C’erano molte aspettative alla nomina di Carlo Nordio come Ministro della Giustizia e, per chi come me lo conosce personalmente bene da decenni, non c’era da stupirsi che abbia fatto precedere il suo ingresso in via Arenula da ottimi intendimenti.
Innanzitutto depenalizzare: il nostro sistema è tutt’ora ingolfato da centinaia di “reati nani”: dall’impiego di stalloni non autorizzati nelle fiere equine all’uso falsificato del marchio “prosciutto di Parma” che ben potrebbero essere ricondotti ad illecito amministrativo e sanzionati con una multa, senza intasare le Procure ed i Tribunali con adempimenti non evitabili a discapito di efficienza da destinare ad indagini di maggiore rilevanza, riducendo anche i tempi biblici che affliggono i processi. Risultato, dopo un biennio: sono stati introdotti nel codice e nelle leggi speciali almeno una ventina di reati nuovi ed assolutamente inutili, spesso ricorrendo alla decretazione di urgenza e l’ultimo in ordine di tempo è quello a tutela delle aggressioni del personale sanitario. Un intendimento condivisibile, ci mancherebbe, se non fosse che quelle inaccettabili condotte sono già sanzionate da più di una ipotesi di reato: dalla violenza privata alle lesioni personali per non parlare del danneggiamento e financo il sequestro di persona e le pene già previste non sono propriamente bagatellari.
Si chiamano “norme manifesto”, e sono quelle volte a soddisfare la pancia dell’elettorato (garantendosene il consenso) mostrando efficientismo della politica a fronte di emergenze con il ricorso – ormai abitualmente – al diritto penale che è, e dovrebbe restare, un sistema di controllo sociale sussidiario.
L’unico reato depenalizzato, viceversa, è stato l’abuso di ufficio contro la cui abrogazione, dopo quaranta giorni dalla entrata in vigore, sono già almeno tre le eccezioni ben motivate di illegittimità costituzionale sollevate da altrettante Procure e sollecitamente trasmesse alla Consulta dai Tribunali.
Si tratta, in effetti, di una norma evanescente che provoca la cosiddetta burocrazia difensiva e la sindrome da firma da parte degli amministratori pubblici intimoriti all’idea di finire sotto processo per un nonnulla, rimanerci per anni perdendo onorabilità e lavoro salvo poi essere assolti come dimostrano inesorabilmente le statistiche. Forse valeva la pena fare un ulteriore tentativo (sino ad ora sono stati più di uno, tutti infruttuosi, anche negli ultimi anni) per dare concretezza ad una fattispecie sfuggente al canone di tassatività imposto dalla Costituzione.
L’incertezza del diritto in questo settore è destinata a permanere anche con riguardo a quell’ulteriore “reato avamposto” rispetto alla corruzione che è il traffico di influenze: una ipotesi, basti dire, che quando fu introdotta – nel 2012 – venne definita dal Prof. Tullio Padovani, una delle eminenze grigie del diritto penale, “…come la Corazzata Potiomkin: una boiata pazzesca”. Ebbene, anche al traffico di influenze si è messo mano per meglio definire un’ipotesi di reato fumosa caratterizzata, come l’abuso di ufficio, da un numero elevatissimo di archiviazioni e assoluzioni non prima di aver rovinato la vita agli indagati; il risultato è che anche questa porzione di una riforma entrata in vigore a fine agosto è già stata spedita al vaglio della Corte Costituzionale non appena ripresa l’attività giudiziaria dopo il periodo di pausa feriale. Bastava, invece, licenziare uno dei numerosi disegni di legge languenti da tempo immemorabile alle Camere volti a regolamentare il cosiddetto lobbyng per definire cosa sia lecito fare e cosa no nei rapporti tra “facilitatori” e pubblici funzionari, ma tant’è.
In conclusione, in queste riforme già prossime ad essere riformate si intravede una politica arruffona e digiuna di diritto, lo zampino di sabotatori interni all’Ufficio Legislativo del Ministero, il mistero di un Guardasigilli che è personalità di valore, come Marta Cartabia che lo ha preceduto: entrambi hanno apposto l’imprimatur e dato il nome ad interventi che, quando non inguardabili, propongono ragionate perplessità.