Parlamento

  • Una democrazia è tale solo quando i cittadini hanno il diritto di esprimere liberamente e consapevolmente le proprie scelte

    Che il governo italiano non abbia una linea univoca su: quali fondi europei utilizzare e come utilizzarli, come affrontare i prossimi mesi, dalla riapertura delle scuole alle decisioni da prendere per far ripartire l’economia, al di là delle tante promesse fatte e non realizzate, su come risolvere il vulnus costituzionale che si creerà se, insieme alle elezioni regionali, ci sarà anche il voto referendario, appare chiaro anche ai più distratti. Parliamo di vulnus alla Costituzione perché nella stessa si vieta di dare corso ai referendum contestualmente ad elezioni che abbiano carattere politico come è per la Camera, il Senato e le Regioni. I motivi di contrasto, nel governo, sono anche molti altri, mentre troppi lavoratori aspettano la cassa integrazione da mesi e ogni giorno chiudono piccole e medie attività, portando nuova disoccupazione e nuovi problemi in molti settori.

    La mancanza di visione comune tra il Pd ed i Cinque Stelle, e all’interno di questi stessi partiti, rende sempre più difficile dare risposte in tempi brevi alle tante urgenze, né renderà facile trovare un accordo per la nuova legge elettorale che dovrebbe comunque essere varata sia per ridare maggior democrazia al voto che per risolvere i problemi conseguenti ai risultati del referendum.

    Come abbiamo più volte detto e scritto una democrazia è tale solo quando i cittadini hanno il diritto di esprimere liberamente e consapevolmente le proprie scelte e in Italia, da troppo tempo, abbiamo leggi elettorali che espropriano gli elettori di questo diritto imponendo loro le scelte fatte dai capi partito i quali decidono, scelgono chi dovrà essere parlamentare. Altra conseguenza negativa dell’attuale sistema elettorale è quella che porta gli eletti, che di fatto sono dei nominati, a non occuparsi più del territorio, delle reali esigenze dei cittadini, ma a rapportarsi solo con le gerarchie di partito perché le stesse possono garantire loro un nuovo mandato. Si è di fatto tolto al Parlamento il suo ruolo di rappresentante dell’elettorato ed i partiti, contro i quali, a partire dai 5Stelle, si è tanto gridato sono più che mai i veri detentori del potere. Un potere che esercitano senza remore anche perché non si è mai dato corso a quanto la Costituzione chiedeva e cioè che i partiti avessero quella personalità giuridica che li avrebbe costretti a rispettare regole interne di democrazia e a sottoporre il controllo dei loro bilanci alla Corte dei Conti.

    Fino a quando i cittadini non potranno eleggere i propri rappresentanti liberi dalle imposizioni dei segretari e presidenti delle varie formazioni politiche avremo sempre una democrazia incompiuta ed un Parlamento condizionato e, come è avvenuto sempre più anche negli ultimi mesi, esautorato dai suoi compiti e poteri. Uniamo tutti la nostra voce per chiedere che il referendum sulla diminuzione del numero dei parlamentari si svolga in una data diversa dalle elezioni regionali e in un momento nel quale ci si possa confrontare in dibattiti pubblici, cosa che per il Covid non si potrà fare ancora per molto. La diminuzione del numero dei parlamentari comporta una modifica costituzionale importante che non si può realizzare in tempi brevi, con un governo diviso praticamente su tutto e alieno da qualunque dialogo con l’opposizione.

    Il problema resta comunque uno, per una democrazia compiuta i parlamentari devono rispondere ai cittadini che li hanno eletti non ai partiti che li hanno nominati, per una democrazia compiuta non è importante avere qualche parlamentare in più o in meno ma avere la certezza che ogni eletto faccia il lavoro che gli compete, non sia corrotto o corrompibile e sappia quello che sta facendo perché, piaccia o meno, il potere legislativo spetta al Parlamento, onore importante dal quale discende il presente e il futuro di ciascuno di noi.

  • Referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari

    Si scrive “referendum”, si legge “trappola”.

    Quando si voterà per alcune regioni, alcuni comuni e per elezioni suppletive in pochi collegi, è molto probabile che il cosiddetto “election day” richieda anche il voto per un referendum confermativo della modifica costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari.

    A differenza dei referendum abrogativi, che per essere validi devono raggiungere il quorum della maggioranza degli aventi diritto, il referendum di tipo approvativo si considera valido anche qualora vi partecipasse una minima parte dei cittadini.

    Mettendo da parte le ragioni puramente demagogiche che hanno spinto la maggioranza dei politici a votarlo, sono la data di questo referendum e il suo abbinamento con le altre elezioni che suscitano molte perplessità.  Tanti costituzionalisti storcono il naso sul fatto che elezioni politiche o amministrative possano coincidere con una consultazione referendaria perché la Costituzione prevede, addirittura, che in caso di elezioni per il Parlamento (e s’intende anche per qualunque altra elezione) un referendum, perfino se già indetto, sia posticipato di un anno o due. La ragione è che sia la campagna a favore o contro un quesito referendario non debba essere contaminata da una campagna elettorale evidentemente animata da tutt’altri obiettivi.

    A ben guardare, tuttavia, i problemi sono anche altri e purtroppo non sembra che se ne parli sufficientemente. Gli osservatori della politica sembrano convinti che la maggioranza dei votanti al referendum sia già orientata ad approvare la riduzione. Ebbene, qualora ciò avvenisse, le nuove elezioni politiche per Camera e Senato non potrebbero aver luogo prima che si realizzino altri passaggi. In particolare, per evitare intoppi o pasticci istituzionali, servirà una nuova legge elettorale che tenga conto del cambiamento del numero degli eletti. Sempre che la sostanza della nuova legge mantenga il metodo attuale che toglie agli elettori ogni possibilità di scegliersi i propri rappresentanti, servirà comunque ridisegnare i collegi elettorali. Attualmente, la discussione in merito non è neppure cominciata e nessuno può sensatamente ipotizzare quanto tempo sarà necessario per trovare un accordo. Ancora più complicate, sia nel merito sia nel tempo necessario, saranno le successive modifiche della Costituzione che si renderanno necessarie. Senza contare le modifiche ai rispettivi regolamenti interni di Camera e Senato che coinvolgeranno in totale almeno quarantasei articoli.

    Le modifiche costituzionali da approvarsi dopo la possibile approvazione di questo referendum (e prima di nuove elezioni politiche) riguardano il superamento della base regionale per l’elezione dei senatori a favore di una base circoscrizionale e la riduzione da tre a due dei delegati regionali che parteciperebbero di diritto all’elezione del Presidente della Repubblica. Tra le condizioni chieste dalle sinistre per approvare la riduzione dei parlamentari c’era anche, per il Senato, l’abbassamento a 25 anni dell’elettorato passivo e a 18 per quello attivo. I 46 articoli dei Regolamenti di Camera e Senato da cambiare riguardano invece il funzionamento dei lavori interni. Essi vanno dalla modifica al numero legale richiesto per certe attività, a quale numero di parlamentari debba essere necessario per ottenere che un voto sia segreto e, in genere, a tutte quelle attività che richiedono esplicitamente un numero specifico e definito di deputati e senatori.

    Se queste ultime modifiche sono modificabili con tempi relativamente veloci poiché interne alle singole camere, le modifiche costituzionali necessarie richiederanno, invece, tempi piuttosto lunghi. Per modificare la Costituzione è necessario che le votazioni siano essere almeno due per ogni camera (Senato- Camera e poi ancora Senato-Camera o viceversa) e che tra il primo turno e il secondo passino almeno tre mesi. Inoltre, qualora il risultato favorevole fosse inferiore alla soglia dei 2/3 degli aventi diritto è possibile che, come successo nel caso attuale, si debba superare lo scoglio di uno, o più, nuovi referendum popolari confermativi da approvarsi prima che le modifiche possano entrare in vigore.

