acquisti importanti ma consapevoli proprio in relazione alla positiva aspettativa di retribuzione che tale contratto offre.

    Tornando, poi, al quadro generale se all’impatto per i consumi di questi saldi si aggiunge come da oltre due trimestri la crescita del Pil italiano risulti ampiamente al di sotto del tasso di inflazione (stagflazione ampiamente sottostimata se non addirittura omessa da ogni organo di informazione), il quadro economico rimane sconfortante anche se con “saldi occupazionali” fortemente positivi, i quali invece animano i deprimenti confronti politici. Il declino culturale di un paese può assumere le più diverse espressioni e forme.

    Questa incapacità dei due schieramenti politici, sia governativo come della attuale opposizione, di interpretare ed analizzare le ricadute economiche delle rilevazioni statistiche dimostra e conferma un deficit culturale imbarazzante di entrambe le compagini politiche e dei rispettivi “economisti” a gettone.

  • Time to market

    Definisce il tempo che intercorre tra l’ideazione, la realizzazione e l’immissione sul mercato di un determinato prodotto, ma rappresenta anche la capacità di un’impresa di reagire agli input che possono essere determinati dal mercato con il fine di interpretali  e così rispondere attraverso una innovazione di prodotto o miglioramento del servizio collegato.

    La politica intesa come l’arte della mediazione tra posizioni articolate ed espressione di ideologie diverse è caratterizzata da tempistiche molto diverse rispetto ai tempi di un mercato concorrenziale globale del quale, viceversa, si trovano ad operare le imprese.

    Il complesso scenario economico inteso nella sua articolata strutturazione, specialmente nella sua costante evoluzione tecnologica tipica di una società digitalizzata, a sua volta esprime tempistiche a dir poco istantanee nella applicazione di operazioni finanziarie: esistono infatti  programmi ed algoritmi ideati e realizzati per capitalizzare guadagni anche nell’arco del 1/4 di secondo. Al tempo stesso la digitalizzazione, attraverso la propria immediatezza imposta a tutti i mercati, trova riscontro anche, per esempio, nell’economia reale, come dimostra la vicenda Dolce Gabbana, soprattutto per le sue conseguenze commerciali, nella reazione allo spot incriminato che ha costretto al ritiro dei capi dalle piattaforme digitali in tempo reale.

    La politica economica, espressione legittima del mandato elettorale di cui il governo si fa portavoce, presenta  viceversa delle tempistiche che dovrebbero risultare  mediane tra le due velocità di riferimento della politica e dell’economia. In altre parole, non si pretende che la politica governativa adotti i tempi del mercato globale digitale ma neppure si può pretendere che sia il mercato a doversi adattare alle tempistiche “borboniche” delle diverse compagini governative, indipendentemente dal colore politico della coalizione che le sostiene.

    Al di là dell’andamento delle trattative che vede contrapposti il governo italiano con le autorità europee in seguito alla lettera della Commissione Europea sul complesso dei valori di crescita in rapporto ai maggiori capitolati di maggiori uscite (reddito di cittadinanza e ingresso nel sistema pensionistico a quota cento), il mercato ha già ampiamente espresso il proprio giudizio.

    Nonostante lo spread sia da mesi sopra quota trecento (300) e che soprattutto il differenziale con la Spagna (che nel valore assoluto del Pil ha superato il nostro Paese nel mese di giugno 2018) risulti sempre attorno ai duecento (200) punti, tale sfiducia si esprime con un considerevole aumento dei tassi di interesse pagati dal nostro Paese ad un operatore finanziario o semplice al risparmiatore che volessero sottoscrivere i titoli del debito italiano.

