Pace

  • Pacifici non pacifisti

    Se Giano era bifronte la verità sembra avere molte più sfaccettature, infatti mentre la Russia può continuare a colpire uno stato sovrano e indipendente, massacrando civili inermi con i suoi bombardamenti, e ritiene di poterlo fare se gli ucraini rispondono, distruggendo qualche postazione militare in territorio russo, per altro vicino al confine, diventa per Putin una dichiarazione di guerra della Nato.

    La Cina parla di pace ma si ritira dal vertice organizzato in Svizzera e parla di altri, più o meno misteriosi, piani, sembra condivisi anche dalla Turchia, e che hanno sempre il presupposto che l’Ucraina ceda molti suoi territori ai russi.

    Il diritto internazionale possiamo scordarcelo possa tutelare tutti, ormai sembra debba essere rispettato solo dai deboli mentre  i forti, gli arroganti, i dittatori possono fare come vogliono perciò, con buona pace di tutti i pacifisti del mondo noi, che siamo pacifici, che siamo quelli che rispettano le leggi, ci siamo veramente stancati e alziamo cuori e bandiere contro gli aggressori, i terroristi, i potenti che parlano di pace, come il presidente cinese che fa affari e vende armi al dittatore russo.

    Non è di oggi né di ieri la innegabile realtà: se vuoi la pace devi avere la forza di impedire che ti aggrediscano, perciò uno stato che non ha le armi per difendersi prima o poi sarà preda di chi ha deciso di conquistarlo.

    Oggi ai russi fanno gola le ricchezze ucraine, forse un domani non lontano vorranno conquistare anche il Campidoglio e San Pietro.

  • Per realizzare la pace occorrono democrazia e rispetto dei diritti fondamentali

    Ci sono guerre, tentativi di ritrovare la libertà e la vita, che spesso sono dimenticati, così di Birmania non si parla quasi mai mentre il conflitto civile, dal 2021 ad oggi, è sempre più aspro.

    Decine di migliaia di giovani, studenti, professionisti, gente normale, persone comuni sono fuggite dalle città per andare nelle giungla ad unirsi alle milizie che combattono contro l’esercito nazionale baluardo del sanguinoso regime militare.

    I villaggi sono bombardati da elicotteri che sparano ovunque e la brutalità dell’esercito ha raggiunto il limite estremo dopo le manifestazioni seguite al processo burletta al quale è stata sottoposta
    Aung San Suu Kyi, oggi ormai quasi ottantenne.

    Nei primi tempi molti governi avevano protestato ed imposto sanzioni ai generali ma il tempo è passato, altre guerre più vicine hanno distratto l’attenzione, i giovani birmani sono rimasti soli, nella giungla, a sognare la libertà, a difendersi, a vedere uccidere ogni giorno tanti civili, a sopportare ingiustizie e violenze.

    In Birmania non ci sono leggi di guerra o diritti civili da rispettare ma il paese, ricco nel suolo e nel sottosuolo, è di proprietà di una casta militare che considera la società divisa tra pochi, che decidono e comandano, e tutti gli altri che devono obbedire e subire mentre le Nazioni Unite tacciono e sarebbero comunque impotenti per come sono oggi organizzate.

    È giusto parlare di pace, operare sempre per la pace ma non vi è mai pace quando vi sono soprusi, violenze, quando la libertà ed il diritto sono negati, quando si massacra il proprio popolo, si invade un’altra nazione, si compiono stragi ed azioni terroriste.

    Per conquistare la libertà bisogna avere il coraggio di combattere, per realizzare la pace occorrono democrazia e rispetto dei diritti fondamentali.

  • Pace in Ucraina

    Riceviamo e pubblichiamo un articolo dell’On. Dario Rivolta

    Da più parti si chiede che la guerra in Ucraina si trasformi presto in pace o almeno in una tregua che apra a negoziati per la fine definitiva del conflitto. È più che giusto che si desideri porre fine a una carneficina che tocca soldati e civili da una parte e dall’altra e che ci si interroghi su come arrivare a questa soluzione. Tuttavia, prima di ragionare su cosa fare credo che sia bene che qualcuno, chiunque egli sia, risponda (almeno a sé stesso) a due domande.

    La prima: quali sono gli interessi dell’Europa nel volere che l’Ucraina entri nella NATO? Tutti, salvo gli ipocriti, sanno che la guerra è scoppiata dopo che, per diverse volte, Mosca aveva pubblicamente fatto sapere di considerare come un attentato alla propria sicurezza il possibile ingresso dell’Ucraina nella NATO. Non a caso, quando gli americani vollero che all’ordine del giorno dell’incontro NATO di Bucarest del 2008 fossero inseriti anche l’ingresso nell’Alleanza Atlantica di quel Paese e della Georgia, Germania e Francia (e sottovoce anche l’Italia) si opposero, esprimendo la preoccupazione che tale atto avrebbe causato una risposta della Russia tutt’altro che pacifica. Gli americani dovettero fare buon viso a cattiva sorte ma, in cambio della rinuncia, ottennero che la questione fosse solo rimandata a data successiva. Dopo quanto era accaduto nel 1999 con l’attacco della NATO contro la Serbia (non avallato dall’ONU) e alcune “rivoluzioni colorate” scoppiate i Paesi limitrofi alla Russia, a Mosca si era cominciato a pensare, a torto o a ragione, che l’Occidente stesse puntando a destabilizzare ciò che restava dell’ex-Unione Sovietica. Ad avvalorare tale ipotesi aveva contribuito la trasformazione dello scopo ufficiale della NATO, da puramente difensivo al momento della sua creazione, in un’organizzazione che si poneva come obiettivo di intervenire ovunque si giudicasse (da parte di Washington?) fossero a rischio la democrazia e i diritti umani. A tal proposito vedi Dichiarazione di Roma nel 1991 e la sua formalizzazione a Washington nel 1999 attraverso il “Nuovo Concetto Strategico”.  Naturalmente si sarebbero chiusi gli occhi se le violazioni fossero avvenute in Paesi considerati “amici” o “utili”. E, infatti, nessuno ha aiutato o inviato armi all’Armenia democratica attaccata dall’Azerbaigian autoritario nel Nagorno-Karabakh con l’esodo forzato di decine di migliaia di etnicamente armeni costretti a1988-2024d abbandonare tutto.