    E’ interessante ricordare che nei primi passaggi parlamentari sulla riduzione del numero dei rappresentanti del popolo, sia il Partito Democratico, sia Liberi e Uguali avevano votato contro il provvedimento, salvo sacrificare il proprio orientamento pur di entrare in maggioranza e sostenere un nuovo governo Conte. Se ora decidessero di tornare alle loro prime convinzioni e invitassero i propri elettori a votare NO, ciò implicherebbe la rottura dell’attuale maggioranza e quindi la caduta del Governo. La cosa sembra quindi altamente improbabile.

     

    Il vero problema è che, una volta che il referendum fosse approvato, sarà impossibile avere nuove elezioni politiche fino a che sia i regolamenti interni delle Camere, sia la Costituzione non siano adeguatamente corretti.

    Che questo voto rappresenti una “assicurazione sulla vita” per l’attuale Parlamento?

    Il sospetto è forte e non si può escludere che proprio questo sia il calcolo di qualcuno. E’ vero che, dal punto di vista strettamente tecnico, tutte le procedure potrebbero risolversi in pochi mesi ma occorrerebbe una forte volontà politica che è difficile attribuire all’attuale maggioranza. Com’è possibile immaginare che chi si trova oggi in Parlamento si precipiti a redigere e approvare una nuova legge elettorale che implicherebbe la fine della legislatura e l’improbabilità di essere rieletto? E come si potrebbe ipotizzare che tutti si precipitino a votare a raffica la stessa legge di modifica costituzionale, due volte alla Camera e due al Senato, per ottenere poi il risultato di andarsene a casa? Non hanno già lasciato tutti intendere che, comunque vadano le cose, vorranno essere sempre loro a votare per il nuovo Presidente della Repubblica?

    Certamente tutto può succedere, ma è molto probabile che chi voterà favorevolmente al referendum per ridurre il numero dei Parlamentari convinto di fare un ennesimo atto di “antipolitica” contro la “casta”, contribuirà invece a garantire agli attuali “rappresentanti” di poter godere un po’ più a lungo dei benefici che godono attualmente. Benefici che molti di loro non riuscirebbero mai più a ottenere quando ritorneranno alla vita “civile”.

  • In attesa di Giustizia: scampato pericolo

    Ce l’ha fatta, scampato pericolo come previsto: il peggiore Guardasigilli della storia repubblicana, repubblichina, monarchica, pre – unitaria, forse dai tempi delle Signorie e dei Comuni, si è visto confermare la fiducia nonostante le perplessità precedenti al voto manifestate da Italia Viva. Perplessità che non avevano illuso nessuno tra coloro che non avrebbero dubbi se comperare o meno un’auto usata da Renzi.

    La domanda potrebbe, a questo punto, essere una sola: cosa sia stato negoziato in cambio. Ma non andiamo oltre, quelle vigenti sono regole da basso impero, altro che seconda o terza Repubblica. Andare più oltre, tra l’altro, esporrebbe eccessivamente al rischio di una querela…ammesso che Bonafede sappia cosa sia (cit. fonte mantenuta anonima ma attendibile).

    Il Ministro della Giustizia, peraltro, nel suo intervento si è detto disponibile a monitorare (non rivedere…) l’istituto della prescrizione così come modificato, che è frutto di infinite polemiche anche all’interno della maggioranza di Governo.

    Insomma, un contentino che non accontenta nessuno neppure per la complementare promessa di costituire una Commissione Ministeriale, appunto di “monitoraggio” degli effetti delle nuove regole sulle sorti del processo penale.

    Tra l’altro, non è una novità, ne aveva già fatto cenno mesi addietro, ma si tratta di un’idea quantomeno balzana perché mettere sotto osservazione il funzionamento della prescrizione modificata, per ragioni spiegate più volte anche su queste colonne, equivale a rinviare a tempi indefiniti e del tutto ipotetici tanto i risultati dello studio quanto gli eventuali interventi correttivi.

