musulmani

  • UN fails to take measures on order against Myanmar on Rohingya

    The United Nations’ Security Council discussed the International Court of Justice’s order that Myanmar do all it can to prevent genocide against the Rohingya Muslims. It however, failed to agree on a statement.

    The country denounced claims that it tried to exterminate the minority in a bloody 2017 crackdown by its military, during which some 740,000 Rohingya were forced to flee into camps in Bangladesh.

    After evidence showed that Myanmar’s government intentionally targeted its Rohingya Muslim minority, the top court in the Hague ordered the country to stop its genocidal campaign against the Rohingyas.

    According to diplomats, France, Estonia, Germany, Poland and Belgium urged Myanmar to comply with measures meant to prevent genocide set forth by the court. According to a diplomatic source, China and Vietnam opposed issuing a joint declaration by the entire council during the closed-door meeting of the Council.

    “Accountability of perpetrators of human rights and humanitarian law violations is a necessary part of this process”, the EU members said, adding that “Myanmar must address the root causes of its conflicts”.

    Myanmar’s case is the third genocide case filed at the court since World War II. A motion to protect the Rohingyas from an extermination campaign was first launched in November when the Gambia accused Myanmar of breaching the 1948 Genocide Convention. The Gambia asked the court for emergency measures to stop Myanmar’s “ongoing genocidal actions”.

    Myanmar’s civilian leader, the now-disgraced Nobel laureate Aung San Suu Kyi, has been accused of overseeing the genocide against Rohingyas. She said in court that Myanmar was defending itself against attacks by Muslim militant groups.

  • La Corte suprema indiana non blocca la controversa legge sulla cittadinanza

    La Corte Suprema indiana si è rifiutata di applicare una nuova e controversa legge sulla cittadinanza, proposta dal primo ministro Narendra Modi, come parte del programma nazionalista del suo governo.

    Il Paese da dicembre, quando è stata approvata la legge sulla modifica della cittadinanza, è lacerato da forti proteste, seguite da coprifuoco. Il provvedimento contestato consente la cittadinanza ad indù, sikh, buddisti, giainisti, parsi e cristiani che sono emigrati illegalmente in India dall’Afghanistan, dal Bangladesh e dal Pakistan ma non consente la cittadinanza ai musulmani.

    Molti firmatari hanno sollecitato il tribunale a rinviare l’applicazione della legge ma la Corte suprema,  invece di sospendere la norma, ha chiesto al governo di rispondere entro un mese alle 143 petizioni che ne contestano la validità. La decisione ha suscitato rabbia e indignazione, con le fazioni più critiche che hanno invitato il governo a dimostrare la volontà concreta di cercare una soluzione giudiziaria in materia.

    Dal Congresso hanno fatto sapere che la questione sarà discussa a breve perché “una giustizia ritardata è una giustizia negata ed è necessaria perciò una soluzione rapida”.

  • Aung San Suu Kyi and Orbán find common ground in anti-Muslim stance

    In a rare trip to Europe, state counsellor Aung San Suu Kyi, a Nobel Peace Prize winner who was once a symbol of the fight for democracy in Myanmar, visited Hungarian Prime Minister Viktor Orbán at his home in Budapest where the two leaders managed to find that they were kindred spirits when it comes to policy.

    The two leaders highlighted that one of the greatest challenges at present for both countries and their respective regions – south-east Asia and Europe – is migration.

    They noted that both regions have seen the emergence of a continuously growing Muslim population whom they identified as being a threat and main contributors to the migration crisis. Orban’s government has used anti-migrant rhetoric and nationalism to fuel xenophobic attitudes for some time, a tactic also used by Aung San Suu Kyi, who was elected as civilian leader in 2015 after living under house arrest by the military for 15 years.

    Previously seen as a beacon of democratic hope, she has repeatedly failed to condemn or even acknowledge that Myanmar’s military has carried out an ethnic cleansing campaign against the Muslim Rohingya minority for years. Thousands of Rohingya have been raped and killed in the brutal campaign in what the UN has described as one of the world’s worst humanitarian crises.