    Dunque: Gli americani avevano una loro logica, giusta o sbagliata che fosse, ma gli europei? Voglio quindi ripetere la domanda: che interesse aveva, ed ha, l’Europa ad avere l’Ucraina nella NATO? Chi rispondesse che serve per “contenere” la Russia giustificherebbe le reazioni di Mosca.

    La seconda: Qual è l’interesse dell’Europa nell’avere, e magari in tempi rapidi, l’Ucraina come membro dell’Unione Europea? Dopo che gli USA con l’Inflation Reduction Act hanno messo in ginocchio alcuni settori dell’industria europea invitandoli a delocalizzare verso gli Stati Uniti, vogliamo forse distruggere anche l’agricoltura dell’Europa? È risaputo che, grazie alla mano d’opera a buon mercato e alle immense distese di territori coltivabili ucraini, importare senza dazi i prodotti agricoli da quel Paese metterebbe fuori mercato le nostre aziende e in Polonia sono stati i primi ad accorgersene. Senza contare che, dopo tutti i bombardamenti con proiettili a uranio impoverito dalle due parti in conflitto, ogni prodotto frutto dei campi colpiti dalla guerra arriverebbe da noi contaminato da polveri non radioattive ma estremamente velenose (più del piombo – vedi le malattie mortali riscontrate da civili serbi e soldati NATO in Serbia, Iraq e Afghanistan). E poi, chi dovrebbe pagare i costi della ricostruzione dopo che la guerra sarà finita? Come sempre è successo per i futuri nuovi ingressi, miliardi di euro sono stati mandati da Bruxelles ai Paesi candidati per “adeguare le leggi e le infrastrutture” agli standard europei. Nel caso dell’Ucraina, oltre alla sua dimensione superiore ad ogni precedente Paese entrato, si dovranno aggiungere i fondi necessari a ricostruire strade, fabbriche e intere città. Sanno i cittadini europei cosa sarà trattenuto dalle loro tasche per assecondare i vaneggiamenti di quattro irresponsabili politici a Bruxelles e nelle varie capitali?

    E allora: dove sta l’interesse degli europei a far entrare questo nuovo “membro”, tra l’altro considerato dal FMI come il più corrotto d’Europa? Chi rispondesse che le nostre aziende guadagnerebbero dalla ricostruzione fa solo fantasia e non conosce gli accordi già sottoscritti da Zelensky con Blackrock e J.P. Morgan.

    Veniamo ora alla pace che tutti vogliamo. O almeno a una possibile tregua.

    Il 15 e il 16 giugno prossimi, vicino a Lucerna in Svizzera, si terranno colloqui per identificare un percorso che porti verso una pace giusta e duratura in Ucraina. Ottima iniziativa, se non fosse che la Russia, salvo variazioni dell’ultimo momento, ha già annunciato che non vi parteciperà. È possibile concordare una qualunque pace tra due contendenti nell’assenza di uno dei due?

    Purtroppo, i veri problemi di una negoziazione da intraprendere oggi stanno nel fatto che, checché se ne dica, la vera guerra non è tra Ucraina e Russia ma tra Occidente (in primis gli USA) e la Russia e che nessuno dei contendenti ha fiducia nella buona fede dell’altro. Entrambi sono pervasi da intenzioni massimaliste. Almeno per ora Kiev e l’Occidente, dopo tutti i morti inutili tra la popolazione ucraina, non possono permettersi di perdere la faccia rinunciando a far entrare l’Ucraina nella NATO e abdicando alla rivendicazione dei territori perduti e della Crimea. Inoltre, pensano che l’obiettivo di Mosca sia di instaurare a Kiev un governo fantoccio manovrabile da Mosca. Da parte russa si è sinceramente convinti che l’obiettivo dell’Occidente sia di assicurarsi una “sconfitta strategica” della Russia, la sostituzione dell’attuale regime e il futuro “spezzettamento” della Federazione. Se le due parti sono su queste linee è evidente che l’unica soluzione che si può intravedere è tra la capitolazione o la continuazione dei combattimenti.

    Comunque sia, anche chi nega che la storia sia maestra di vita dovrebbe ricordare come sono finite le guerre nel mondo degli ultimi 70/80 anni. Tutte le volte che sono cessate o sono state sospese grazie a un negoziato senza che sia stato drasticamente risolto il motivo che le aveva scatenate, le ostilità sono ricominciate in breve tempo.

    Vediamo qualche esempio tra i tanti:

    Guerra del Vietnam (1955-1975). Gli accordi di pace di Parigi permisero il ritiro americano dal conflitto ma la guerra continuò fino a che il Vietnam del nord arrivò a detronizzare il governo di Saigon.

