Norme

  • Confedilizia invoca migliorie dell’apparato normativo e istituzionale europeo

    Di fronte alla XIV Commissione della Camera, in rappresentanza di Confedilizia, il vicepresidente Achille Colombo Clerici ha osservato che la comunicazione della Commissione europea a Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato Economico e al Comitato delle Regioni, dal titolo “Applicare il diritto dell’U.E. per un’Europa dei risultati”, si inscrive in un processo formativo dell’Unione europea che non solo non è compiuto ma pare in fase di arretramento. Lodando lo sforzo della Commissione stessa di contrastare tale tendenza, Colombo Clerici non ha potuto non sottolineare come l’Unione e il suo diritto, di cui la Commissione è custode, rischino di esser relegati in secondo piano rispetto agli interessi dei singoli Stati dell’Unione stessa. «Emblematico – ha detto – il caso Ema e l’assegnazione della sede ad Amsterdam. Il 14 luglio 2022 veniva pubblicata la sentenza della Corte di Giustizia Europea che si pronunciava sui ricorsi mediante i quali il Comune di Milano e la Repubblica Italiana avevano impugnato la decisione del Consiglio Europeo in merito alla assegnazione dell’Ema (l’Agenzia Europea per i farmaci). Si pensava potessero esserci vizi di legittimità (ad es. errore) nel procedimento di assegnazione culminato con l’estrazione a sorte l’assegnatario finale (la città olandese di Amsterdam) e l’esclusione di Milano, appunto. In particolare, circa l’idoneità della città di Amsterdam ad ospitare la predetta Agenzia. In effetti, mentre nei dossier si affermava che la sede di Amsterdam era idonea e pronta per essere occupata ed utilizzata, ciò non sarebbe risultato alla prova dei fatti (mancando ancora qualche mese all’ultimazione dei lavori di adattamento), tanto che si trattò poi di utilizzare provvisoriamente un altro edificio. La sentenza della Corte di Giustizia respingeva i ricorsi, (senza entrare nel merito e senza dar corso ad attività istruttorie di sorta) dichiarando che, in caso di decisione del Consiglio dei Ministri Europeo, si tratta di atto politico, insindacabile anche sul piano della legittimità (ad esempio per errore colposo o doloso che sia): non solo quindi la discrezionalità assoluta nel merito, ma, sul piano del controllo di legalità, mancando una norma che fissi il limite costituzionale, non solo le decisioni di contenuto amministrativo, ma le leggi stesse risultano legibus solutae».

    Più dettagliatamente, ha sottolineato Colombo Clerici. «La sentenza della Corte di Giustizia incorre in errore perché assimila le decisioni del Consiglio dell’Unione Europea ai trattati internazionali, per il solo e semplice fatto che a decidere sono i rappresentanti degli stati. Ma nel caso di un trattato (che è un accordo inter partes) la decisione resta in capo ai diversi Stati, mentre nel nostro caso si tratta di un atto dell’organismo Unione (dotato di propria personalità giuridica), in quanto i singoli stati esprimono il loro voto nell’ambito di un organo istituzionale della Unione stessa: cosa ben diversa. Nel primo caso ci troviamo di fronte ad un atto politico, ad una decisione politica, nel secondo caso ad una decisione tecnico-istituzionale. La sentenza della Corte finisce inoltre per confondere il voto dei singoli stati membri (che è evidentemente atto politico insindacabile) con la decisione prodotta dal voto stesso (che è atto giuridico di un Organo dell’U.E.  e, come tutti gli atti giuridici, sindacabile sul piano della legittimità). Anche il voto dei nostri parlamentari è un atto politico, ma le leggi stesse sono soggette al vaglio di legittimità costituzionale. Ma tant’è. Il caso è chiuso».

    Osservando sulla scia della vicenda Ema che «l’interesse comunitario porterebbe a tener conto che l’Unione presenta una situazione di grave squilibrio quanto alla assegnazione storica delle diverse sedi istituzionali le quali risultano tutte concentrate in un ridotto europeo del raggio di poche centinaia di chilometri, localizzato nel quadrante Benelux Francia, Germania», il vicepresidente di Confedilizia ha ricordato che  «all’Italia (terzo contributore netto dell’Unione) ne risulta assegnata solo una e mezza. (Parma e Torino). Un trattamento a dir poco inconcepibile, che dà luogo ad una situazione certamente non suscettibile di esser protratta nel tempo, per ovvie ragioni di natura culturale ed economica».