  • I cristiani perseguitati e il silenzio dei pastori del gregge

    E’ incomprensibile questo silenzio dei vescovi verso le stragi di cristiani che si verificano regolarmente, senza sosta, da qualche anno a questa parte. Che si tratti di Boko Haram in Nigeria o di terroristi-kamikaze in questa o in quella località del pianeta, il silenzio è di prammatica. “Come mai?” – si chiede l’ex direttore del Wall Street Journal, Gerard Baker. Il massacro dello Sri Lanka attesta quanto possano essere autodistruttive le nostre élite. Quella tragedia doveva indurre la dirigenza cristiana a parlare in difesa della propria gente. Invece il silenzio ha coperto questo orrore e non ha espresso alcun segno di solidarietà e di pietà nei confronti delle più di trecento vittime. “Come mai?” – ripetiamo anche noi, increduli che questo martirio non abbia lasciato tracce nel cuore e nell’intelligenza dei vescovi. E allora, perché il silenzio? Forse la paura di vendette? Forse il timore di interrompere i buoni rapporti con le autorità islamiche? Forse la preoccupazione di non turbare le personalità politicamente corrette che controllano i media e l’establishment culturale ? Comunque sia, il silenzio è uno scandalo ed è uno scandalo ancor più grave che non si abbia il coraggio di dire chi sono gli stragisti e da chi sono animati. La testa sotto la sabbia non ha mai giovato a nessuno e contribuire a ignorare il radicalismo islamico, non lo farà certamente scomparire. Che questo atteggiamento di rifiuto della realtà possa collocarsi nei meandri talvolta oscuri della politica può essere comprensibile (fino a un certo punto), ma è assolutamente incomprensibile che il silenzio e il vuoto arrivino anche nelle preghiere e nelle liturgie. Nella “preghiera universale” dopo il Vangelo e prima della recita del Credo, nella messa cattolica si prega per tutti e per tutto, persino per motivazioni talmente astratte da non far capire per chi si prega. Mai una volta che queste preghiere siano rivolte ai fratelli di fede martirizzati dal fondamentalismo islamico. Nel recente  libro di Giulio Meotti “La tomba di Dio”- La morte dei cristiani d’Oriente e l’abbandono dell’Occidente – si documenta l’ampiezza di una tragedia la cui portata storica e morale ci mette a confronto con la nostra coscienza. “Nel corso delle settimane, dei mesi, degli anni, pagina dopo pagina, si sprigiona verso l’Occidente – afferma l’autrice della prefazione, Bat Ye’or – l’appello al soccorso dei cristiani e di altre minoranze massacrate dai jihadisti. Ma il soccorso non arriva mai. Gli occhi restano ciechi, le orecchie sorde, le bocche mute. L’Europa dei diritti dell’Uomo, così tenera, così compassionevole verso i migranti musulmani, così votata a soddisfare le richieste reclamate dai suoi protetti favoriti, i Palestinesi, rimane impassibile se non ostile a questi cristiani del mondo islamico, il cui sterminio l’importuna e si contrappone alle sue ambizioni di super potenza economica e politica mondiale”. Che muoiano in silenzio questi cristiani e non disturbino il nostro tran-tran di tolleranza con questi fondamentalisti! Di fronte a questo dramma umano di grandezza terrificante, che Meotti stende davanti a noi, ci si chiede: perché questo sradicamento selvaggio di popolazioni tranquille ed innocenti? “I cristiani d’Oriente – scrive Meotti – sono trattati come i rappresentanti di una religione che sarebbe fondamentalmente estranea alla regione, dalla quale gli ultimi rappresentanti dovrebbero essere espulsi, mentre il cristianesimo trova proprio lì la sua culla e la sua origine. Anche i loro luoghi di culto, le loro croci, i loro libri, le loro tombe, i loro rosari, le loro icone, tutto viene distrutto per cancellare anche solo il ricordo della loro presenza. Come se la loro fine sia in qualche modo naturale”. Date, nomi, luoghi, fatti, nulla è inventato. Tutto è verificabile. E l’Occidente? Che fa l’Occidente? E l’Europa dei diritti umani? Che fa questa Europa sorda e muta? Il quotidiano israeliano “Israel Hayom” del 28 aprile scorso si chiede: “L’Europa crede ancora che seppellire la testa nella sabbia sia il modo migliore per affrontare la sfida posta dall’islam radicale? Il problema peggiorerà alla luce del fallimento dell’Europa nel riassorbire le ondate di immigrazione musulmana nel continente. Questi immigrati rappresentano attualmente meno del 5 per cento dell’intera popolazione europea, ma questa percentuale potrebbe raggiungere il 20 per cento e persino un quarto della popolazione a causa del basso tasso di natalità tra gli europei nativi. In Europa nessuno è pronto a riconoscere questa sfida e ad affrontarla”.  E il silenzio sulla persecuzione dei cristiani  contribuisce a nascondere questa sfida e, quindi, a non affrontarla. La crudele sorte dei cristiani in certe aree del mondo è anche una vergogna dell’Occidente rinunciatario e nihilista, che non s’accorge del suo declino.