    Guerra dei 6 giorni (1967). Gli accordi di Camp David arrivarono solo nel ’78 e consistettero nella vittoria di Israele sull’Egitto sancendo il riconoscimento ufficiale dell’esistenza dello stato israeliano. Dunque: vittoria di Israele.

    Prima guerra del Golfo (1990-1991). Ci fu un cessate il fuoco mediato dall’ONU che sospese temporaneamente il conflitto ma fu sostituito da sanzioni pesanti contro l’Iraq. La guerra ricominciò nel 2003 arrivando alla sconfitta definitiva di Saddam Hussein.

    Guerra civile in Bosnia (1992-1995). Con gli accordi di Dayton si creò un governo federale tra le varie etnie bosniache, croate e serbe che, tuttavia, continuano ancora oggi a essere una polveriera con minaccia di scissioni.

    Guerra del Kossovo (1998-1999). Finì solo con la sconfitta totale della Jugoslavia e gli accordi del ’99 furono, di fatto, la resa di Belgrado. La Serbia tuttora non riconosce l’esistenza autonoma dello stato Kossovaro.

    Guerre tra Armenia e Azerbaigian (1988-2024) Le tensioni etniche tra armeni e azeri datano almeno dall’inizio del ‘900. Nel 1988 con la fine dell’URSS l’Armenia si re-impadronì del Nagorno-Karabakh abitato prevalentemente da armeni. La guerra subito scoppiata finì grazie alla mediazione russa per ricominciare nel 1994 e incattivirsi nel 2016 (guerra dei quattro giorni). Nel 2020 scoppiò di nuovo e ancora la Russia fece da mediatrice imponendo un accordo tra le parti. Accordo reso nullo dalla recente invasione azera del 2024 con successo di quest’ultima grazie all’aiuto della Turchia.

    Se anche l’attuale guerra in Ucraina dovesse finire con un accordo tra le parti che non costituisca una vera vittoria per uno dei due, molto probabilmente si tratterebbe di una soluzione temporanea e, prima o poi, le ostilità ricomincerebbero. Alcuni alti funzionari americani ritengono che la guerra debba finire con un accordo negoziato ma nessuno di loro ha mai detto né agli alleati né tanto meno al governo ucraino su quali basi ciò potrebbe avvenire.

    Dobbiamo dunque rinunciare a cercare la pace? Nessuno dovrebbe permetterselo! Quale pace, tuttavia? Accetterà l’occidente che ciò che resta dell’Ucraina diventi un Paese neutrale come furono l’Austria, la Finlandia e la Svezia, senza che la Nato ci metta becco?  O, in alternativa, accetterà Mosca di rinunciare ai territori che ha già inglobato nella Federazione e che Kiev diventi un nuovo membro dell’Alleanza Atlantica? Entrambe le soluzioni sembrano ad oggi piuttosto improbabili.

    Nel frattempo non va dimenticato che un decreto presidenziale voluto da Zelensky nel Settembre 2022 e tuttora in vigore ha stabilito “l’impossibilità di aprire negoziazioni con il Presidente della Federazione Russa Vladimir Putin” e chi lo facesse sarebbe immediatamente accusato di alto tradimento. Forse bisognerebbe cominciare con il cancellare questo “ukase”.

  • Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli: il documentario italiano ‘Stai fermo lì’ riceve il Premio per la Pace dell’Ambasciata svizzera in Italia

    “Quello che mi rattrista maggiormente sono i ricordi delle persone trattenute in carcere, picchiate e torturate, anche per motivi futili come indossare i jeans o ascoltare la musica occidentale… i ricordi delle madri che aspettano i figli e disperate non sanno dove sono finiti. Una situazione che ancora oggi va avanti… E pensare invece che noi dovremmo essere fratelli, dovremmo condividere la felicità e tutti insieme proteggere la terra!”. Sono parole pronunciate da Babak Monazzami, giovane persiano, nel documentario Stai fermo lì che racconta una parte della sua vita. Il documentario ha ricevuto il Premio sulla Pace dell’Ambasciata Svizzera in Italia in occasione del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, giunto alla XV edizione, svoltosi nel capoluogo campano dal 15 al 25 novembre e intitolato, quest’anno, Diritti minori – I bambini alla guerra.

    A raccogliere e filmare i pensieri e i racconti di Babak è la giornalista Clementina Speranza, alla sua prima esperienza in veste di regista, che ha intitolato il documentario Stai fermo lì, come la canzone di Giusy Ferreri per cui Monazzami ha interpretato, durante il suo periodo milanese, un video musicale e che un po’ il leitmotiv della sua vita: da una parte scappa e dall’altra è costretto a rimanere fermo.

    Artista poliedrico Babak dipinge tele dai molteplici soggetti che compaiono anche nel documentario e una sua opera dedicata ai diritti umani, La sposa bambina, era presente anche in sala in occasione della proiezione alla quale ha partecipato con l’autrice del documentario. “Non è stato facile effettuare le riprese, l’emozione ha interrotto numerose volte il girato. Il ripercorrere i ricordi cruenti e tragici, o sentimentali, sui propri cari, impediva a Babak di proseguire”, afferma Clementina Speranza.  E aggiunge: “Obiettivo non è solo quello di risvegliare la coscienza del pubblico, ma anche di ricordare quale sia il prezzo che il silenzio può esigere. È un invito a non chiudere gli occhi verso chi è dovuto scappare dalla propria terra anche se mai l’avrebbe voluto”.