    Viceversa, lo scorso martedì, a fronte di una offerta di oltre sette (7) miliardi di titoli italiani del debito pubblico, il mercato (va ricordato “soggetto asessuato che cerca solo marginalità”) ne ha sottoscritti  poco più due miliardi (2,1 Mld), mentre esponenti della maggioranza di governo prima hanno negato ogni ripercussione imputabile alla crescita dello spread e successivamente, indicando l’aumento dei tassi di interesse (quindi un maggior costo dei servizi al debito per i contribuenti), si  sono spinti nella ardita  previsione di un interesse rinnovato da parte del mercato anche grazie ai tassi crescenti. Sembra incredibile come non risulti ancora chiaro ai responsabili economici del governo in carica come all’aumento di interesse per un titolo del debito sovrano (quindi manifestazione di fiducia relativa alla sua  solvibilità) i tassi pagati subiscano un abbassamento fino al valore negativo (titoli del debito tedesco), mentre un innalzamento degli stessi  rappresenta il maggiore rischio che gli operatori riconoscono al paese emittente. Esattamente il contrario di quanto avvenga per le comuni dinamiche dei titoli del mercato azionario.

    I numeri espressi dal mercato all’ultima asta di titoli boccia clamorosamente le politiche non solo economiche del governo attuale (al quale vanno riconosciute le conseguenze del  disastro finanziario dei precedenti governi Renzi e Gentiloni che hanno beneficiato del Quantitave Easing), ma soprattutto la gestione del debito complessiva ed anche i  rapporti  e le dichiarazioni di membri istituzionali con il mercato stesso assolutamente prive di ogni senso di responsabilità.

    La digitalizzazione ha imposto una velocità certamente difficile da raggiungere per una compagine governativa che spesso risulta la sintesi di gruppi politici con visoni differenti e con difficoltà  di sintesi operativa. Non può tuttavia rappresentare certamente la soluzione alle diverse dinamiche e velocità  l’ignorarle  o peggio negando la  stessa differenza. In un  mercato globale e concorrenziale la velocità di consegna di un prodotto rappresenta un aspetto del servizio che crea valore aggiunto. Un mercato nel quale invece il governo in carica pretenderebbe di immettere i titoli del proprio debito pubblico con regole e velocità stabilite dall’emittente.

    Mai visione della gestione della finanza pubblica risultò  più anacronistica ed “analogica” dimostrazione evidente e disarmante della assoluta mancanza di  conoscenza del significato  “Time to Market”, figurarsi delle sue molteplici applicazioni.

  • La contraddizione dell’innovazione culturale e tecnologica

    Posso comprendere, o meglio posso constatare, che finalmente il mondo della moda (ma preferisco tessile abbigliamento) abbia compreso come sia necessario partire dal mercato, inteso come una variabile  complessa ed articolata alla quale proporsi con il proprio background storico di brand e di posizionamento sul mercato attraverso la propria collezione.

    Fino ad oggi il marketing, al netto dell’innovazione tecnologica, è sempre stato interpretato come la capacità di rendere appetibile un prodotto attraverso le politiche di comunicazione che crea solo in questo modo valore aggiunto: questo in estrema sintesi viene definito il Marketing di prodotto. Viceversa, da oltre vent’anni esiste una corrente di pensiero legata alle strategie del marketing avanzato che ha già diviso in due correnti, sostanzialmente molto distanti, la complessa dottrina e paradigmi del marketing.

    In altre parole, al marketing di prodotto si aggiunge il marketing di domanda (privo di definizione anglosassone) inteso come quel settore complesso ed articolato nel quale il focus viene rappresentato inizialmente nel processo di individuazione come dalle analisi delle aspettative e delle loro evoluzioni in rapporto a variabili economiche, sociali e politiche delle diverse situazioni nazionali del mercato nella sua complessa articolazione. Questa “corrente o evoluzione” del marketing non ha mai trovato nessun tipo di riconoscimento da parte tanto della nomenclatura accademica quanto delle imprese del settore tessile  abbigliamento avendo scelto di valorizzare il prodotto a valle della filiera attraverso la semplice divinizzazione della creatività facilmente identificabile nello stilista.