    Colombo Clerici ha poi parlato anche delle implicazioni dell’affaire Qatargate; «Il sistema europeo di fatto non appronta, come vediamo, alcun rimedio. Mancando infatti di una giurisdizione penale comunitaria e parallelamente del requisito della extraterritorialità almeno per reati commessi da dipendenti, funzionari, esponenti nell’esercizio delle loro funzioni, questo sistema dà luogo ad una situazione anomala che rappresenta una grave lacuna nella costruzione dell’organismo dell’Unione Europea. E’ competente infatti l’A.G. del luogo dove è commesso il reato, cioè di uno dei cinque stati citati in cui è localizzata la sede istituzionale europea, sicché la sentenza verrà pronunciata in nome del popolo belga, francese e via dicendo e non dei popoli dell’Unione. Saremmo curiosi di sapere poi, prendendo ad esempio il caso Qatargate, visto che è competente l’A.G. belga, se, a seguito della condanna di un ex parlamentare alla confisca di 1 milione di euro, la somma venga incamerata dal Regno del Belgio o da chi altro.  Ma è la stessa attività inquirente/requirente (cioè di promozione dell’azione penale, con la conseguente attività istruttoria) che non potrà essere iniziata da uno stato diverso, anche se ci trovassimo di fronte alla lesione di interessi di soggetti appartenenti a questo stato (tranne ovviamente il caso che il funzionario da indagare mettesse piede proprio nel territorio di questo stato). Come si vede, dunque, sussiste un grandissimo vulnus sul piano della sovranità degli Stati (è questione di equità e di dignità degli Stati di fronte a questa asimmetricità) e della tutela degli interessi degli stati stessi e dei soggetti ad essi appartenenti».

  • In vigore le nuove norme europee per i viaggi

    Sono in vigore dal 3 agosto le norme che rendono interoperabile l’Etias – il futuro sistema europeo di informazione e autorizzazione ai viaggi- con gli altri sistemi di informazione dell’Ue. È un passo importante verso la piena operatività del nuovo sistema entro la fine del 2022. Quando sarà operativo l’Etias, i cittadini non Ue esenti dall’obbligo di visto che intendono recarsi nello spazio Schengen dovranno registrarsi per ottenere un’autorizzazione prima di viaggiare. L’Etias ne verificherà i dati nei sistemi d’informazione dell’Ue per la sicurezza, le frontiere e la migrazione in modo da individuare in anticipo chi potrebbe costituire una minaccia per la sicurezza o la salute, e controllerà anche il rispetto delle norme in materia di migrazione.

    Le norme che entrano in vigore oggi specificano come dovrà interagire l’Etias con gli altri sistemi d’informazione dell’Ue quando li interroga per fare le sue verifiche, segnatamente il sistema ingressi/uscite, il sistema d’informazione visti, il sistema d’informazione Schengen e il sistema centralizzato per individuare gli Stati membri in possesso di informazioni sulle condanne a carico di cittadini non Ue.

    L’introduzione dell’Etias è parte dei lavori che sta portando avanti l’Ue per creare un sistema all’avanguardia di gestione delle frontiere esterne e garantire un’interazione intelligente e mirata fra sistemi d’informazione. L’Etias non modificherà i Paesi non Ue soggetti all’obbligo di visto né introdurrà nuovi obblighi di visto per i cittadini di paesi terzi che ne sono esenti. Basteranno solo pochi minuti ai cittadini non Ue esenti per compilare la domanda online e ottenere nella stragrande maggioranza dei casi (più del 95 %) un’autorizzazione automatica. Il processo sarà semplice, veloce e di costo abbordabile: l’autorizzazione Etias è soggetta al pagamento di un diritto unico di 7 euro ed è valida per 3 anni e per ingressi multipli.

  • Il latino dimenticato: Tacito

    Non passa giorno in cui esponenti della politica sia nazionale che regionale non propongano una nuova legge per vietare o quantomeno “disciplinare” un determinato” fenomeno.

    Buona parte delle iniziative legislative trova la principale motivazione nell’intenzione di arginare, se non addirittura vietare, una determinata espressione comportamentale anche se spesso questa risulti assolutamente ininfluente nella vita quotidiana. Basti ricordare il divieto di fumare in auto con dei figli piccoli equivalente ad un obbligo di affetto e buona educazione verso i genitori.