    Da tre anni l’Ambasciata di Svizzera collabora con il Festival dei Diritti umani istituendo il ‘Premio per la Pace’, valore che caratterizza fortemente il documentario Stai fermo lì, come sottolineato da Raffaella D’Errico, Console Onoraria di Svizzera in Campania: “Assegnando questo premio, l’Ambasciata di Svizzera intende mettere in evidenza come il rispetto dei diritti umani sia il presupposto necessario per ottenere una pace durevole. La difesa dei diritti umani deve andare al di là dei casi più noti ed eclatanti; ogni destino individuale vale la nostra attenzione”.

    Con quasi 50 conflitti, di cui due alle porte dell’Europa, e nel 75° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo il documentario Stai fermo lì racconta una storia tipica del nostro tempo. “E’ il frutto di una serie di guerre che l’Occidente ha dichiarato ai paesi Orientali lasciando poi irrisolti i problemi e creando nuovi e ulteriori problemi, non ai governi ma alle popolazioni indifese, e a chi fugge e viene perseguitato in tutto il mondo” – spiega Maurizio Del Bufalo, direttore artistico del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli. Proprio come nel caso di Babak, “un agente di pace, un mediatore culturale che viene perseguitato anche in Europa. Stiamo pagando le colpe di una cattiva gestione della pace mondiale. Questo premio per la pace – conclude Del Bufalo – vuole essere un premio a chi, nonostante le condizioni in cui il suo Paese si trovi, riesce a lavorare per la pace di tutti anche a costo di pagare per le conseguenze del suo coraggio”.

    In sala erano presenti Julie Meylan, Prima Segretaria dell’Ambasciata della Svizzera in Italia, Mariano Bruno, Console Onorario del Principato di Monaco, Segretario Generale del Corpo Consolare di Napoli; Francesca Giglio console Onoraria delle Filippine; Stefano Ducceschi, Console Onorario della Germania; Gianluca Eminente, console onorario dell’Islanda; Valentina Mazza, console onoraria del Kazakhstan; Maria Luisa Cusati, Console Onoraria del Portogallo; Jacopo Fronzoni Console Onorario della Slovenia.

  • Necessarie riflessioni per evitare il peggio

    Non far nulla senza riflessione, alla fine dell’azione non te ne pentirai.

    Siracide (32;19), Antico Testamento.

    La prossima settimana, il 9 maggio, si celebrerà il 73o anniversario di quella che ormai è nota come la Dichiarazione Schuman. Un documento storico che rappresentava le convinzioni ed il pensiero lungimirante dei Padri Fondatori dell’Europa unita. Un documento presentato il 9 maggio 1950 dall’allora ministro degli Esteri francese Robert Schuman. Bisogna sottolineare che in quel periodo i Paesi europei stavano cercando di portare avanti il processo della ricostruzione dopo una lunga e devastante seconda guerra mondiale. E per portare avanti ed atturare il loro Progetto per un’Europa senza guerre ed unita, i Padri Fondatori, dopo lunghe e responsabili riflessioni, avevano deciso di partire con delle scelte adeguate e concrete. Scelte che permettevano una effettiva collaborazione economica tra i Paesi europei e, allo stesso tempo, rendevano difficile l’avvio di un altro conflitto armato in Europa. E non a caso la prima iniziativa si riferiva a due materie prime, indispensabili sia per la guerra che per lo sviluppo economico, tanto importante in generale, ma anche durante quel periodo di ricostruzione. Si trattava del carbone e dell’accaio. I Padri Fondatori erano convinti che il controllo comune della produzione di quelle due importanti materie prime avrebbe evitato una nuova guerra, soprattutto fra i due rivali storici, la Francia e la Germania, ma anche fra altri paesi europei. Ne era convinto anche Schuman che, nella sua dichiarazione, resa pubblica il 9 maggio 1950, sottolineava che così facendo una nuova guerra diventava “non solo impensabile, ma materialmente impossibile”. Circa un’anno dopo, il 18 aprile 1951, con il Trattato di Parigi, è stata istituita la Comunità europea del carbone e dell’accaio. Tra i promotori di quella storica iniziativa c’erano Jean Monnet, Robert Schuman, Konrad Adenauer ed Alcide De Gasperi. Un’iniziativa quella della Comunità europea del carbone e dell’accaio nella quale, all’inizio, aderirono la Francia, la Germania, l’Italia, il Belgio, il Lussemburgo e i Paesi Bassi, ma che era aperta anche per altri Paesi europei. Le convinzioni e la visione dei Padri Fondatori per un’Europa comune, rese pubbliche con la Dichiarazione Schuman il 9 maggio 1950, diventarono poi parte integrante del Trattato di Roma, approvato il 25 marzo 1957 dai primi sei Paesi fondatori della Comunità economica europea, gli stessi che aderirono alla costituzione della Comunità europea del carbone e dell’accaio.