    E mentre si conferma, di fatto, il “fine processo mai” nulla più è dato sapere dei propositi (buoni o criticabili che siano, più probabile la seconda ipotesi) di riformare il processo penale riducendone i tempi, magari con un DPCM, tanto in voga di questi tempi.

    Aspettiamo, allora, che venga insediata – se mai lo sarà – questa Commissione di Monitoraggio, proposta sostenuta da Italia Viva, ed i cui lavori portino ad una rivisitazione critica della attuale politica giudiziaria sostenuta da via Arenula, a cominciare dalla riforma della prescrizione.

    Vi è anche una certa confusione sugli scopi di questa Commissione se si riguarda ciò che sarebbe nelle aspettative di taluni esponenti del PD e le parole del Ministro: forse quella che parrebbe negoziata sul voto di fiducia non ha nulla a che fare, con quella di “monitoraggio” della quale parla Bonafede, e del resto siamo di fronte ad un’ennesima, inascoltabile ed inguardabile sceneggiata sulla scena politica.

    Quello che potrebbe servire davvero è un gruppo di studio che lavori seriamente alle riforme del sistema giudiziario: possibilmente con i componenti che siano scelti tra giuristi di chiara fama e che non ascrivano tra i titoli di selezione l’essere parenti (oggi si dice prossimi congiunti), amanti (rectius affetti stabili) di qualcuno, trombati alle elezioni, collettori di voti o personaggi in cerca di autore con il patronaggio di qualche influente amico.

    Serve qualcuno che voglia rimboccarsi le maniche e sappia come farlo, per aprire un nuovo percorso: ma i monitoraggi dei disastri  lasciano il tempo.

    Noi, con fiducia (la nostra) al lumicino, restiamo in attesa di Giustizia e, forse, orgogliosamente di querele.

  • Il Parlamento europeo chiede un pacchetto di recupero di 2000 miliardi di euro per il coronavirus

    I legislatori europei hanno appoggiato una risoluzione che chiede un pacchetto da 2 trilioni di euro per finanziare la ripresa dell’economia del blocco che è stata colpita dalla pandemia di Coronavirus. Invita la Commissione europea a istituire il fondo di “recupero e trasformazione” che dovrebbe essere finanziato attraverso l’emissione di obbligazioni di recupero a lungo termine e dovrebbe essere erogato attraverso prestiti e sovvenzioni “principalmente”, nonché attraverso pagamenti diretti per investimento ed equità.

    Gli eurodeputati hanno avvertito che useranno il loro potere di veto se le loro proposte non saranno ascoltate, e in particolare se il bilancio a lungo termine del blocco, vale a dire il quadro finanziario pluriennale (QFP) per il 2021-2027, non sarà aumentato, e hanno chiesto che il massiccio pacchetto economico sia in cima al QFP. “Non staremo seduti ad aspettare o semplicemente timbrare qualsiasi accordo”, ha dichiarato David Sassoli, presidente del Parlamento europeo.

    Nel loro progetto di testo, i membri del Parlamento dell’UE hanno anche sottolineato che la Commissione dovrebbe astenersi dall’utilizzare “moltiplicatori dubbiosi per pubblicizzare cifre ambiziose”, poiché è già in gioco la credibilità dell’UE. Hanno inoltre richiesto un ruolo inclusivo per il Parlamento nella definizione, nell’adozione e nell’attuazione del fondo di risanamento.

    La pandemia di Coronavirus ha costretto la Commissione europea a rinviare la presentazione della sua proposta di QFP aggiornata, che dovrebbe essere presentata alla fine il 27 maggio.