  • Understanding where democracy stands in the Muslim world

    In December 2010 a series of dramatic anti-government protests and uprisings became outright rebellions across the Middle East. In what later became known as “the Arab Spring”, those protests led many outside observers – most of whom were far from regional experts – to draw comparisons between the upheaval in the Middle East with the wave of pro-democracy revolutions that swept aside Soviet-led Communism in Eastern Europe in late 1989.

    With the sole exception on Tunisia, however, those protests were largely unsuccessful due to a powerful counter-revolutionary backlash that took different forms depending on the country.

    The rise of radical Islamist movements like the Muslim Brotherhood and its many regional offshoots, as well as Egypt’s Abdel Fatah el-Sisi led to bitter infighting amongst the region’s liberal opposition and exposed the Arab World’s lack of political acumen and ultimately doomed the Arab Spring nearly from the start.

    The numerous counter-revolutionary forces that emerged in the wake of the 2010-2011 protests returned to power the sort of anti-democratic governments that had dominated the Middle East since the end of the Second World War.

    By successfully crushing the Arab Spring’s democratic ambitions, both the Islamists and the region’s strongmen dictators, once again, quashed any attempt by reformists to fundamentally revitalise the Near East’s countless moribund economies or breathe new life into the political culture of countries who have suffered under the brutal weight of dynastic dictatorships and corrupt bureaucracies for most of their modern existence.

    For those who had become familiar with the political and social dynamics of the Middle East, one of the main casualties in the post-Arab Spring landscape was the final deathblow to both the ideology of national liberation-style demagogues like Gamal Abdel Nasser and the Arab Socialist movements of Hafez Assad.

    Those two strains of Arab political discourse, which had dominated the region for nearly half a century, were mortally wounded by the US’ disastrous invasion of Iraq in 2003. The sectarian bloodletting that followed in Iraq and the post-Arab Spring savagery of the Syrian Civil War – two nations that were once strongholds of rival Ba’athist ideologies – as well as the overthrow of two of the of 20th century’s archetypes for Middle East dictatorship, Libya’s Muammar Gaddafi and Zine El Abidine Ben Ali in Tunisia, was a definitive postscript for a particular era of modern Middle East history.

    What has followed has been anything but a flowering of a truly democratic and pluralistic Middle East. Rather, the rise of Islamism in Syria and Iraq, a return to de-facto military rule in Egypt, and the outbreak of sectarian civil war in Yemen, Syria, Iraq, Libya has left the region in chaos, with little change of cultivating any semblance of a democratic process in the countries where stability and the growth of civil society are most needed.

    This has posed a fundamental question as to where the Middle East is headed nearly a decade after undergoing the regions’ last major political upheaval first began.

    Syed Kamall a centre-right European parliamentarian from the UK, says there is a need for “increased political, economic, and civic engagement” from the world’s Muslim nations if they hope to transition to becoming fully-fledged democracies sometime in the future.