    La scorsa settimana, dal 28 e fino al 30 aprile, Papa Francesco è stato in Ungheria. Ha incontrato le più alte autorità istituzionali ed ecclesiastiche del Paese. Ha fatto anche diverse visite durante la sua permanenza in Ungheria. Dopo aver incontrato la presidente della Repubblica ed il primo ministro ungherese, venerdì scorso papa Francesco ha avuto un incontro con i rappresentanti delle autorità, della società civile e del corpo diplomatico. Durante quell’incontro il Pontefice ha fatto appello all’Europa di “ritrovare l’anima europea”, riferendosi al pensiero lungimirante dai Padri Fondatori. Papa Francesco ha ribadito la sua ormai da tempo espressa preoccupazione per quanto sta accadendo in Ucraina, dove “tornano a ruggire i nazionalismi”. Il Pontefice ha anche sottolineato la necessità che la politica, “regredita a una sorta di infantilismo bellico”, debba ritornare a quella che rispetta quanto stabilito dai Padri Fondatori. Durante quell’incontro il Pontefice ha ribadito che “…Nel dopoguerra l’Europa ha rappresentato, insieme alle Nazioni Unite, la grande speranza, nel comune obiettivo che un più stretto legame fra le Nazioni prevenisse ulteriori conflitti”. Aggiungendo però che purtroppo “…la passione per la politica comunitaria e per la multilateralità sembra un bel ricordo del passato: pare di assistere al triste tramonto del sogno corale di pace, mentre si fanno spazio i solisti della guerra”. Per il Pontefice la pace, in una simile e preoccupante situazione internazionale, è indispensabile. Ma come egli ha detto, la pace “non verrà mai dal perseguimento dei propri interessi strategici, bensì da politiche capaci di guardare all’insieme, allo sviluppo di tutti: attente alle persone, ai poveri e al domani; non solo al potere, ai guadagni e alle opportunità del presente”. Prima di partire per Roma, nel pomeriggio di domenica scorsa il Santo Padre ha avuto un incontro, presso la Facoltà di Informatica e di Scienze Bioniche dell’Università Cattolica Péter Pázmány a Budapest, con rappresentanti degli studenti, nonché con quelli della comunità della cultura e delle università. “La cultura, in un certo senso, è come un grande fiume: collega e percorre varie regioni della vita e della storia, mettendole in relazione, permette di navigare nel mondo e di abbracciare Paesi e terre lontane, disseta la mente, irriga l’anima, fa crescere la società”, ha detto ai partecipanti all’incontro il Santo Padre. In seguito, riferendosi a quanto disse Gesù ai giudei – “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Vangelo secondo Giovani, 8/32) – il Pontefice ha detto ai partecipanti che “…l’Ungheria ha visto il susseguirsi di ideologie che si imponevano come verità, ma non davano libertà”. Ed ha aggiunto, ribadendo che “…anche oggi il rischio non è scomparso: penso al passaggio dal comunismo al consumismo. Ad accomunare entrambi gli “ismi” c’è una falsa idea di libertà. Quella del comunismo era una “libertà” costretta, limitata da fuori, decisa da qualcun altro; quella del consumismo è una “libertà” libertina, edonista, appiattita su di sé, che rende schiavi dei consumi e delle cose. E quanto è facile passare dai limiti imposti al pensare, come nel comunismo, al pensarsi senza limiti, come nel consumismo!”.

    Da anni Papa Francesco sta parlando di una terza guerra mondiale a pezzetti. Durante un’intervista rilasciata il 18 dicembre 2022 egli ha detto: “La guerra distrugge, distrugge sempre.  Da tempo io ho parlato, stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzetti”. Dal 31 gennaio al 5 febbraio scorso, Papa Francesco è andato prima in Congo e, da li, in Sud Sudan. Sul volo di ritorno dal Sud Sudan, il 5 febbraio, durante lo scambio di opinioni con i giornalisti, rispondendo ad uno di loro, papa Francesco convinto e perentorio ha affermato che “…Tutto il mondo è in guerra, in autodistruzione, fermiamoci in tempo!”. Mentre, rispondendo ad un altro giornalista, il Pontefice ha parlato anche della gravità e delle preoccupanti conseguenze di tante guerre in corso in diverse parti del mondo. Per lui non c’è soltanto la guerra in corso in Ucraina. “Da dodici-tredici anni la Siria è in guerra, da più di dieci anni lo Yemen è in guerra, pensa al Myanmar […] Dappertutto, nell’America Latina, quanti focolai di guerra ci sono! Sì, ci sono guerre più importanti per il rumore che fanno, ma, non so, tutto il mondo è in guerra e in autodistruzione. Dobbiamo pensare seriamente: è in autodistruzione! Fermiamoci in tempo”, ha detto Papa Francesco.

    Da anni il Pontefice sta parlando non solo della “terza guerra mondiale a pezzetti”, ma anche della “globalizzazione dell’indifferenza”. Una pericolosa tendenza, un preoccupante fenomeno quello della “globalizzazione dell’indifferenza” sul quale il Pontefice non smette mai di trattare, cercando di attirare l’attenzione e di rendere consapevole l’opinione pubblica in tutto il mondo delle gravi conseguenze di questo fenomeno. Lo ha fatto e lo sta facendo in tante occasioni durante questi anni. L’8 luglio 2013, solo circa quattro mesi dalla sua elezione, papa Francesco ha fatto la sua prima visita apostolica in Italia; è andato a Lampedusa. Un’isola quella di Lampedusa dove, con delle fatiscenti imbarcazioni arrivavano i profughi dalle coste dell’Africa settentrionale. Un’isola diventata nota sia per l’accoglienza dei profughi da parte degli abitanti, sia per le tante tragedie di mare nelle sue vicinanze, Un’isola quella di Lampedusa dove anche attualmente i diversi centri di accoglienza sono pieni, oltre i limiti, di profughi e dove, vicino alle sue coste, continuano le tragedie di mare. Quell’8 luglio 2013 a Lampedusa, papa Francesco ha cominciato la sua omelia, riferendosi ai tanti profughi che avevano perso la vita nelle tragedie di mare. “Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte”. Poi ha confessato che quando aveva appreso quella notizia, aveva sentito il dovere “di venire…qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta”. Così ha cominciato la suo omelia il Pontefice. E poi, in seguito, ha trattato l’indifferenza dell’essere umano ed il perché di questa indifferenza. “…La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri”. Tutto ciò, secondo il Pontefice, “…porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!”. Il Pontefice, riferendosi alle tante vittime delle tragedie di mare, si è chiesto in seguito: “Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’”. Tutto ciò, secondo papa Francesco, perché “…la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”.