  • La Fondazione Luigi Einaudi spiega le ragioni del No al Referendum del 29 marzo

    In vista del Referendum del prossimo 29 marzo sulla riduzione del numero dei parlamentari vi invitiamo a prendere visione del video realizzato dalla Fondazione Luigi Einaudi sulle ragioni del NO al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=fNqjnYj3LKc&feature=youtu.be

     

  • Idee per dare forma alla conferenza sul futuro dell’Europa

    La Commissione europea ha presentato le sue idee per dare forma alla conferenza sul futuro dell’Europa, che dovrebbe essere avviata il 9 maggio 2020, festa dell’Europa (a 70 anni dalla firma della dichiarazione Schuman e 75 dalla fine della seconda guerra mondiale), e avere una durata di due anni. La comunicazione adottata costituisce il contributo della Commissione al già acceso dibattito sulla conferenza sul futuro dell’Europa – un progetto annunciato dalla Presidente Ursula von der Leyen nei suoi orientamenti politici per dare agli europei maggiore voce in capitolo su ciò che l’Unione fa e su cosa fa per loro.

    La conferenza attingerà a esperienze passate, come i dialoghi con i cittadini, ma introdurrà al contempo una serie di nuovi elementi per estenderne la portata e rafforzare le modalità con cui le persone contribuiscono a plasmare il futuro dell’Europa. La conferenza consentirà un dibattito aperto, inclusivo, trasparente e strutturato con cittadini aventi background diversi e di ogni estrazione sociale.

    La Commissione, che si è impegnata a dare seguito ai risultati della conferenza, propone di strutturare i dibattiti su due filoni paralleli. Il primo incentrato sulle priorità dell’UE e sugli obiettivi che l’Unione dovrebbe perseguire: tra essi figurano la lotta ai cambiamenti climatici e ai problemi ambientali, un’economia al servizio delle persone, l’equità sociale e l’uguaglianza, la trasformazione digitale dell’Europa, la promozione dei valori europei, il rafforzamento della voce dell’UE nel mondo e il consolidamento delle fondamenta democratiche dell’Unione. Il secondo filone dovrebbe riguardare tematiche più specificamente correlate al processo democratico e alle questioni istituzionali: in particolare il sistema dei candidati capilista e le liste transnazionali per l’elezione dei parlamentari europei.

    La Commissione considera la conferenza un forum che parte “dal basso”, accessibile alle persone di ogni parte dell’Unione e che non resta circoscritto alle capitali europee. Sono invitate a partecipare anche le altre istituzioni dell’UE, i parlamenti nazionali, le parti sociali, le autorità regionali e locali e la società civile. Una piattaforma online multilingue garantirà la trasparenza del dibattito e favorirà una più ampia partecipazione. La Commissione si è impegnata ad adottare le misure più efficaci, di concerto con le altre istituzioni dell’UE, per integrare le idee e il feedback dei cittadini nel processo decisionale dell’UE.

    Il Parlamento europeo e il Consiglio stanno attualmente definendo i rispettivi contributi alla conferenza sul futuro dell’Europa. La risoluzione del Parlamento europeo del 15 gennaio 2020 ha invitato ad adottare un approccio inclusivo, partecipativo ed equilibrato nei confronti dei cittadini e dei portatori di interessi. In precedenza le conclusioni del Consiglio europeo del 12 dicembre 2019 avevano invitato la presidenza croata ad avviare i lavori sulla posizione del Consiglio. La presidenza croata ha inserito, da parte sua, la conferenza tra le sue priorità.

    A questo punto è di fondamentale importanza che le tre istituzioni elaborino una dichiarazione comune per definire il concetto, la struttura, la portata e il calendario della conferenza sul futuro dell’Europa e che stabiliscano principi e obiettivi concordati.

    Fonte: Comunicato stampa della Commissione europea del 22 gennaio 2020

  • La nuova oligarchia parlamentare

    Come nasce un’oligarchia? Le modalità possono essere le più distinte a seconda del settore di competenza. Indipendentemente dallo specifico contesto economico o politico, il mantenimento del potere attribuito ad un numero inferiore di esponenti, siano questi economici o politici, ne rappresenta la forma più classica.