    Now, more than ever, Kamall says, the world’s leading and long-established democratic states need to come together to support the democratisation process in the Middle East and the wider Muslim world to help stem the tide of sectarian conflict and extremist politics that have swept across the region since the Arab Spring began.

    Those examples, however, are often overshadowed by pessimistic sentiments that generally come from countries where democracy has been tried but whose population were left with a weak central government prone to infighting.  This has left many regional experts asking themselves how they can encourage some of the Muslim nations to embrace democracy.

    “As the leader of one of the largest political groups in the European Parliament and a Muslim, I see no inherent contradictions between Islam and liberal democracy…There are elements which criticise democracy as being anti-Islamic. Those of us, who are Muslim, have faced criticism for taking part in elections. Many Middle Eastern governments say that as long as they provide wealth, jobs, and food, people don’t care about elections or politics,” said Kamall.

    Though authoritarian governments remain in the Middle East, Kamall noted that in other areas of the Muslim world, democratic elections and peaceful transfers of power have taken places in countries as diverse as Afghanistan, Indonesia, Malaysia, the Maldives, Pakistan, and Tunisia.

    Nearly 10 years after the early heady days of the Arab Spring, the hope for the political future of the Muslim world is that the next decade presents an opportunity for the next generation of Muslim reformers to fulfil the democratic promise of their successors.

  • Continua la persecuzione dei cristiani in Pakistan

    E’ pericoloso essere cristiani in Pakistan perché si hanno meno difese rispetto a quanti appartengono alla religione di maggioranza.  Lo afferma Marta Petrosillo su La Nuova Bussola Quotidiana del 6 febbraio, elencando una serie di casi recenti che hanno coinvolto persone che praticano il cristianesimo. Il primo caso citato è quello del quattordicenne Harron, accoltellato a Karachi il 18 febbraio scorso da cinque mussulmani, subendo lesioni gravissime a un rene che gli è stato asportato. Mentre stava morendo, la sua famiglia ha ricevuto pressioni e minacce per ritirare le accuse contro i suoi aggressori.  Per spingere la famiglia a ritirare la denuncia, gli assalitori o i loro familiari utilizzano la legge antiblasfemia. Vengono minacciati di spargere brandelli del Corano oppure di aver offeso il Profeta Maometto. L’avvocatessa Tabassum Yousaf  si è fatta carico del caso di Harron, come di quelli di tante altre vittime cristiane che, senza di lei, sarebbero abbandonate e sole in un sistema caratterizzato dalle forti pressioni esercitate dai mussulmani sulla polizia e sui giudici. Molti suoi clienti – dice la Petrosillo – sono genitori di ragazze cristiane  rapite e convertite forzatamente all’Islam, che vengono minacciati di essere accusati di blasfemia. Questa legge antiblasfemia è utilizzata come arma di vendetta contro i cristiani o contro altri appartenenti a minoranze religiose. Sempre a Karachi, il gennaio scorso, il cristiano Amjad Dildar ha chiesto alla copia mussulmana  composta da Fayaz e Samina Riaz di liberare l’appartamento che avevano avuto in affitto. Per tutta risposta Samina, il 19 febbraio, ha accusato le tre figlie di Amjad e un’altra donna di aver profanato una copia del Corano immergendola in un bidone di acqua sporca.  Una folla di mussulmani infuriati si è riversata nel loro quartiere, uccidendo animali e bestiame, prendendo a sassate chiese e abitazioni e costringendo almeno 200 famiglie cristiane alla fuga. Cosa accadrà ora alle donne accusate, che ora sarebbero in custodia in una località segreta?  Alcuni precedenti non ci lasciano bene sperare. Uno è quello di Sawan Masih, un cristiano accusato di aver offeso Maometto nel 2013 e condannato a morte nel 2014. A Lahore, Sawan stava bevendo con un suo amico mussulmano . “Veniva spesso a casa nostra” – spiega la moglie di Sawan, che da sei anni cresce da sola i tre figli. Tra i due uomini scoppia una lite e il 7 marzo 2013 l’amico sporge denuncia contro il giovane cristiano. Proprio come nel caso di Asia Bibi, anche in questo non mancano le irregolarità. Al momento del fatto – dichiara l’avvocato di Sawan – non vi erano testimoni, ma due giorni dopo due uomini  sostengono alla stazione di polizia d’aver ascoltato la presunta frase blasfema. Così  il 9 marzo, aizzati dagli imam durante la preghiera del venerdì, tremila mussulmani  attaccano il quartiere, dando fuoco a 200 case e a due chiese. L’accusa di blasfemia – a parere di molti – è strumentale, perché la comunità islamica locale voleva cacciare i cristiani per impossessarsi del quartiere considerato interessante perché confinante con un’area di imprese siderurgiche. Grazie all’intervento del governo, però, le 200 case distrutte sono state ricostruite ed i cristiani hanno potuto tornare a casa. Assistiamo spesso  a queste contraddizioni in Pakistan. Gli estremisti  islamici compiono violenze e presentano denunce di blasfemia, poi le autorità governative intervengono per rimediare agli eccessi dei fanatici fondamentalisti. Per parafrasare un vecchio detto, “c’è un giudice a Islamabad”. Il caso di Asia Bibi è esemplare, tanto per l’ingiustizia della condanna e dell’imprigionamento, quanto della sua liberazione e protezione. Anche nel caso di Sawan la contraddizione è palese. Gli 83 responsabili dell’attacco al quartiere sono tutti a piede libero, mentre Sawan è stato condannato a morte del 2014. Nella sentenza infatti il giudice ha fatto riferimento ai versetti del Corano. Da allora Sawan, che oggi ha 32 anni, attende il processo d’appello che viene rimandato continuamente, La nuova udienza è stata fissata per il 20 marzo, ma probabilmente anche stavolta il giudice troverà una scusa  per non procedere.