    La Giornata Mondiale della Pace è diventata una ricorrenza onorata e celebrata ogni 1o gennaio, partendo dal 1968, per volere e decisione di Papa Paolo VI, proclamato santo il 14 ottobre 2018, Papa Francesco, ogni volta che si presenta l’opportunità, tratta l’argomento della “globalizzazione dell’indifferenza”. Lo ha fatto anche nel suo Messaggio in occasione della Giornata Mondiale della Pace, il 1° gennaio 2016, con il tema “Superare l’indifferenza e conquistare la pace”. Il Santo Padre, con il suo Messaggio ha chiesto a tutte le persone di buona volontà “…di riflettere sul fenomeno della “globalizzazione dell’indifferenza”, che è la causa di tante situazioni di violenza e ingiustizia”. Mentre durante un incontro con alcuni ambasciatori non residenti, accreditati presso la Santa Sede, svoltosi nel maggio 2018, papa Francesco ha trattato di nuovo l’argomento della “globalizzazione dell’indifferenza”. Rivolgendosi ai partecipanti all’incontro il Pontefice ha detto: “Quest’anno, che segna il settantesimo anniversario dell’adozione, da parte delle Nazioni Unite, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, dovrebbe servire da appello per un rinnovato spirito di solidarietà nei riguardi di tutti i nostri fratelli e sorelle, specialmente di quanti soffrono i flagelli della povertà, della malattia e dell’oppressione”. Aggiungendo anche che “…Nessuno può ignorare la nostra responsabilità morale a sfidare la globalizzazione dell’indifferenza, il far finta di niente davanti a tragiche situazioni di ingiustizia che domandano un’immediata risposta umanitaria.”. Nell’ambito della Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato, il 29 settembre 2019, nel suo Messaggio papa Francesco ha scritto: “Le società economicamente più avanzate sviluppano al proprio interno la tendenza a un accentuato individualismo che, unito alla mentalità utilitaristica e moltiplicato dalla rete mediatica, produce la globalizzazione dell’indifferenza.”.

    Chi scrive queste righe è convinto che bisogna riflettere su quanto sta dicendo e denunciando da anni papa Francesco, E cioè sia sulla “terza guerra mondiale a pezzetti”, sia sulla “globalizzazione dell’indifferenza”. Chi scrive queste righe è convinto che si tratta di necessarie riflessioni per evitare il peggio e pensa anche a quanto ha scritto Ambrose Bierce sulle riflessioni. Secondo lui si tratta di un “processo mentale attraverso il quale raggiungiamo una visione più chiara del nostro rapporto con gli avvenimenti del passato e che ci mette in grado di evitare pericoli che non incontreremo mai più sul nostro cammino”. Perché, come scritto nell’Antico Testamento, Siracide (32;19) “Non far nulla senza riflessione, alla fine dell’azione non te ne pentirai.

  • Rispetto degli altri, giustizia, empatia: concetti ancora difficili

    Da quando è iniziata la devastante guerra di Putin contro l’Ucraina il pensiero del Patto Sociale e mio personale è sempre stato espresso in modo chiaro ed inequivocabile.

    Anche oggi che vediamo, ogni giorno di più, proseguire le nefandezze dell’autoproclamatosi zar continuiamo e continueremo ad essere a fianco del coraggioso popolo ucraino. Sappiamo bene che ogni giorno vi è il rischio che il conflitto si allarghi ulteriormente e che l’insano orgoglio di Putin gli impedirà di fermare se stesso e la propria follia.

    Putin non ammetterà mai di avere sbagliato ed i tiepidi mediatori di pace, da Erdogan al presidente cinese, non otterranno altro che quello che già hanno ottenuto: nulla. Perché nulla possono, nel caso di Erdogan, o vogliono ottenere nel caso di Xi Jinping.

    Ciascuno pensa di guadagnare qualcosa, dalla guerra, Iran e Corea del nord in primis.

    Putin ragiona con la forza e meno forza comprende di avere più scatena tutto quanto è ancora in suo possesso, supportato da una frangia di corrotti e sanguinari personaggi che, in un paese civile e libero, sarebbero al 41 bis.

    Il rischio di una terza guerra mondiale esiste e forse è il prezzo che tutti dobbiamo pagare rispetto ai silenzi, alle indifferenze, alle incapacità di prendere decisioni e di guardare alle conseguenze di ogni scelta politica, finanziaria, economica e sociale che in questi decenni sono state prese e non prese da chi ha governato i più importanti paesi del mondo.

    Come sanno bene gli analisti politici ci stiamo tutti giocando il futuro, economico, democratico, in sintesi l’assetto di vita in libertà che gran parte del mondo si era sanguinosamente e faticosamente conquistato nei decenni scorsi.

    Non è più solo un problema di territori ucraini da difendere dall’annessione alla Russia ma il concetto stesso di libertà, sovranità, democrazia.

    Lo dimostrano le commesse militari tra Iran e Putìn, il lancio di missili super potenti della Corea del nord, i palloni cinesi che sconfinano nei cieli degli Stati Uniti o del Sud America, le comprensibili paure israeliane, gli interessi americani, le mollezze europee, le titubanze tedesche, ora si ora no, l’uso di internet senza regole, il decadimento di una società mondializzata nei suoi aspetti peggiori, o anche la capacità di farsi corrompere di una certa politica.

