multinazionali

  • Ok definitivo del Parlamento europeo alla stretta sulle Big Tech

    L’Europa volta pagina sulle Big Tech. Il Parlamento europeo pone il suo doppio sigillo finale al pacchetto di regole comuni – giù concordate con i governi – per frenare lo strapotere di Google, Amazon, Facebook e Apple e, con due voti a schiacciante maggioranza, decreta l’apertura di “una nuova era”. Dal prossimo anno, le grandi piattaforme del web, sotto l’intimidazione di multe fino al 20% del loro fatturato mondiale e sanzioni pesanti, non potranno più essere ‘too big to care’ delle conseguenze dei loro comportamenti sui mercati e sulle vite dei cittadini. Il tutto sotto l’occhio vigile della Commissione europea, già indaffarata a organizzare la sua task force di monitoraggio e risposta.

    I due testi storici – il Digital Services Act (Dsa) e il Digital Markets Act (Dma) – hanno un’unica ambizione: rendere l’Europa l’avanguardia mondiale contro gli abusi su internet. E il dogma è anch’esso unico: mettere fine al Far West digitale. Una posizione ampiamente condivisa da tutti gli eurodeputati che, riuniti in plenaria a Strasburgo, hanno approvato il Dsa con 539 voti a favore, 54 contrari e 30 astenuti e il Dma con 588 sì, 11 no e 31 astensioni. Aprendo, nelle parole dell’eurodeputato tedesco Andreas Schwab, uno dei principali sostenitori della stretta, una “nuova era”. “Dieci anni fa si voltava pagina sulle banche ‘troppo grandi per fallire’. Ora stiamo voltando pagina sulle piattaforme ‘troppo grandi per preoccuparsi'” delle loro azioni, ha avvertito il commissario Ue per il Mercato interno, Thierry Breton.

    Il Dsa consacra il principio che “ciò che è illegale offline lo deve essere anche online’ aggiornando la direttiva comunitaria sull’e-commerce datata 2000, quando le Big Tech erano ancora allo stato embrionale. E le costringe a vigilare sui contenuti in modo più attivo. Vale a dire rimuovendo “prontamente” tutto ciò che è illegale o nocivo. Un precetto valido anche per i canali di vendita online, che dovranno verificare l’eventuale presenza di prodotti contraffatti e l’identità  dei venditori. E che viene accolto con soddisfazione anche dall’Italia che, ha evidenziato il sottosegretario all’Editoria, Giuseppe Moles, si è battuta “con forza” a “difesa del Made in Italy e dei contenuti di qualità”. E tra le novità è previsto anche uno stop alle pubblicità mirate sui minori, alla profilazione degli utenti in base a religione, sesso o preferenze sessuali, e alle tecniche manipolative che costringono le persone a fare clic sui contenuti. I divieti sono accompagnati da precisi obblighi di trasparenza sugli algoritmi e di tutela dei diritti fondamentali, pluralismo dei media compreso. Chi non seguirà i dettami rischia multe fino al 6% del loro giro d’affari annuo globale o di incappare nel divieto di operare sul suolo europeo. Le multe arrivano al 10% nel Dma per chi si renderà invece protagonista di pratiche di mercato sleali, rincarate al 20% per le recidive. A rischiare di più sono le Big Usa, chiamate a non tarpare più le ali ai rivali più piccoli. “Le grandi piattaforme dovranno astenersi dal promuovere i propri interessi, condividere i propri dati con altre attività, abilitare più app store”, ha messo in guardia la vicepresidente Ue, Margrethe Vestager, da anni a duello con la Silicon Valley. Con l’adozione formale dei governi prevista a luglio (Dma) e a settembre (Dsa) e la pubblicazione degli atti nella Gazzetta ufficiale europea, le armi Ue sono ormai affilate.

  • Corporate Tax by Yellen & Biden

    Si potrebbe persino essere d’accordo con la proposta del Presidente degli Stati Uniti Biden e del segretario al tesoro Yellen su una tassazione minima delle multinazionali applicabile in tutto il mondo, intesa sia come risposta all’emergenza finanziaria legata alla pandemia che alla lotta ai paradisi fiscali i quali sottraggono risorse finanziarie con una tassazione degli utili di impresa infinitesimale.

    Resta da comprendere per quale motivo i principi della concorrenza applicati all’interno del mercato globale e che rappresentano il pilastro fondamentale tra i diversi sistemi economici nell’economia privata non possano viceversa essere applicati ai sistemi fiscali e politici per attrarre investimenti e creare benessere ed occupazione.

    A parte questo trattamento particolare riservato appunto alle pubbliche amministrazioni statali contemporaneamente all’introduzione di una tassazione minima, venendo meno il principio della concorrenza, dovrebbe essere indicata anche una tassazione massima (cioè un aliquota massima) oltre la quale uno stato non possa spingersi per finanziarie la propria spesa pubblica.

    Solo in questo contesto di reciprocity fiscale potrebbe essere adottabile una tassazione minima per le multinazionali e per le imprese in generale. Nel caso contrario sarebbe solo ed esclusivamente l’ennesimo artificio fiscale espressione di una manovra politica per assicurare maggiori risorse a disposizione della classe politica.

    (*) Il problema italiano invece è quello della scarsa produttività della stessa spesa pubblica alla quale delle risorse aggiuntive non modificherebbero gli già scarsi effetti.