    Sawan intanto rimarrà in carcere, insieme ad altri 24 cristiani accusati di blasfemia. Sono in tutto 220 i cristiani accusati di questo crimine dal 1987 ad oggi. Le accuse di blasfemia formulate in totale in questi anni sono state 1534, ma dopo l’introduzione di modifiche alla legge, solo il 15% di esse è rimasto in essere, una percentuale comunque ben superiore al misero 2% che la comunità cristiana rappresenta all’interno della popolazione pachistana.

  • Asia Bibi è libera ma deve rifugiarsi in un luogo sicuro

    I giudici della Corte Suprema del Pakistan, riuniti in udienza il 29 gennaio, hanno respinto l’istanza di revisione della sentenza che lo scorso ottobre ha assolto Asia Bibi dall’accusa di blasfemia. La donna adesso  è libera di rivedere i suoi famigliari dopo nove anni e mezzo di carcere ma i problemi per lei, purtroppo non sono finiti. Le proteste e le violenze dei fondamentalisti del partito Tehreek-e-Labaik, che alla vigilia della sentenza avevano minacciato i giudici (e i loro famigliari) affinché non assolvessero Asia Bibi, non si faranno attendere. Già accusano infatti il governo di Imran Kahn di essere “al soldo” dell’Occidente. La sentenza giunge infatti  in un momento di apertura alla minoranza cristiana: lo scorso 25 dicembre è stato festeggiato il Natale, con tanto di auguri da parte del governo ai cristiani in Pakistan, ed è stato assolto un altro cristiano “blasfemo”, la cui famiglia è stata però distrutta negli ultimi anni. Piccoli passi che fanno pensare positivamente, anche se con tutte le cautele del caso, ad un periodo di apertura. Nel frattempo però  Asia Bibi deve allontanarsi dal Pakistan e rifugiarsi in un luogo sicuro con tutta la sua famiglia per non correre rischi.