    In questi panorami che ci vedono tutti a rischio voglio dedicare un pensiero anche a quei milioni di cittadini russi, e delle repubbliche alleate, che devono, incapaci, impossibilitati ad opporsi, vivere senza libertà e giustizia, trascinati al massacro in una guerra decisa e voluta solo per gli interessi di Putin e dei suoi accoliti a partire da quel nefasto e corrotto personaggio di Kirill.

    E il pensiero corre alle troppe realtà che, in questo mondo, vedono soprusi ed ingiustizie, povertà enormi con ricchezze ingiuste, carestie e siccità, missili e bombe a grappolo, persone che perdono tutto sotto un missile, altre il cui tutto è una capanna di fango.

    Perché il rispetto degli altri, la giustizia, l’empatia rimangono concetti così difficili?

  • “Combatteremo fino alla vittoria”, il messaggio di fine anno del Presidente ucraino Zelensky

    “Il 2022 ci ha ferito al cuore. Abbiamo pianto tutte le lacrime. Abbiamo gridato tutte le preghiere. 311 giorni. Abbiamo qualcosa da dire su ogni minuto. Ma la maggior parte delle parole non sono necessarie. Non abbiamo bisogno di spiegazioni, di decorazioni. Abbiamo bisogno di silenzio. Per ascoltare. Abbiamo bisogno di pause. Realizzare.

    Non sappiamo con certezza cosa ci riserverà il nuovo anno 2023. Voglio augurare a tutti noi una cosa: la vittoria. E questo è l’aspetto principale. Un augurio a tutti gli ucraini. Che quest’anno sia l’anno del ritorno. Il ritorno del nostro popolo. I guerrieri alle loro famiglie. I prigionieri alle loro case. Gli sfollati interni alla loro Ucraina. Restituzione delle nostre terre. E chi è temporaneamente occupato sarà libero per sempre.

    Ritorno alla vita normale. Ai momenti felici senza coprifuoco. Alle gioie terrene senza raid aerei. Restituzione di ciò che ci è stato rubato. L’infanzia dei nostri figli, la serena vecchiaia dei nostri genitori”, ha concluso, “che il nuovo anno porti tutto questo. Siamo pronti a lottare per questo. È per questo che ognuno di noi è qui. Sono qui. Siamo qui. Siete qui. Sono tutti qui. Siamo tutti ucraini. Gloria all’Ucraina! Buon anno!”

  • Cercando un segno

    Papa Benedetto XVI è morto oggi 31 dicembre, ultimo giorno di un anno terribile che si conclude con la morte del primo pontefice che, coscientemente, ha scelto di diventare Papa emerito lasciando aperta la strada ad un nuovo percorso della Chiesa che sarà annunciato con l’ascesa al pontificato di Papa Francesco.

    La nostra preghiera accompagni il percorso di Benedetto dandogli quella serenità che cercava.

    L’anno terribile si conclude con questo lutto per il mondo cattolico e non solo, un’altra morte in un anno di tragedie per gli ucraini trucidati da Putin, per le migliaia di cristiani martirizzati in troppe parti del mondo, per le donne ed i bambini vittime di violenze inaudite e spesso mortali, per i giovani iraniani ed afgani ai quali la libertà e la giustizia è da troppo tempo negata.

    È lungo l’elenco di quanti avvenimenti nefasti, negativi, dolorosi si sono succeduti in questo 2022, non ultimo la grande corruzione che, a partire da Bruxelles, ancora corrode la società e la democrazia.

    Continuando ostinatamente ad avere speranza e a cercare dei segni vogliamo pensare che Papa Benedetto  sia salito al Padre, proprio oggi, come per dare un segno: con questo anno che finisce con la morte del Papa benemerito ritroviamo la forza di farci ciascuno promotore di giustizia e di pace, perché non c’è pace senza giustizia. Ritroviamo la forza di distinguere tra quanto è necessario e quanto è superfluo dedicando un po’ del nostro a chi non ha nulla, riproviamo a riformare anche le nostre coscienze tornando a distinguere ciò che è giusto da quanto è sbagliato, ritroviamo l’empatia  perduta, l’affetto ed il rispetto per noi stessi e per gli altri perché ogni altro rappresenta anche quello che siamo noi.

    Sia questa una preghiera non solo di parole.

  • Il mio presepio e Buon Natale

    Il mio è un piccolo presepe, nulla a che vedere con altri grandi e ricchi di figure, li ho sempre ammirati, sono in molti casi vere opere d’arte, ma non sono capace di costruzioni complesse e, soprattutto, anni fa ho deciso che avrei avuto un presepio che mi ricordasse anche momenti di vita.

    Il mio presepio riunisce, senza badare all’altezza delle statuine, mondi diversi: Madonna e San Giuseppe sono di legno, acquistati a Gerusalemme, Gesù bambino, delicato e dolce, viene da casa dei miei, alcuni pastori sono di colore, trovati in Kenya e alle isole francesi d’oltre mare, i cammelli vengono dal Marocco e dalla Tunisia, le pecore dall’Europa del Nord e dalle bancarelle italiane, i Re Magi da un mercatino di Natale di Strasburgo.

    Un piccolo presepio che rappresenta mondi e storie diverse uniti dal simbolo di un bambino piccolo, perseguitato, povero, che ha dato, e continua a dare, a gran parte del mondo un insegnamento che dovrebbe valere per tutti: ama, e perciò rispetta, il tuo prossimo come te stesso.

    Buon Natale a tutti con qualche azione concreta, non solo pensieri, per coloro che soffrono, che hanno meno di noi, che insieme ad un segnale di pace aspettano prima un segno di giustizia.