  • Le mani di troppi sull’Africa

    Parliamo tutti, e molte volte in modo troppo superficiale, dei problemi legati alle emigrazioni che portano, specialmente in Italia, migliaia di immigrati ogni anno. Dette e ribadite le responsabilità dell’Unione Europea che, in tanti anni, non è stata nella volontà e nella capacità sia di adottare una linea comune, facendola  rispettare, che di occuparsi del continente africano in modo corretto, sta di fatto che oltre alle guerre ed al terrorismo, che distruggono interi territori e paesi, oltre alla siccità o alle invasioni di cavallette, che portano carestia e fame, e a molti governi che sfruttano le risorse naturali senza che ve ne sia vantaggio per le popolazioni sempre più povere, i popoli africani sono in gran parte dedichi all’agricoltura. Un’agricoltura che, mancando di acqua e di mezzi adeguati ad una coltivazione meno faticosa e più redditizia, è un settore del quale ogni giorno questi popoli sono sempre un po’ più privati. In circa 20 anni una grande quantità di terreni è stata ceduta a capitali stranieri, come ricorda Domenico Quirico che, in un suo recente articolo, parla di vendita o dell’affittanza a capitali stranieri di 35 milioni di ettari (un ettaro sono 10.000 metri quadri di terra). I paesi che hanno venduto o affittato più terreno alle multinazionali straniere sono Congo, Sudan, Mozambico, Etiopia, e i veri padroni dell’Africa sono diventati gli investitori cinesi, degli Emirati ma c’è anche una forte presenza statunitense e libanese. Le multinazionali hanno comperato foreste per esportare legname creando così nuova desertificazione e siccità e procurando problemi anche a quella fauna selvatica che, attraverso il turismo, porta un po’ di denaro in Africa. Le società straniere hanno acquistato terre per produrre mais, canna da zucchero, biocarburante, prodotti che esportano al 90%, dove non hanno comperato i terreni li hanno affittati per trenta o addirittura cinquanta anni con affitti irrisori. I contadini locali sono scacciati per pochi soldi o addirittura espropriati e praticamente costretti ad abbandonare i loro villaggi per essere trapiantati altrove. Localmente quei contadini che sono assunti ricevono un salario per pochi dollari al mese, un avventizio, kibarua, prende un dollaro al giorno per lavorare nelle grandi serre della Tanzania dove ci sono più coltivazioni all’anno di fiori recisi che vengono trasportati e venduti in Europa con la conseguenza che è stata messa in ginocchio la floricoltura ligure e della costa sud della Francia. Solo i tecnici prendono un salario adeguato ma provengono quasi tutti dall’estero e le condizioni di lavoro, quando si è sotto padrone cinese, sono molto dure. Quando poi il legname è finito e le foreste sono state distrutte o il progetto agricolo non rende più a sufficienza i terreni sono abbandonati esausti e agli africani non rimane nulla. Di questi gravi problemi, e delle loro conseguenze anche in tema di emigrazione, non parla nessuno: in Africa si continua a soffrire, chi riesce scappa a rischio della vita e arriva da noi così i problemi si moltiplicano e qualcuno ci guadagna sempre sulla pelle degli altri.

  • Ricavi delle multinazionali in frenata, tranne che per quelle cinesi

    Le maggiori multinazionali mondiali nel 2020 hanno perso in media il 3,1% dei ricavi, ma ci sono state differenze significative sia per settori che per aree geografiche, esempio fra tutte le cinesi (+11,2%), al contrario di europee (-14,5%) e italiane (-29%), le ultime più colpite per l’assenza di grandi operatori nella new economy e nell’high tech. Il digitale inoltre ha funzionato come spinta o leva di tenuta. Se si guardano i comparti, i ricavi sono cresciuti soprattutto per il websoft (+19,5%), che ha sfruttato digital skill e potenzialità dei big data. Decisa crescita di food delivery, videogame e e-commerce. Forti Gdo (+8,5%) e alimentare (+7,9%), approfittando dell’accelerazione impressa dalla pandemia ai cambiamenti negli stili di vita e nelle abitudini di acquisto, più orientate verso nuove tecnologie, oltre che per la necessità di soddisfare i bisogni primari, ottenendo fatturato in aumento in ciascun trimestre del 2020. L’analisi è dell’Area studi Mediobanca, su quasi 200 grandi multinazionali con fatturato annuale sopra i 3 miliardi di euro e ricavi complessivi di oltre 8.000 miliardi e 21 milioni di occupati.

    Saliti i ricavi anche per elettronica (+5,4%) e farmaci (+3%). Resilienti telecomunicazioni e paytech, con ricavi tendenzialmente stabili (a -0,6% e -0,7%). In sofferenza colossi dell’oil e gas (-32,9%), produttori di aeromobili (-26,8%), automotive (-12,1%) e moda (-17,3%), che peraltro hanno visto un’accelerazione record del fashion online (+50%). Tutti però con cali a due cifre anche di margini, investimenti e occupazione. Telecomunicazioni e automotive sono tornare a crescere nel quarto trimestre dopo tre periodi in calo. Tutti e quattro in rosso i trimestri di bevande e moda, produttori di aeromobili, gli ultimi due col blocco del turismo, e colossi petroliferi, questi anche per fattori contingenti come il crollo delle quotazioni. Primo semestre 2020 a parte, per le multinazionali però è cresciuta la capitalizzazione (+15,4% al 26 marzo 2021 rispetto a fine 2019), soprattutto per elettronica (+41,9%) e websoft (+37,4%), ma anche per automotive (+39%).

    Quanto a occupazione, Asia Pacifico (+8%) e, trainate dalle big tech, le Americhe (+7,1%) hanno contribuito al leggero aumento del 2020 (+1,5%), insieme alle misure per la salvaguardia messe in campo da molti Stati e alla spinta di alcuni settori, come i big del web (+29,6%), col solo personale di Amazon cresciuto del 63%. In calo invece i dipendenti di chi ha sede in Europa (-0,9%), in particolare in Italia (-4%).

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