    Non è azzardato, quindi, affermare come buona parte di queste iniziative normative non abbiano come fine la creazione di strumenti per lo sviluppo economico e sociale ma limitazioni se non appunto addirittura divieti di fenomeni già in atto. In più, anche sotto anche il solo profilo della tempistica, emerge evidente il ritardo, anche solo della comprensione, di un fenomeno in atto.

    Successivamente si manifesta anche il carattere quasi sempre censorio come prima motivazione politica di queste iniziative “democratiche” in Italia. In più, la sintesi di questa continua “regolamentazione normativa” si rivela come espressione non tanto di una visione politica a medio-lungo termine quanto di un’attività comunque in perenne ritardo in relazione alla realtà quotidiana.

    All’interno di questa ipertrofia normativa trova forma una della più infantili espressioni di giustificazione della presenza in vita dell’intero comparto della politica nazionale e locale.

    Il triste e complesso risultato di un simile approccio della classe politica degli ultimi trent’anni deriva dalla semplice constatazione di un paese che si ritrova ora con circa 111.000 norme in vigore alle quali va aggiunta la cospicua produzione normativa regionale.

    A questo vero e proprio pantano normativo in grado di affossare o quantomeno rallentare qualsiasi attività economica ma anche sociale fa riscontro la Germania la quale organizza il proprio sistema con 5.500 leggi (meno del 5% rispetto al nostro ordinamento), mentre la Francia ne presenta 7.000 (poco più del 6% rispetto al nostro Paese), un sistema normativo questo che comunque possiede oltre il doppio di leggi rispetto alle 3.000 della Gran Bretagna (meno del 3% rispetto al nostro complesso ordinamento).

    Si riguarda, infatti, come non esista nell’articolata storia del nostro Paese un solo governo che non abbia contribuito alla crescita sconsiderata del quadro normativo fino al punto di non ritorno da questa metastasi legislativa.

    Il disastroso ed elefantiaco quadro normativo nazionale rappresenta la massima espressione di questo fenomeno imputabile all’intera classe politica che potremmo definire come “normofascismo/normocomunismo“.

    In questo contesto disarmante sotto il profilo operativo ecco allora venire in aiuto, al fine di comprendere la reale situazione del nostro ordinamento e lo Stato reale della nostra democrazia il pensiero di Tacito il quale recitava: “moltissime sono le leggi quando lo stato è corrotto”.

    Il poeta latino dimostra come anche da un semplice confronto percentuale delle leggi in vigore tra il nostro Paese ed altre tre democrazie europee, l’Italia non possa più essere considerata una democrazia reale.

    In altre parole, lo Stato rappresenta, per chi ne acquisisce il potere esecutivo e legislativo, lo strumento per controllare un popolo inconsapevole ma egualmente colpevole del proprio livello di sottomissione. A questo si aggiunga come con una simile situazione normativa venga meno ogni possibilità di ripresa economica e di crescita ma contemporaneamente si moltiplicano i centri di controllo burocratico e politico che si trasformano in vere e proprie forme di potere vessatorio.

    Paradossale, inoltre, come si continui a parlare di una società liquida quando nella realtà quotidiana il nostro Paese è caratterizzato da una moltitudine di obblighi e gabelle burocratiche.

    Il combinato di queste norme ha l’unica giustificazione nella manifestazione della prova dell’esistenza stessa dello stato e soprattutto di chi le esercita in nome di questo Stato ” sovrano”.

    Probabilmente sarà anche per questo che ogni tanto qualche genio della politica propone di escludere il latino dalle materie fondamentali del nostro sistema di istruzione.

    Mai come in questo periodo nel quale l’informazione di ogni tipo ed ogni genere fluttua liberamente la cultura classica rappresenta un presidio fondamentale per comprendere il vero senso della democrazia.

  • Tutela normativa: da opportunità a vincolo

    Può sembrare incredibile come la tutela o perlomeno la presunta tutela spacciata dalla compagine governativa possa trasformarsi da strumento valorizzatore della filiera del made in Italy in vincolo e fattore anticompetitivo. Probabilmente o, meglio, purtroppo il governo spinto da una voglia e da una smania di dimostrare la propria attività dopo il disastro del semestre di presidenza dell’Unione Europea ha varato queste nuove normative relative alla filiera nel settore della pasta e del riso (che imporrebbe l’utilizzo di solo grano italiano per ottenere made in Italy) e quasi contemporaneamente ha  imposto l’aumento della percentuale di arancia nelle produzioni delle aranciate industriali.