  • Atti di cannibalismo in Francia in una zona franca dominata dall’islamismo

    La Francia è ormai scristianizzata. I cristiani sono una esigua minoranza e la vita religiosa ridotta al minimo. Lo dicono le statistiche e lo affermano illustri storici nei loro libri. Forse è anche per questo che la stampa tace su avvenimenti, non certamente considerati civili, che accadono in zone di Parigi completamente dominate dall’islamismo. Sono oltre 750 queste zone franche dove non si applica più la legge della Repubblica francese. Sono state calcolate nell’agosto del 2014 dalla rivista periodica Valeurs Actuelles. Nel luglio del 2012 il governo francese annunciava un piano per riaffermare il controllo su oltre quindici delle più famose “no-go zones”, cioè i distretti infestati dal crimine che il ministro deli Interni aveva designato come “zone di sicurezza prioritaria”. Sono zone in cui la presenza mussulmana è molto densa e che ormai sono proibite per donne e polizia. Zone di cui si torna a parlare a intervalli regolari, sebbene esistano ancora siti web o intellettuali che continuano a negarne ostinatamente l’esistenza. Chissà che cosa li spinge a negare la realtà che è sotto gli occhi di tutti e nonostante l’accadere di avvenimenti che balzano all’onore della cronaca. Come è successo nel 2005 in due banlieue (in due zone di periferia), quelle di Clichy-sous-Bois e quella i Montfermeil nel dipartimento Seine-Saint-Denis. Nell’autunno di quell’anno, infatti, i giovani islamici in rivolta bruciarono oltre 9000 autovetture, forse per affermare con gesti inequivocabili che quello era territorio loro. Nel 2011 un documento di 2200 pagine definiva quelle e tante altre zone come “società islamiche separate”, dove la Sharia, la legge islamica, stava rapidamente soppiantando il diritto civile. E’ mai successo un fatto simile nei quartieri e nelle zone quando la maggioranza era cristiana? Lo stesso documento definiva quegli immigrati mussulmani come individui cui l’integrazione e i valori francesi non interessano, il loro islam gli basta e tutto ciò che è francese, o europeo, o occidentale viene convintamente respinto, anche con la violenza. Nessuno, tuttavia, fa inchieste su queste zone o le cita quando in esse succede qualcosa di illegale. E’ ancora il caso accaduto in questi giorni in uno dei quartieri sopracitati: Clichy-sous-Bois. Soltanto Le Parisien e Le Figaro ne hanno parlato inizialmente in poche righe. Si è trattato di tre africani provenienti da Capo Verde, che sono stati arrestati per barbarie e cannibalismo. Hanno afferrato il quarto uomo che era con loro e hanno preso a morsi il labbro inferiore e poi l’orecchio. Ingoiano i pezzi che sono riusciti a strappare. Arriva la polizia e un’ambulanza. Niente di grave. E’ semplicemente cronaca nera, lasciano intendere i giornali. Solo il quotidiano “SudOuest” commenta in due righe che si tratta di un atto di barbarie bello e buono, che va al di là della pura cronaca nera. La denuncia parla anche di cannibalismo perché parte della carne strappata coi denti è stata ingoiata. Ma non vogliamo insistere su questo aspetto della vicenda. Ci colpisce però il fatto che in uno dei quartieri della periferia parigina, dove le bande islamiche hanno fatto terra bruciata, il sipario cali su simili atti di barbarie. La parola però passa al codice penale e al tribunale. Vedremo come andrà a finire, ma è indubbio che atti come questo di Clichy-sous-Bois ci riportano indietro di secoli. L’Europa importa barbarie e non solo non esporta più civiltà, ma addirittura assiste impavida, senza batter ciglio, a quanto le capita in casa. Sono tanti i sobborghi francesi dove impera la criminalità mussulmana. Alcune zone sono talmente pericolose che le ditte di consegna a domicilio hanno annunciato che non consegneranno più posta, come in Gran Bretagna. La stima delle “violenze gratuite” a livello nazionale in Francia è giunta a 777 violenze del genere al giorno. Una di queste, la settimana scorsa, ha visto un immigrato pugnalare sei persone nel 18° arrondissement di Parigi. Sia chiaro, non vogliamo criminalizzare gli immigrati. Ci meravigliamo che quando questi si comportano illegalmente, nessuno, o quasi, intervenga efficacemente per evitare il perpetuarsi dell’illegalità, come nel caso delle zone franche dove impera una legge, la Sharia, che nulla ha a che fare con la legalità francese. L’Islam e la laicité avanzano in Francia. Il cristianesimo diminuisce. Gli ebrei scappano di fronte alle continue aggressioni islamiche, senza difesa alcuna da parte dello Stato. E’ un bell’avvenire che si prepara nella Repubblica confinante con la nostra!