    Tuttavia ora la scelta, sempre legittima, di eliminare questo gap culturale e temporale affidandosi ad un algoritmo per comprenderne le aspettative rappresenta una contraddizione in termini nella elaborazione della collezione. Il concetto di creatività nella sua evoluzione contemporanea non può solo venire individuato nel semplice disegno di un capo con annessa scelta del tessuto, da molti anni ormai la creatività trova la propria complessa applicazione anche nella sintesi felice tra la capacità di interpretare le aspettative di un  mercato specifico  e la sua possibile interazione con il brand e la collezione proposta. Risulta piuttosto obsoleta la definizione di creatività definita ed esaltata come capacità di “disegnare” un capo senza inserire il valore fondativo della filiera complessa, espressione del know-how industriale e professionale a monte della filiera del tessile-abbigliamento.

    A questa tipologia di creatività si dovrebbe aggiungere anche la capacità di sintesi tra  propria “arte creativa”  unita  alla capacità di interpretare le aspettative del consumatore di riferimento bypassandolo attraverso il proprio Dna di Brand. Affidarsi invece ad un algoritmo (ed in questo caso il termine marketing di domanda viene sostituito dal molto più affascinante demand focused) dimostra il sostanziale ritardo culturale di un settore che non è riuscito ad esaltare il valore della filiera ma si è limitato alla divinizzazione dello stilista.

    Ora, in pieno fervore ipertecnologico ma continuando ad ignorare i risultati di una ricerca di mercato del 2015 negli Stati Uniti fatta da Bloomberg investment secondo la quale oltre l’82% dei consumatori si considerava disponibile a pagare un prodotto anche il 30% in più purché forse espressione di una filiera nazionale, si passa alla introduzione di un algoritmo per recuperare il terreno perduto, ma francamente dubito come lo stesso  algoritmo possa interpretare questo sentiment del mercato che chiede di valorizzare proprio la filiera come espressione di un prodotto complesso in quanto originato da una filiera.

    Questa decisione assolutamente legittima dimostra come, ancora oggi, nel 2018, non si siano comprese le reali aspettative del mercato e soprattutto il loro valore fondativo nella realizzazione della collezione come di un qualsiasi prodotto tanto da preferire un algoritmo portatore sicuramente di sinergia di costi ma incapace di comprendere la sensibilità unita alla cultura ed alle dinamiche economiche le quali, con complesse alchimie, concorrono a formare le più varie e diverse aspettative alle quali le aziende intendono rispondere.

    Un’altra occasione persa da un sistema incapace di riformarsi convinto come l’innovazione non debba trovare la propria massima espressione nella rivalorizzazione della filiera ma nella più semplice applicazione di un algoritmo, come se questo da solo dimostrasse la contemporaneità di determinate strategie.

    Introdurre un algoritmo nella creazione delle collezioni potrà  suscitare dei facili entusiasmi tra i sostenitori della digitalizzazione i quali invece, inconsapevoli, rappresentano semplicemente l’espressione del ritardo culturale che cerca di recuperare il tempo perduto attraverso l’introduzione di uno strumento ma porterà alla snaturalizzazione della stessa espressione creativa di un capo e di un prodotto.

    Questa scelta poi individua come il capo o il prodotto non venga considerato come una espressione della cultura contemporanea, sintesi di creatività, know how professionale ed industriale.

    Nessun processo culturale, infatti, di cui il capo o il prodotto ne risulta la sintesi, può inserire al proprio interno un catalizzatore, come un algoritmo, che di fatto lo stravolge in un ambito di analisi costi/ benefici.

    Il mercato richiede da anni molto di più al fine di indirizzare e giustificare le proprie scelte di acquisto.

  • Il settore auto si interroga sul proprio futuro elettrico

    Il futuro delle automobili diesel è ormai segnato. Dal 2015, anno in cui è esploso lo scandalo del “dieselgate” negli Stati Uniti, i costruttori hanno dovuto fronteggiare una rivoluzione senza precedenti.