    In economia, viceversa, i diversi monopoli (si pensi ai servizi indivisibili di energia in ambito comunale) determinano la nascita ma soprattutto il mantenimento di un sistema di interessi che prende inevitabilmente la forma di oligarchia.

    Partendo da questo principio il taglio dei parlamentari all’interno di una deriva politica iconoclasta, senza trovare precedentemente dei pesi e contrappesi che mantengano l’equilibrio democratico, rappresenta la classica forma della creazione di una nuova oligarchia. Si pensi solo al peso e al potere di veto del singolo parlamentare che risulterà accresciuto (di un terzo quanto la riduzione numerica) all’interno di un sistema bicamerale che rimane perfetto.

    Questa “riforma”, invece, viene salutata nella confusione mediatica e politica come una forma di nuova Democrazia. A fronte, quindi, di un risibile risparmio delle spese parlamentari vengono poste le basi per una concentrazione di potere che passa nella distribuzione democratica da 945 parlamentari a soli 600. Questi ultimi risulteranno, senza una nuova legge elettorale ed istituzionale, l’espressione di un potere sempre più dilagante delle segreterie di partito comportando una conseguente diminuzione della rappresentatività dei cittadini e degli elettori.

    Solo in Italia, in un crescente e dozzinale contesto populista, la creazione delle basi di una nuova oligarchia, anche se elettiva, viene salutata come una nuova forma democrazia.

    Ormai il declino culturale del nostro Paese ha trovato anche la  propria espressione in ambito  istituzionale.

  • Colpo finale della Corte Suprema britannica a Boris Johnson

    Non gliene va bene una a questo premier britannico fuori dalle righe. Dopo essere stato messo in minoranza su sei votazioni consecutive, ieri ha ricevuto il colpo finale dalla Corte Suprema, che all’unanimità ha giudicato illegale la controversa sospensione del Parlamento da lui decisa lo scorso agosto. La sospensione aveva provocato reazioni insolite da più parti ed aveva provocato anche manifestazioni di piazza. La decisione di Boris Johnson era stata considerata dalle opposizioni un bavaglio per coloro che si opponevano ad un’uscita “no deal” dall’UE, cioè senza un accordo. Johnson aveva evocato questa ipotesi in continuazione, nelle ultime settimane, come se fosse una minaccia verso chi non era d’accordo con la sua politica, che d’altro canto, fino a ieri, non consisteva in nessuna proposta alternativa da presentare a Bruxelles, in sostituzione dell’accordo negoziato da Theresa May ed approvato dal governo.  Ora la Corte Suprema ha sentenziato che “gli effetti sulla nostra democrazia sono stati estremi” ed ha aggiunto che il Parlamento è da considerarsi aperto. John Bercow, lo speaker della Camera dei Comuni, allora, ha immediatamente riconvocato tutti i deputati con una certa difficoltà, perché per esempio, i laburisti sono convocati a Brighton per la convenzione annuale del partito che terminerà oggi. La cosiddetta “prorogation” del Parlamento si è dunque rivelata un boomerang clamoroso per Johnson, che vede traballare la sua posizione. Fino a ieri ha detto di non volersi dimettere, ma dopo la sentenza di oggi, la sua posizione sembra essersi aggravata, poiché in teoria con il suo gesto avrebbe ingannato persino la Regina che ha controfirmato la sospensione. La gravità della cosa è data dal fatto che la Regina ha firmato un provvedimento illegale, cosa mai avvenuta prima. La Regina ha compiuto un atto riprovevole, ma la responsabilità risale al premier che con la sua testarda determinazione ha coinvolto anche l’indiretta responsabilità della Regina nella firma di un atto “illegale, nullo e privo di effetti” – dice la Corte Suprema. A Jeremy Corbyn, leader laburista, non pareva vero! Gli si offriva su di un piatto d’argento l’ennesimo motivo per chiedere le dimissioni di Johnson, assente da Londra perché impegnato a New York per l’Assemblea generale dell’Onu. Ma Johnson non mollerà la presa, nonostante il durissimo colpo ricevuto. Non rischia l’arresto per questo tipo di illegalità. Lo rischierebbe, invece, se ignorasse la legge anti “No Deal” approvata dal Parlamento, anche se a parole Johnson ha più volte affermato che non l’avrebbe rispettata se impediva di uscire alla data prevista del 31 ottobre. Quali carte potrebbe eventualmente giocare ancora? C’è chi dice che a questo punto potrebbe decidere di andare ad elezioni anticipate, dopo la storica decisione presa dalla Corte Suprema in difesa della democrazia britannica. Ma c’è il tempo necessario per l’organizzazione delle elezioni e lo svolgimento della campagna elettorale prima del 31 ottobre? Non abbiamo la risposta corretta, ma abbiamo un convincimento preciso: la premiership di Johnson è stata un disastro e la Brexit non ha ancora terminato d’offrirci il suo ultimo thriller.