  • La Libia cerca una tregua e pensa a elezioni a marzo ma Haftar non accetta

    La cautela è d’obbligo dopo nove anni di guerra civile alternati da periodi di tregua più o meno
    lunghi. Ma nel cammino accidentato della Libia post-Gheddafi torna ad affacciarsi la possibilità di una svolta: le autorità rivali del governo di Tripoli e del parlamento di Tobruk hanno annunciato un cessate il fuoco duraturo e, soprattutto, la convocazione di elezioni a marzo. Con il plauso della comunità internazionale. Anche se per il momento l’uomo forte dell’Est, il generale Khalifa Haftar, tace.

    La notizia di una cessazione delle ostilità è arrivata dopo settimane di intensi negoziati tra le parti, sotto la regia dell’Onu. Favoriti dallo stallo prolungato sulla linea del fronte Sirte-Jufra, dove a giugno la controffensiva delle truppe fedeli al premier Fayez al Sarraj si era fermata per la
    resistenza delle milizie di Haftar.  A rompere gli indugi è stata Tripoli in una nota in cui Sarraj “ha ordinato a tutte le forze militari di osservare un cessate il fuoco immediato in tutti i territori libici”. Come atto di “responsabilità politica e nazionale”, ma anche in considerazione “dell’emergenza coronavirus”. Sarraj ha inoltre formalizzato la “richiesta di elezioni presidenziali e parlamentari a marzo sulla base di un’adeguata base costituzionale su cui – ha affermato – le parti concordano”. In un comunicato distinto anche le autorità della Cirenaica hanno dichiarato il cessate il fuoco e previsto elezioni “prossimamente”. “Cerchiamo di voltare pagina”, ha detto Aguila Saleh, il leader del parlamento di Tobruk che ha costituito il braccio politico di Haftar nella sua lunga e infruttuosa campagna per prendere il controllo di Tripoli.  L’accordo, se dovesse essere finalizzato, porterebbe finalmente alla piena ripresa dell’attività petrolifera, vitale per l’economia libica. Ripresa già in qualche modo avviata nei giorni scorsi da Haftar, che ha riaperto i pozzi della Mezzaluna dopo 7 mesi. Nel frattempo i ricavi dell’export di greggio saranno congelati nella banca dell’ente nazionale, la Noc.

    La possibile svolta nel conflitto libico è stata accolta con unanime sollievo. Dall’Onu alla Lega Araba, dagli Stati Uniti all’Italia.  I nodi nel percorso di pace, tuttavia, restano. Almeno a leggere per esteso le dichiarazioni dei due schieramenti. Tobruk, ad esempio, non ha esplicitato una data delle elezioni, al contrario di Tripoli. C’è poi la questione Sirte, che Sarraj vorrebbe “smilitarizzata”. Mentre Saleh a questo non ha fatto accenno, anzi ha rilanciato proponendo che la città natale di Muammar Gheddafi, a metà strada fra Tripoli e Bengasi, diventi la capitale di un nuovo governo. Entrambi hanno fatto riferimento alla necessità dell’uscita dal paese di “forze straniere e mercenari”, ma Tobruk ha insistito anche sullo “smantellamento delle milizie”. Che di fatto sono state la rete protettiva di Sarraj. Dopo 48 ore di silenzio, però lo stato maggiore di Khalifa Haftar ha messo in chiaro che i giochi in Libia sono tutt’altro che chiusi. Il suo portavoce ha liquidato l’annuncio del cessate il fuoco proclamato da Tripoli come “marketing mediatico” per nascondere un attacco a Sirte con il sostegno turco.

    Il portavoce di Haftar, Ahmed al Mismari, ha affermato che “la Turchia con le sue navi e fregate si prepara ad attaccare Sirte e Jufra”, dove le milizie dell’est sono asserragliate dopo aver arrestato la controffensiva dei governativi. Mismari ha aggiunto che “delle forze sono state trasferite da Misurata alle zone di Al Hicha, a sud est della città, dopo una riunione tra il capo di stato maggiore turco e un numero di ufficiali e capi milizia di Misurata”. Ossia il gruppo di combattenti più preziosi per Tripoli, che grazie al decisivo sostegno di mezzi militari turchi e dei combattenti siriano filo-Ankara sono riusciti a riconquistare il nord-ovest del Paese. Secondo Mismari, “è prevedibile che le forze e le milizie che avanzano ora si preparino ad attaccare le nostre unità a Sirte e Jufra, per avanzare poi verso la zona della Mezzaluna petrolifera, a Brega e Ras Lanuf”. E se ciò avvenisse, ha avvertito, “le nostre forze armate sono pronte a fronteggiare il nemico”.

    Haftar attraverso i suoi ha fatto sapere di respingere una “iniziativa” di pace “scritta da un’altra capitale”. Un’iniziativa che rischia di far tramontare definitivamente la sua stella, tanto più se lo stesso Saleh dovesse scaricarlo, prendendo atto che la sua campagna per cacciare Sarraj da Tripoli debba essere archiviata una volta per tutte. Sarraj, del resto, ha più volte ripetuto che nel futuro della Libia “non c’è posto per chi ha le mani sporche di sangue”. Ossia Haftar.

    Gli sponsor dei vari contendenti, nel frattempo, restano alla finestra. E non è detto che, bizze di Haftar a parte, Paesi come Turchia, Egitto o Russia siano pronti a rinunciare alla loro influenza sulla Libia. Nonostante gli auspici di Tripoli e Tobruk “sull’uscita delle forze straniere e dei mercenari”.

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