    Paradossale poiché questa iniziativa relativa anche al riso risulti successiva alla decisione di togliere i dazi all’importazione di riso vietnamita esponendo in questo modo l’intero settore della risicoltura italiana a prodotti espressione di dumping economico, igienico, sociale e normativo. Dimenticando, anzi, peggio, omettendo come la materia relativa alla disciplina del made in risulti di competenza esclusiva dell’Unione europea e che, di conseguenza, ogni normativa all’interno del singolo Stato possa essere ritenuta valida solo per le aziende nazionali.

    Viceversa, gli operatori internazionali possono bellamente bypassare questa nuova normativa trasformando così l’iperattivismo normativo (vecchia problematica della politica italiana con 250.000 leggi) in un ulteriore fattore anticompetitivo per le aziende nazionali. Forse il governo, in pieno delirio normativo, era convinto che valesse il principio della sussidiarietà tanto caro alle compagini autonomiste ma assolutamente  non contemplato nella attribuzione delle competenze legislative nell’Unione europea.

    Per inquadrare la paradossale situazione normativa aiuta infatti rimarcare come la titolarità e la potestà legislativa relativa al made in risulti di attribuzione dell’Unione europea e non dei singoli stati. Quindi ogni iniziativa normativa in materia deve presentare un respiro ed una valenza europea.

    Logica conseguenza di queste divisioni delle potestà legislative tra singoli stati ed Unione Europea è che ogni imposizione normativa che venga attuata sul territorio italiano in relazione alla tutela, o presunta tale, dei prodotti risulti valevole solo ed esclusivamente per le aziende che operano nel territorio italiano non certo per le imprese industriali estere che esportano i propri prodotti nel mercato italiano. In questo contesto, e dimostrando una grande intelligenza, il pastificio De Cecco ha avviato una campagna di sensibilizzazione relativa al proprio prodotto indicando i luoghi di provenienza del grano (Italia Francia Australia Arizona Usa) al fine di valorizzare il processo di trasformazione italiano che rende la pasta italiana unica al mondo. Mediando il principio dello Swiss Made, che tutela la produzione del famoso cioccolato senza possedere la Svizzera all’interno del proprio territorio un unico campo coltivato a cacao e tutelando perciò il processo di trasformazione come vero valore aggiunto.

    Tale mancanza di sussidiarietà normativa fa emergere ancora una volta l’assoluta incompetenza sia dei vari ministri che hanno varato queste nuove norme quanto degli economisti ed accademici che non hanno compreso il valore disastroso di questa iniziativa legislativa al solo fine di spacciarla come un’azione di tutela e quindi semplicemente mediatica. Un iperattivismo normativo e comunicativo che ha avuto come unico risultato quello di favorire i prodotti di importazione che arrivano dall’Unione Europea che godono di un vantaggio competitivo rispetto alle aziende italiane le quali invece a queste norme risultano sottoposte.

    In più, entro la fine dell’anno, dovrebbe entrare in vigore una nuova normativa relativa all’etichettatura dei prodotti obbligando le aziende a cambiare ulteriormente il proprio packaging e la dichiarazione dei prodotti. Ancora una volta viene spacciata un’iniziativa normativa a favore  delle nostre aziende e soprattutto a tutela dell’intera filiera nazionale che interviene nella realizzazione del prodotto finito, espressione della cultura italiana intesa come sintesi felice di know how industriale, capacità professionali e creatività. Un’iniziativa che viceversa si rivela come ulteriore fattore anticompetitivo legato ad una profonda incompetenza di chi l’ha pensata e trasformata in normativa, riuscendo in una follia tutta nostrana come sintesi ed espressione della nostra cultura politica ed economica che riesce nell’arduo compito di trasformare un un’opportunità come la tutela made in Italy in vincolo.

    Una contraddizione tra intenzione ed effetto reale che dimostra l’esistenza di una classe politica assolutamente incapace anche solo di conoscere le reali esigenze delle aziende che operano nel made in Italy reale ma anche le singole competenze ed attribuzioni normative tra l’Italia e l’Unione Europea.

Pulsante per tornare all'inizio