    L’EPA, l’agenzia americana per la protezione dell’ambiente, aveva infatti riscontrato sui veicoli del gruppo Volkswagen la presenza di un software in grado di aggirare le normative ambientali sulle emissioni di NOx e di inquinamento da gasolio. Grazie a questo dispositivo era così possibile superare agevolmente i test sulle emissioni, mentre nelle normali condizioni di percorrenza stradale le vetture avrebbero superato fino a 40 volte il limite consentito dalla legge. Dopo questo scandalo la corsa al blocco delle auto diesel dal 2020 si è diffusa in tutta Europa. Città come Parigi, infatti, hanno annunciato l’abolizione del diesel proprio dal 2020.

    L’ultimo colpo di grazia alle auto con motori diesel è arrivato poco tempo fa dalla Germania. Il tribunale amministrativo federale di Lipsia, infatti, ha emesso una sentenza con la quale ha vietato la circolazione di questi veicoli nei centri urbani per ridurre il tasso di inquinamento, ma ha lasciato libertà ai vari municipi di applicare questa sentenza in modo graduale.

    Nonostante la progressiva abolizione del diesel, il mercato italiano non sembra aver risentito di questa chiusura legislativa. Nel 2017, infatti, le nuove immatricolazioni di auto diesel nel nostro Paese sono cresciute del 3,8% anche grazie ad una politica di generosi incentivi adottata dai costruttori e da un prezzo del gasolio generalmente più conveniente rispetto alla benzina. Tuttavia, i primi dati di settembre e ottobre 2018 evidenziano un crollo rilevante.

    Nonostante le nuove e più restrittive normative, alcune case come Toyota hanno deciso per una sospensione istantanea della vendita delle vetture diesel in Italia, altri costruttori, come Mercedes, hanno promesso grandi investimenti per lo sviluppo della propulsione elettrica senza abbandonare il motore diesel.

    Questo repentino sviluppo del settore sta mandando in crisi diverse aziende, legate a quelle dell’automotive. Un grosso problema per chi negli anni ha sviluppato il proprio business sullo sviluppo di tecnologie e parti di motori diesel.

    Un prima stima identifica in cinque miliardi il giro d’affari legato ai motori a gasolio, che per il Centro per l’innovazione e la mobilità automotive (Cami) coinvolge il 7% delle aziende componentistiche e oltre 17.000 addetti della filiera. Il numero di aziende in allerta, però, pare di molto superiore, tenendo conto che ben il 30% dei fornitori (650 aziende, su un totale di 2190) prevede danni alla propria competitività dalla diffusione del motore elettrico.

    Tra frizioni e ingranaggi, differenziali e trasmissioni, centraline e sistemi di scarico, anche andando oltre i motori è difficile trovare un settore immune ai cambiamenti, anche perché per tutti inciderà comunque il tema dei pesi, da alleggerire per migliorare l’autonomia.

    Tra le aziende italiane intervistate solo il 19% ha partecipato a progetti di sviluppo di powertrain elettrici o ibridi, poco meno del 70% ha dichiarato di non aver seguito alcuno sviluppo di nuove tecnologie.

    A pesare è certamente l’inerzia di Fca, primo cliente del settore (vale in media il 42% dei ricavi), costruttore che di fatto è ancora all’anno zero nell’avviare un piano strategico nel campo delle motorizzazioni elettrificate.

    “Certo questa situazione pesa. Anche se alcuni progetti come la Renegade ibrida o la 500 elettrica stanno partendo – spiega Giuseppe Barile, presidente dei componentisti Anfia – e quindi possiamo avere un moderato ottimismo. Quel che è certo è che la filiera non può vivere solo di internazionalizzazione. La transizione è un’opportunità ma è troppo rapida, ora la gente è disorientata, molte famiglie rinvieranno gli acquisti e per il 2019-2020 prevedo un mercato in calo. Ad ogni modo, la filiera può recuperare il gap a patto di agire subito: metà del comparto, cioè 80mila addetti, sarà coinvolta in questa rivoluzione”.

Pulsante per tornare all'inizio