  • Ursula von der Leyen è il nuovo presidente eletto della Commissione europea

    Ursula von der Leyen, attuale ministro della Difesa tedesco, ha ottenuto il sostegno di un numero sufficiente di membri del Parlamento europeo per essere nominato presidente eletto della Commissione europea.

    Tedesca nata a Bruxelles, stretta collaboratrice della cancelliera Angela Merkel, ha ricevuto 383 dei 733 voti necessari per ottenere la maggioranza assoluta per la sua candidatura. Succederà all’attuale Presidente Jean-Claude Juncker quando scadrà  il suo mandato, il prossimo 31 ottobre.

    Confida nella collaborazione reciproca delle Istituzioni europee perché solo se si lavorerà in modo costruttiva, ne è convinta, sarà possibile un’Europa unita.

    Con il voto, von der Leyen diventa la prima donna eletta come presidente della Commissione europea.

    I risultati del voto rivelano che von der Leyen, membro della Christian Democratic Union tedesca, ha ottenuto il sostegno dei 182 deputati europei del Partito popolare europeo e dei 108 liberali di Renew Europe – numeri che l’hanno portata a una distanza di 374 voti necessario per ottenere una maggioranza assoluta nella camera.

    I Conservatori e Riformisti europei, un gruppo anti-federalista di centro-destra, il cui maggior partito in termini di numero di deputati al Parlamento europeo è il partito di Giustizia e Giustizia della Polonia, hanno appoggiato von der Leyen.

    Contrari, invece, per quel che riguarda l’Italia, i deputati europei del Movimento 5 Stelle.