  • Un secolo tra caos, delusioni e aspettative

    Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita,
    incontrerai tante maschere e pochi volti.

    Luigi Pirandello

    I Balcani, trovandosi posizionati dove si incrociano l’Occidente e l’Oriente, dall’antichità ad oggi rappresentano un territorio dove si intrecciano e si scontrano interessi economici, perciò anche geostrategici.

    Dopo la caduta dell’impero bizantino, nel 1453, in seguito all’invasione ottomana, una nuova pagina si aprì nella storia dei Balcani. Un nuovo impero, quello ottomano, si impossessò della penisola, invadendo tutto il territorio. Un impero militare, tra i più vasti come superficie e che durò più a lungo, ebbe il suo massimo splendore nel 17o secolo, per poi cominciare il suo declino. Non bastarono neanche tante riforme (1839 – 1876), note come Tanzimat, per salvarlo. Un duro colpo per l’impero fu la sconfitta inferta dalla Russia conclusa con la pace di Santo Stefano, sancita finalmente dal Trattato di Berlino (1878). Il Trattato prevedeva, tra l’altro, l’indipendenza dall’impero ottomano dei principati della Serbia, del Montenegro e della Romania. Mentre l’Albania rimaneva di nuovo sotto l’impero. All’occasione sembra che il cancelliere Bismarck abbia detto in quel periodo che “…l’Albania è semplicemente un’espressione geografica”.

    Cominciarono allora a organizzarsi e intensificarsi anche in Albania vari movimenti che avevano come obiettivo la costituzione di uno Stato albanese. A onor del vero, i movimenti e le organizzazioni create e attive in quel periodo e per quello scopo, avevano diversi approci ad un simile obiettivo. In base a noti documenti storici, relativi a quel periodo, risulterebbe che c’era una confusione e diversità nella formulazione delle richieste (indipendenza, autonomia o altro).  Lo stesso anche per le alleanze da fare per raggiungere tale obiettivo.

    L’inizio del 20o secolo trovò l’Albania sempre sotto l’impero ottomano che, da parte sua, stava vivendo un periodo difficile. La rivoluzione dei “Giovani turchi” del 1908 ne era un esempio eloquente. Quel movimento ebbe ripercussioni anche in Albania, allora ed in seguito. Anche perché alcuni dei dirigenti del movimento erano molto attivi nei Balcani e in Albania. Quattro anni dopo cominciarono le due guerre balcaniche (1912 – 1913). Guerre che iniziarono come scontri belici tra l’impero ottomano e la Lega balcanica per poi trasformarsi come scontri tra i membri della Lega per la spartizione dei territori.

    Preoccupati seriamente della situazione, soprattutto dopo l’inizio della prima guerra balcanica (8 agosto 1912), alcuni rappresentanti politici albanesi riuscirono finalmente, con l’appoggio soprattutto dell’Austria e dell’Italia, a proclamare, il 28 novembre 1912, l’indipendenza dell’Albania. Dopo di che, il 4 dicembre 1912 si costituì anche un governo albanese provvisorio. Governo che non ebbe per niente vita facile e lunga. Soprattutto perché i disaccordi, i contrasti e le inimicizie tra le diverse fazioni locali erano reali e forti. L’Albania era, in quel periodo, divisa e controllata da vari clan. E i capi clan erano legati e appoggiati da singoli e/o più governi dei paesi confinanti e non. Da sottolineare che molti tra i politici albanesi attivi in quel periodo erano anche parenti, spesso stretti, e/o legati da matrimoni. Nonostante ciò, spesso erano avversari.

    Un vero caos regnava in quel periodo in Albania. Un paese molto povero, dove la popolazione era divisa tra musulmani (la maggiorparte sunniti e il resto una derivante sciita), che costituivano la maggioranza, e cristiani (ortodossi e cattolici). In più la popolazione veniva spesso divisa e classificata come turchi (cioè musulmani) e greci (cioè cristiani ortodossi). Il che era chiaramente a scapito della loro vera nazionalità: essere albanesi. Tutto concepito ed attuato, per tanti decenni, da politiche maligne di dominanza etnica.

    Le tensioni interne in Albania, nonché le pressioni e le varie influenze straniere, appesantivano la situazione e aumentavano il caos nel Paese. La perdita di alcuni territori, in seguito al Trattato di Londra (1913) gettò benzina sul fuoco. Le Grandi Potenze, tramite la Conferenza degli Ambasciatori a Londra, cercando di minimizzare quel crescente caos, proclamarono l’Albania uno Stato indipendente, organizzato sotto forma di un Principato ereditario neutrale. La Conferenza scelse anche il sovrano. Era un principe prussiano, nonostante le altre preferenze, di altrettanto altri fattori e attori politici, locali e stranieri, attivi in quel periodo. Purtroppo risultò una scelta non appropriata. Il nuovo sovrano arrivò in Albania il 7 marzo 2014 e fu costretto a lasciare il Paese il 3 settembre 1914. Il “Principato”, ideato e costituito con tanta pompa dalle potenze europee, fallì quasi subito e non poteva essere altrimenti. Perché non avevano scelto bene la persona giusta e perché non avevano capito e gestito bene gli interessi e le ambizioni delle varie fazioni in lotta in Albania. Il caos e le delusioni continuarono in Albania, mentre le aspettative svanirono.

    L’allora console italiano a Durazzo (1914), buon conoscitore della realtà albanese di quel periodo, scriveva che “….l’Albania è un paese dove la storia non si creava intorno agli ideali o ai grandi interessi, bensì intorno ad una infinita serie di intrighi, scontri e passioni improvise tra i clan albanesi del nord, del centro e del sud [del Paese], i quali si accordavano pochissimo tra di loro per qualsiasi cosa…”. Mentre la popolazione, nella maggior parte contadina e povera, si lasciava condizionare dai proprietari terrieri e/o dalle propagande religiose. Un giornalista francese scriveva nel 1915 che “…in Albania l’unica preoccupazione dei contadini è quella di rimanere liberi da [gli obblighi ad] ogni governo. Ma, sfortunatamente, in quell’odio contro il potere essi inserivano anche l’odio degli uni contro gli altri. È proprio questo che crea la “Questione Albania”.

    Quel caos continuò, seppure diversamente, anche nel periodo tra le due guerre mondiali. In seguito alle decisioni della Conferenza di pace di Parigi, sancite dal Trattato di Versailles (28 giugno 1919), vasti territori albanesi sono stati dati ai Paesi confinanti. Ragion per cui diventò priorità la difesa dell’integrità nazionale. Compito dei diversi governi dello Stato albanese, spesso di vita molto breve, dal 1920 in poi. Stato che fino al 1928 era una Repubblica parlamentare e che diventò un Regno parlamentare fino all’invasione italiana, il 7 aprile 1939. Per poi, proseguire, dal 1945 fino al 1991, con una delle più feroci dittature.

    Purtroppo, anche un secolo dopo, la situazione in Albania non è tra le migliori. Anzi! Sono tante le similitudini, in sostanza, con il passato. Cambiano soltanto i tempi e le persone. L’autore di queste righe poteva e voleva elencare non poche di esse ma lo spazio a disposizione non glielo permette. Comunque egli è convinto che adesso, come allora, i politici, mentono senza pudore e rimorsi, e sempre nel nome del popolo e dell’Albania. Continuando a fare, però, soltanto i loro giochi d’interesse, compresi degli affari sporchi e occulti, accordandosi dietro le quinte, spesso anche con “appoggi internazionali”. Come un secolo fa. Tante maschere e pochi volti. Chi subisce è sempre, e purtroppo, l’Albania e gli albanesi.

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