  • Non certa la nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea

    Martedì prossimo, 16 luglio, alle ore 18, il Parlamento europeo ha all’ordine del giorno la votazione per la presidenza della Commissione europea. Come è noto, il Consiglio europeo, cioè l’organo che riunisce i capi di stato o di governo dell’UE, ha proposto la candidatura del ministro tedesco della Difesa Ursula von der Leyen. Questa proposta, come prevedono i trattati, deve essere approvata a maggioranza dal Parlamento europeo. In caso contrario, il Consiglio europeo dovrà proporre un’altra candidatura. Il nome della Von der Leyen era stato accolto all’inizio con un sospiro di sollievo, dopo i ritiri di Manfred Weber, presidente del gruppo del Ppe, di Frans Timmermans, socialista olandese, già vice presidente della Commissione europea, e della liberale Margrethe Vestager, commissaria danese alla Concorrenza. Tutte e tre queste personalità erano spitzencandidaten, cioè “candidati di punta” dei tre più importanti gruppi politici del Parlamento. Fino a ieri, era tradizione che il candidato alla Commissione europea fosse lo spitzencandidat del gruppo più votato, in questo caso il bavarese Weber. Ma il presidente francese Macron ha posto un veto all’applicazione di questo metodo e dopo un negoziato abbastanza inconcludente, alla fine è improvvisamente spuntato il nome della Von der Leyen, accettato da tutto il Consiglio europeo. Se il nome del ministro della Difesa tedesco ha accontentato i capi di Stato e di Governo, altrettanto non si può dire dei parlamentari, che si sono visti sottrarre  il principio dello spitzencandidat, da loro scelto nel passato e che aveva dato buona prova, rendendo più facili e meno complicati i negoziati per l’assegnazione delle altre candidature, nel rispetto dell’equilibrio fra nazionalità e tendenze politiche. Secondo le opinioni emerse in questi ultimi giorni la nomina della Von Leyen non è data così sicura come sembrava in un primo momento. I motivi di questa incertezza sono rappresentati da almeno tre ostacoli. Il primo è appunto quello dei parlamentari che considerano negativo l’aver accantonato il meccanismo dello spitzencandidat da parte dai capi di Stato o di Governo, secondo il quale il nuovo presidente deve essere scelto fra i “candidati di punta” espressi dai partiti europei prima delle elezioni. Il secondo ostacolo è di natura istituzionale. Il compromesso su Von der Leyen è stato trovato in Consiglio dagli staff dei capi di stato e di governo, ma molti parlamentari europei si considerano indipendenti dai governi, soprattutto quelli eletti con partiti che non sostengono il governo del proprio Paese e rivendicano di votare come meglio credono. In più, pur sapendo che le scelte in Europa rimangono influenzate dai gruppi politici, non sempre tra le due istituzioni: Consiglio europeo e Parlamento, il coordinamento fra i membri della stessa tendenza  funziona perfettamente. I capi di governo dei Popolari, ad esempio, potrebbero su diverse questioni, avere un’opinione diversa dei parlamentari del Ppe. Nel caso in questione,  molti parlamentari, anche tedeschi, non hanno accettato che il loro presidente fosse sacrificato in modo così sbrigativo da Macron e soci. Il terzo ostacolo è di natura politica e riguarda il programma della nuova Commissione. Sono in corso da giorni gli incontri della candidata con le varie famiglie politiche per raggiungere accordi che permettano un voto favorevole. Il caso dei Verdi è emblematico. Avevano chiesto alla Von der Leyen la riduzione delle emissioni di gas serra del 55 per cento rispetto ai valori del 1990, come proposto dall’intero Parlamento europeo nel 2018. Ma la Von der Leyen è passata da un iniziale 40% a un 50%, non andando oltre. I Verdi non hanno ceduto, e per questa ragione le voteranno contro. I Popolari hanno invece dichiarato che la sosterranno, mentre le altre due principali famiglie politiche europee, quella dei socialisti e quella dei liberali, stanno ancora trattando e non hanno ancora raggiunto un compromesso. L’incontro con i socialisti non è andato troppo bene, tanto che la capogruppo spagnola Iratxe Gercia ha precisato che il suo gruppo ha avanzato proposte molto concrete, ma che non ha avuto risposte sufficienti. Anche i parlamentari italiani Calenda e Toia hanno spiegato che la candidata tedesca è sembrata piuttosto deludente su temi fondamentali come il superamento di Dublino, la flessibilità per gli investimenti, lo stato di diritto e migration compact. Una certa ostilità alla candidatura della von der Leyen è stata espressa anche tra i socialisti belgi, olandesi e greci. Molto critici i socialisti tedeschi che in un documento di due pagine spiegano perché a parere loro la candidata è inadeguata per l’incarico di presidente della Commissione europea. Anche i liberali europei, in una lettera resa pubblica, insistono sull’introduzione di un meccanismo di sanzioni per i paesi che non rispettano le leggi europee sulla stato di diritto e sulla nomina della loro ex candidata di punta Margrethe Vestager a vice presidente della Commissione.

    Sono molti i punti non chiariti negli incontri di questa settimana. Ci sarà ancora tempo per giungere a compromessi che permettano un voto favorevole? Ne dubitiamo. Ma le ragioni politiche sono forti tanto nel senso di una approvazione della candidatura, quanto in quello contrario di un respingimento. Martedì sera sapremo come sarà andata a finire.

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